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Autore: martaparrilla    05/04/2016    16 recensioni
Henry ha 8 anni e non parla più da diciotto mesi. Sua madre, Regina, è convinta che quella sia la giusta condanna per non essere riuscita a proteggerlo dal dolore per la perdita del padre. Un giorno, le loro vite incrociano quelle di Emma che, cauta e silenziosa, riuscirà a conquistare la fiducia del piccolo Henry.
E forse, anche quella di sua madre.
Basterà questo a farlo parlare di nuovo? Henry odia davvero sua madre come essa afferma?
Anche stavolta ho dovuto alternare il punto di vista dell'una e dell'altra, è una cosa che non riesco a evitare per riuscire a spiegare al meglio le decisioni prese da entrambe e come queste influenzino positivamente la crescita del rapporto dei tre protagonisti.
La storia è puramente frutto della mia fantasia, nonostante si tocchino argomenti che troppo spesso le donne sono costrette ad affrontare da sole e in silenzio.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ho passato tutta la notte in dormiveglia. La tensione, l'emozione accumulata nella serata precedente e l'idea di poter fare qualcosa che sicuramente l'avrebbe fatta star meglio mi fa sentire piena di energie. Attendo con ansia il suono della sveglia, così da non dover stare a girarmi i pollici per troppe ore. Improvvisamente suona.

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin.

Scatto in avanti, sorridente. Mi fiondo fuori dalle coperte, quasi saltellando e facendo scricchiolare il pavimento in legno ormai vecchio e cigolante. Col nuovo stipendio potrei presto cambiarlo ma amo quel vecchio pavimento, con le venature del legno ben in evidenza, il bianco della vernice ormai consumato, alcune travi più strette delle altre con delle fessure abbastanza spesse da far sparire forcine o monete oltre che tanta polvere. Alcune di esse possono essere smontate, per cui quando capita, ripulisco e sistemo.

Arrivo di fronte alla finestra per sbirciare il cielo: c'è un bellissimo sole e nessuna nuvola all'orizzonte. Esattamente quello che mi serve.

Il getto dell'acqua mi rilassa un pochino e mi lascio cullare dalle sue carezze, ipotizzando mille possibili scenari di quella mattinata. Quella donna e quel bambino mi hanno letteralmente sconvolto l'esistenza in bene, e in questo preciso istante non riesco a pensare alla mia vita senza di loro. Semplicemente non avrebbe senso. Henry è la mia sfida e sono certa riuscirò a vincerla.

E Regina... bè, anche Regina in qualche modo lo è. Non ha bisogno di essere incoraggiata: sa bene quanto vale, sa di essere eccezionale, ma pecca di modestia e ottusità quando pensa di non meritare la felicità come donna. Una donna, l'essere femminile non può essere solo una lavoratrice, o solo una moglie, o solo una madre. Ci sono donne che vogliono essere solo una di queste cose e sono molto triste per loro perché si perdono davvero tante cose che potrebbero arricchire la loro vita in modi inimmaginabili. Regina ha un lavoro e un bambino che ama. Ma leggo nei suoi occhi e sento nel suo desiderio di un contatto fisico che le manca essere donna. Donna con qualcuno da amare e da cui essere riamata.

Sono anche perfettamente consapevole di non avere alcuna chance con lei. E mi piacerebbe averla. Oh, farei carte false per avere quella donna ma non posso essere io quella che vuole. Io voglio solo vederla sorridere. Insieme a Henry. Recuperando il rapporto con lui ritroverà se stessa e saprà lasciarsi andare a un nuovo amore.

Quell'idea mi fa venire il mal di stomaco ma decido di accantonare i miei buoni propositi per godermi quelle ore con lei che sarebbero arrivate a breve.

Leggins, felpa sottile e scarpe da ginnastica. Sono pronta.

In anticipo, decido di fermarmi in una caffetteria a prendere dei caffè e dei buonissimi cupcake al cioccolato che ci avrebbero accompagnate lungo il tragitto. Svolto l'angolo e mi apposto di fronte al suo cancello. La vedo, mi sta aspettando. Mi regala un immenso e incantevole sorriso prima di farmi un cenno con la mano, poi chiude la porta alle sue spalle.

Dio, quanto è bella.

Il cuore dentro al petto si muove in modo inconsulto, quasi lo avessi incatenato e volesse fuggire per raggiungere il suo di cuore, che mi sta portando al manicomio.

Apre la portiera e la prima gamba fa capolino dentro l'abitacolo. Abbasso lo sguardo per cercare di capire se quel che vedo è realtà o me lo sto immaginando.

«Cioè ti sei comprata le Converse bianche? Come» piego il ginocchio verso il mio petto per mostrare le mie «queste?».

Lei sottrae il suo viso alla mia vista con la giacchina che ha tra le mani per poi svelare gli occhi e confessare.

«Volevo sembrare più giovane accanto a te, per non sembrare tua madre e le Converse a quanto pare ringiovaniscono tantissimo, quindi eccole».

Allarme rosso. Voglia di baciare quel sorriso.

Emma, ce la fai. Puoi respirare e darle il caffè.

«In effetti ora quella vecchia sembro io» dico sorridente, con finta calma «caffè e cupcake per il tragitto, ti piacciono?» col dito le indico la bustina con i cupcake.

«Oh ma grazie, non dovevi, certo che mi piacciono! Adoro i dolci!».

Posa la giacchina sulle gambe, ordinatamente piegata. Poi afferra il mio e il suo caffè dalle mie mani e mi suggerisce di partire.

Metto la prima e vado.

Una volta immesse nella superstrada mi restituisce il caffè. Lei ha già dato qualche sorso al suo bicchiere mentre mi racconta senza un attimo di pausa gli ultimi aggiornamenti mattutini del viaggio di Henry.

«La maestra, non quella che ci ha provato con me, mi ha inviato delle foto, guarda» fa sparire la sua mano nella sua borsa, alla ricerca del cellulare. Una ritrae Henry con un sorriso che mai gli ho visto, insieme alla sua compagnetta dai capelli rossi, con alle spalle la statua della libertà. Nell'altra lo stesso Henry è assolutamente preso da un animale mai visto, probabilmente in uno zoo.

«Ok ora guarda la strada però, o rischiamo qualche incidente».

«Sei tu che me le hai fatte vedere. Comunque sembra proprio felice. Visto che hai fatto bene a mandarlo?» un altro sorso di caffè, mentre lei abbassa il bicchiere dalle sue labbra. Non la guardo, se ne sta in silenzio.

«Magari mi vorrà raccontare quel che ha fatto» dice con tono speranzoso.

In realtà io non sono così positiva su questo. Henry deve prima fare i conti con quello che lo tormenta, solo dopo riuscirà a confrontarsi con sua madre. Ma non voglio spegnere quella luce nei suoi occhi.

«Sì, può darsi» inizio «ma non abbatterti se non accadrà. Arriverà sicuramente quel momento, te lo prometto» la guardo in modo confortante e lei sospira, con la testa poggiata al sedile. Poi torno sulla strada e scorgo la nostra uscita. Poggio il mio caffè nel contenitore di cartone che mi hanno dato al bar e prendo lo svincolo.

«Di solito non fai questa strada per andare al fiume» mi dice.

«Lo so ma la scogliera è più lontana e passando da qui faccio più in fretta. Altri dieci minuti e siamo arrivate comunque, abbiamo il tempo di mangiare quelli» ammicco e lei prende la bustina. Un enorme cupcake fa capolino dalla busta.

«Un'iperglicemia assicurata insomma» dice prima di dargli un morso.

«Com'è?» chiedo curiosa.

«Mmmm» dice con un tono sexy da morire. Ma sono certa che lei non se ne rende conto. La scorgo mentre mastica lentamente, completamente estasiata.

«Mai mangiati cupcake più buoni, superano di gran lunga i miei!».

Mette vicina la bustina così che anche io posso afferrarlo. Lo mordo e...soffice e buonissimo come al solito.

«Babba bia, erano secoli che non li assaggiavo» parlo con la bocca piena, rendendo quasi incomprensibile la mia frase.

Regina scoppia a ridere, rischiando quasi di soffocare col suo boccone.

«Ops, scusa!» le dico poi, imitandola nella risata.

«Comunque, c'è qualcosa che non sai cucinare?» chiedo seriamente incuriosita.

Lei ci pensa un pochino poi come colta da un'improvvisa illuminazione dice: «Sì, la crema catalana! Ci ho provato milioni di volte! Una volta si è bruciata, una volta è rimasta completamente liquida e l'altra si è solidificata stile gelato. Alla fine ho deciso di puntare su altri dolci» fa sparire l'ultimo boccone tra le sue labbra «tipo questi!».

«Oh, è bello sapere che anche tu sei un'umana, mi rincuora molto...ohh eccoci!» esclamo.

Un posto assolutamente dimenticato da Dio. O forse se lo ricorda molto bene, per questo gli esseri umani non lo frequentano.

Spengo la macchina al centro di uno sterrato. Il fiume in quel punto è molto grande e rumoroso per la piccola cascata che nasce dalla scogliera che andremo a scalare. Diciamo che sono sei o sette pietre da superare, niente di impossibile. La scogliera si estende per lo più in larghezza ma ciò che la stupirà sarà quello che c'è oltre quell'ammasso di pietre.

Capisco che dice qualcosa dal movimento delle sue labbra ma il rumore dell'acqua è troppo forte per poter percepire la sua voce.

«Non ti sento, parla più forte» dico a voce molto alta.

Lei chiude lo sportello e mi si avvicina passando dalla parte posteriore del veicolo.

«Invece di urlare basta avvicinarci, no?».

Aggrotta le sopracciglia e chiude anche la mia portiera. Mi piacciono le donne che sanno prendere l'iniziativa.

«È molto bello, ma non capisco davvero cosa dobbiamo fare qui, ti avverto che non ho intenzione di buttarmi da là sopra!» indica il punto più alto della scogliera e il suo sguardo trasuda paura. Dobbiamo raggiungere esattamente quello ma non dobbiamo buttarci, non l'avrei mai fatto.

«Vieni con me, e metti i piedi esattamente dove li metto io se non vuoi farti male» dal portabagagli prendo un piccolo zainetto e lo metto in spalla.

«D'accordo capo, ma da lì non mi butto!» ripete di nuovo impaurita e decisa.

Io mi limito a sorridere e inizio a camminare. Uno stretto sentiero ci guida fino alla prima roccia. In pochi passi riusciamo a raggiungerlo. Lei è un po' lenta solo perché non conosce bene come me i punti dove poggiare i piedi, ma ben presto riesce a imitare le mie mosse senza dovermi fare delle domande. È estremamente concentrata ma non mostra segni di cedimento, segue il mio ritmo come un piccolo scout.

Le mie corde vocali iniziano a prepararsi a quello che di lì a breve avrei fatto. Le braccia e le gambe tese si sarebbero praticamente sciolte, lasciando il posto a una sensazione di tranquillità e pace che mi avrebbe aiutata per le prossime settimane. Dopo un quarto d'ora riesco a raggiungere il punto più alto. Lei è ancora ferma allo step precedente e fissa incantata ciò che le si presenta di fronte: il mare.

La chiamo dall'alto della rupe e lei alza il viso per posare lo sguardo su di me. Le sorrido e lentamente l'espressione del suo volto muta. Gli occhi si socchiudono leggermente, le labbra si allontanano per scoprire i denti bianchissimi e quel suo sorriso quasi mi travolge. Il sole la colpisce sul lato destro del corpo, emettendo dei giochi di luce di mille colori, tanto da rendere difficile guardarla senza sentire del fastidio agli occhi. E il luccichio del sole sull'acqua del mare è niente in confronto alla luce che emanano in quel momento i suoi occhi. Poi si scosta un ciuffo di capelli dal viso e mi sembra di sprofondare in un precipizio che ha il suo nome. Solo la sua mano verso di me può salvarmi, la stessa mano che mi chiede aiuto per raggiungermi.

Finalmente siamo una di fianco all'altra, con lo sguardo fisso oltre l'orizzonte.

«Una faticaccia ma ne vale la pena, non credi?» domando senza interrompere il contatto visivo col mare.

«Assolutamente sì» risponde convinta.

«E ora?» mi volto verso di lei, che mi guarda in attesa di una risposta.

Mi scosto un po'. Allungo le braccia sopra la mia testa, poi prendo un profondo respiro e inizio ad urlare.

Urlo fino a non avere più fiato. Piego il mio corpo quasi su se stesso e continuo ad urlare e a buttare fuori tutto quello che impaccia i miei pensieri, la mia tranquillità, il mio futuro. Elisabeth, la paura di non riuscire con Henry, il terrore di non poter controllare quello che inevitabilmente provo per Regina. Faccio uscire tutto, così da volare via da me, lontano, trasportata dal vento, in un luogo a me sconosciuto. Mi libero di pesi e ansie, scaccio via le lacrime senza farle cadere dagli occhi, mando via la paura senza farla passare dal mio petto.

I miei polmoni e le mie corde vocali chiedono pietà, e così interrompo la mia performance degna del miglior film dell'esorcista. Ansimo e cerco di recuperare un po' di quell'aria che con troppa forza ho sputato via da me. Poi la guardo.

Regina mi fissa con occhi quasi terrorizzati. Le braccia incrociate al petto quasi a volersi proteggere da me.

«Sto decisamente meglio, fiuuu» sospiro di nuovo e mi ricompongo. Abbasso le maniche della felpa, sistemo i capelli e mi avvicino a lei. Le slego letteralmente le braccia, la afferro per un polso per trascinarla al mio posto.

«Ora tocca a te» glielo comunico senza mezzi termini.

«Eh?» sembra assolutamente sorpresa.

«Tocca a te, urla, ti farà bene, vedrai».

«Non voglio sembrare un bipolare in fase maniacale».

Mi aspettavo questa risposta.

«Oh, non dire assurdità» sono di fronte a lei.

Si morde il labbro inferiore e fissa i suoi piedi «quand'è l'ultima volta che hai pianto in un modo da rendere concreta questa parola?» le giro attorno. Voglio innervosirla, voglio scuoterla, voglio che si senta libera. Se non con me, almeno con se stessa.

«Te lo dico io, secondo me non l'hai mai fatto, tua madre non te l'avrebbe mai permesso e tu non volevi darle un ulteriore motivo per odiarti».

Da dietro vedo le sue mani stringersi in due pugni.

«Puoi dirlo che odii tua madre, qui non ti sentirà nessuno» piccoli passetti attorno a lei. Nel suo corpo cambia qualcosa. Sento il respiro farsi irregolare, il petto alzarsi e abbassarsi, il piede destro picchiettare veloce sulla roccia.

«Odio quella donna. Mi ha rovinato la vita» lo dice piano, timorosa che la persona a cui è indirizzata la frase possa sentirla.

«Non ti sento» le dico vicino al suo orecchio.

Si volta verso di me. Quegli occhi neri avrebbero fatto paura al peggiore degli assassini.

«Odio quella donna!» esclama con forza. Respira pesantemente.

«E poi cosa odii Regina? Dillo al mare, dillo all'acqua, dillo a me ma soprattutto dillo a te e poi starai meglio» allargo le braccia «siamo solo noi. Io e te».

Con le labbra socchiuse e tese mi fissa arrabbiata. Chiude poi gli occhi e inizia a parlare.

«Odio il mio primo marito perché non lo amavo e non volevo sposarlo. Lo odio perché mi ha praticamente stuprata dopo la prima notte di nozze. E io sono stata ferma e zitta, come volevano che facessi. Lo odio perché lo ha fatto ogni sera per due mesi, fino a che non ha provato più piacere nemmeno in quello e allora se lo concedeva una volta ogni tanto».

Su quella roccia si possono fare più o meno cinque passi avanti e indietro. Ha detto solo una frase ma ho perso il conto di quante volte ha fatto su e giù in quel piccolo spazio. Indietreggio e poggio la schiena alla scogliera, in silenzio, aspettando il suo prossimo sfogo.

«Oh mia madre, quella donna. Oh, lei è una gran bastarda, sai?» mi guarda con occhi assatanati prima di continuare «Mi chiedeva ogni mese se fossi incinta. Era l'unica cosa che le importava. E quante me ne ha dette quando ho divorziato! Quella donna non doveva procreare, doveva nascere sterile, almeno non avrei sofferto così! E poi arriva il top dei top! Mister perfezione! Il principe dei sogni col cavallo bianco e la calzamaglia che salva la povera e indifesa principessa rinchiusa nella torre del castello e poi che fa? Si fa l'amante! Oh questo sì che è un principe con i contro coglioni! Queste sì che sono persone degne di essere definite tali, queste dovevo incontrare nella mia vita, eh Emma? Mi spieghi perché?» ha fatto il mio nome ma non mi guarda. Continua a guardare il cielo e poi i piedi e poi il mare e a camminare quasi a voler consumare le scarpe.

«E poi mio padre, che giustamente muore quando avevo sedici anni lasciandomi sola con quella strega. Lui non le avrebbe mai permesso un matrimonio combinato per me!»

Urla.

Eccolo finalmente. Il suo tono di voce è andato crescendo per quei dieci minuti di sfogo. Ondeggia quasi, mentre si lascia trasportare dall'urlo liberatorio. Le mani tra i capelli, le gambe lievemente divaricate per mantenere l'equilibrio.

Me ne sto ferma a guardare quella splendida creatura che forse avrebbe ricominciato a vivere.

L'urlo si fa flebile e viene sostituito da singhiozzi. Sapevo che sarebbe arrivata anche quella fase. Nel mio zainetto ho sufficienti fazzoletti per tutte le lacrime che deve piangere. Lentamente si accascia a terra, scossa da tremiti e singhiozzi. Ha eliminato ogni freno inibitore e ora, per la prima volta, si lascia andare a tutto il dolore che ha accumulato in quegli anni.

Il piccolo plaid è pronto tra le mie mani. Le avvolgo le spalle e la cingo in un abbraccio.

«Va tutto bene Regina, va tutto bene».

Mi inginocchio accanto a lei. La sua testa si adagia sul mio petto e il mio cuore viene contagiato dal galoppo del suo. Troppe le emozioni che sento in quel gesto così semplice. Poi le sue braccia cercano il mio collo, e il viso trova il suo porto sicuro accanto al mio.

Per la prima volta nella mia vita sento di abbracciare un corpo che coincide perfettamente col mio. Perfino le sue lacrime che bagnano il mio viso, perfino in quella posizione scomoda, sulla dura roccia, non c'è un solo muscolo che si senta in tensione, inibito, fuori posto. Tutto è al posto giusto.

Singhiozzi strazianti ci accompagnano ancora per un po' insieme alla stretta del suo abbraccio. La mano destra è chiusa a pugno mentre la sinistra, aperta, scorre su e giù per la mia schiena. Le accarezzo dolcemente i capelli e aspetto un piccolo gesto, un piccolo messaggio del suo corpo che mi dica che è ora di staccarsi. Ma non arriva nulla di tutto ciò.

Anzi, la sua stretta si fa più forte quando le lacrime cessano e l'unico rumore attorno a noi è quello delle onde del mare. Rispondo al suo abbraccio, facendo aderire il mio corpo più strettamente al suo, facendole sentire quanto il mio cuore impazzisca accanto a lei.

«Come ti senti ora?» chiedo avvicinando la bocca al suo orecchio.

Sento un profondo sospiro dalla sua schiena su cui sono poggiate le mie mani.

«Cefalea, astenia, bruciore oculare, tachicardia, agitazione, vuoto».

«Sembra una cartella clinica» un ridolino scappa dalla sua bocca. Poso le mie labbra sui suoi capelli e a qual punto le sue braccia cedono, staccandosi un po' da me per poi guardarmi negli occhi.

Quegli occhi. Quell'oro nero luccicante, mi guardano. Quella dolcezza. Non c'è niente in quegli occhi, c'è soltanto un universo intero. E io non riesco a parlare, non riesco a pensare, non riesco a respirare. Non mi accorgo nemmeno che la sua mano si posa sul mio viso, sulla guancia che sento diventare incandescente sotto quel tocco e la sua fronte che si posa sulla mia.

«Grazie Emma. Grazie, davvero» il suo fiato sulle mie labbra.

Baciala ora, Emma, non potrai farlo mai più. Questo bacio rimarrà nascosto, custodito dalle onde del mare, portato via dal vento, e lei lo dimenticherà, mentre io porrò fine a questa tortura.

I suoi occhi si sono chiusi quando mi ha ringraziata. E io ho chiuso i miei.

Poi un tocco morbido sulle mie labbra. Improvviso, caldo, inaspettato come la pioggia d'estate. Le sue labbra sulle mie. Apro gli occhi, devo realizzare che non è frutto della mia immaginazione.

Mi sta baciando. Un piccolo e casto bacio si alloggia sulle mie labbra e per quanto voglia contenermi, per quanto la sola idea di prolungare quel contatto venga considerata dannosa dalla mia coscienza, non mi contengo. Se quello è il suo modo per ringraziarmi, io voglio ringraziare lei. Voglio però guardarla un attimo negli occhi.

Mi scosto da lei giusto il tempo di un respiro. Lei mi guarda a sua volta posando la mia mano sul suo petto. Qualcosa sta bussando con forza dall'interno: il suo cuore.

Sfioro le gote umide con le mie dita prima di far toccare di nuovo le mie labbra con le sue, gustando quel sapore di vaniglia misto a lacrime. E quando la bocca si socchiude lasciando lambire le lingue, capisco che la strada per l'inferno è l'unica che voglio percorrere. Perché lei mi ci avrebbe portata di sicuro all'inferno.

Fuoco e fiamme si sprigionano dal mio corpo. La stringo forte in vita, la voglio più vicina, la voglio addosso. La voglio e basta. Ma ciò che più mi rende incapace di tornare in me è il suo modo di toccarmi, le sue mani che graffiano il collo, i suoi denti che mordono le mie labbra.

I suoi capelli neri totalmente scompigliati e fottutamente sexy.

È diabolicamente sexy.

Poi si ferma.

Io mi fermo.

Il vento arriva a raffreddare i nostri corpi.

«Voglio andare a casa».

Sapevo che per lei non avrebbe significato la stessa cosa, ma...

«Voglio andare a casa con te, adesso».

Ok no. Nel mio migliore film mentale al massimo lei diceva che era stato bellissimo e che mi stimava come non mai.

Si alza in piedi e raccoglie plaid e zainetto. Rimango ancora bloccata nella mia posizione, con le ginocchia ormai diventate un tutt'uno con la roccia. La sua mano compare di fronte a me.

«Andiamo, per favore...» è decisamente una supplica.

Le afferro la mano e scendiamo lente quegli scogli.

Mi ferirà, lo so.

Ma non posso e non voglio rinunciare a questo piacevole dolore.

 

 

Note dell'autrice: come promesso, sono tornata :)

Devo dire che sono seriamente emozionata per le reazioni che avrete da questo capitolo, e anche rileggerlo mi ha dato un piccolo brivido alla schiena, tanto che non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate.

Come avevo anticipato, la location e la situazione somiglia molto alla precedente storia da me scritta, ma vi assicuro che il seguito non avrà nulla a che fare con essa.

Ringrazio come al solito la mia Susan e Nadia per le correzioni.

E grazie alle mie affezionate lettrici <3

  
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