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Autore: Fannie Fiffi    24/04/2016    4 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa volta, per il commento ci vediamo a fine capitolo!

Grazie a tutti e buona lettura.


 

Is It Any Wonder?





La prima cosa che percepì non appena riprese conoscenza era il sangue che le colava al lato sinistro del volto, partendo dalla fronte e giù verso la mascella.

Clarke provò a toccare il punto della testa che pulsava tanto da renderla affannata, ma non ci riuscì, perché entrambe le sue mani erano immobilizzate dietro la schiena.

Tutto quello era fin troppo familiare. In un attimo rivide se stessa chiusa nel portabagagli di una macchina, l’odore del cloroformio ancora a bruciarle le narici e il perfetto vestito che sua madre le aveva regalato distrutto.

Sentì di nuovo i suoi capelli venire strappati dalle forcine, le scarpe che le scivolavano dai piedi e il sangue che le sporcava le ginocchia come se fosse appena successo, come se fosse ancora lì e si fosse solamente svegliata in un altro incubo.

Questa volta, però, le luci di Los Angeles la circondavano in lontananza, appena fuori dalla zona buia in cui si trovava, e un vento vigoroso le lasciava liberi i capelli, un po’ appiccicati sul suo viso stanco, un po’ sopra la sua testa, un’aurea dorata che le impediva di distinguere il luogo in cui si trovava.

I suoi occhi si socchiusero, la vista appannata che non le permetteva di guardarsi intorno, e il suo capo scivolò in avanti senza che lei potesse reggerlo, segno evidente che dovevano averla colpita tanto forte da averle probabilmente provocato una commozione cerebrale.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare né come fosse arrivata in quel luogo né se avesse visto qualcuno colpirla.

Mugugnò, cercando di concentrarsi e focalizzare l’attenzione sull’ambiente che la circondava, e, dopo essersi distratta per qualche istante a fissare il nulla, iniziò a capire.

Si trovava su un tetto. Ecco perché il vento era così forte da arruffarle i capelli davanti al viso e non ci fosse alcun tipo di illuminazione.

« C’è qualcuno? » Biascicò, senza rendersi conto di aver parlato troppo piano perché qualcuno potesse effettivamente ascoltarla. « Aiuto. »

Riusciva a sentire le automobili correre sotto di lei, il leggero tremolio della metropolitana che passava per la fermata lì vicino, ma non sembrava esserci nessuno con lei. Era sola su quel tetto e non riusciva nemmeno a spiegarsi il perché.

« Sono qui! » Continuò a borbottare, farneticando fra sé e sé e sforzandosi di non riaddormentarsi, di non perdere conoscenza e cercare una via d’uscita. Come era potuto succedere? Dov’era Bellamy? Era forse arrivata troppo tardi?

Era davvero arrivato il momento che aveva tanto temuto?

Con un grande sacrificio di energia e concentrazione, si forzò a tenere il capo sollevato e a impegnarsi per trovare un modo di andarsene da lì il prima possibile. Non si fece domande, non ne aveva il tempo né la capacità, la paura e l’istinto di sopravvivenza le uniche cose che riuscisse a provare in quel momento.

Provò ad alzarsi, ma le mani legate e il forte dolore alla testa la privarono del giusto equilibrio, perciò finì per accasciarsi su un fianco e scalciare inutilmente.

Quando, all’improvviso, il rumore di una porta pesante e probabilmente arrugginita che si apriva e si richiudeva subito dopo catturarono la sua attenzione, Clarke si immobilizzò.

« C’è qualcuno? » Ripeté di nuovo, a voce più alta. « Aiutatemi! Sono qui! »

Era adagiata contro un muretto, perciò le fu impossibile notare la figura nascosta al buio che le si stava avvicinando finché un paio di gambe lunghe e maschili non si pararono davanti ai suoi occhi.

La giovane Griffin impiegò un paio di secondi per alzare lo sguardo, ancora troppo confusa e disorientata per rispondere pienamente ai proprio riflessi.

« Thelonious! » Esclamò, incredibilmente sollevata e rincuorata. Parlò fra i respiri mozzati, frenetici, masticando una parola sopra l’altra. « Oh, Thel, grazie al Cielo, Thel, Thel, devi portarmi via di qui. Pensavo- »

« Ehi, » l’uomo più grande si inginocchiò davanti a lei, allungando una mano verso il suo volto e sorreggendolo, « sono qui. Va tutto bene. »









 
 
Bellamy arrivò alla Centrale ancora prima che il Capitano Sidney lo chiamasse, parcheggiando al primo posto libero e avventandosi all’interno con una fretta e un’urgenza che mai prima di allora lo avevano tanto caratterizzato.

« So chi è stato! » Gridò, piombando nell’ufficio del suo superiore senza disturbarsi di bussare o annunciare la sua presenza.

Fu costretto a fermarsi, però, solo nel momento in cui un paio di occhi particolarmente tormentati si fissarono su di lui, immobilizzandolo sul posto.

« Signora Griffin, ho bisogno di parlare immediatamente con il mio capo. » Il suo tono non lasciava spazio per repliche e il suo sguardo era fermo, deciso, più scuro di quanto probabilmente fosse mai stato.

« Sai chi è stato? » Scattò in piedi la più anziana, dirigendosi verso di lui. Il suo volto era evidentemente stanco, e il trucco colato ai lati degli occhi faceva ben intendere che avesse pianto, ma la sua voce fu determinata e non lasciò il minimo segno di esitazione. « Dimmelo. »

« Io- »

« Dimmi chi ha preso mia figlia, Bellamy. »

Il maggiore dei Blake si immobilizzò. Non poteva rischiare di compromettere niente. Non poteva rischiare di mettere in pericolo la vita di Clarke, e a quel punto delle cose non era affatto sicuro di potersi fidare della donna davanti a sé. E se fosse stata sua complice? Se tutto quello fosse stato un piano già organizzato da tempo?

« Ci sono delle procedure che dobbiamo seguire, signora. » Li interruppe l’altra donna, leggendo lo sguardo del suo subalterno e comprendendo la situazione. « Le devo chiedere di lasciare questa stanza, per il momento. »

Abigail non disse niente. Si limitò a voltarsi verso di lei, uno sguardo disperato sul volto esausto, e poi di nuovo verso il moro, dirigendosi subito dopo verso la porta.

« Allora, » iniziò il Capitano Sidney, non appena rimasero soli, sollevando un sopracciglio e alzandosi dalla scrivania, « sai davvero chi è stato? Hai risolto il caso? »

« Ho dovuto garantire l’immunità al Comandante dei Grounders, capo, ma lo so. È… »

Non seppe perché, ma si bloccò. Non poteva ancora crederci, non aveva avuto modo di fermarsi e mettersi a riflettere, ma in quel momento, in quel preciso momento, con quel nome e quel volto impressi nella mente, e la voce di Clarke che sembrava risuonargli nelle orecchie, tutto gli sembrò improvvisamente vero. Reale.

« È suo marito. È Thelonious Jaha. E ora ha preso Clarke. » Buttò fuori con rapidità, come se quello potesse portarlo un passo più vicino a ritrovarla, come se in quel modo potesse finalmente liberarsi da quel peso.

« Ha tutto perfettamente senso. Abbiamo il movente, abbiamo l’opportunità e abbiamo un testimone. Per tutto questo tempo abbiamo guardato le cose dalla prospettiva sbagliata e ora ha finalmente tutto senso. 
»

« Devo trovarla, Capitano. Devo uscire. » Realizzò improvvisamente il maggiore dei Blake, portandosi una mano fra i capelli in evidente segno di frustrazione.

« Io non… Non posso perderla. Non posso. »

« Vuoi davvero trovarla? » Lo interrogò la più grande, aggirando la scrivania e avvicinandosi a lui, posandogli delicatamente le mani sulle spalle.

« Allora devi restare qui. Non puoi semplicemente vagare per la città e aspettarti di incontrarla ad un angolo della strada. Dobbiamo essere furbi, Bellamy. »

« Ma lei è lì fuori! » Alzò la voce lui, incapace di distinguere fra l’avvilimento e la confusione.

Non poteva credere che, proprio ora che si fossero permessi di provarci, di lasciarsi – per un giorno, un attimo, qualsiasi tempo gli fosse concesso – andare, lei non era lì, ed era di nuovo in pericolo, e lui non era riuscito a fare nulla per tenerla al sicuro.

« Lei è lì fuori ed è tutta sola e chissà cosa le è successo! Potrebbe essere ferita. Potrebbe- »

« Bellamy. » Lo riprese il suo capo, alzando il volto e rassicurandolo con i propri movimenti, annuendo lentamente. « Andrà tutto bene. Non le succederà niente. Io e te ci metteremo a lavorare e la troveremo. Il Tenente Miller e suo figlio sono qui, i tuoi colleghi sono già a lavoro. Non sei solo in tutto questo. »

Il moro sembrò convincersi delle sue parole, perché abbassò il capo e asserì, alcune ciocche di capelli a coprirgli gli occhi e i pugni stretti lungo i fianchi.

« Hai detto che è stato il marito. Bene, elabora. »

In quel momento le sue spalle si rilassarono impercettibilmente. Aveva pensato a quelle parole, alle parole che Clarke gli aveva rivolto mesi prima, per tutto il giorno, e ora tutto sembrava combaciare alla perfezione.

Si sforzò per qualche istante di uscire dal suo ruolo centrale, da ciò che stava provando in quel momento e dalla preoccupazione che sembrava attanagliare ogni sua terminazione nervosa.

Uscì da se stesso e respirò profondamente, pronto a raccontare la storia come se fosse avvenuta proprio davanti ai suoi occhi. Come lui l’aveva immaginata nella sua più totale veridicità.

« Okay, quindi, ecco. Thelonious, grande amico di infanzia di Abigail, è innamorato di lei da sempre, ma lei lo vede come un fratello, e ama così tanto Jake da sposarlo all’ultimo anno di college e avere una figlia con lui. Thelonious sopporta in silenzio, all’ombra, e per un periodo sembra farcela. Trova una donna buona, a cui tiene abbastanza da sposarla e avere un figlio con lei. Ma poi Helena muore, e lui resta di nuovo solo, e la donna che ama vive la vita dei suoi sogni con un altro uomo. »

« Vai avanti. » Lo esortò Diana con un gesto della mano.

« Così, un giorno, quando la povera Abby gli confessa che lei e suo marito si sono invischiati in affari che non li riguardano all’Ark Corporation, Thelonious coglie la palla al balzo. Va da Anya, rinomata leader della banda più unita di Los Angeles, e compra del cianuro. Lo paga così tanto da giocarsi l’ipoteca della casa. Jake Griffin ha messo i bastoni fra le ruote di milioni di dollari di investimenti, perciò lui approfitta della condizione per far passare Marcus Kane come responsabile. Ma non sa, però, che i coniugi Griffin hanno in realtà un accordo con l’uomo d’affari, e che non hanno alcuna intenzione di rivelare il segreto.»

« Così, con Jake finalmente fuori dal quadro di famiglia, può consolare la povera vedova. Dovunque lei si giri, è lì. » Continuò il Capitano al posto suo, avendo ormai risolto il resto del mistero. « Le prepara la cena, l’abbraccia quando ne ha bisogno, e pian piano si scalda una piccola parte del cuore di quella donna. Può finalmente avere una famiglia con lei. »

« Ma Clarke, » riprese Bellamy, « non si beve la storia dell’attacco di cuore. Capisce che qualcuno ha ucciso suo padre, ma non ha idea di quale sia il vero movente. Non finché non si avvicina troppo, e Thelonious è costretto a prendere di nuovo in mano la situazione. »

« Sono così fiera di te, agente Blake. Sapevo di aver fatto una buona scelta. »

Prima che lui potesse rispondere, tuttavia, la donna continuò: « Ora abbiamo bisogno di trovare una posizione. Dov’è stata vista Clarke per l’ultima volta? »

« Al momento l’ultimo luogo è il Mount Weather. »

« Bene. Quello stronzo compiaciuto di Cage Wallace non mi lascerà mai avere i filmati di sicurezza senza un mandato, e l’ufficio del Procuratore a quest’ora è vuoto. Dovremo accontentarci delle fotocamere ai lati del perimetro. Perché non vai a chiamare Nathan Miller? È nella sala conferenze. È un bravo ragazzo, e so che sarà un ottimo agente. Voi due insieme potreste fare grandi cose. »

Il maggiore dei Blake accennò un ghigno, per quanto gli fosse possibile sorridere in quelle condizioni, e si allontanò dall’ufficio del suo capo solo il tempo necessario di raggiungere l’altro ragazzo.

Lo vide attraverso i vetri, la schiena chinata su un computer portatile e un paio di occhiali da vista poggiati sul naso.

« Ehi, Miller. » Lo salutò con la sua voce grave, incapace di nascondere l’apprensione che lo stava divorando vivo. « Ci farebbe davvero comodo il tuo aiuto. »

« Tutto quello che ti serve, amico. »
 
 




« Okay, » fece Nathan qualche istante dopo, seduto alla scrivania del Capitano Sidney, mentre la donna e l’agente Blake stavano alle sue spalle, « sono riuscito ad accedere alle telecamere di sicurezza di un fast food all’angolo ovest dell’ospedale. »

« L’ora della scomparsa è fra le diciotto e le diciannove del pomeriggio. » Lo informò Bellamy, poggiando una mano sullo schienale della poltrona e chinandosi dietro di lui, osservando attentamente lo schermo del computer sul quale venivano proiettati i filmati.

« Non vedo niente. » Sussurrò il giovane Miller senza distogliere lo sguardo.

« Cazzo, neanch’io. »

« Prova con le telecamere di quella boutique. Danno proprio sull’entrata. » Sopraggiunse il Capitano, puntando con l’indice un negozio inquadrato nelle vicinanze.

Nathan seguì il consiglio, collegandosi ai filmati di sorveglianza e velocizzando fino all’orario che gli era necessario.

 « Merda. » Sussurrò all’improvviso, gli occhi puntati sullo schermo e le sopracciglia aggrottate.

« È lei. » Rispose immediatamente la voce dura e roca del maggiore dei Blake.
 
 









« Veloce! » Annaspò Clarke, scalciando con i piedi lungo il pavimento del tetto e muovendo le braccia per liberarsi. « Non so chi mi abbia lasciato qui, ma potrebbe tornare da un momento all’altro e- »

« Stai sanguinando,» la interruppe Thelonious, sfiorandole con l’indice il sangue che le imperlava il volto, « non dovresti muoverti così tanto. »

C’era qualcosa fuori posto che la giovane Griffin non riusciva bene a distinguere, qualcosa nei suoi movimenti, ma non riuscì a individuare cosa esattamente fosse, troppo occupata a cercare di fuggire.

« Sto bene. » Parlò velocemente, annuendo nonostante il dolore alla testa. « Lui ha Bellamy. Ce ne dobbiamo andare. »

« Non credo proprio che tu stia bene, piccola Clarkey. »
 





« Ho già visto quella macchina prima. » Mormorò Bellamy, indicando un SUV grigio metallizzato poco distante dal punto in cui Clarke era ferma sul marciapiede.

Se non fosse stato così, se un piccolo particolare non avesse colto la sua attenzione, non sarebbe mai stato in grado di riconoscere la vettura accostata in lontananza. Conosceva quella targa.

Ricordava bene le parole che aveva rivolto ad Octavia qualche mese prima, quando si erano appena trasferiti e la famiglia Jaha non sembrava altro che il riflesso perfetto di una famiglia ricca e facoltosa.

« Ho bisogno di conoscere ogni singolo aspetto della vita dei nostri vicini. Voglio essere al corrente di ciascuna delle loro più piccole abitudini, voglio vedere come e dove vivono. Devo sapere. »

Era un detective, dopotutto, e non gli era mai piaciuto essere tenuto all’oscuro. Non conoscere ciò che lo circondava. Essere vulnerabile.

E in qualità di agente, aveva potuto sapere le targhe d’automobile dei suoi vicini di casa. Il modello. L’anno di produzione. Qualsiasi cosa avesse potuto aiutarlo in caso di necessità.

Non che si sarebbe mai immaginato di poter avere davvero una necessità del genere, almeno non fino a quel momento. O che si sarebbe innamorato di Clarke Griffin.

E all’improvviso lo colpì. Fu un attimo, un interruttore che scattava, un ingranaggio che si incastrava perfettamente nel meccanismo arrugginito che aveva tentato di ignorare tanto ardentemente.

Si era innamorato di lei.

Era così. Non c’era nient’altro da aggiungere. La amo, pensò, mentre la guardava attraverso lo schermo di un computer.

Fu costretto a chiudere gli occhi per qualche secondo. Poi, come se potesse fisicamente aiutarlo a distogliersi da un pensiero così totalizzante, scosse il capo, tentando di concentrarsi.

« È la sua auto, » indicò, rendendo partecipi il suo mentore e l’amico, « conosco la targa. Probabilmente lei era troppo impaurita e nervosa per vederlo, ma lui vedeva lei. Sapeva cosa stava facendo. »

« Bene, » fece il Capitano, « concentriamoci su Jaha. Adesso è lui il nostro obiettivo. »

Nathan si limitò ad annuire, zoomando sull’automobile e abbandonando l’inquadratura sulla giovane Griffin.

Fu allora che videro. Tutti e tre, in silenzio, seguendo minuto per minuto quello che era accaduto solo poche ora prima, guardando realizzarsi davanti agli occhi ciò che avevano temuto fino a quel momento.

Il modo in cui l’aveva ingannata, ciò che le aveva fatto fare e il modo in cui l’aveva seguita – il modo in cui presumibilmente aveva seguito tutti loro durante quei mesi.

L’avevano osservato con gli occhi della città per attimi infiniti, come una divinità il cui sguardo scrutatore giudica tutto, e Bellamy non si era accorto di aver trattenuto il respiro finché i polmoni non l’avevano supplicato di riprendere la loro attività.

Poi il maggiore dei Blake ebbe un’idea. « Devo andare. » Sussurrò velocemente, senza fermarsi un attimo, scattando prima che Miller e il suo capo potessero fare qualsiasi altra cosa. Subito si ritrovò fuori dall’ufficio, gli occhi dei suoi colleghi puntati addosso, ma niente di tutto ciò poté fermarlo.

« Bellamy! » Lo riprese la donna alle sue spalle, seguendolo e affacciandosi sull’uscio della porta del proprio studio.

« Continuate a cercare! » Gridò lui senza voltarsi, arrivando in un attimo agli ascensori.
 
 









« Thelonious, devi ascoltarmi. Sto bene. Non devi preoccuparti di nulla. Dobbiamo solamente andarcene da questo tetto, perché siamo in pericolo. »

Clarke aveva iniziato a sudare senza nemmeno rendersene conto, i capelli appiccicati alla faccia dal sangue e dal sudore che si mischiavano l’uno nell’altro, rancidi e acri contro la sua pelle.

Era terrorizzata. Pensava di esserlo già stata prima, in più d’un’occasione, ma si trovò costretta a doversi ricredere. Non aveva mai avuto tanta paura di morire come in quel momento. E, oltre all’evidente istinto di sopravvivenza che le mandava chiari segnali, c’era ancora un’altra paura, un tipo di timore più profondo, viscerale: aveva paura di perdere Bellamy.

Ad essere onesti aveva paura di perdere ogni persona che amava – sua madre, Wells, Jasper e Monty, tutti i suoi amici – ma almeno aveva la consapevolezza di saperli al sicuro. Stavano tornando a casa dopo una lunga giornata, o al club, o semplicemente prendendo una pausa dal ritmo frenetico a cui si sottoponevano ogni giorno. Stavano vivendo la loro vita. E, sebbene l’idea di non rivederli più le stringesse il petto e le lasciasse un sapore amaro fra le labbra, poteva se non altro essere sicura del fatto che non corressero rischi.

Ma Bellamy… Qualcuno l’aveva preso – l’assassino di suo padre l’aveva preso, e non aveva la benché minima certezza che non fosse pronto a togliere la vita a qualcun altro, nonostante lei avesse fatto tutto quello che le era stato chiesto.

Non sapeva nemmeno se l’avrebbe rivisto. Se, chiunque fosse quel pazzo che si era tanto adoperato a distruggerle la vita, le avrebbe permesso di vederlo un’ultima volta. Di dirgli addio e ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei, e anche per quello che non aveva fatto. Non l’aveva abbandonata, nemmeno quando più avrebbe potuto farlo, nemmeno quando sarebbe stata la cosa più facile da fare.

Lui aveva lottato per entrambi quando le era mancata la forza di farlo anche solo per se stessa. Lui era rimasto nonostante lei si fosse sforzata tanto per spingerlo via.

Nessuno l’aveva obbligato, ma lui l’aveva aiutata lo stesso. Anche prima di essere così vicini, ancora prima di sdraiarsi sulla spiaggia e guidare per ore e arrabbiarsi l’uno con l’altra davanti ad un locale pieno di gente, lui l’aveva aiutata.

Come avrebbe potuto non innamorarsi di lui?

Non c’era più tempo di mentire a se stessa. Se quelli erano veramente gli ultimi attimi della loro vita, dovunque Bellamy fosse, lei non voleva più negare. Non ne aveva più il coraggio. Fu per quel motivo che prese un respiro profondo e fu completamente onesta con il suo cuore, abbracciando quei sentimenti che solo lui era stato in grado di risvegliarle dentro.

Lo amava.

Clarke Griffin amava Bellamy Blake, ed era piuttosto sicura che anche lui l’amasse, e che stavano entrambi per morire prima di essere riusciti a dirselo.

La voce del marito di sua madre la scosse dal baratro di disperazione in cui era caduta in quegli attimi di silenzio. « Non posso lasciarti andare, mi dispiace. »

Il suo tono pareva pacato e la sua espressione platealmente dispiaciuta, e per la prima volta da quando lo conosceva Clarke provò uno strano moto di ritrosia nei suoi confronti, istintivo e naturale.

All’improvviso realizzò cos’era che l’aveva disturbata fin dall’inizio, qualcosa che non era riuscita a focalizzare prima, completamente presa a trovare una via d’uscita e crogiolarsi nei propri pensieri contorti e confusi: Thelonious era fin troppo calmo.

E Thelonious era lì. La giovane Griffin ripercorse mentalmente ciò che era accaduto dal momento in cui si era risvegliata su quel tetto. Aveva sentito il rumore di una porta aprirsi e poi era apparso lui, ma non si era nemmeno chiesta cosa ci facesse lì. Era ferita e spaventata, così non aveva fatto altro che pensare a un modo di andarsene.

« Aspetta un attimo… » Sussurrò fra sé e sé, aggrottando le sopracciglia e scrutando più attentamente la figura dell’uomo ripiegato su di lei. « Che ci fai qui? Come sapevi dove trovarmi? »

Notando che qualcosa nella ragazza aveva iniziato a mettere insieme i pezzi, l’uomo più grande le snocciolò un ghigno distorto e spostò il braccio dietro la schiena.

Clarke seguì i suoi movimenti ancor più confusa e disorientata, incapace di distinguerli nei dettagli a causa della scarsa illuminazione, finché Jaha non riportò il braccio davanti a sé.

Non appena vide cosa teneva nella mano destra, la bionda scattò. Con un lamento spaventato si gettò istintivamente indietro – il più lontano possibile da lui – per quanto le mani legate glielo permettessero, e nella rapidità del movimento sbatté il capo contro il muretto dietro di sé, non facendo altro che aumentare il mal di testa che già le attanagliava i sensi.

Il respiro le si mozzò in gola, gli occhi spalancati e increduli e terrificati, mentre lui le si avvicinava lentamente, ben consapevole che la ragazza non avesse via di fuga.

Le posò la volata della pistola contro l’attaccatura dei capelli, scendendo ad accarezzarle la guancia con il materiale freddo e ruvido, e sorrise di nuovo, il che provocò in Clarke un conato di vomito che le bruciò la gola e le congelò il sangue nelle vene.

« Mi vedi adesso, Clarke? »
 
 






« Monty, sono Bellamy. » Il maggiore dei Blake si schiacciò il telefono fra orecchio e spalla mentre si voltava a fare retromarcia, sfrecciando immediatamente dopo fra le luci e la frenesia delle strade di Los Angeles.

« Non chiedermi perché, ma c’è una possibilità che tu possa hackerare il GPS dell’automobile di Thelonious Jaha? »

« In realtà, l’ho già fatto. Io e Clarke una volta volevamo organizzargli uno scherzo, quindi- »

« Me la racconti la prossima volta. Dov’è? »

« È al Mount Weather. Immagino sia con Abby, no? »

« Merda. » Riattaccò senza aggiungere altro, concentrandosi sulla guida e cercando di raggiungere il più velocemente possibile la sua meta.

Era ovvio. Quale altro modo di nascondersi se non in bella vista?
 







Bellamy piantò la macchina nel primo posto libero vicino all’ospedale che trovò, senza nemmeno preoccuparsi di guardarsi attorno o cercare un parcheggio migliore.

Scese dal veicolo in un istante e gettò un’occhiata veloce al suo orologio da polso: era da poco passata la mezzanotte, il che voleva dire che gran parte del personale aveva già finito il proprio turno.

Fu solo quando si ritrovò davanti le porte automatiche della struttura che si domandò veramente quale fosse il suo piano. L’edificio era troppo grande perché lui potesse perquisirlo da solo, ma questo poteva essere allo stesso tempo un fattore positivo.

Jaha – e con lui Clarke – non poteva di certo nascondersi in una camera d’ospedale, il che eliminava dalla lista di possibili nascondigli ognuno dei piani e dei reparti interni.

Aveva bisogno di un luogo ampio che potesse fornirgli una buona visuale e allo stesso tempo farlo passare inosservato. Un posto silenzioso in cui nessuno l’avrebbe sentito, un posto lontano dal continuo traffico di persone che normalmente si trovavano in un sito pubblico come quello.

Per un attimo Bellamy considerò i parcheggi, la prima possibilità che gli passò per la mente.

Ma non poteva andare.

Nonostante godessero di una discreta e comoda posizione, Jaha non poteva avere la certezza di avere la possibilità di fare qualsiasi pazzia avesse intenzione di fare. E, se ancora pensava di poter farla franca, di certo non si sarebbe esposto alle telecamere di sicurezza del perimetro.

Il che lasciava un’unica alternativa.

Il detective Blake scattò immediatamente all’interno della struttura, ignorando le reception e il traffico di personale e civili all’interno, dirigendosi senza esitazione verso gli ascensori.

La fortuna sembrò stare dalla sua, perché nel momento in cui fu abbastanza vicino, le porte metalliche si aprirono davanti a sé e lui poté gettarsi all’interno, premendo il pulsante dell’ultimo piano ancora prima di essere entrato completamente.

Peccato che la mossa non giovò totalmente a suo favore, poiché, proprio mentre le portiere stavano per richiudersi, una folla di persone – infermieri, per la precisione – si gettò all’interno, tenendo aperto il passaggio e aspettando che un medico facesse entrare una barella vuota.

Bellamy li guardò in cagnesco per l’intera durata dell’operazione senza nemmeno riuscire a sentirsi in colpa. Certo, quelle persone stavano aiutando qualcuno, ma lui doveva salvare Clarke dal suo patrigno. Era solo una questione di priorità, in fondo.

Quando, finalmente, l’ascensore poté entrare in azione, lui non fece altro che fissare con impazienza e nervosismo le lucine dei piani che si illuminavano. Qualche volta era fortunato e nessuno saliva; altre volte, invece, era costretto ad aspettare ancora. La sua fronte era imperlata di sudore freddo prima che potesse sforzarsi anche minimamente di fare qualsiasi cosa.

Arrivò all’ultimo piano che erano passati esattamente sei minuti e trenta secondi e, se aveva aspettato lo scocco delle lancette dell’orologio ad ogni secondo, di sicuro non poteva biasimare se stesso.

Quell’ala della struttura era gradualmente la più silenziosa delle altre, e anche la meno frequentata, perciò il moro poté avviarsi verso le scale di servizio senza destare troppi sospetti. Mancavano ancora un paio di piani prima di raggiungere la sua destinazione, e Bellamy si agitava ad ogni attimo di più, forte di una rabbia e di una frustrazione che muovevano ogni sua azione.

Il nome di Clarke era un mantra perenne e incessante al centro della sua mente, padrone di qualsiasi altro pensiero, e lui continuava a ripeterselo ancora e ancora e ancora come se in quel modo potesse esserle un po’ più vicino. Come se così potesse salvarla.

Salì i gradini a due a due, correndo, e non si curò di nient’altro che arrivare in cima, dove le scale si facevano buie e abbandonate, permettendo al dubbio che loro fossero davvero lì di insinuarsi in lui.

Si trovò davanti ad una massiccia porta rinforzata ancora prima di accorgersi di non poter salire oltre, poi prese un respiro profondo. Con la manica della giacca si ripulì dal sudore che continuava a sciogliersi fra alcuni ricci che gli ricadevano davanti agli occhi, impugnò la grande maniglia d’emergenza e spinse con tutte le sue forze.

Era bloccata.

Non riusciva a sentire alcun rumore, ma provò lo stesso. « Clarke? »

Nessuna risposta.

« Clarke! » Provò più forte. Doveva essere lì. Se l’automobile di Thelonious si trovava in quell’edificio, le probabilità che ci fossero anche loro erano molto più alte di quelle che li vedevano spostarsi a piedi.

Lei doveva essere lì.

Ma nessuno rispose. Nessun rumore, nessun tipo di segnale che potesse indicargli la presenza di qualcun altro su quel tetto.
 
 




Jaha percorse la lunghezza del volto della giovane Griffin con la volata della pistola e la lasciò lì, pesante e fredda contro la sua pelle, intimandole di fare silenzio con l’indice sulle labbra.

« Se rispondi », alluse alla voce di Bellamy che la chiamava, « ti ammazzo. »

Clarke cercò di mandare giù la bile bollente che le era risalita al centro del petto e si era fermata alla gola, annuendo brevemente, incapace di elaborare quello che effettivamente stava succedendo.

Era davvero… lui? L’uomo che aveva cercato per gli ultimi tre anni della sua vita aveva vissuto sotto il suo stesso tetto per tutto il tempo? L’uomo che aveva sposato sua madre? Che l’aveva toccata? Il padre di una delle persone che amava di più al mondo?

Fra i pensieri caotici e in subbuglio che le vorticavano nella mente, uno più pericoloso dell’altro, il volto di Wells riaffiorò in superficie, un faro di luce nella nebbia di panico che le offuscava le idee.

Tutti i ricordi della loro infanzia, lui sulle spalle di Jake, i campeggi, i primi giri in bicicletta, il primo giorno di scuola. Il funerale di suo padre. Il giorno del matrimonio dei loro genitori. La prima sigaretta che aveva fumato davanti a lui solo per fargli un dispetto. Ogni volta che lui era passato davanti la sua stanza e lei gli aveva sbattuto la porta in faccia. Quando l’aveva perdonato. Quando lui aveva perdonato lei.

Le sue braccia ad accoglierla, pronte e calde e familiari. I regali di compleanno. Cinque candeline sulla prima torta che avevano spento insieme.

Qualsiasi ricordo lei e suo fratello avessero condiviso nella loro vita ora non era nient’altro che una menzogna. Uno scherzo di pessimo gusto. Un’orribile sorpresa al debutto di suo padre.

Thelonious, il traditore della famiglia, di suo figlio e della donna che amava. Che malsanamente pensava di amare, ma a cui non aveva fatto altro che rovinare la vita.

Si era preso gioco di tutti loro, aveva celato per così tanto le sue vere intenzioni che probabilmente la sua delirante follia l’aveva fatto uscire di testa.

L’aveva totalmente scollegato dalla realtà.

E Clarke non aveva nemmeno la forza di piangere. Quasi non riusciva a sbattere ciglio, perché tutto quello non poteva essere vero. Ci doveva essere un’altra spiegazione, ma la sua mente era troppo stanca e mortificata per riuscire a trovare una soluzione.

Cos’aveva fatto di tanto sbagliato per meritare qualcosa del genere?

Ora non aveva dubbi: sarebbe morta. La sua vita stava per finire su quel tetto, a pochi metri da Bellamy, per mano del suo patrigno.

Ti amo, fu l’unico pensiero coerente che riuscì a permettersi, prima di urlare senza distogliere lo sguardo da quello dell’assassino davanti a lei: « Bellamy, scappa! »

Il maggiore dei Blake, dall’altro lato della porta, gridò ancora più forte: « Clarke! »

« Pessima mossa, Clarke. » Si intromise a quel punto Thelonious, lo sguardo furioso e stralunato, mai più diverso da quello che aveva sempre pensato che lui fosse. « Ora dovrò uccidervi entrambi. »

Seguito, poi, da forti rumori metallici contro la porta pesante che Jaha aveva opportunamente bloccato in precedenza.

« Sono qui! Andrà tutto bene! » Le assicurò in lontananza, continuando a scontrare i pugni contro l’ostacolo che gli impediva di raggiungerla.

Notando, però, di non star ottenendo alcun risultato, il moro slacciò la pistola dal proprio fianco in una frazione di secondo, compiendo un passo indietro e puntando l’arma contro l’apertura della porta.

Il colpo fu talmente pesante da scardinare la maniglia e socchiudere l’uscio; senza attendere oltre, Bellamy calciò con tutte le sue energie la porta e la spalancò, gettandosi senza remore fuori, sul tetto, sempre più vicino a Clarke.

Li vide immediatamente. Entrambi lo stavano fissando.

Lei era sdraiata per terra, le mani legate dietro le spalle e un rivolo di sangue rappreso a calarle dalla tempia al lato della mascella. Sembrava spaventata, disorientata e totalmente destabilizzata da quello che probabilmente aveva scoperto solo ora.

Jaha, invece, torreggiava sopra di lei, piegato sulle ginocchia, e il suo sguardo stravolto e torvo non faceva presagire nulla di buono. Non che si aspettasse qualcosa di diverso, ovvio.

« Clarke… » Sussurrò Bellamy, tornando a posare gli occhi su di lei.

« Bellamy! Ti avevo detto di scappare. »

« Pensavi davvero che ti avrei ascoltato? »

« Zitti! » Li interruppe Jaha, raddrizzandosi e facendo un passo indietro, la pistola stretta fra le dita e il braccio puntato verso il detective Blake. « State zitti. »

« Ascoltami bene. Ora slegherò Clarke, e tu me lo lascerai fare. Non vuoi ferirla, vero? Cosa penserebbe Abby altrimenti? »

Thelonious sembrò rabbrividire, e per un attimo l’arma da fuoco tremò fra le sue mani.

« Non dire il suo nome. » Sussurrò in tono minaccioso, ma non fece niente per impedire a Bellamy di avvicinarsi a Clarke e piegarsi su di lei.

Lei, che era stata in silenzio per tutto quel tempo, riuscì a ragionare più lucidamente solo quando il maggiore dei Blake si inginocchiò davanti a lei ed occupò ogni angolo del suo campo visivo.

« Andrà tutto bene, Principessa. » Le assicurò, aggirandola subito dopo e sciogliendo i gancetti di plastica contro cui aveva sfregato la pelle dei suoi polsi fino a quel momento.

La giovane Griffin non riuscì nemmeno ad annuire, i suoi grandi occhi spalancati e alcune ciocche di capelli che le sbattevano sulla faccia a causa del vento, e si lasciò prendere per i gomiti e sollevare in piedi.

Si accasciò lievemente contro il corpo di Bellamy, nonostante tutto fermo e stabile al suo fianco, e fissò lo sguardo vacuo e indifeso in quello di Thelonious, che aveva seguito i loro movimenti con la punta della pistola.

« Ho cercato di tenerti fuori da tutto questo, Clarke. » Le sussurrò il più grande, e per un attimo sembrò quello di sempre. Il suo patrigno. Una delle figure più rilevanti della sua vita dopo la morte di suo padre. Morte che lui stesso aveva provocato, incurante di tutte le altre conseguenze: la depressione di Abby. La sua più totale devozione al lavoro, l’unica costante nella sua vita, che l’aveva allontanata da sua figlia, l’unica famiglia che le fosse rimasta.

La depressione di Clarke, quindicenne e sola e arrabbiata e incapace di adattarsi all’idea di non avere più un padre, di non poterlo vedere mai più. Incapace di accettare che qualcun altro avrebbe potuto amarla di nuovo.

Non come Jake, certo. Ma comunque amarla – e fu soprattutto in quel momento che la presenza di Bellamy al suo fianco si fece quasi prepotente.

Quell’uomo aveva causato tutto quello che le era successo negli ultimi quattro anni, e lei non riusciva a trovare una punizione che bastasse a restituirle tutto quello che lui le aveva tolto.

Nemmeno si accorse delle lacrime che si erano raccolte sul fondo dei suoi occhi e riversate sulle sue guance finché il suo volto, sporco di sangue e sudore, non iniziò a pizzicare.

« Lasciala andare. » Intervenne poi Bellamy, che faceva vagare lo sguardo tra lei e Jaha con espressione sospettosa e concentrata.  

 « Avremmo dimenticato tutto. Ormai apparteneva al passato, saremmo potuti essere una famiglia. Mi sarei preso cura di te ed Abby. Ma tu, Clarke, hai distrutto tutto! »

« Niente sarà come prima. » Continuò subito dopo, sbarrando gli occhi e agitando l'arma davanti a Clarke e Bellamy, puntandola prima sull'una e poi sull'altro.

 « Ehi! » Lo richiamò il maggiore dei Blake, tentando di attirare la sua attenzione, « non vuoi che le cose finiscano così. Dammi la pistola. »

Fece un passo avanti con cautela, come se il pavimento sotto di loro potesse crollare da un momento all'altro. Sapeva che un criminale come quello, un malato psicopatico privo di qualsiasi tipo di rimorso o capacità di provare emozioni reali, doveva essere trattato nel modo giusto, oppure non avrebbe esitato ad ucciderli entrambi.

 « Avvicinati ancora e le pianto un proiettile in testa! »

 Thelonious Jaha urlò ancora una volta in una pericolosa alternanza di calma apparente e scatti d’ira, stendendo il braccio armato e mirando proprio verso Clarke, rimasta incredula e in silenzio per tutto quel tempo.

Bellamy si immobilizzò sul posto e le lanciò un'occhiata fugace.

 « Andrà tutto bene », la rassicurò di nuovo, in un sussurro, voltandosi appena verso di lei, « non ti accadrà niente. »

 « Smetti di parlare! » L'uomo più grande sembrò crollare su se stesso, si prese il volto fra le mani e si premette il calco della pistola contro la tempia.

 « Non riesco a pensare... » Bisbigliò poi fra sé e sé, chiudendo le palpebre e facendo un respiro profondo.

 Il moro sfruttò l'attimo di distrazione e avanzò cautamente, senza distogliere per un attimo lo sguardo dall’individuo davanti a sé.

 « Non avvicinarti! » Gridò di nuovo e tornò a puntare l’arma da fuoco, questa volta verso di lui. Il maggiore dei Blake non voleva nient’altro che questo: che distogliesse l’attenzione da Clarke.

 « Giuro che ti sparo. Se provi a fare solo un altro passo avanti, sarà l'ultima cosa che farai. Pensi che abbia paura di usarla? », indicò con un cenno della testa l'arma, « pensi che abbia paura di ucciderti? »

 « No, non lo penso. » Bellamy lo assecondò, mentre calcolava mentalmente la distanza fra loro due e quanto gli sarebbe occorso per raggiungerlo, privarlo dell’arma e metterlo fuori gioco.

 Doveva trovare un modo di avvicinarsi e disarmarlo, e doveva farlo subito.

 Perso nei propri pensieri, sentì vagamente il corpo di lei muoversi dietro di sé e compiere due passi avanti.

 « Ascoltami... » Parlò per la prima volta, ma subito fu interrotta dall'ennesimo grido desolato.

« Vuoi morire, Clarke? Vuoi raggiungere tuo padre sottoterra? Eh? »

Jaha si avvicinò pericolosamente e Bellamy, senza nemmeno riflettere, si pose fra i due e coprì completamente il corpo della bionda con il suo.


« Non azzardarti nemmeno a guardarla. »

« O forse ucciderò te, detective. »

Ancora una volta la sua attenzione vagò fra lui e Clarke, concentrandosi su Blake, e quello fu il momento.

Subito il più giovane gli fu addosso: colpendolo con un destro in pieno volto, sfruttò l'occasione per tentare di disarmarlo, ma l'altro fu più veloce e scattò lontano da lui.

La giovane Griffin sussultò, portandosi entrambe le mani sulla bocca e spalancando gli occhi. Una parte della sua mente le gridava di fare qualcosa, qualsiasi cosa per proteggere Bellamy, per togliergli quel verme di dosso, ed era così forte da farle ignorare qualsiasi altro rumore.

Ma non era abbastanza, perché l’attacco di panico che stava vivendo non le permetteva di fare niente di tutto questo. Riuscì solo a restare ferma, immobile, mentre i capelli le volavano intorno al volto, davanti agli occhi, e la città sotto di sé continuava a circolare, a muoversi, a vorticare così velocemente da farle perdere l’equilibrio.

Dopo tutto quello che aveva fatto per tenere al sicuro il maggiore dei Blake – si era consegnata a Jaha in un attimo, senza prove, solo perché lui l’aveva ingannata facendole pensare che la sua vita fosse in pericolo, gli aveva urlato di scappare nonostante avesse una pistola puntata contro la faccia – ora non riusciva a muoversi.

Era immobilizzata. Inerte. Paralizzata.

Muoviti, Clarke! Le urlò la sua mente in tilt. Fai qualcosa! Proteggilo!

Finalmente il suo corpo sembrò raggiungere il cervello, mettersi in pari con gli impulsi che le mandava, e riuscì a fare un passo avanti.

Proprio in quel momento, la prima cosa che sentì fu la pressione attorno a sé aumentare e schiacciarla al proprio posto. Poi, immediatamente dopo, il rumore. Un sibilo affilato, dovuto al risucchio d’aria dietro al proiettile. Un fischio ronzante e quasi musicale. Letteralmente un secondo dopo, l’ultimo suono: l’onda balistica, il prodotto del proiettile che viaggiava a velocità supersonica.

Clarke vibrò sul posto, sobbalzò ed espirò forte dalle narici, lo sguardo vacuo e distorto fisso davanti a sé. Le sopracciglia lievemente aggrottate. La bocca socchiusa in una smorfia di sorpresa.

Fece due passi indietro, arrancando e claudicando, e solo qualche breve istante dopo – sebbene le fossero sembrati interi minuti – spostò gli occhi verso il basso, in direzione della coscia sinistra.

« Oh… » Biascicò, quasi senza accorgersene.

Era strano, perfino buffo, ma solo nel momento in cui vide il sangue bagnarle i pantaloni e scorrerle copioso lungo la gamba sentì il dolore. E con il dolore, tutti gli altri effetti.

Perse immediatamente l’equilibrio, capitolando a terra e cadendo su un fianco, rotolando poi sulla schiena.

Per una frazione di secondo rimase a guardare il cielo stellato sopra di sé, ben visibile grazie all’altezza del tetto e alla lontananza delle luci di Los Angeles, e boccheggiò, sollevando di qualche millimetro la schiena dal pavimento sporco.

Non seppe per quale motivo – i suoi pensieri razionali diminuivano ad ogni secondo, mentre i rumori della lotta fra il maggiore dei Blake e Jaha parevano sempre più lontani – ma ripensò al mare. Al cielo stellato sopra di lei e Bellamy. Le loro schiene piantate contro la sabbia morbida, l’odore della salsedine, quello di cannella, il rumore delle maree a pochi metri da loro.

Il modo in cui si era voltata verso di lui e l’aveva guardato negli occhi. Non gliel’aveva detto, ma era stata così gelosa di lui e Raven.

« Non voglio morire. » Ammise a se stessa all’improvviso e, con uno scatto di energia, si sollevò fino a premere entrambe le mani contro la ferita.

Poteva sentire il proiettile sotto la pelle, ma seppe con certezza di non poterlo rimuovere da sola. Non lì, senza nessun aiuto.

Parole come lesione del sistema nervoso parasimpatico e shock ipovolemico fecero capolino fra il milione di pensieri e idee che si accavallavano gli uni sulle altre in quel momento, e Clarke cercò di ignorarle a tutti i costi.

Essere un medico, dopotutto, significava anche capire i motivi per cui stava per morire. Spiegarseli e doverli accettare, però, erano due cose molto diverse.

Ben consapevole che la pressione che stesse applicando non fosse sufficiente per ridurre l’emorragia, la giovane Griffin si portò le mani sporche di sangue sulle guance, segnando anch’esse del liquido vermiglio e caldo, sporcando alcune ciocche di capelli.

« Clarke! » All’improvviso, un grido. Una voce. Quella voce.

Bellamy era al suo fianco prima che lei riuscisse anche solo a voltare il capo, e il suo viso fece capolino all’angolo del cielo che lei stava fissando. Era ferito, il suo volto pieno di tagli e lividi, ma stava bene.

Lei gli sorrise, nonostante lui sembrasse così spaventato e preoccupato, e per un attimo tutto era a posto.

« Clarke... » Sussurrò di nuovo, e lei sentì più acutamente che mai la sua mano tastare la propria coscia, bagnarsi del proprio sangue, cercare il foro di entrata.

Non puoi fare niente, pensò, ma si sentiva troppo stanca per dirlo ad alta voce.

« Bell... » Tossì e sbarrò gli occhi, tentando di tirarsi su con l’aiuto dei gomiti ma ricadendo di schiena con un tonfo secco. Voleva solo stargli un po’ più vicino.

« Ehi, Principessa! » La sua voce tremava, così come le sue mani su di lei, e la bionda poté vedere le lacrime e la disperazione bagnargli gli occhi.

Clarke afferrò la sua mano e la strinse così forte da poterla rompere. Non voleva allarmarlo e agitarlo più di quanto già non fosse, ma aveva bisogno che lui le stesse vicino. Aveva bisogno di essere totalmente sincera con lui. In fondo, sapeva che alla fine sarebbe stato bene. Avrebbe vissuto.

Il suo corpo, intanto, aveva iniziato ad addormentarsi lentamente. Il dolore che fino a pochi istanti prima le attanagliato i sensi stava svanendo attimo dopo attimo, e i pensieri nella sua mente si stavano dipanando a poco a poco, abbandonandola uno alla volta, disciogliendosi in una nebbia che non faceva male.

Si sentiva sempre più intorpidita e la sua vista iniziava a dare segni di cedimento. Il volto di Bellamy, sul quale si era concentrata tanto, stava pigramente sbiadendo dal suo campo visivo.

Lo sentì vagamente sussurrare: « Andrà tutto bene, andrà tutto bene. Te lo prometto, starai bene. Ho bisogno... » Prima che i propri occhi lasciassero i suoi e vagassero nuovamente verso le stelle, piccoli puntini luminosi sopra le loro teste.

L’ultima cosa che percepì prima di perdere i sensi era il calore della mano di Bellamy nella sua.

« Ehi, ehi, devi rimanere sveglia! Non chiudere gli occhi, ti prego! » Urlò lui così forte da sentire l'eco disperata della sua voce nel silenzio che la seguì, mentre stringeva ancora di più le sue dita immobili fra le proprie.

 Doveva salvarla, doveva ripulirla da tutto quel sangue e impedire che ne uscisse ancora, perché era prezioso, perché non poteva immaginare un mondo in cui la sua coraggiosa principessa non si svegliava più, ma cosa avrebbe potuto fare? Era lei il futuro medico, lui in quel momento si sentiva una nullità.

 Poi, come un'illuminazione, gli tornarono alla mente le lezioni di pronto soccorso all'Accademia.

« Ok, ok, ci sono. » Sussurrò fra sé e sé, prendendo la cintura che aveva cominciato a togliersi e stringendola propria sopra il punto in cui il proiettile si era ferocemente insinuato nella pelle della coscia di Clarke.

 Bellamy si tolse la giacca mentre tremori indicibili sconvolgevano ogni centimetro del suo corpo, frutto della rissa e della paura e dell’adrenalina che scorreva libera sotto la sua pelle, la ripiegò su se stessa e la premette contro la ferita, da cui usciva copioso il liquido caldo e scuro simile alla pece sotto la luce oscura della luna.

« Ce la farai, Principessa! Non ti permetto di lasciarmi! »

Assicurandosi che la ferita fosse compressa nel modo giusto, prese la sua ricetrasmittente e comunicò con la stazione di polizia.

« Qui l’agente Blake, ho bisogno di rinforzi e soccorso medico sul tetto del Mount Weather Hospital. Ho in custodia un sospettato di omicidio e un civile ferito, richiedo immediatamente supporto, potrebbe trattarsi di un codice rosso. »

Gettò l’apparecchio lontano da sé e tornò a concentrarsi su Clarke, ancora incosciente. Il suo sangue era ovunque: sui loro pantaloni, sul pavimento, impregnato fra alcune ciocche bionde, cosparso sulle sue guance, attorno al collo. Bellamy non riusciva a vedere altro.

« Andrà tutto bene, te lo prometto. Resisti, ti prego! » La supplicò per quelle che sembrarono ore interminabili, accarezzandole i capelli e il viso in punta di dita, come se la minima pressione potesse farla stare peggio.

Era esausto e ferito, le sue tempie pulsavano al ritmo feroce del suo cuore e i suoi occhi pesanti lo supplicavano di riposarsi, di chiudere le palpebre e lasciarsi andare, ma lui si forzò di restare sveglio, cosciente, di continuare a premere il tessuto della giacca contro la ferita.

L’ultima cosa che sentì prima di perdere conoscenza e abbandonarsi finalmente alla stanchezza erano i paramedici che stimavano il sangue che aveva perso e contavano pressione e battito cardiaco.
 
 



Il maggiore dei Blake si risvegliò circondato da bianco e dondolato poco delicatamente da una barella.

Ancora incapace di parlare, indirizzò lo sguardo in tante direzioni diverse: lungo le pareti dell’ospedale, ai medici che lo trasportavano e guardavano dritto davanti a loro, verso il suo corpo disteso e le sue mani sporche di sangue. Sangue suo e di Clarke.

Un attimo; Clarke. Lo sparo. La ferita. Il panico.

Non appena cercò di alzarsi, di togliersi di dosso la coperta in cui l’avevano avvolto e scendere dalla barella in corsa, una mano si strinse attorno alla sua e una voce sconosciuta lo richiamò.

Quando si voltò in direzione della voce, si ritrovò davanti una faccia che non aveva mai visto prima.

 « Bellamy, » lo richiamò nuovamente la donna, « il mio nome è Gina. Sono un’infermiera. Ti abbiamo trovato qualche minuto fa. Andrà tutto bene. »

La sua voce era delicata, accondiscendente e sicura. Per un attimo, si sentì profondamente a proprio agio.

Poi ricordò, e si spostò la mascherina di ossigeno dal volto. « Sto bene. Devo andare da Clarke. Dov’è Clarke? »

« L’hanno già portata in sala operatoria, Bellamy. Non c’è niente che puoi fare, se non riposarti. Vai a dormire, ti sveglierò io non appena avremo notizie. »

Il moro non seppe perché – forse era dovuto all’enorme stanchezza causata dalle percosse di Jaha, forse alla determinazione che Gina gli stava dimostrando – ma, con un sospiro rassegnato e angosciato, si lasciò ricadere contro la barella, fra i cuscini, e si riaddormentò senza dover opporre la minima resistenza.


 


Eccoci qui! Per ovvi motivi ho rimandato il commento alla fine del capitolo. Finalmente abbiamo scoperto la verità. Molti di voi ci erano già arrivati, e siete stati grandi: Jaha è il grande cattivo. So che probabilmente non sono stata poi così misteriosa, e questo è dovuto al fatto che faccio cagare in questo genere di cose, però il punto era un altro.
Non tenevo tanto all'identità segreta dell'assassino di Jake, quanto al percorso che avrebbe portato a questa rivelazione. Alle sue conseguenze.
Il mio obiettivo è stato: voglio vedere cosa succede a questo personaggio se viene sottoposto a questa cosa. Voglio approfondire il percorso di crescita, la sua interiorità, il suo sviluppo durante e attraverso la storia.
La maturazione e l'evoluzione del personaggio di Clarke e della sua sfera emotiva, in poche parole. Quello era il vero scopo. 
Se ci sono riuscita o meno, è compito vostro dirlo. Io vi ringrazio per il supporto e la presenza fondamentali in questo percorso, e spero come sempre di non avervi deluso.
Fatemi sapere!

 


 



PS: ho ripetuto alcuni elementi del prologo e li ho modificati per l'occorrenza, questa volta partendo dal punto di vista di Clarke, in modo da avere una visione completa dell'accaduto.
  
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