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Autore: _grey    20/04/2016    1 recensioni
Missing-moment/Prequel de Lo psicologo e il genetista, in cui si racconta la vita di Richard Cavendish, Zero, fino al suo incontro con Frank.
Genere: Angst, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note alla fine della storia * 
24 novembre 1968
 
Richard Cavendish era nato il ventiquattro novembre 1968 in una piccola e modesta cittadina alla periferia di Londra, da Charlotte Elizabeth e William Senior. Era il penultimo di quattro figli: William Jr. il primogenito, Dorothy la mezzana, lui e George, il più piccolo.
Nonostante qualche contrasto con il padre e una divergenza importante a livello caratteriale con il fratello maggiore, la famiglia era sempre stata unita e si erano sempre sostenuti l'un con l'altro a vicenda. La madre era una pittrice, il padre un politico abbastanza influente nella vita cittadina; William aveva seguito le orme paterne studiando commercio estero, Dorothy era laureata in lingue, ma aveva abbandonato la carriera quando era rimasta incinta e si era sposata. Adesso si prendeva adorabilmente cura di suo marito e del piccolo Henry. Richard aveva fatto psicologia alla Boston University grazie a una borsa di studio e George, a quanto pareva, era un eccellente scrittore. Un prodigio naturale venuto fuori per puro caso mentre studiava matematica all'università. Un concorso indetto da un'altra facoltà al quale si era iscritto più per noia che per vera ambizione: aveva partecipato e non gli era bastato vincere, aveva proprio sbaragliato, con la conseguenza che diverse case editrici lo avevano contattato per la pubblicazione. Richard aveva riso non appena sua madre glielo aveva detto per telefono, dalla matematica alla letteratura: tipico di George, per il quale le vie di mezzo non esistevano affatto. Gli ricordava vagamente qualcuno di sua conoscenza, come anche Charlotte si era premurata di esternare ed entrambi avevano riso di nuovo.
Richard si era guadagnato anche il soprannome "Zero" a causa della sua attitudine a vedere le cose o solo bianche o solo nere, o zero o cento, come i suoi compagni di università lo avevano apostrofato. "Zero-cento" era presto stato abbreviato in solo Zero e da allora era così che si era sempre presentato a chiunque, compresi i ragazzi del centro di sicurezza preventiva dove lavorava.
Era una struttura per minorenni in riabilitazione sociale, ragazzi che avevano commesso crimini minori e che frequentavano il centro su ordine di un giudice per prevenire, attraverso la risocializzazione, il pericolo di un'ulteriore condotta criminale.
Svolgevano lavori manuali, dal coltivare la terra in qualche colonia agricola all'occuparsi degli anziani alla casa di cura in città; godevano della libertà vigilata e avevano il pieno sostegno di un team di psicologi che dovevano obbligatoriamente vedere almeno una volta a settimana. La frequenza della terapia era stabilita dal giudice stesso al momento in cui venivano pronunciate le condizioni della misura di sicurezza.
Ogni psicologo seguiva un massimo di tre ragazzi alla volta, proprio perché ognuno di loro avesse la massima occasione di rimettersi in pista e non farsi condizionare l'esistenza da un banale errore di gioventù. Il grande sogno americano riversava le sue speranze sui suoi volenterosi giovani.
Correva il freddo 1991 ed era già un anno che Zero lavorava al centro dando tutto se stesso a quei ragazzi in cui credeva più lui delle loro stesse madri, quando prese per la prima volta tra le mani il fascicolo riguardante Maximilian Johnson, Max. Passò gran parte del fine settimana a leggerlo e studiare ogni singolo particolare della sua storia, dimenticandosi persino di mangiare o di dormire.
Max era nato il quindici febbraio 1977 da una madre che aveva optato per lasciarlo davanti alla porta dell'orfanotrofio e da un padre di cui, probabilmente, anche lei aveva visto solo il seme. Max era finito in affidamento, cambiando famiglia più e più volte come purtroppo succedeva troppo spesso. L'ufficio adozioni e gli assistenti sociali facevano del loro meglio, ma c'era sempre qualcuno per cui un bambino in più in casa equivaleva unicamente ad avere un assegno extra il mese e, sebbene la maggior parte dei casi venissero scoperti e revocato il permesso ai genitori affidatari, i bambini erano comunque sballottati da una famiglia all'altra come pacchi postali. Max non aveva avuto questa "fortuna". Dopo due adozioni non andate a buon fine, la famiglia a cui era stata affidata la sua vita di bambino di quattro anni era una vecchia conoscenza dell'orfanotrofio: brava gente che aveva offerto la propria casa e il proprio amore a bambini sfortunati, piuttosto che optare per averne di propri. Accoglievano in casa creaturine appena nate o ragazzi già grandi, sciorinando parole dolci e affettuose, facendo vedere loro che qualcuno in grado di amare al mondo esiste davvero e preparando succulente colazioni e deliziosi pranzetti. Gli assistenti sociali facevano loro visita ormai per mera formalità e ogni volta era finalmente un piacere trovare una casa in ordine, pulita, i ragazzi a scuola o a studiare e i genitori che leggevano amabilmente il giornale in salotto.
La signora Winnitech preparava tè e biscottini al burro non appena vedeva l'anziana Carol Black sulla soglia di casa. Carol era una donna sulla sessantina, i capelli grigi spiccavano ancora di più sulla corpulenta costituzione di donna afroamericana della prima metà degli anni cinquanta. Era entrata a lavorare nei servizi sociali perché era stata lei stessa una vittima del sistema e si era ripromessa di cambiare le cose, di non permettere mai a nessun bambino di passare ciò che avevano passato lei e i suoi fratelli. Non sempre era riuscita nel suo intento, ma almeno ci aveva provato. La famiglia Winnitech-Johnson erano senza ombra di dubbio il suo più grande orgoglio.
Miranda e Arthur Johnson avevano una piccola ditta familiare, lei creava graziosi centrini all'uncinetto che lui provvedeva a piazzare presso i negozi locali o i cataloghi che spedivano via posta. Sia Carol che l'ufficio affidamenti si erano sempre chiesti come questo bastasse a mantenere loro stessi e una schiera di figli che variava sempre da un minimo di due a un massimo di sei. Ancora non riuscivano a spiegarselo, ma i Johnson pagavano le bollette e non facevano mancare niente ai ragazzi.
Apparentemente.
Nel 1990, appena l'anno prima, c'era stata una segnalazione anonima (ma si supponeva con abbastanza certezza che si fosse trattato del vicino dei Johnson) di una lite domestica piuttosto violenta al 220 di Washington Street, l'indirizzo dei Johnson. Trattandosi di una famiglia affidataria furono subito avvertiti anche i servizi sociali che credettero si trattasse di un errore fin quando non entrarono in casa insieme alle forze dell'ordine e ai paramedici dell'ambulanza trovando Arthur Johnson ferito gravemente a una gamba da un'arma da taglio e l'allora tredicenne Max seduto sul pavimento della sala in stato di shock e con un lungo coltello da cucina tra le mani. Arthur fu portato d'urgenza al vicino ospedale con Miranda al seguito e i medici non furono in grado di salvare il nervo colpito, sentenziando così una neuropatia da intrappolamento del nervo femorale, che portò Arthur a una condizione perenne di zoppia che perpetuava ancora oggi. Un agente aveva seguito i coniugi Johnson per raccogliere la loro deposizione, mentre gli altri due e Carol Black, l'assistente sociale affidata al caso, erano rimasti al 220 di Washington Street per parlare con i figli. All'attivo della famiglia Johnson all'epoca dei fatti si contavano quattro ragazzi in affidamento: Mike di quindici anni, Max di tredici, Debby otto e il piccolo Stewart di appena tre, che fu immediatamente escluso dalle domande della polizia e accompagnato di nuovo a letto dalla signora Black. Forse a causa dell'assenza dei genitori, condizione più unica che rara, le chiese nella sua innocenza se poteva andare via con lei. Carol Black interpretò quella richiesta come quella proveniente da un bambino impaurito dagli eventi appena accaduti.
Gli agenti portarono Max in centrale dopo una prima ricostruzione dei fatti con gli altri ragazzi che non spiccicarono parola e la signora Black chiamò la responsabile della sua divisione affinché mandasse qualcuno per stare con i Johnson mentre lei seguiva Maximilian.
Max non parlò per tre giorni e tre notti e nemmeno il breve periodo al carcere minorile bastò a dissuaderlo dal suo silenzio. Quando vennero pronunciate le accuse, basate unicamente sulla testimonianza dei Johnson che avevano dichiarato che il ragazzo era improvvisamente impazzito e aveva colpito il padre nel sonno con un coltello, venne detto a Max che sarebbe tornato a casa durante tutto il processo e che era fortunato ad avere dei genitori tanto buoni e pazienti. Quel giorno parlò. Disse che avrebbe preferito rimanere al riformatorio.

Il processo durò poco meno di un anno e né dalla testimonianza di Max, né da quelle dei suoi fratelli o dei ragazzi passati per quella casa prima di loro, venne fuori niente di rilevante. Tutti i figli rilasciarono la medesima versione, come una specie di copione montato ad arte da un regista poco intelligente ma decisamente efficiente. Basandosi unicamente sui fatti presentati nell'aula del tribunale minorile, Maximilian Johnson si era alzato nel cuore della notte, era andato in cucina a prendere un coltello trinciante e si era diretto in camera dei genitori affidatari per accoltellare suo padre, sbagliando probabilmente misura e ferendolo solamente a una gamba, pericolosamente vicino all'inguine.
Arthur Johnson, in preda a uno shock tale da non sentire nemmeno il dolore, si era alzato e, con ancora il coltello piantato nella coscia a fermare l'emorragia, aveva rincorso Maximilian fino in giardino, dove era riuscito ad agguantarlo per il bavero della giacca del pigiama e ad arrestare la sua fuga scaraventandolo a terra. Era stato allora che era accorsa Miranda Winnitech, coniuge della parte lesa e madre affidataria dell'imputato. Aveva gridato (non era stato appurato se erano grida di terrore o inveizioni contro il figlio) e qualcuno del vicinato aveva chiamato le forze dell'ordine. Il resto dei fatti era noto a tutti e già a verbale delle autorità.
Durante il processo la difesa di Maximilan aveva insistito particolarmente alla condizione familiare dei coniugi Johnson, sulle vicende dietro una facciata felice e apparentemente perfetta, lasciando presupporre cio che probabilmente tutti (accusa e giudice compresi) avevano intuito senza però poter far niente per dimostrarlo, senza una diretta ammissione di almeno uno dei figli affidatari.
Il giudice del caso, Laura Prepkins, trentasette anni e madre di un bambino di tredici mesi, aveva fatto il possibile per evitare a Max una condanna e aveva optato per la riabilitazione sociale al centro di sicurezza preventiva.
Zero aveva già capito tutto solo leggendo il fascicolo e senza aver ancora mai visto il ragazzo; quello che non aveva previsto era la corazza di rabbia nella quale Max si era nascosto facendoci il nido e sfruttandola come uno scudo che impediva al mondo intero di vedere il suo vero io, la sua vera sofferenza. Il loro primo incontro si era svolto al centro, nella saletta arancione, la più piccola e familiare. Zero aveva pensato che quella fosse la scelta più adatta per poter iniziare a stabilire un rapporto che mirava a mettere le basi per qualcosa di abbastanza simile alla fiducia. Per la prima volta forse si era sbagliato.
Max si era presentato con un bomber nero stinto, le mani in tasca, i jeans logori. Né un sorriso, né un cenno di saluto era uscito da quella sua apparenza fatta di diffidenza e sfiducia verso il mondo intero, se stesso compreso.
Zero si era presentato, lo aveva fatto sedere, gli aveva offerto da bere e si era guardato le mani tatuate. Il suo corpo completamente ricoperto di chiassose opere d'arte su pelle, era sempre stato un ottimo argomento per rompere il ghiaccio: di solito i ragazzi che incontrava per la prima volta erano irrimediabilmente attratti da quei teschi, quei disegni, quei numeri e quelle lettere e bastava un loro sguardo per far sì che Zero notasse un accenno di interesse e trovasse il pretesto ideale per instaurare una sorta di conversazione generale. Qualcuno gli chiedeva se si provava dolore ("Se se ne provasse veramente tanto, si vedrebbe sempre più gente ricoperta di tatuaggi?" era la sua risposta), altri cosa rappresentassero ("Una storia, ognuno ha la sua storia."), altri ancora se lui poteva fare le veci di un genitore e accompagnarli a farsene uno a loro volta. Nonostante fosse assolutamente vietato interferire con le vite dei propri pazienti sia dal codice deontologico, sia dalle rigide regole del centro, a volte nel più totale segreto aveva acconsentito. A Zero le regole non erano mai piaciute ed era disposto a qualsiasi cosa, qualsiasi compromesso o infrazione pur di raggiungere lo scopo personale di aiutare ogni ragazzo fosse passato dal suo studio.
Max aveva gettato uno sguardo distratto alla data tatuata sulle nocche dello psicologo e aveva velocemente abbassato lo sguardo.
Il 24 febbraio 1990 era il giorno in cui, lo Zero ventiduenne di appena un anno prima, aveva ricevuto l'incarico di psicologo al centro di sicurezza preventiva per i minori in riabilitazione sociale.
«E' stato il primo giorno in cui ho messo piede in questa struttura, proprio in questo studio a dire il vero.»
Max aveva alzato mento e spalle e aveva storto la bocca in una smorfia di noia e disinteresse, spostando lo sguardo verso destra e fissando un punto imprecisato tra il pavimento e la fessura sotto la porta.
Zero aveva appena sorriso sentendo qualcosa incrinandoglisi dentro e si era chiesto come avrebbe fatto a scalfire quella corazza e quel finto menefreghismo senza rischiare di apparire invadente. Per ora avrebbe optato per il silenzio, prima o poi Max avrebbe trovato la voglia di parlare. Fosse anche data dalla disperazione.
O dall'esasperazione.

La pena di Max prevedeva che il ragazzo frequentasse il centro per tre anni e diciotto mesi, tutti i giorni tranne la domenica prestando il suo servizio contribuendo con attività manuali di manutenzione della struttura e incontrandosi con lo psicologo quattro volte a settimana. Per tutto il primo mese di sedute l'unico a parlare era stato Zero. Aveva provato ogni cosa per cercare la via di accesso più agibile, ma nemmeno una era praticabile a quanto pareva. Aveva tentato con la simpatia, il mostrarsi amico, con la durezza e lo charme. Con proposte e mezzi ricatti, aveva usato ogni mezzo a sua disposizione e poi un giorno, palesemente, aveva dichiarato la sua resa sprofondando nella poltrona davanti a un Max come al solito silenzioso e sbuffando un "mi arrendo" che aveva fatto male ad entrambi. Max si era voltato e lo aveva guardato e Zero aveva risposto con lo sguardo senza proferire parola.
Ancora non sapeva come era successo e come faceva a saperlo, ma qualcosa dentro di lui gli diceva che in quel preciso istante, i due avevano dialogato per la prima volta.
"Tanto si arrendono tutti con me", gli aveva detto Max e Zero aveva risposto che non avrebbe voluto farlo, ma che lui non gli dava altra alternativa.
«Puoi sistemarmi?» Aveva chiesto il ragazzo questa volta dando voce alla sua domanda.
Zero aveva annuito e si era alzato per raggiungere Maximilian e stringerlo in un abbraccio, perché qualsiasi grazie del mondo non avrebbe reso nemmeno l'idea di quanto gli fosse veramente grato.
L'impressione era che Max stesse singhiozzando, ma sicuramente non era dovuta ad altro che alla sua fervida immaginazione.

Gli incontri successivi erano andati leggermente meglio. Certo, ancora gli avvenimenti di quella notte erano tabù, ma almeno di cose frivole e stupide riuscivano a parlare. Max era un grande tifoso dei Los Angeles Dodgers e avrebbe potuto scrivere un libro da quante cose sapeva sull'ex franchigia di Brooklyn, New York. Mike Scioscia era il suo mito e da quando Max si era trasferito al dormitorio annesso al centro, non perdeva una partita o un'apparizione televisiva del ricevitore storico della squadra. Zero aveva provato a chiedergli se era stato sempre così, se anche quando era a casa seguisse con tanto interesse le avventure del suo team, ma Max aveva abbassato lo sguardo sulle mani conserte in grembo e si era richiuso nel suo solito mutismo. Facendo finta che niente fosse successo, Zero aveva abilmente cambiato argomento.

Quattro mesi più tardi Max era arrivato nello studio arancione con le nocche della mano destra arrossate e ferite quasi di fresco; era stata la prima cosa che Zero aveva notato e che anche Max aveva notato che Zero aveva notato. Contrariamente a quanto forse il ragazzo si aspettasse, lo psicologo non aveva chiesto niente, mettendosi seduto e facendo finta di appuntare qualcosa su un taccuino. Non aveva alzato lo sguardo per i successivi cinque minuti, per calmarsi e non cedere alla tentazione di chiedergli subito cosa fosse successo. Pare che il bisogno di qualcosa lo si noti nel momento in cui quel qualcosa viene a mancare e, evidentemente, il celato disinteresse di Zero aveva fatto sorgere in Max la voglia di parlare.
«Ho tirato un pugno allo specchio.»
Zero sentì come un cazzotto che lo colpiva in pieno petto, ma restò impassibile mormorando appena un "mmh mmh" e continuando ad appuntare parole a caso sulla carta con la sua penna a sfera nera.
«Ho una cicatrice qui sul mento, me la sono fatta quella notte. Si vede appena, ma la odio. La-odio
Altro cazzotto, altra indifferenza, la penna a sfera ferma nel medesimo punto tanto da creare una macchia di inchiostro sempre più grande.
«Arthur portava sempre un altro anello sopra la fede, uno di quelli in oro con la pietra nera come si vedono spesso nei film di mafia. Me lo sentivo sempre premere sul collo quando mi teneva fermo per scoparmi e quella sera mi ci ha tirato un pugno così forte da aprirmi e lasciarmi una cicatrice. La odio.»
Zero alzò lo sguardo ormai impossibilitato a rimanere nascosto nella sua maschera di indifferenza. Alzò lo sguardo e lo incrociò con quello di Max che lo guardava come se non avesse detto niente di particolare, come se gli avesse appena descritto i titoli del giornale, invece che aver ammesso uno stupro. Fece anche spallucce e scosse la testa come a voler chiedere "che c'è?"
Zero la scosse di rimando, alzando le sopracciglia prima e sbattendo più volte le palpebre poi.
«Ti rendi conto di quello che hai appena detto?» Gli chiese.
«Cosa? che mio padre affidatario mi ha tirato un pugno? Non era mica la prima volta che lo faceva.»
Per la prima volta in vita sua, fu Zero quello a rimanere senza parole.

«Abiti in un loft? Dio, scherzi, vero?»
Zero scoppiò in una risata cristallina mentre metteva il chiavistello alla serranda scorrevole che fungeva da porta del suo appartamento. Sì, abitava in un loft ricavato all'ultimo piano di una vecchia fabbrica abbandonata. Soho era così d'altronde: niente di ordinario all'interno dello straordinario, gli piaceva proprio per questo. L'affitto era un po' alto certo, ma sti cazzi, la vita era una sola.
Quella sera c'era l'incontro del secolo per Max: Dodgers contro Giants, gli avversari storici dei Grays. Zero era da sempre un tifoso degli Yankees, quindi ciò che avveniva nella divisione ovest non era affar suo, ma Max parlava di quella partita da dieci giorni e Zero allora aveva organizzato la serata ordinando pizza e mettendo in fresco un paio di birre. Due, non di più. Giusto per salvare almeno le apparenze. Il dormitorio del centro aveva regole piuttosto rigide, ma coloro che alloggiavano lì volontariamente e che non erano soggetti a ordinanze restrittive o pene detentive godevano di una certa libertà. Max rientrava in questo esiguo gruppo di privilegiati.
«Cos'ha che non va il mio appartamento scusa?»
«Kitsch.»
«Ma se è tutto l'opposto del kitsch!»
Max aveva fatto spallucce e liquidato il discorso con un gesto della mano e Zero, dopo uno sbuffo e una mezza risata, era andato in cucina a tirare fuori le birre dal frigo e a prendere due bicchieri dal mobile laccato nero che faceva parte dell'arredamento minimal, non assolutamente kitsch.

«E' stato in quel momento che Maximilian Johnson ha iniziato a frequentare casa sua?»
«Sì.»
«E quante altre volte c'è tornato prima della notte in cui si sono svolti i fatti?»
«Diverse.»
«Dottor Cavendish, la pregherei di essere più preciso. Avanti, cerchi di ricordare.»


«Max, credo che tu debba iniziare a valutare il fatto che ciò che ti è successo, che ciò che ti faceva tuo padre, non era affatto una cosa normale.»
Tra lui e Max un po' di ghiaccio si era sciolto, vuoi per le partite di baseball che avevano guardato insieme, vuoi perché era stato Zero a fargli bere la sua prima birra, o vuoi per entrambe le cose messe insieme, ma un po' di ghiaccio si era sciolto. Riuscivano a lavorare bene l'uno con l'altro, avevano instaurato un rapporto di fiducia reciproca e potevano parlare e scandagliare qualsiasi argomento. Tutti, tranne uno.
Zero se l'era segnato nel suo taccuino e in uno dei mille post-it con i quali era solito tappezzare la prima pagina di ogni fascicolo con cui avesse a che fare: Maximilian non capiva che un padre, affidatario o no, non doveva assolutamente cercare attenzioni sessuali dai propri figli. La questione pugni o percosse era passata momentaneamente in secondo piano, a pro di una questione ben più importante. Mediante vie non ufficiali Zero aveva anche avvertito Carol Black di vigilare maggiormente sulla famiglia Johnson, non menzionando ciò che era emerso dalle sedute con il suo paziente, ma lasciandole intendere di porre la massima attenzione su ciò che realmente accadeva dietro le tendine candide e ricamate al 220 di Washington Street.
«Lui mi dava un tetto, cibo, vestiti e un'istruzione e io non avevo niente da rendergli in cambio. Quando ero piccolo, subito dopo avermi adottato, aiutavo Miranda con i centrini, per quanto possa aiutare un bambino di tre anni; in verità allora mi sembrava di aiutarla, ma se ci ripenso adesso è probabile che sia stato più di impiccio che altro.»
Zero annuì con un sorriso e gli occhi leggermente rivolti al cielo. Tuttavia tornò subito a posare di nuovo lo sguardo sulla nuca del ragazzo sdraiato sul lettino davanti a sé.
«Prima è stato il turno di Mike, mio fratello maggiore, Arthur mandava lui a consegnare i centrini e quando tornava aveva sempre un'aria stanca, abbattuta, triste. Poi, un giorno, ha mandato me e ho capito perché. Non è stato bello, affatto. L'amico di Arthur era un ciccione con il quale, a quanto ho capito, mio padre aveva perso una giocata ai cavalli. O forse aveva vinto, non lo so, perché il tizio una volta finito mi ha dato dei soldi e mi ha detto di portarglieli. "Per i centrini", aveva detto. Poi comunque è stato più facile e dopo ancora, a volte, veniva direttamente mio padre. Non era diverso dal solito e col tempo ho imparato che meno mi ribellavo e prima lui faceva. Prima tutti facevano.»
Restare in silenzio, impassibile e cercare di mascherare la voglia tremenda di prendere a cazzotti la prima superficie disponibile, fu un'autentica tortura per Zero, che non riusciva ancora a capacitarsi se a stupirlo di più erano i fatti che Max stava raccontando o il tono piatto ed inespressivo con il quale lo faceva. Decise di chiudere gli occhi, dimenticarsi per un attimo il legame affettivo che sentiva verso quel particolare paziente e fingere che, sdraiata sul lettino, ci fosse un'altra persona qualunque. Staccò in pratica la parte cosciente del suo cervello e proseguì con il pilota automatico. A volte era l'unica cosa da fare.
«Cos'è cambiato da quando era tutto normale, al momento in cui hai piantato un coltello nella coscia di tuo padre tentando di ucciderlo?»
«Che quel giorno avevo scoperto che anche Debby faceva le consegne. E non so da quanto.»

«Sei sicuro che posso dormire qui? Non è che poi mi fanno storie giù al centro?»
«No, tranquillo. Ti ho firmato io un permesso straordinario, non c'è niente di cui devi preoccuparti.»
«Beh, allora grazie. Quel tizio al dormitorio proprio non lo sopporto. Sempre a parlare di quanto lui sia importante, il giro, i ricavi, il taglio della roba... Manco sa che è.»
Zero soffocò un risolino, mai e poi mai si sarebbe abituato a sentir parlare dei bambini troppo cresciuti a quel modo. Sembravano piccoli boss di paese intrappolati nel corpo di quindicenni con ancora peluria al posto di baffi e barba. Erano a metà tra il comico e il triste. Max no, Max aveva ancora un briciolo di beata innocenza sotto quintali e quintali di cinismo e disillusione verso il mondo intero. Non credeva che il mondo fosse un bel posto, o che la vita fosse facile e luminosa, tutt'altro, ma si vedeva chiaramente che, nel più profondo del suo cuore e della sua anima, in verità avrebbe voluto crederlo con tutto se stesso. Aveva ancora la debole e tremante luce della speranza in fondo allo sguardo ed era esattamente a quella che Zero stava puntando. Non solo durante le sedute, direttamente in ogni cosa che faceva o diceva. Gli avrebbe dimostrato che non tutte le persone erano come quelle che aveva conosciuto lui, che c'è anche chi vuole aiutarti perché lo rende felice farlo e che lo fa assolutamente senza volere o pretendere niente in cambio. Per questo motivo quella sera aveva ordinato due pizze e gli aveva detto che sarebbe potuto rimanere a dormire da lui visto che il Super Bowl sarebbe finito a notte inoltrata. Per una sera l'anno il football faceva da padrone e, indipendentemente da qual era la tua squadra, dovevi per forza immedesimarti in un tifoso di uno o dell'altro team partecipante alla finale e gioire o disperarti insieme all'altra metà di America.
Era il 26 gennaio 1992 e quella sera si sarebbe disputato il super match tra i Buffalo Bills e gli Washington Redskins. I Redskins, ospiti nello stadio di Minneapolis, avrebbero vinto il loro terzo Super Bowl di tredici lunghezze.
Quella stessa sera Max avrebbe dormito sul divano in casa di Zero e così avrebbe fatto per le notti successive. Una dietro l'altra. Come un piccolo sasso che rotola sul fianco di una montagna, portandosene dietro altri e poi altri ancora fino a scatenare una frana.

«Cos'è successo poi?»
«...»
«Dottor Cavendish?»


Anche se non in via ufficiale, nel corso di tre mesi Max si era praticamente trasferito da Zero. Al mattino si alzava, preparava pane tostato, uova e bacon per sé e si premurava di aggiungere sempre una porzione in più nel caso in cui il suo psicologo, che nel frattempo era diventato un amico, un fratello o direttamente la figura paterna che gli era sempre mancata, si fosse svegliato con un buco nello stomaco. Cosa che succedeva spesso in realtà, ma Zero, benché vivesse in America da quasi dieci anni, era ancora alquanto restio alla tipica colazione d'oltre oceano. Così faceva buon viso a cattivo gioco, afferrava un pancake che smangiucchiava durante il noioso processo di vestizione ed usciva dopo aver buttato giù tutto d'un fiato il tè al mirtillo che era sempre pronto in casa sua. Dopo aver sistemato la cucina come meglio sapeva fare (e cavolo, non ci sarebbe stata domestica più efficiente di quel ragazzino con gli occhi azzurri e i capelli biondi), Max usciva dall'appartamento dando quattro giri di chiave alla serranda e si recava come di consueto al centro: il suo lavoro iniziava alle ore 9. Essendo una struttura dedita alla riabilitazione sociale, i ragazzi quando non erano in terapia con il proprio psicologo, seguivano lezioni, di conoscenza di base e di formazione per un futuro lavorativo, e si dedicavano a piccoli lavoretti secondo dove erano richiesti.
Il centro aveva come proprie strutture anche una casa di cura, dove veniva svolta l'attività di assistenza e cura degli anziani; una piccola fattoria con una piccola rete di vendita solidale di prodotti animali e vegetali e il centro stesso, i cui lavori di manutenzione impiegavano tutti quei ragazzi alle prese con l'imparare un mestiere.
Max era uno di questi. Studiava idraulica e secondo il direttore Turner, che informava regolarmente ogni psicologo riguardo i progressi dei loro pazienti, ci sapeva anche parecchio fare. Era merito suo se il mese scorso era stata riparata la perdita che ogni notte, regolarmente, allagava il bagno del secondo piano. Beh, probabilmente se qualche teppista del dormitorio non avesse intasato le tubazioni con stracci appallottolati il problema non sarebbe direttamente esistito, ma stava di fatto che Max era quello che gli aveva posto fine.
Ad ogni modo la giornata si svolgeva regolarmente per entrambi, con i suoi pazienti uno e i suoi lavoretti l'altro, quattro volte a settimana (il lunedì, martedì, mercoledì e venerdì) Zero vedeva Max e procedevano con la terapia che era ad un punto relativamente buono, considerando la corazza con la quale si era presentato il ragazzo la prima volta. La sera, invece, quando Zero tornava a casa e trovava Max tra i fornelli intento a preparare la cena o a sistemare il casino che lo psicologo puntualmente lasciava in giro, non sapeva se ridere o se piangere.
Inizialmente l'aveva trovata una cosa comica, divertente; nuova e per certi aspetti anche comoda. Era sempre stato abituato ad avere diversa gente intorno, a casa prima e al college poi, e ritrovarsi solo in quella grande casa a un piano solo gli aveva fatto avvertire la solitudine come mai prima di allora. Poi con il tempo ci aveva fatto l'abitudine, ma non si era mai reso conto quanto gli mancasse poter scambiare due parole con qualcuno quando ne aveva voglia finché non era arrivato Max.
Il ragazzo vedeva in lui un fratello maggiore e lui vedeva in Max qualcuno di cui prendersi cura. "Mai mischiare lavoro e sentimenti", gli avevano ripetuto fino allo sfinimento i professori all'università, riempiendogli le orecchie con le esatte parole del codice deontologico e punti di vista personali che ogni studente doveva adottare come propri. La verità era che Zero non ci aveva mai creduto fino in fondo proprio perché pensava che era assolutamente necessario mettere un po' di sentimento in ciò che si faceva, pena il non riuscire a instaurare un rapporto sincero e di fiducia con i propri pazienti. Se a te non interessava la loro situazione, perché a loro sarebbero dovuto interessare raccontartela?
Ne era sempre stato convinto e non si era mai accorto di quanto fosse sbagliato fino alla sera del 7 ottobre 1994, a soli diciassette mesi dalla fine del periodo di riabilitazione, quando Max si fece trovare nudo sul divano al rientro di Zero.
Lo psicologo rimase talmente spiazzato e basito da non riuscire nemmeno a spiccicare mezza parola e non fece altro che fissare il ragazzo con gli occhi sbarrati e la bocca che si apriva e si richiudeva ripetutamente come un pesce in assenza di acqua.
Max allora, in assenza di una qualsiasi reazione, si fece più audace e si alzò in piedi, muovendo appena un paio di passi in sua direzione e piazzandoglisi davanti a poco meno di un metro di distanza. Zero continuò a guardarlo senza riuscire a proferire parola.
«Sono due anni che vivo qui...» Furono le parole lasciate in sospeso di Max, che non terminò il discorso solo a voce, ma che lasciò bene intendere tutto ciò che significava il suo silenzio carico. Non disse che voleva ripagare Zero, non disse che quello era tutto ciò che aveva da offrirgli e Zero non capì che quel ragazzo, cresciuto con una visione distorta della realtà in cui nessuno fa niente per niente e in cui c'è solo un modo per ripagare un favore ricevuto, stava offrendogli se stesso come da sempre era stato abituato a fare. Non capì nemmeno nella frazione di un secondo tutti gli errori commessi fino ad allora, l'aver instaurato un rapporto di amicizia e fratellanza oltre a solo quello medico-paziente; l'aver accolto Max in casa pensando unicamente alle conseguenze positive e mai a quelle negative; non essere stato abbastanza scaltro e intelligente da prevedere le reazioni che il suo cervello avrebbe innescato.
Non capì nel lampo di un secondo tutti gli errori commessi in buona fede nell'arco di quei due anni e che avevano pericolosamente e inevitabilmente condotto al punto in cui si trovavano adesso. Non lo capì, o forse lo capì così bene che fu costretto a fingere per ferire volontariamente la vittima innocente della sua superficialità, per farlo scappare via lontano quando ancora era in tempo anziché trascinarlo ancora di più dentro un rapporto che era all'esatto opposto dell'essergli d'aiuto. Era, in effetti, l'unica cosa che poteva fare per salvarlo, per salvarlo da se stesso e da lui.
«Vattene.»
Questa volta fu Max ad assumere un'espressione incerta e insicura.
«Vattene. Non voglio niente da te, non sono quel tipo di persona e non sono nemmeno un tuo amico, tuo fratello, tuo padre o il tuo compagno. Vattene.»
Zero sentì il cuore frantumarglisi in mille pezzi dentro al petto mentre pronunciava quella che gli sembrava essere la sua personale sentenza di morte, mentre vedeva chiaramente lo sguardo di Max incrinarsi e il suo corpo e la sua anima accusare ferite invisibili di cui lui stesso era l'artefice. Mentre avvertiva l'aria farsi satura di cose non dette e sensazioni non capite, accecate dalla delusione da una parte e dalla necessità di un'ultima, disperata giusta azione dall'altra.
Avrebbe potuto spiegare, parlare e fare di nuovo l'amico, ma non avrebbe funzionato. Per la prima volta nel corso di quella intera vicenda, Zero riusciva a vedere i fatti con assoluto distacco e capiva come mai aveva capito prima, ogni suo singolo errore. Allo stesso modo sapeva anche che da certe situazioni e con certi presupposti alle spalle, non v'è modo di recuperare qualcosa che è stato volontariamente trascinato così a fondo, così lontano da dove avrebbe dovuto essere. Era come guardare un aereo su un radar e rendersi conto solo prima che esso si andasse a schiantare contro il fianco roccioso di una montagna, che il suo segnale fino ad allora era stato falsato da qualche marchingegno che faceva sì che l'aereo sembrasse sorvolare tranquillamente un qualsiasi oceano lontano da pericoli o disastri imminenti. Max era il velivolo, Zero la montagna e il marchingegno a falsare le rilevazioni era stata la sua superficialità. E per quanto potesse tentare di salvare il salvabile, non avrebbe potuto evitare che l'aereo si andasse a schiantare mietendo centinaia di vittime. O una sola. Di conseguenza, l'unica opzione che aveva per far sì che almeno una delle due vittime potesse salvarsi, era abbattere la montagna. O almeno tentare di farlo.
«Max, devi uscire da questa casa e farlo adesso, o sarò costretto a cacciarti fuori con le mie stesse mani.»
Quando la serranda si richiuse alle spalle del ragazzo che si era rivestito in tutta fretta, Zero avvertì chiaramente qualcosa spezzarsi e scomparire al centro esatto del petto.

«Dopo quella sera il dottor Cavendish prese un periodo di ferie, il suo incarico e i suoi pazienti furono temporaneamente affidati al Dottor Mahalo e non era ancora rientrato a lavoro a pieno regime quando ricevette la telefonata di Maximilian Johnson durante la notte tra il 23 e il 24 ottobre 1995, data in cui si sono svolti i fatti di cui si sta discutendo in questo rispettabile tribunale. L'imputato, agitato, sconvolto e in preda allo choc, contattò il suo terapista, l'unica persona della quale si fidasse, pregandolo di raggiungerlo nel luogo in cui si trovava, informandolo di aver combinato un casino e invocando il suo aiuto. Il dottor Cavendish si recò nel luogo comunicato da Johnson e trovò il ragazzo seduto a terra sul prato davanti alla casa dei genitori in fiamme, lo portò al sicuro e quando ebbe appurato che il suo paziente fosse in perfetta salute fisica e mentale, lo accompagnò al più vicino distretto di polizia.»
«Tre mesi dopo signor giudice.»
«In perfetta-salute-fisica-e-mentale.»

«Per questi motivi il tribunale all'unanimità respinge l'eccezione preliminare del Governo, sostiene che non vi è stata violazione dell'articolo 9 della Convenzione, sostiene che nessuna questione si pone separata ai sensi degli articoli 8 e 10, dell'articolo 14 insieme con l'articolo 9 della Convenzione, e dell'articolo 2 del protocollo numero 1 e condanna l'imputato Maximilian Johnson a ventiquattro anni di reclusione per incendio doloso e omicidio premeditato.»

Martedì 01 agosto 1997, due anni dopo, Lower Manhattan, NYC, studio privato di psicologia del Dott. Richard Cavendish.
«Dottor Cavendish, il suo paziente delle 18.30 è arrivato.»
«Fallo passare Mary, e già che ci sei portami anche un bicchiere d'acqua per favore.»
 

* Note: Questa storia è segnalata come AU nonostante sia un lavoro originale perché prende i personaggi di un gdr e li inserisce in un contesto alternativo a quello dell'ambientazione originaria. I personaggi in questione, Zero e Frank, sono rispettivamente un vampiro e un cacciatore. Sono stati creati originariamente per il gdr Now or Never, poi chiuso, e in seguito trasferiti su Gocce di Ossidiana. Attualmente io (,grey) ecyanide continuiamo a ruolare con Frank e Zero nel forum Zenk Legacy dove io muovo Zero e lei Frank. Chiunque volesse passare da quelle parti è il benvenuto, sia per leggere le role e altre storie, sia per un saluto o un commento. :]
  
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