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Autore: sevenyears    09/04/2016    0 recensioni
Due ragazzi, due amici.
Un week-end da passare insieme, casa libera.
Bevono, fumano, mangiano, guardano partite di calcio, parlano.
Passano le ore, e qualcosa tra di loro cambia. Iniziano a guardarsi con occhi diversi.
"Non deve succedere. Almeno, non quando lui non è nemmeno cosciente".
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Siamo seduti per terra sul suo terrazzo, grande praticamente quanto casa mia. Non che sia ricco, non che i suoi siano sfondati di soldi. A dire il vero, il suo terrazzo è grande anche quasi come la sua casa. La sua casa è carina, e ci credo, suo zio è un architetto e gliel’ha progettata lui. Pure gratis, penso. Tutta corridoi, specchi, spazi che saltano fuori dal nulla, dietro un bancone, un muro, una porta. Mi piace un sacco la cucina, che sembra uscire direttamente da un armadio, e anche il bagno, e la sua doccia. Mi piace questa casa. È ordinata, sua mamma è praticamente fissata, anche con gli ospiti. Se entro senza togliermi le scarpe è capacissima di tirarmi addosso una ciabatta. E guai a non sparecchiare una volta che ci si alza dopo aver mangiato. Ma è una tipa a posto, fa un sacco di battute, a volte mi scordo che sia una signora rispettabile di quasi cinquant’anni e la tratto con il mio solito modo da cazzone, la prendo in giro. Ma lo fa anche lei con me, e lo fa anche Andreas, non è un problema. A volte la guardo quando, non so, sta affettando le patate o sfogliando una rivista. A volte ci vedo tutto quel dolore provato nel momento in cui Carlo, l’ex-marito, il padre di Andre, ha deciso di prendere e andarsene.
Me ne ha parlato una volta, una sera. Come una cosa di poca importanza. Mi ha detto proprio così, che ha preso le sue cose e se n’è andato. Con un’altra donna, una cilena o un’argentina. Comunque, sudamericana. Uno scricciolo, niente bella, non parlava mai. L’avevo vista per caso qualche volta, ma non era una che si fa ricordare. Totalmente anonima. E così, se n’è andato con lei. È anche partito, dopo un po’. È andato dall’altra parte del mondo per seguirla. Le ha prestato anche un sacco di soldi, le ha ristrutturato casa. E sai qual è la cosa più bella?
No, quale?
Che è rimasto fottuto. Esattamente come lui ha fatto con noi, lei ha fatto con lui. Penso che l’abbia solamente usato, che abbia capito fin da subito che aveva a che fare con un coglione. Gli ha prosciugato il conto in banca e si è dissolta. Lui è tornato qui con la coda fra le gambe. Penso che abbia anche provato a rimettersi in contatto con mamma. Un giorno sono andato da lui e gli ho detto, prova a richiamarla ancora una volta e ti uccido. Non sto scherzando. Ti uccido. Perché insomma, lui non c’era. Quando se n’è andato. Ovviamente, ovvio che non c’era. Non ha dovuto rimanere a casa tutte quelle sere, a sentirla piangere e prendersela con i muri. Non ha dovuto trovarsi tra le mani, per caso, una lettera scritta da lei, una lettera che se ancora adesso ci penso mi si stringe il cuore. Io non dico, non ho più un padre. Io ce l’ho ancora, purtroppo. E posso anche vederlo. Da qualche parte, in fondo, gli voglio ancora bene. Ma che stia lontano da mamma.
Questo week-end, lei è partita con un uomo con cui si frequenta da qualche mese: un tipo a posto, un avvocato di Firenze. Un po’ stempiato, un po’ grassoccio, l’ho visto solo una volta ma mi è sembrato un tipo a posto, davvero a posto. Andre non mi ha detto se gli piace o no. Si è stretto nelle spalle e ha detto, basta che sia contenta lei. Peggio di papà, non le può capitare.
È venerdì pomeriggio, e mi ha invitato a casa sua fino a domenica. Facciamo quello che vogliamo, non ci rompe il cazzo nessuno. Mangiamo, beviamo, fumiamo, non facciamo un cazzo. Ti va?
Mi va, ovvio che mi va.
Mia madre ha fatto storie, ovviamente, e come potrebbe essere altrimenti. Che a casa non ci sono mai, che non si può mica continuare così, che non posso andare avanti e indietro, che finirà che Elena nemmeno mi riconoscerà più, che non mi curo mai di Allister, che domenica sera siamo a casa dai nonni per il compleanno del nonno.
Buttando alla rinfusa qualcosa nel mio zaino le ho risposto che no, non è vero che vado sempre avanti e indietro. Che per niente, Elena mi riconosce eccome, e anzi vuole più bene a me che a chiunque altro (per la cronaca, è la mia sorellina). Che Allister non l’ho voluto io, che se l’è voluto andare a prendere papà in un canile a ottanta chilometri da qui, lui e la sua mania di passare le giornate su internet alla ricerca di un cane solo e abbandonato. Che domenica sera la madre di Andre torna a casa, quindi io avrò già levato le tende. Cosa pensi, che voglio perdermi la festa del nonno? Non esiste proprio.
 
Ora siamo qui, io e Andre.
C’è un bel sole, è quasi primavera. Ai nostri piedi sono sparsi tre accendini, una busta di tabacco vuota e una piena, le cartine, qualche filtro uscito fuori da chissà dove, due pacchetti di Camel, dell’erba che fumeremo stasera.
Mi sento in pace col mondo.
 
Rimaniamo fuori fino alle sei. Poi sparisce il sole, e torniamo in casa. Ci mettiamo sul divano con due pacchi enormi di patatine e uno di Pan di Stelle. Due Corona gelate. Partiamo così, senza esagerare.
Becchiamo una partita di Europa League per caso. Ci mettiamo a commentare che una squadra come il Borussia Dortmund che cazzo ci sta a fare, in Europa League. Ok che probabilmente in Champions non arriverebbero nemmeno in semifinale, però oh, che annata di merda. Ci sta simpatico, il Borussia. Sicuramente più del Bayern. Anche se compreremmo volentieri mezza squadra, del Bayern, non diciamoci di no.
“Dammi Lewa e Muller, e vinco la Champions con la Primavera” mi dice Andre. A dire la verità, lui è forte davvero. Gioca nella Primavera, appunto, di una squadretta qualsiasi. La Prima Squadra penso militi in Eccellenza, forse C2. Però glielo dico sempre, prima o poi qualcuno ti noterà.
Lui solitamente mi tira un pugno e mi dice di non dire cazzate, che insomma, ferisco i suoi sentimenti.
Perché, tu hai sentimenti? A volte sembra di no. Poi mi sorride e non ne parliamo più.
Penso che sia ancora tormentato da una partita di qualche mese fa. Una delle ultime della scorsa stagione. Era girata voce che sugli spalti ci fosse un osservatore di una grande squadra, tipo Inter o Juve. Lui è milanista. Ma penso che, in certi casi, si possa anche andare contro la propria fede calcistica.
Io ero andato a vederlo, continuavo a guardarmi intorno nella speranza di vedere, che ne so, Paratici, Moratti, qualcuno di conosciuto. Ovviamente non ho trovato nessuno. Erano per la maggior parte ragazze (equamente distribuite tra annoiate ed euforiche), qualche genitore, qualche ragazzino.
Prima di entrare in campo, ci eravamo fumati una sigaretta lì fuori. Il mister non voleva che fumassero, in realtà. Faceva dei culi esagerati, a chi scopriva. Ma lui faceva spallucce e tirava fuori l’accendino. Andre è uno forte, io ve l’ho detto. Gli interessa poco di quello che gli dicono gli altri. Di cosa gli impongono, più che altro.
“Io me lo sento fra, è la mia grande occasione. Io me lo sento, sento che oggi succederà qualcosa”, e gli brillavano gli occhi. Mi sono sentito contento per lui. Mi sono sentito fiero, orgoglioso. Come se fosse mio figlio, come se fossi suo padre.
Anch’io avrei voluto provare una cosa simile. Avere una passione simile, doti come le sue. E invece no. Ho sempre fatto schifo, a calcio. Alle elementari non mi sceglievano mai nelle squadre, ero sempre l’ultimo. Mi mettevano in porta e prendevo sempre caterve di gol. Mi prendevano in giro.
Poi al liceo ho cominciato a giocare a pallavolo, e lì è andata meglio. Ma comunque.
Quel pomeriggio, in realtà, qualcosa era successo davvero.
Un’azione corale splendida. Andre si trova solo davanti alla porta, dopo un assist al bacio di Karim, un suo compagno di squadra cattivo come pochi. Fa venire i vermi agli avversari, pressa come un dannato, fa il terzino avanzato ma spesso te lo ritrovi come primo difensore. Fa di tutto, è sempre ovunque, lo mettessero in porta farebbe pure quello senza problemi. È simpatico, ha una sorellina di cinque anni che è una meraviglia.
Andre è lì, solo davanti alla porta. È un po’ come se il tempo si fermasse.
Vai Andre, vai. Vai.
Poi non so che cazzo succede. Perde l’attimo, tira male, viene fuori una ciabattata che non c’entra la porta nemmeno per sbaglio. Qualche insulto dai suoi compagni, qualche gesto scazzato, rimessa dal fondo e si ricomincia.
Lui però era rimasto lì, impalato nell’area avversaria. Come se dicesse, no. No, io non ci credo che è finita così. Dai, no. Per favore. Non può. Non può essere.
Avrei voluto andare lì, dirgli dai, muoviti, che cazzo fai. C’era ancora tutto il tempo di farsi perdonare, tutto il tempo per dimostrare chi sei.
Ma non lo aveva fatto.
C’era stato il tempo, ma lui non lo aveva sfruttato. Karim aveva segnato cinque minuti dopo, ma la squadra avevo perso lo stesso. Andre non aveva più toccato boccia, era uscito dal campo a testa bassa ed era sparito.
Settimane dopo ho sentito parlare di Karim, ho sentito dire che l’Inter si era informato sul prezzo, che ovviamente era una miseria. Forse sarebbe andato in prestito a qualche squadra di serie B, o addirittura in qualche squadra in zona salvezza in serie A. O addirittura, addirittura ancora, direttamente nelle loro giovanili.
Da quel giorno, non so, qualcosa si era spezzato. Tra Andre e il calcio. Aveva continuato a giocare, ovviamente. Era anche stato il protagonista in una partita memorabile che aveva deciso il campionato: terzo posto assicurato. Niente di che, ovviamente. Ma insomma, sempre meglio che settimi, sempre meglio che ultimi.
Ma si vedeva che non era più come prima. E mi dispiaceva, mi dispiace un sacco, perché mi veniva tristezza a pensare che è possibile perdere anche un amore così grande. Perderlo per strada, sbadigliarci, guardarlo con un misto di noia e insofferenza.
“Che fenomeno che è Reus. Mi chiedo cosa ci faccia ancora lì” dice dopo un po’.
“Non tutti devono essere mercenari, per dire”.
“Tipo chi?”
“Tipo Goetze, tipo Ibra. Ibra è il primo, dai. Si è girato mezzo mondo solo per soldi”.
“Esagerato, mezzo mondo. Juve, Inter, Milan. Dov’è andato, ha sempre vinto. Penso che voglia solo fare un po’ di beneficenza. Dare un po’ di gioia e amore a tutti quanti”.
“Certo che andare al PSG è proprio spararsi nei coglioni. Vinci la Ligue con venti giornate di anticipo, vinci ancora prima di iniziare, e in Champions se arrivi ai quarti è un miracolo. Se vai a giocare lì ti interessano proprio solo i soldi”.
“Ma pensa un po’”.
“Che poi dico, cosa ti cambia guadagnare, che ne so, 4 milioni all’anno, oppure 8? Non ti cambia un cazzo dai. Anche un milione solo, sarebbe un’enormità. Mio padre ne guadagna, che ne so, 30.000?”
“Ma loro non ragionano come noi, sai com’è”.
“Già”.
“Senti, se mi prendono in qualche squadra forte, vieni a vivere da me e ti pago tutto io. Ci facciamo la bella vita, macchinoni, villa, usciamo tutte le sere”.
Sembra quasi una promessa, una seria.
“Non sarebbe male”, dico.
“Non sarebbe male no, cazzo. A volte mi sembra di aver buttato via tutto, però” aggiunge, un po’ sconsolato. Con la morte nella voce.
“Cazzo dici. Non hai buttato via niente. Ci saranno altre occasioni…” butto lì. E mi dispiace, ma ci credo poco. Certe possibilità ti passano davanti solo una volta, certi treni. Una volta e mai più.
E lui lo sa, ovviamente.
“Fra, no. Nemmeno mia madre si ricorda il nome della squadra in cui gioco. Non la conosce nessuno. Siamo terzi in un campionato di merda. Metà dei miei compagni non è manco capace di dribblare un palo della luce, l’altra metà non sa segnare nemmeno con le mani. Prendiamo gol da imbecilli. Il portiere fa piangere”.
“Intanto siete terzi, intanto”.
“O arrivi primo, o non esisti. Non vai in Champions, non vieni promosso in Serie A comunque, anche se arrivi secondo. Fai schifo e basta. L’unico che vale qualcosa è Karim. E infatti, guarda un po’, penso che faccia un provino con l’Empoli tra qualche giorno. Va a giocare in Serie A, non so se ti rendi conto”.
“Beh, non è detto…”
“Lo prenderanno sicuramente. Sicuramente. Lui è uno con le palle, se lo merita”.
“Anche tu”.
“Piantala con ste cazzate, perché non è vero”.
“Ma piantala tu, è inutili che ti incazzi se ti dico che vali qualcosa. È così, lo dicono tutti. È così. Hai buttato nel cesso quella che per te era una grande occasione. Ok, ci siamo capiti. Ma non era l’unica. È stata solo la prima”.
Non mi risponde. Finisce la sua Corona e prende una sigaretta.
“Ma secondo te, se fumo in casa?”
“E che cazzo ne so, non è casa mia”.
Mi fa arrabbiare quando fa così. Odio le persone che fanno finta di non sapere quanto valgono. Odio che facciano le vittime, e che in realtà possano fare praticamente qualsiasi cosa. Odio non essere in bravo in niente, neanche a pagarlo. Odio non avere nessun futuro. Odio il fatto che dovrò accontentarmi di qualcosa trovato all’ultimo minuto, qualcosa che non c’entra niente con qualche grande “sogno nel cassetto”, perché in realtà non ce l’ho mai avuto. Né il sogno, né il cassetto.
Mi lancia il pacchetto e fumo anch’io.
All’improvviso ce l’ho col mondo.
So che tra cinque minuti mi sarà già passata, ma è una sensazione orribile. È come sentirsi oppressi da tutta una serie di fallimenti, di giornate storte, di notti vuote. Il sapere di essere uno sfigato, di non avere niente di speciale per cui essere felice.
Esco sul terrazzo.
È quasi buio, si è rannuvolato. Fa anche freddo.
Non sono più un pace co niente.
Vado avanti e indietro, spero di calmarmi, non voglio rovinare questi giorni. Mi fa piacere stare con Andre, mi fa piacere che abbia chiesto a me, e non ai suoi compagni di squadra (per dire). Mi fa piacere essere solo noi due. Anche se non è uno che parla molto, e a dir la verità è cambiato rispetto a come era tempo fa.
Ci conosciamo dalle elementari, e posso dire che prima non faceva altro che parlare e ridere e dire cazzate su cazzate. Ora, non so, sembra più adulto. Più serio. Non dico responsabile, ma più maturo sì. Non è più come prima. Forse è stata la questione di suo padre, credo che una cosa così possa cambiarti tutto insieme. Non che io non gli voglia più bene, non che insieme non ci divertiamo lo stesso. Insomma, è sempre il mio migliore amico. Dico solo, prima era diverso.
Guardo la città che si avvia verso la sera. Verso il ritorno a casa, la cena, Gerry Scotti in tv. Verso i compiti dopo allenamento, le pagine di storia da imparare per l’interrogazione del giorno dopo, la camera sempre in disordine, le litigate, il film che guardiamo anche se finisce troppo tardi e domani bisogna svegliarsi alle sei e mezza. Di nuovo. E ancora. Sempre uguale. Una vita sempre uguale. Non solo per me, per tutti. Tutti viviamo vite sempre uguali, vite che non cambiano mai. E ci va bene così, perché è confortante e rassicurante, sapere sempre cosa ci aspetterà. Almeno, lo è per me.
Mi dico sempre che ho tutta una vita per fare cose imprevedibili, per essere sorpreso. Non ora. Ora posso pure rimanere così, mi va bene.
“Oh, che ti è preso?”
Andreas ha già un’altra sigaretta in bocca. Penso che abbia preso troppo sul serio la questione del “fumiamo”. In realtà sì, penso che esageri. Lui non ci pensa neanche, ormai tirare fuori sigarette dal pacchetto, o rollarsene una col tabacco, è diventato un gesto talmente normale, normale come respirare. Se ne farà, boh, venti al giorno. Anche di più. Probabilmente si dà una regolata (per quanto minima) solo per il calcio. Mi chiedo come faccia a non stramazzare a terra al primo giorno di campo, comunque.
Vabbè, contento lui. Non sono sua madre. Non gli verrò a dire, smetti di fumare, fuma meno. Non gli piace ricevere consigli. Fa sempre di testa sua. Che poi anche io fumo, anche se non quanto lui. Non sarebbe credibile, rimproverarlo. Credo.
“Niente” sto appoggiato a guardare, guardare avanti. Le luci che si accendono. Le strade che si riempiono e si svuotano. Le macchine che vanno avanti e indietro. Mi viene in mente quella poesia di Ungaretti, quella poesia bellissima, che chissà poi perché tutti si concentrano solamente su M’illumino d’immenso.
La poesia di cui parlo io dice:
            Balaustrata di brezza, per appoggiare stasera la mia malinconia.
Non che io sia un tipo romantico, da poesie. Mi sono imbattuto in questa per caso, qualche mese o settimana fa. Mi ha colpito, non so perché. La trovo così veritiera, così reale, profonda. Non so. E ora mi ha fatto venire in mente me, me in questo momento. Il perfetto eroe di un poema epico destinato a finire in tragedia.
“Niente, volevo solo uscire un attimo”.
“Stasera andiamo a fare un giro, vuoi?”
“Boh. Mi va bene anche stare qua”, a dir la verità mi va bene solo stare qua. Non ho voglia di uscire, fare la solite cose, spendere chissà quanti soldi in alcolici che nemmeno mi piacciono troppo.
“Ma sì, stiamo qua. Tanto da bere ce l’ho. Ho comprato tutto stamattina, te l’ho detto no”.
Sì, me l’ha detto. Mi rilasso un attimo. Non ha senso rovinarsi tutto quanto per qualche pensiero fuori posto. Andre non c’entra niente. Sono solo io, io e le mie inutili paranoie.
 
Infiliamo due pizze surgelate in forno, ce le dimentichiamo e ci troviamo immersi in una nebbia che nemmeno in Pianura Padana.
“Apri le finestre! Cazzo! Qui va a fuoco la casa”.
“Non va a fuoco niente, è solo fumo”.
“Addio pizze”.
Butto la pasta mentre Andre sta ancora cristonando contro tutto quanto. Mi fa ridere. Ha un pessimo grembiule da cucina (solo per darmi un tono, sai com’è), sventaglia uno strofinaccio in giro per la cucina, sembra una ragazzina isterica.
Mangiamo buttati sul divano, davanti a “Pacific rim” che però è quasi finito. Non parliamo più di tanto. Io sono ancora avvelenato da tutti quelli che non posso definire problemi, ma solo paturnie. Lui è troppo impegnato a tenere la forchetta nella mano destra e la sigaretta in quella sinistra.
“Mi spieghi come fai a mangiare così?”
“Cosa c’è da spiegare, sto mangiando”.
“Ho capito ma dai, ti si impasta tutto in bocca”.
“Ma cosa si impasta, non si impasta un cazzo. Se devo proprio dire, il fumo non fa altro che migliorare il gusto”.
“Oh stronzo, ancora grazie. Non sono io che ho fatto incenerire le pizze”.
“C’eri anche tu. Te le sei dimenticate anche tu”.
“Sì ma è casa tua. E tu non hai messo il timer”.
“E che cazzo vuol dire? È colpa tua come colpa mia”.
“Io almeno ho cucinato la pasta. Fosse stato per te, non avremmo mangiato un cazzo”.
“C’era del gelato, c’erano i cracker. Si che avremmo mangiato”.
“Già, come no”.
 
Per le dieci inizia a tirare fuori una bottiglia di vodka liscia, una al melone (lo so lo so, ma non c’era altro) e una di rhum. Mi sento tanto Jack Sparrow. Più probabilmente Mister Gibbs. Sparge sul tappeto della sala tutto l’armamentario e gira due spinelli. Me ne passa uno, accende il suo, beve un sorso.
“Non ti stai annoiando, vero?” mi chiede. Seduto per terra, con la testa appoggiata al divano, vicino alle mie gambe.
“No. No, non mi sto annoiando”.
“Mi dispiacerebbe. Magari avevi altro da fare e ti scocciava dirmi di no. Se è così scusami”.
“Inizi già a delirare? Non oso pensare tra qualche ora”.
Mi tira una gomitata.
“Sai cosa intendo”.
“Sì, più o meno”. Penso che, dopo che suo padre se n’è andato, sia continuamente tormentato da una qualche forma di paura dell’abbandono. Qualcosa del genere. Sembra quasi come se si sentisse sempre in dovere di fare qualcosa per far divertire gli altri, in modo che non lo lascino soli. Se organizza una festa spende dei gran soldi tra fumo, cibo, alcolici. Si tormenta per giorni sperando che nessuno gli dia buca. Non sta mai un attimo tranquillo, deve sempre essere sicuro che tutti stiano passando esattamente la serata che speravano di passare.
Non so quale sia il modo migliore per farlo sentire meglio, quando è così. Penso che basti dirgli, è bello qua. È bello stare qua, è bello stare con te. Anche a costo di passare per melodrammatico, o forse anche qualcos’altro.
Lui mi guarda con aria, non so, riconoscente. Un po’ come Philippe guarda Driss in “Quasi amici”, quando lo porta a vedere il mare. Lo vedi proprio, che non sa come ringraziarlo. Che è quasi commosso. Mi è sempre piaciuta quella scena.
Anche se vabbè, ora non siamo a quei livelli.
“Chissà cosa sta facendo mia madre. Chissà se quel tizio le piace davvero. Secondo me no. Secondo me si sta solo, non so, accontentando. Lo vedo. Non la fa impazzire. Anche se lui è bravo, è una brava persona. Mi dispiace per lei. Non voglio finire così anch’io”.
“Così come?” non so cosa dirgli, perché non so cosa voglia sentirsi dire. Non mi aveva mai detto niente riguardo a sua madre e al suo nuovo compagno. Pensavo non gli interessasse nemmeno così tanto, insomma, ero convinto che fosse una cosa che si lasciava scivolare addosso senza problemi. Un, mi fa piacere che stia bene, punto e stop.
È curioso come inizi a parlare subito dopo che fa i primi due o tre tiri. Non è un gran chiacchierone, non lo è mai, ma quando fuma si trasforma in una rubrica per cuori infranti di “Cioè”. Penso che vorrei davvero sapere cosa fare per aiutarlo, per farlo stare meglio.
“Così, così. Ti vedi passare l’amore della tua vita fra le mani, ti ritrovi solo, vai alla disperata ricerca di chiunque altro per non finire da solo il resto dei tuoi giorni. Una cosa del genere. Di grande amore ce n’è uno solo. Se ti giochi quello, sei rovinato per sempre”.
“Tuo padre era il suo grande amore, secondo te?”
“Certo che sì. Ovvio. Sono stati insieme vent’anni. E lei lo adorava. Anche quando si comportava da stronzo, anche quando litigavano, che sembrava venisse giù la casa. Lei lo andava sempre a cercare per far pace. Gli faceva sempre dei regali, voleva sempre vederlo felice.        Quando guardavano qualcosa in tv, qualcosa di comico, lei si girava sempre verso di lui, per vedere se anche lui stava ridendo. È una cosa un po’ infantile, un po’ patetica. Lo so”.
“No, non lo è” mi sento un po’ in un territorio minato. Non me ne capisco molto, di queste cose. Insomma, non sono mai stato sposato con nessuno. La mia storia più lunga è durata sei mesi, e con quella ragazza nemmeno ci parliamo più. Non abbiamo nemmeno mai fatto sesso. Era una tipa un po’ problematica. Ci siamo lasciati senza grandi drammi, evidentemente non ci piacevamo abbastanza. Insomma, non me ne capisco di queste cose. Non so nemmeno come sia fatto l’amore. Non lo so. Spero che sia già sufficientemente fuori per non rendersi conto di tutto il mio imbarazzo.
“Non lo è, insomma…è una cosa carina. Però no, secondo me non esiste un solo amore. Non può essere così. Sennò la gente non si risposerebbe mai, no?”
“Non ho detto che il tuo grande amore sia il primo che trovi sulla tua strada. Te ne trovi davanti un po’, quale sia quello più importante lo capisci dopo”.
Questi discorsi lasciano un po’ il tempo che trovano, secondo me. Mi annoiano anche un po’. Mi sembrano frasi biascicate da uno che dovrebbe piantarla una volta per tutte con l’erba, niente di più. Mi sento in colpa per quello che penso, ma non ci posso fare niente.
“Io penso che tua madre sia grande abbastanza e intelligente abbastanza per non accontentarsi. Può anche solo volergli dare, volersi dare, questa possibilità. Niente di grave. Niente di irreparabile o definitivo”.
“Già”.
Vado ad aprire una finestra. L’aria è diventata praticamente irrespirabile. Mi investe la notte, il buio, il fresco. Mi sento immediatamente meglio, e mi rendo conto solo adesso di aver provato un senso di nausea fino a quel momento.
“Ma tu? Tu non sei mai stato innamorato?” mi domanda. Sospiro. Evidentemente sì, questa sera deve proprio andare così. Forse va bene. Forse sarà una cosa da ricordarmi, in futuro.
Torno a sedermi vicino a lui. Mi siedo per terra anch’io.
“No. Assolutamente no” rispondo. Non è una cosa terribile. Posso ammetterla senza problemi.
“No?” mi guarda stupito. Strabiliato. Ma dura un attimo. Poi si stringe nelle spalle e dice, no, neanch’io.
Mi viene da ridere.
“Perché?”
“Perché, cosa ne posso sapere io? È andata così. Non mi strappo i capelli. Succederà. Credo. Presumo. Non lo so”.
Mi chiede di Adele, la ragazza dei sei mesi. Di lei non eri innamorato? Siete stati insieme un sacco, insomma.
“No. Non…no. Non so se mi ci trovavo davvero così bene. Insomma, c’era. Stavo con lei. Questo è il fatto”.
“Cos’è, era un riempitivo?”
“Non so, forse. Forse sì. Era simpatica e tutto quanto, anche carina, ma su un sacco di cose non ci trovavamo. Non mi ricordo nemmeno perché ci siamo lasciati. Non mi ricordo nemmeno quando”.
“Non era destino”.
“Esatto, non lo era”.
“Tu credi al destino?” mi domanda. Mi guarda. Scuoto la testa.
“No, assolutamente no. Non esiste nessun destino, nessun piano, nessun disegno. Tutto succede per caso. Tutto. Qualsiasi cosa”.
“Be’, farebbe paura. Se fosse così. Per fortuna non lo è”.
Mi dice che il destino esiste. Che tutto succede per una ragione ben precisa, che da qualche parte le nostre vite sono scritte dalla prima all’ultima riga, dal primo all’ultimo istante. Che in questo modo è più facile.
“Cosa?”
“Accettare le cose. Accettare che muoia qualcuno a cui vuoi bene, accettare tutte le cose brutte. Per esempio, accettare di non segnare il gol che chissà dove ti porterebbe, un gol che in allenamento, che in altre mille partite, non sbaglieresti mai. Il fatto è, probabilmente non era destino.
“Che andassi a giocare in Serie A?”
Esita.
“Esatto. Non lo era, probabilmente. Forse lo sarà. Ma io sono convinto del fatto che ci sia ancora qualcosa per me, qua. Qualcosa, non so, da mettere in ordine. Da mettere a posto. Poi, dopo aver fatto i conti con questa cosa, allora sì. Allora magari me ne potrò andare”.
“Di cosa stai parlando?”
Mi guarda.
“Di niente. Non lo so, di cosa sto parlando. Sto parlando in generale. Di qualcosa che mi succederà. Lo scoprirò, prima o poi”.
Piacerebbe anche a me credere cose simili. Credere al destino, credere che ci sia qualcuno che guida ogni tuo passo. Credere che davvero stai andando da qualche parte, perché qualcuno lo ha deciso per te. Mi piacerebbe, ma non sono fatto così. Purtroppo o per fortuna. Per me, tutto quanto è un gran casino privo di scopo. Andiamo avanti per inerzia, combiniamo qualcosa di buono nella casualità più assoluta. Non conta quanto tu sia bravo, quanto tu ti sia impegnata. Non conta niente. Conta solo trovarsi nel posto giusto al momento giusto, avere la faccia giusta, dire la cosa adatta. Nient’altro. C’è solamente caos.
Re Caos.
Che a dirla così, sembra un po’ un imperatore maya, un principe azteco, qualcosa di simile. Sfavillante e solo in qualche reggia in mezzo alla distruzione di un regno che c’era, ma che sta scomparendo. La devastazione di popoli lontani, popoli che arrivano e non lasciano più niente.
È così, è sempre stato così.
Non arriveremo noi ora a cambiare le cose, dicendo qualche frase insensata in un venerdì nuvoloso che prometteva sole.
 
Si trascinano le mezz’ore senza che noi ce ne accorgiamo. Parliamo di cose, con la voce sempre più bassa, le parole sempre più insensate, un biascichio continuo. Non mi ricordo nemmeno di quello che dico nel momento in cui lo dico. Veleggiamo in porti tranquilli, in oceani silenziosi. Lui è ancora per terra, io affondato tra i suoi mille cuscini di un divano troppo grande per due persone. Penso che si debbano sentire molto soli, a volte, lui e sua madre. Tutta la faccenda mi mette molta tristezza.
Lui guarda il telefono, è l’una e un quarto, ha un messaggio non letto, riesco a vedere che si tratta di una certa Alice.
“Aaah…non l’hai ancora capito che mi devi lasciare in pace…” borbotta lui, scagliando il cellulare verso la televisione a mo’ di frisbee.
“Alice? Chi è?”
“È una. Niente di importante. L’ho conosciuta a…a una festa. Forse in un locale. Non lo so…boh…Alice…”
“Ma è carina? Tu le piaci?”
“Oh, troppe domande. Boh, più o meno. Non è orrenda, ma nemmeno…è normale, non so. Capelli ricci. Bella bocca. Bassa. Niente tette però. Non so. Ha una risata un po’ fastidiosa. Però è simpatica. Era. Poi le ho dato il mio numero e ha cominciato a tartassarmi. Mi scrive il buongiorno tutte le mattine, mi chiede cento volte al giorno come sto e cosa faccio, buonanotte tutte le sere. Duemila faccine ovunque. Dio cristo”.
Non rispondo. Non c’è niente da rispondere. Aspetto che la sua filippica abbia fine. Potrebbe volerci un po’ di tempo.
“Non so. È che, boh. Non dico che non mi piaccia. No, non volevo dire questo. Non dico che, non so, mi faccia schifo. Ci sta, ci può stare. Uscirci una volta, così. Ma insomma, non mi va. Capito, no? Non mi va e basta, non può mica costringermi. Mi ha già chiesto due volte, ci prendiamo un caffè una volta o l’altra? Le ho risposto, sì certo. Ho fatto un po’ il vago, in realtà. E io dico, ma la capisci l’antifona o no? No, evidentemente no. Perché continua”.
“Bè ma allora escici” sbotto. Mi sta facendo venire mal di testa. Lui e i suoi problemi stupidi. Ce li avessi io, di sti problemi.
“Che…? No. Non ne ho voglia. Non mi va”.
“E allora diglielo”.
“Ma non voglio che ci rimanga male. Io non ce la faccio a fare lo stronzo, fra. Non ce la faccio proprio. Non mi viene. Non riuscirei mai a comportarmi come ha fatto mio padre. Dovevi vedere la faccia di mia madre quando…insomma, no. Non voglio essere così”.
“Cazzo Andre, non hai tutte queste possibilità. O le dici di sì o le dici di no. Non puoi continuare in questo limbo di merda. Non puoi. Ci sta male pure lei. Presumo. Credo”.
“E tu che ne sai?”
“Lo immagino”.
“Appunto, lo immagini”.
Mi sale di nuovo un senso di rabbia. Abbastanza ingiustificato, in realtà.
“In che senso”.
“Nel senso…insomma fra, dai. Lo sappiamo. Non sei poi questo grande esperto. Non è un male. Non sarà neanche un bene. Ma è solamente così. Quindi capisci, non è che proprio mi va di stare a seguire i tuoi consigli”.
“Vaffanculo” piombo in un iroso e irato silenzio. La cosa che mi dà più fastidio è che, a ben vedere, ha anche ragione. Io non ne so niente, di ragazze. Di quello che possono pensare. Lo so. Quella storia con Adele non conta. Non posso dire di essere arrivato a conoscerla, non posso dirlo perché non è vero. Appunto. Mi sento abbastanza patetico.
Ma il fatto è che non voglio sentirmelo dire. Non voglio. Nella maniera più assoluta. Mi fa sentire un disadattato sociale, uno sfigato. Non voglio esserlo, non voglio sembrarlo ai suoi occhi.
“Non ti incazzare. Non era un’offesa” lui è tranquillissimo. Tranquillo in tutta la sua esperienza, in tutte le ragazze con cui esce, che dice di non voler trattar male ma tratta male lo stesso.
Insomma, lui non è cattivo. Non lo fa apposta. Piace e sa di piacere. Penso che, per un certo periodo (abbastanza breve) ci creda davvero, in quello che fa. Si guardi allo specchio e pensi questa è la volta buona, questa è la ragazza giusta. È che poi perde interesse, perde la voglia, perde tutto.
Inizia a non rispondere più ai messaggi, a evitare le telefonate, a dare buca agli appuntamenti. Secondo lui, questo è giusto. Per lui, questo non è far star male la gente. Non so come funzioni il suo cervello, probabilmente abbastanza male.
Sparire non vuol dire torturare. Sparire vuol dire lasciare il campo in maniera dignitosa e cortese. Nessuna spiegazione, insomma, ehi, meglio non farti sapere che sei un po’ troppo grassa, o che odio i tuoi denti e il modo in cui gesticoli quando devi dirmi qualcosa. Lo faccio per il tuo bene. Puoi anche immaginarti che io sia morto, insomma, quello che vuoi.
La trovo una cosa abbastanza stupida. Ma non mi va di mettermi a litigare per quello che lui fa con altra gente. Preferisco incazzarmi per il modo in cui lui si comporta con me.
“Cosa pensi di saperne, tu? Di me? Non ne sai niente. Tu ti metti lì, a dare giudizi, a dare le tue non richieste opinioni. E non te ne frega davvero, di come fai sentire gli altri. Inizia a parlare anche con quelle disperate delle ragazze con cui ti senti. Magari. Prova a farlo. Inizia a prenderti qualche responsabilità. Non ti comportare come un bambino. Come un codardo”.
Ecco, se so una cosa di Andre, è esattamente cosa dire per farlo incazzare. E infatti colgo nel segno. Si tira su di scatto e non so, forse vuole picchiarmi. Penso che voglia farlo. Purtroppo o per fortuna, non avrebbe dovuto lasciare il suo amato pavimento così in fretta.
Inizia a barcollare, ha una faccia buffa tra il sorpreso e il terrorizzato. Poi cade di nuovo per terra e sbatte la testa contro il tavolino.
Mi spavento in maniera indicibile. Ho paura che sia morto, e che in qualche modo sia tutta colpa mia.
“Andre! Andre! Andreas! Dimmi che sei vivo! Ti prego!” non so nemmeno se sia il caso di tirarlo su, di lasciarlo lì, di chiamare un’ambulanza. Mi accorgo che respira. Apre gli occhi. Mi guarda.
Non proprio uno sguardo lucido, non proprio uno sguardo intelligente.
Dice solo, mi dispiace.
Subito dopo, mi viene da vomitare.
E infatti vomita. Lì, sul tappeto. E anche un po’ sulle mie scarpe. Sui miei pantaloni, sulla sua felpa, sul divano. Mi fa piacere che questa non sia casa mia.
 
Nell’ora successiva mi trasformo in un’infermiera tutto fare. Lo infilo nella doccia in mutande, lui se ne sta lì appoggiato al muro, seduto sulla ceramica gelata, con gli occhi mezzi chiusi, trema dal freddo. Mi viene all’improvviso voglia di abbracciarlo, di dirgli che dispiace anche a me. Provo un sacco di sensazioni strane. Ma mi costringo a non pensarci, a non pensare a niente.
È Andre, è Andreas, sta male, sono il suo migliore amico, devo solamente aiutarlo e metterlo a letto.
E così faccio. Cerco una maglietta nell’armadio, gliela metto, mi sento un padre amorevole che cerca di far addormentare un figlio troppo vivace. Lo faccio sdraiare. Gli rimbocco perfino le coperte.
“Stai meglio adesso?”
Non risponde. Fa sì con la testa. Penso che stia già dormendo, ma poi mi prende una mano. Mi dice, non te ne andare. Resta ancora un po’ qui. Per favore.
“Devo pulire in sala, hai fatto un casino…”
“Puliamo domani…rimani”.
Mi sdraio vicino a lui. Non mi ha ancora lasciato la mano. Mi sento, non so, strano. Lo ammetto, mi sento confuso. Terribilmente.
Penso che è tutto perché non ho mai avuto una ragazza, una ragazza vera, una ragazza per davvero. E allora ci sta, essere confusi. Insomma, non so se ci sta, se ci sta per me. Ma succede. Non è un dramma.
Cerco di capire se per caso, non so, ho mai pensato a lui in un certo modo. Mi rispondo di no. Poi mi viene in mente che sì, in realtà una volta è successo. Nemmeno così tanto tempo fa. Ma era solo un gioco, solo per gioco.
Eravamo a una festa, un sacco di gente, una casa in collina, tutto normale. A un certo punto uno, uno qualsiasi, propone di fare il gioco della bottiglia. E tutti a dirgli, dio santo, quanto sei antico, ma dai, ste cose le facevo alle medie.
Poi le varie lamentele si erano spente e ci avevamo giocato sul serio. Io avevo dovuto baciare una ragazza più grande, una certa, boh, Marta. Poi, bere alla goccia una Corona. Poi, era capitato di dover baciare Andre. Tutti si erano messi a ridere, noi due compresi.
“Dai vabbè, per stavolta ve la scampiamo” aveva detto qualcuno, prendendo la bottiglia per girarla ancora. Quello che avrei voluto dire, mi era morto sulle labbra.
Mi ricordo solo che avevo guardato Andre, e ci avevo letto esattamente quello che pensavo anch’io.
Perché no.
Perché no? Non lo so. Non ne avevamo più parlato. Di certo, non ci avevamo provato più tardi, da soli. Era come se non fosse mai capitato. Lo giuro, me ne ero anche dimenticato. Non era stata una cosa indelebile. A dire la verità ero parecchio ubriaco. Tra noi, tutto normale come sempre.
E questa volta mi viene in mente, adesso.
Lui si gira verso di me.
Sembra stia dormendo. Siamo vicini. Potrei farlo. Potrei farlo, e sicuramente non se ne accorgerebbe. Oppure, non se lo ricorderebbe.
Tempo fa, si era ubriacato in discoteca. Portandolo a casa, mi ricordo che gli avevo fatto un discorso lunghissimo su qualcosa, mi ci ero davvero impegnato, e tutto quanto. Il giorno dopo, niente. Non si ricordava niente.
È un pensiero, non so, confortante.
Qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa potrebbe succedere, rimarrebbe tutto confinato in questa ora improbabile nella lotta. Recintato da qualche parte dentro di me, dentro un suo sogno alcolico poco chiaro e nebbioso.
Lo sto per fare. Mi giuro che, è solo per provare. Solamente così, solamente per fare, niente di che, niente di importante.
No. No, non posso.
Scivolo fuori dal letto alla velocità della luce. Lui non si sveglia. Ho quasi il fiatone. Non deve succedere.
 
Almeno, non quando lui non è nemmeno cosciente.
   
 
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