Anime & Manga > Rocky Joe
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Autore: innominetuo    16/04/2016    10 recensioni
Joe Yabuki ritorna sui suoi passi, dopo un anno di dolore e di rimpianto. La morte di Tooru Rikishi lo ha segnato profondamente. Ma il ring lo sta aspettando ormai da tempo.
E non solo il ring.
…Se le cose fossero andate in un modo un po’ diverso, rispetto alla versione ufficiale?
Storia di pugilato, di amore, di onore: può essere letta e compresa anche se non si conosce il fandom e quindi considerata alla stregua di un'originale.
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Questi personaggi non mi appartengono: dichiaro di aver redatto la seguente long fic nel rispetto dei diritti di autore e della proprietà intellettuale, senza scopo di lucro alcuno, in onore ad Asao Takamori ed a Tetsuya Chiba.
Si dichiara che tutte le immagini quivi presenti sono mero frutto di ricerca su Google e che quindi non debba intendersi il compimento di nessuna violazione del copyright.
Si dichiara, altresì, che qualsivoglia riferimento a nomi/cognomi, fatti e luoghi, laddove corrispondenti a realtà, sono puro frutto del Caso.
LCS innominetuo
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Bianche Ceneri'
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Avviso: mi scuso con i lettori per il turpiloquio presente nella prima parte del seguente capitolo. Purtroppo mi serve per la caratterizzazione del mio nuovo OC: ho il piacere di presentarvi… Mr. Dudley Walker!

°°°°°°

Una sera come tante nel Bronx, in un pub semibuio e puzzolente…


“Non capisco cosa cazzo ci vai a fare in Giappone. Proprio non lo capisco.”

Il ragazzo inforcò la stecca, per aprire il gioco. Si ripiegò con un unico movimento flessuoso del busto per mirare con calma il colpo, dopo aver dichiarato la sua biglia: il tiro perfetto gliela fece imbucare, dopo aver toccato una delle sponde del tavolo*.

L’altro sorrise, senza scomodarsi troppo a rispondere, attendendo tranquillamente il primo fallo dell’avversario per poter fare il proprio gioco: conoscendolo, sapeva bene che termini come “rispetto” e “regole” non facevano parte del vocabolario personale del suo amico.

“Allora? Non dici niente, Leon?”

Innervosito per il silenzio di questi, Dudley, o Dude per gli amici e per le pollastre del quartiere, sbattè con forza la stecca sul tavolo, spezzandola in due. Al crack del legno, Leon inarcò leggermente le sopracciglia, in segno di stupore.

“Si può sapere che diavolo ti piglia, fratello? Ora ti becchi il fallo… e quindi tocca a me.” replicò Leon sorridendo di nuovo ed inforcando a sua volta la stecca, dopo averne leggermente sfregato la punta con il gesso.

“Me ne sbatto i coglioni del fallo. Rispondi, piuttosto! Quando fai l’ebete mi fai incazzare!” Dude si appoggiò al tavolo, a braccia conserte, fronteggiando l’amico con espressione corrucciata. Leggermente più basso e tarchiato di Leon, lo fissava, cupo, di sotto in su, con grandi occhi neri dalla sclera eternamente iniettata di sangue. I due giovani uomini, entrambi afroamericani e cresciuti schiena contro schiena in una topaia del Bronx dal nome altisonante di “Condominio Esperanza”, da alcuni anni frequentavano, oltre alle stesse ragazze di vita, pure la medesima palestra di boxe.

Con una differenza sostanziale, però: Leonard Smiley, chiamato da tutti “Leon” e pure “The King”, rispetto all’amico aveva saputo dimostrare, nel corso del tempo, un notevole talento per la boxe. Egli era un vero fantasista del ring, capace di mutare la strategia di combattimento in modo camaleontico, di round in round, spesso spiazzando i suoi avversari e cogliendoli di sorpresa. Sovente gli stessi giudici si ritrovavano a dover ribaltare il verdetto, dato che ai punti The King riservava sempre un’ultima carta da giocare: ovvero, quella decisiva. Non per nulla, Smiley era diventato il primo classificato mondiale dei pesi medi: aspettava solo l’occasione giusta per poter agguantare Josè Mendoza in quel benedetto quadrato. Prima però lo stava aspettando un’altra sfida… dall’altra parte dell’oceano.

Una sfida a dir poco inaspettata.

“Te l’ho detto, no? Il mio coach si è messo d’accordo con la Federazione Pugilistica Giapponese per farmi fare un match a Tokyo nelle prossime settimane.” replicò con fare tranquillo. Chiamò una cameriera per ordinare delle birre alla spina: dopo un’amichevole pacca sul sedere della ragazza, si specchiò in una vetrata dell’armadio delle stecche, per poter controllare il suo nuovo taglio di capelli: oltre che un campione di pugilato, Leon sapeva essere molto vanitoso, cosa che gli procurava motteggi a non finire dagli altri fratelli del quartiere.

Lui chi sarebbe?” bofonchiò Dude, un po’ più calmo.

A differenza dell’altro, Dude Walker doveva al pessimo carattere ed alla sua incapacità di mantenere la calma il fatto di non essersi più di tanto distinto nelle classifiche pugilistiche, nonostante il talento innato come incontrista: spesso era stato squalificato in corso di match, avendo più volte commesso falli di ogni genere e persino insultato l’arbitro. Proprio in quel momento stava scontando come sanzione disciplinare un esonero di alcuni mesi dagli incontri ufficiali per le numerose scorrettezze perpetrate.

La rabbia accumulata ed il senso di frustrazione lo rendevano però molto pericoloso, come una bomba inesplosa: bastava un nonnulla per farlo reagire con violenza. Giusto quel pomeriggio aveva massacrato di botte un povero diavolo solo per un’alzata di sopracciglio di troppo… così, tanto per passare il tempo.

Come pugile, la sua forza distruttiva era inconfutabile ed affiorava già nel preciso istante in cui allargava le corde per poter salire sul ring: emanava tutto d’intorno a sé un’aura rossastra, fatta di sangue, sudore e lacrime, regalo di una vita disgraziata ed ai margini della società. La madre, ex prostituta ed alcoolizzata, ora gestiva con sua somma soddisfazione un piccolo bordello di puttane afroamericane e portoricane, troppo sfatte e malmesse per essere ammesse nei “giri” migliori. Del padre Dude non aveva mai saputo nulla, né la madre si era mai scomodata di dirgli chi diavolo fosse, mentre non aveva mai lesinato a “vezzeggiarlo”, sin da piccolissimo, con urla, improperi e schiaffi.

Tutto ciò non aveva avuto a che fare con Leon: questi, pur essendo nato e cresciuto nello stesso malfamato stabile del Bronx, aveva dei genitori poveri, sì, ma amorevoli con i figli, oltre che dignitosi ed onesti. Primo di una folta carrellata di bambini, Leon aveva sempre saputo essere un fratello maggiore buono ed affettuoso, oltre che un ragazzo rispettoso con i genitori e con gli insegnanti. Pure con il proprio coach, cui era affezionatissimo, aveva imparato a rispettare le regole sportive, rivelandosi sin da subito un ottimo boxeur oltre che un ottimo ragazzo. Non sapeva neppure lui perché non avesse mai smesso di frequentare quella canaglia indefessa di Dude. Forse gli si era affezionato proprio come ci si affeziona ai propri difetti ed a tutto ciò che ci fa più male.

Ma che ci attrae con il suo fascino nero.

Dopo essersi ristorato con una birra ben ghiacciata, Leon soppesò per un attimo con lo sguardo l’amico, ora intento a prendere dall’armadio una nuova stecca, dopo aver distrutto la prima. “Il tizio si chiama Joe. Il cognome non me lo ricordo. Ha stranamente un nome occidentale**. Mi sembra di aver letto qua e là degli articoli su di lui: ha da poco vinto ben due titoli. Pare che sia uno bello tosto. Il mio coach è molto entusiasta di questo match: dice che il jap sia molto ben introdotto nell’ambiente e che se lo sbatto giù volo di filato da Mendoza, liscio e beato come un fringuello!” concluse, tutto soddisfatto “E poi… sai una cosa? Son curioso di vedere qualcosina del Sol Levante: ogni tanto allontanarsi dalla puzza di casa propria fa pure bene!”

“Umpf. Secondo me è solo una grande stronzata. Mi chiedo che gusto ci proverai a incrociare i guantoni con un fottuto muso giallo: la boxe non è fatta per quella razza infame. Se ti va, visto che sei in vena di cineserie,” al che diede una pacca sulla spalla di Leon “domani o dopodomani possiamo farci una capatina a Chinatown… è da un po’ che non ci facciamo vedere da quelle parti.” una luce maliziosa gli si accese negli occhi scuri. “E poi le loro femmine mi piacciono. Mi fanno schifo le grassone di qua.”

“Ti ricordo che Yabuki – ecco, ora mi è tornato in mente come fa di cognome – è giapponese, non cinese!” a tale precisazione Dude sputò in terra come replica. “E parlando di femmine, giusto ieri sera ti ho intravisto mentre ti ripassavi Bess La Bambola in macchina… e di certo lei non è una silfide…” ridacchiò Leon.

“Sai com’è: al buio si assomigliano tutte. Allora, tira quelle cazzo di biglie, o qua facciamo notte.”

°°°°°°

Tokyo, quartiere di Namidabashi, una mattina di qualche giorno dopo…


Danpei pareva esser stato morso dalla tarantola, non riusciva a starsene tranquillo e composto: continuava a fare su e giù per le scale, scattando qua e là come una scheggia impazzita.

“Ehi vecchio, calmati: se continui così ci scavi una trincea e qua crolla tutto!” bofonchiò Joe, peraltro invano: Tange non lo stava a sentire. Non avrebbe sentito neppure una cannonata, se era per questo.

Nishi sorrise: erano ancora loro tre, come ai vecchi tempi. Covava con sguardo affettuoso il suo migliore amico ed il suo ex allenatore che si stavano ambientando nella loro nuova palestra, le cui chiavi erano state solennemente consegnate dal capocantiere solo poche ore prima, in segno augurale.

Il sogno di una vita intera era finalmente divenuto realtà…

In uno spiazzo erboso non molto distante dal Ponte delle Lacrime si ergeva ora una palazzina di due piani in cemento chiaro, con la sua bella insegna come “Tange Boxing Club” e con delle ampie finestre le cui vetrate scintillavano al sole. Essa era piccola: ma moderna ed efficiente, ariosa e piena di luce. Non mancava di nulla: al piano terra era stata allestita una palestra fornita di tutte le apparecchiature sportive necessarie per la boxe, con al centro un bellissimo ring da allenamento che profumava di buono e di pulito. In una fila di armadietti di un bel rosso smagliante erano riposti guantoni di varie once, caschetti protettivi, paradenti e kit di pronto soccorso. Tutto era nuovo e di ottima qualità, sia di marca giapponese che americana. Le due cinture vinte da Joe facevano bella mostra di sé nella teca di vetro commissionata da Tange ad un valente artigiano della zona: tali trofei erano il simbolo di un domani agognato e sospirato, che era costato lacrime e sangue e che ora poteva essere finalmente tenuto ben stretto tra le mani.

Per questo Tange non riusciva a starsene fermo: cianciando a più non posso, ripercorreva più e più volte tutti i locali della palazzina, con la scusa di controllare “che tutto fosse a posto, con tutti i casini che combinano gli operai”, toccando ogni cosa, accendendo e spegnendo gli interruttori, aprendo ante e cassetti.

Joe e Nishi, che cercavano invano di stargli dietro, si guardarono l’un l’altro con aria rassegnata, capendo che conveniva loro portare pazienza…

Al primo piano, proprio come fortemente voluto da Danpei, si trovavano: una bella cucina, dotata di tutti gli elettrodomestici più moderni; una luminosa sala da pranzo all’occidentale; la sala da bagno, tutta piastrellata di bianco; i dormitori in stile tradizionale dai freschi tatami e dagli armadi ad ante scorrevoli, così da sfruttare al massimo gli spazi per la convivenza di più persone.

Del resto, dal momento in cui Joe e Tange avevano fatto ritorno da Honolulu, si era perso il conto dei giovani di belle speranze che si erano presentati al coach: quei ragazzi, provenuti da ogni angolo del Giappone, desideravano darsi alla boxe nella speranza di poter emulare, un giorno, il nuovo idolo delle cronache sportive nazionali. Adesso che la nuova palestra era pronta ed arredata di tutto punto, Joe e Tange avrebbero convissuto con una mezza dozzina di ragazzi promettenti, già esaminati e selezionati scrupolosamente: Danpei non voleva infatti trascurare Joe per allenare troppi pugili, tanto più che neppure le dimensioni della palestra stessa consentivano di ospitare tante persone. Pochi ma buoni, questo era stato il verdetto inappellabile del coach.

“Allora, ormai è tutto deciso per il mio prossimo incontro: Leon Smiley dovrebbe arrivare nei prossimi giorni, giusto?” chiese Joe, mentre sistemava le sue cose nell’armadio, dopo che Nishi se n'era tornato alla drogheria con gli ordini di Danpei per rifornire la dispensa.

“Proprio così. Tra dieci giorni esatti ti incontrerai con l’americano. Bisogna intensificare gli allenamenti. È il primo in classifica, dopo Mendoza, quindi non esattamente un pugile qualunque. Se vincerai l’incontro con Smiley, quello con il Campione potrà anche essere anticipato, Shiraki-sama e i suoi contratti permettendo… ovviamente.”

“Uhm. Per quanto mi riguarda, Leon Smiley è un capitolo già chiuso ancora prima di iniziare.” ribattè Joe in tono secco, lasciando Tange un po’ basito. “Vado a farmi una corsetta prima di cena. A dopo.”

Quella sera, dopo aver mangiato da solo con Danpei per l’ultima volta, dato che già al mattino seguente avrebbero fatto colazione in otto, Joe si ritirò su nel dormitorio. Passò un’ora; ne passarono due, tre.

Niente da fare: il sonno tardava ad arrivare.

Il letto era troppo morbido, l’odore della stanza non era lo stesso cui era abituato da diverso tempo a questa parte. Sbuffando, Joe si rimise in piedi, agguantando i vestiti con una manata. Cercando di non fare rumore, sapendo che Danpei riposava nella stanza a fianco, lasciò la palestra.

Lentamente, si portò fino al Ponte per ridiscenderlo, una volta di più. Infilò la chiave nella toppa della sua vecchia casa, tirando finalmente un sospiro di sollievo.

Com’era piccola ed angusta… spoglia e triste, quella baracca di legno, rappezzata qua e là col bitume. Ma Joe conosceva centimetro per centimetro quella costruzione: sapeva in che preciso punto il pavimento fosse un po’ sconnesso, con un paio di assi leggermente sollevate, avendoci incespicato milioni di volte. In un altro punto, invece, il legno scricchiolava lamentosamente, dato che le infiltrazioni di pioggia avevano indebolito l’impiantito, facendolo marcire ed annerire.

Le corde del vecchio ring erano state allentate e parevano starsene lì, adagiate mollemente sul pavimento, quasi come se piangessero.

Joe le accarezzò dolcemente.

Quanto sangue aveva visto quel pavimento, più volte ricucito a mano dal povero Tange… Nessun altro ring da allenamento avrebbe mai potuto degnamente sostituirlo, perché solo quel piccolo, vecchio quadrato liso e malmesso aveva rappresentato il desiderio di riscatto e di rinascita sospirato da uomini lasciati ai margini della società. Joe pensava a tutto questo, mentre si guardava intorno, provando un forte senso di malinconia.

Respirò a fondo, per sentire nelle nari, ancora una volta, l’odore di quella piccola palestra.

Di certo non poteva essere dei migliori, nonostante tutti gli sforzi da sempre prodigati da Joe stesso e da Danpei di tenere tutto pulito e in ordine: d’altronde, la palestra era stata costruita con materiali di fortuna nei pressi di un fiumiciattolo dalle acque rese sporche e maleodoranti dai rifiuti della gente del quartiere. Si decise quindi a salire la scaletta di legno, per potersi buttare a peso morto sul suo vecchio letto.

“Solo per stanotte. Una notte soltanto…” mormorò tra sé e sé, stiracchiandosi tutto soddisfatto.

Ad un certo punto, sentì avvicinarsi dei passi con un ben noto tossicchiare. Sorrise quando vide emergere la testa calva di Tange. “Ma… che cavolo ci fai tu qua?” brontolò questi.

“Senti chi parla!” ridacchiò il ragazzo “Pure tu non ce l’hai fatta a resistere… ammettilo!”

Tange rise a sua volta, lanciando una bottiglia di sakè a Joe, che la prese al volo.

“Goccetto?”

_________________________________

Spigolature dell’Autrice:


*il tipo di biliardo da me accennato è il cd. “Straight pool” ed è molto diffuso negli States, in cui lo scopo del gioco è quello di raggiungere per primi un punteggio prefissato. Ogni biglia imbucata vale un punto: per punteggiare in modo regolamentare si deve però specificare quale biglia si vuole imbucare e in quale buca prima di poter effettuare il tiro. Si gioca con quindici biglie numerate da 1 a 15, più una battente bianca. (fonte: Wikipedia).

**Il nome di Joe nell’opera originale in realtà è scritto come “Jō” con il sistema di scrittura giapponese del katakana, ovvero quello meno usato. Per la precisione, vediamo che il moderno sistema di scrittura della lingua giapponese utilizza ben tre principali tipi di caratteri: i logogrammi (kanji), due sillabari (hiragana e katakana) e l'alfabeto latino in casi ristretti (rōmaji). I kanji, di origine cinese, sono 2997 (quelli più comuni, noti come jōyō e jinmeiyō kanji), e vengono utilizzati soprattutto per sostantivi di uso comune, verbi, aggettivi e nomi propri di persona; i due sillabari (kana) contengono ciascuno 46 caratteri di base (71 compresi i segni diacritici), ognuno dei quali corrisponde ad un suono nella lingua giapponese, vengono utilizzati nella flessione linguistica dei verbi e degli aggettivi e nelle particelle grammaticali. Quasi tutte le frasi giapponesi contengono sia kanji che hiragana, mentre più raramente viene utilizzato il katakana: quest'ultimo viene utilizzato per la traslitterazione delle parole e dei nomi stranieri - come quello, per l’appunto, del nostro ragazzo - per la trascrizione di nomi scientifici di animali e piante e per i versi degli animali. A causa di questa miscela di caratteri, oltre a un grande inventario di caratteri kanji, si comprende la grande complessità del sistema di scrittura giapponese! (fonte: Wikipedia).

Il personaggio di Dudley Walker è di mio esclusivo appannaggio. Cenni a persone, fatti, luoghi realmente esistenti, quivi va considerato come puro frutto del caso.

Bene, miei cari Lettori: al prossimo capitolo ci rivedremo sul ring…e capiteranno un po’ di cosette. Il capitolo che avete appena letto funge da preludio per nuovi eventi! Ringraziando i miei meravigliosi recensori per avermi gratificato con 200 gentilissime recensioni, Vi abbraccio e Vi auguro una serena settimana!

Alla prossima!

i.
  
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