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Autore: Arlie_S    29/04/2016    2 recensioni
[IN REVISIONE COMPLETA: scriverò accanto ad ogni capitolo se è stato revisionato o meno, mano a mano che ricomincerò a pubblicare]
Sei disposto a distruggere ciò che ami per i tuoi ideali, giusti o sbagliati che siano?
Esiste il “punto di non ritorno”, quando si parla di sentimenti?
Forse sì, forse no.
O magari, è solo una questione di scelte.
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[Dal testo del Cap. 7]
- Belle gambe! – le gridò dietro nel trambusto del Pozzo. Lei si immobilizzò dopo pochi passi.
- Hai per caso hai detto qualcosa, Turner? – disse gelida girando la testa verso di lui e guardandolo minacciosa.
- Ma figurati! Fai finta che non ti abbia detto niente! – le gridò lui alzando entrambe le mani.
Sul viso della ragazza di allargò un sorrisetto tra il divertito e il sadico.
- Sarà meglio, perché tra due ore hai la valutazione per l’addestramento dei Capofazione. E indovina a chi è toccato il sommo piacere di valutarti? – disse facendo trasparire la soddisfazione nella voce.
Eric si sentì sbiancare, mentre il sorrisetto arrogante che aveva messo su sparì immediatamente dal suo viso e le braccia gli ricadevano giù.
“Oh merda” pensò. “Questa volta sì, che sono fottuto.”
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Four/Quattro (Tobias), Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 15

Salve a tutti, generalmente non scrivo a inizio capitolo dato che nell’”angolo autrice” non mi risparmio… ma questo capitolo è un po’ diverso dagli altri, capire leggendo, ed è molto importante perché crea un allacciamento con due episodi, uno in particolare, di Mind’s Shades.

Buona lettura!

 

Capitolo 15

 

 

La detestava. E in quel momento detestava ancora di più se stesso, e non per averle dato addosso in quel modo ma per il bruciore agli occhi e per la consapevolezza che non avrebbe dovuto lasciarla lì. Che non voleva lasciarla lì; tutto quello schifo sarebbe stato anche sopportabile se, proprio in quel preciso istante, non avesse inconsciamente deciso di fare manovra e caricarsela in macchina con o senza il suo consenso.

Non era solo una questione di… affetto, ma di principio: si era fatto mettere sotto e rivoltare come un calzino da poco più di quaranta chili di Intrepida tutta occhi e capelli. Non era da lui. Non poteva dargliela vinta di nuovo e così facilmente.

Aveva guidato... sì, per circa novanta secondi, li aveva meticolosamente contati nel tentativo di calmarsi, durante i quali, nonostante la rabbia e l’amarezza per quello che era successo, si era sentito soddisfatto per quella vittoria, per averla spuntata.

Si sbagliava. Perché non era lei quella che sentiva l’impulso irrefrenabile di tornarsene indietro, caricare l’altro in macchina, tornarsene alla Residenza e chiudersi in camera per rimettere le cose al loro posto. No, era lui il rincoglionito le cui dita stavano dolorosamente sterzando il volante, mentre il piede destro frenava bruscamente per fare inversione in una sola manovra, in barba alle norme stradali.

Lo aveva manipolato abbastanza bene da fargli credere di agire per sua iniziativa… ma la conclusione era che, alla fine dei conti, aveva fatto quello che voleva lei. Come al solito.

Iniziò a vedere la sagoma di Kaithlyn dopo alcuni secondi, ancora inginocchiata a terra e con le spalle scosse dai singhiozzi.

Se per un istante aveva provato qualcosa di molto simile al senso di colpa, questo, aveva impiegato solo pochi secondi a trasformarsi in rabbia, irritazione. Lei non era debole.

Faceva tante storie per fare di testa sua e poi rimaneva lì? Rannicchiata come una ragazzina a frignare con l’ingresso di quel posto maledetto a poco più di cinquanta metri?

Si fermo a una ventina di metri da lei, spense il motore, si appellò a una pazienza e a un autocontrollo che probabilmente non aveva e scese, sbattendo la portiera.

Rabbrividì quando l’aria fredda della notte gli sferzò contro le braccia nude, facendogli venire la pelle d’oca. Era doppiamente stupido: non solo era tornato indietro, ma le aveva anche dato il suo giaccone restando scoperto; la povera, piccola Kaithlyn.

Si passò sbrigativamente le mani sulle braccia e chiuse l’auto, prima di avviarsi verso la figura minuti inginocchiata a terra.

- Alzati! – ordinò, con voce ruvida.

Kaithlyn sussultò e alzò gli occhi su di lui, sorpresa, fissandolo per un lungo istante e smettendo di piangere. Tirò su con il naso, mentre la scintilla della rabbia si riaccendeva dietro ai suoi occhi e stringeva le labbra in una linea dritta.

- Avanti! –insistette, schiarendosi la voce con un colpo di gola, mentre si piegava su di lei e la afferrava per le braccia, mettendola in piedi senza sforzo. Kaithlyn si lasciò sollevare passivamente, sulla difensiva.

- Ed io che speravo di essermi liberata di te… - gracchiò con voce impastata, deglutendo, le sopracciglia chiare abbassate sugli occhi. La teneva ancora per le braccia: non era sicuro che potesse stare in piedi da sola, senza un appoggio.

Roteò gli occhi al cielo. – Hai cantato vittoria troppo presto, Katy. Ora smetti di piagnucolare e vieni con me. – sillabò, cercando di controllare la voce e il tremore alle mani. Le passò un braccio dietro la schiena, per sospingerla verso l’ingresso dell’edificio.

Sulle prime lo seguì, un passetto alla volta. Sembrava confusa sul da farsi e anche lui lo era. Perché diavolo non se n’era andato e tanti saluti?

Sentì le dita sottili poggiarsi sul suo avambraccio e si affretto e stringerle il gomito, per tenerla in piedi. Non voleva che cadesse.

Aveva lo straordinario potere di tirargli fuori le migliori e le peggiori intenzioni in un colpo solo. Lo confondeva. Riusciva a farlo passare dalla voglia di ucciderla a quella di baciarla e passare ogni secondo con lei in pochi attimi, se non a fargli provare entrambe le sensazioni contemporaneamente.

Lei scosse la testa, facendo un altro paio di passi incerti accanto a lui. – Allora hai la testa dura. – disse, flebilmente. – Cosa c’è di poco chiaro nella frase “togliti dai piedi”? – chiese, arrestandosi.

Si fermò anche lui: se avesse proseguito tenendole la mano sulla schiena, sarebbe finita faccia a terra.

Si voltò verso di lei: non sarebbero andati molto lontano di quel passo... – Bene. Mi sono rotto i coglioni! – annunciò, stringendosi nelle spalle. Il passo successivo fu quello di piegarsi verso le sue gambe e caricarsela in spalla come un sacco di patate.

Era una fortuna che fosse tanto minuta e leggera: completamente inerme rispetto a lui. Non avrebbe potuto forzarlo a mollare la presa neanche nei suoi sogni più entusiasti, con quelle braccine.

Come ben sapeva, la teoria è da sempre molto diversa dalla pratica: forse fu per quello che non si sorprese nel doversi sforzare più del dovuto. Kaithlyn aveva le braccia fuori uso, certo, ma non le gambe e sembrava decisa a fare quello che poteva per sgusciare via.

Le mise una mano sulla schiena, sentendo il suo ventre contrarsi spasmodicamente contro la sua spalla. Non fosse mai che gli venisse una sincope sul più bello.

Gli sembrava talmente piccola e indifesa che non si preoccupò neanche di tenerle ferme le gambe. Era troppo debole per ribellarsi.

Non finì di formulare quel pensiero che ricevette un calcio nello stomaco: non abbastanza forte da fargli mollare la presa, ma abbastanza fastidioso da fargliela allentare per un istante.

La mano che le teneva sulla schiena strusciò in modo doloroso contro il giaccone che le aveva dato, facendogli stringere i denti mentre lei gli scivolava sul petto, tra le braccia.

Il taglio gli bruciava maledettamente.

Doveva disinfettarsi al più presto: probabilmente la ringhiera dello Strapiombo era popolata da chissà quali strani batteri letali e sconosciuti al pianeta… e lui, nel delirio dell’attacco di rabbia, era riuscito a tagliarsi all’attaccatura delle dita di entrambe le mani.

Forse si sarebbe ricoperto di macchie verdi. Prima, comunque, doveva liberarsi del problema indisponente che teneva tra le braccia.

Ne andava della sua dignità.

- Mettimi giù! –strillò, premendogli le mani sul petto per allontanarlo, scendere e rimettersi in piedi.

La ignorò. Strinse i denti e la presa sul suo corpo, ricaricandosela in spalla. La gomitata che gli arrivo dietro la testa, riuscì quasi a fargli il solletico.  

Nel giro di pochi attimi successero più cose contemporaneamente: Kaithlyn gli assestò una seconda pedata in mezzo al ventre, costringendolo a piegarsi in avanti e si udirono delle voci concitate e dei passi in lontananza. Qualcuno che correva in quella direzione.

Lei raddrizzò la schiena cadendo all’indietro, e si sarebbe spaccata la testa sull’asfalto se non avesse avuto la prontezza di riflessi di riafferrarla. Inavvertitamente, un bottone gli passo sulle mani e sulle ferite, annebbiandogli la vista per il dolore.

Boccheggiò e strinse la presa su di lei, rimettendola in terra con tanta forza da farla impallidire, se possibile, ancora di più.

Sentiva di nuovo un’ondata di furia cieca partire dalla testa e diffondersi al resto del corpo. Era stanco, di essere allontanato e non gli interessava, non in quel momento, se le aveva fatto di nuovo male. Non mentre lui cercava, con le su penose e pressoché inesistenti capacità empatiche di comportarsi abbastanza bene da rasentare appena la decenza. Era stanco. Esausto. Umiliato. Demoralizzato. La testa gli pulsava in modo doloroso. Gli occhi gli bruciavano e sentiva crescere dentro il petto la voglia di urlare e distruggere qualcosa e, l’intento, era quello di non far diventare quel “qualcosa” da distruggere il bel visino di Kaithlyn.

Sul serio, non voleva farle ancora più male. Se si fosse trattato di chiunque altro, un pugno in mezzo agli occhi non glielo avrebbe tolto nessuno. Lei, però, non era tutti gli altri.

Strinse i pugni, provocandosi un’altra scarica di dolore. Aprì la bocca per urlarle qualcosa, ma non ne ebbe il tempo.

Prima che potesse anche solo prendere fiato per parlare, si sentì spintonare all’indietro: non aveva sentito nessuno arrivare. Riacquistò l’equilibrio, ritrovandosi a fronteggiare un paio di occhi chiari e furenti.

- Non toccarla! – gli urlò lo sconosciuto, spingendolo ancora all’indietro e facendolo barcollare di nuovo.

Non reagire. Non reagire.

Impiegò un paio di secondi per racimolare il poco buon senso che aveva a disposizione e limitarsi a spintonarlo all’indietro, anziché saltargli alla gola. – E tu, - sputò, riacquistando l’equilibrio. – Chi cazzo sei, eh? -.

Vide Kaithlyn girarsi con il chiaro intento di mettersi nel mezzo e fece per raggiungerla. Non aveva la più pallida idea di chi fosse quel tizio, ma sicuramente non lo avrebbe fatto avvinare a lei. Con sua grande sorpresa il nuovo arrivato, anziché lasciarla fare, la spinse all’indietro con braccio, facendola finire con il sedere per terra.

Quel gesto, seppur fatto con il chiaro intento di difenderla, gli fece oscurò la vista per un istante e, in una sola falcata lo raggiunse, agguantandolo per la camicia e sollevandolo di dieci centimetri da terra.

Sentiva la stoffa leggera e liscia della camicia tendersi sotto le dita, mentre il peso del proprietario trascinava in giù il corpo. Era massiccio, per essere un Erudito, ma non abbastanza da potersi anche solo sognare di metterlo in difficoltà.

Lo lasciò andare con un gesto di stizza e lui, per poco, non cadde addosso a Kaithlyn ancora con il sedere per terra e il viso imbrattato di lacrime e sangue. Solo in quel momento notò che non sembrava turbata. Nervosa, magari. Irritata dalla presenza del nuovo arrivato ma non abbastanza. Se fosse stato uno sconosciuto si sarebbe alzata prima di lui per dirgli di farsi i fatti i suoi. Ne era assolutamente certo. Il giorno in cui Kaithlyn Evenson avesse taciuto su qualcosa che la disturbava anche in minima parte, il sole sarebbe sorto a Ovest e Quattro, forse, avrebbe organizzato un Rave Party.

Lei gli lanciò un’occhiata strana, mentre si alzava con una smorfia. Face un paio di passi verso l’Erudito, immobile ma evidentemente pronto a scattare e strinse le dita intorno alla stoffa del camice.

- Lucas… - gracchiò, con voce strozzata. – Calmati –. Sfruttò la presa sul camice per avanzare più rapidamente e mettersi in mezzo, dandogli le spalle.

Sembrava ancora più piccola e fragile con quel giaccone troppo grande per lei, ma la sua voce, per quanto provata era ferma. Decisa.

L’Erudito sembrò perdere le staffe. – Stai scherzando? – le urlò, a pochi centimetri dal viso, con gli occhi spalancati d’incredulità. Poi si rivolse a lui, sporgendosi oltre la spalla di Kaithlyn e puntandogli un dito contro, l’espressione deformata dalla rabbia. – Se ti azzardi a toccarla un’altra volta te ne pentirai. – sibilò, posandole una mano su un braccio.

Sentiva sulla pelle il desiderio pulsante di colpirlo, come una leggera carica elettrica. E l’avrebbe fatto, se non fossero stati quasi attaccati: così vicini, avrebbe fatto fatica a spostare Kaithlyn dalla traiettoria della raffica di botte con cui stava per omaggiare il nuovo venuto.

Kaithlyn posò le mani sul petto dell’Erudito, in un chiaro invito a indietreggiare.

Lo osservò, valutando quanti problemi avrebbe potuto creare. Era diversi centimetri più basso di lui, ma aveva le spalle larghe e sembrava piuttosto solido per essere un Lasso, la cui vita veniva trascorsa principalmente sui libri. Le uniche attività fisiche per cui gli Eruditi stravedevano erano quelle che davano crediti extra.

Non riusciva a distinguere bene i colori con la sola, lontana, illuminazione di qualche sporadico lampione e dell’ingresso del pronto soccorso, ma i capelli arruffati, all’apparenza castano chiaro e la tonalità evidentemente azzurra degli occhi lo bloccarono, impedendogli di scagliarsi definitivamente contro di lui. 

Lui conosceva quell’iride. Così come aveva già visto la punta del suo naso e c’era qualcosa, anche, del suo viso che era familiare, vicino. Forse era la stanchezza ma l’espressione furiosa sul suo volto e il modo in cui aveva abbassato le sopracciglia, non gli lasciarono neanche l’ombra del dubbio: Kaithlyn.

Avrebbe riconosciuto le sue espressioni su chiunque e quello non poteva che essere uno dei suoi fratelli maggiori. Tra l’altro, aveva senso: quale altro Erudito si sarebbe preso la briga o avrebbe avuto il fegato di picchiarlo, anziché chiamare il Centro di Controllo, se non un parente, qualcuno a lei abbastanza vicino da non limitarsi a desiderare di allontanarla da lui per una questione d’incolumità? Nessuno. I Lassi non intervenivano nelle dispute fisiche, era molto difficile; soprattutto se si trattava di Intrepidi, dai quali in linea di massima potevano solo prenderle di santa ragione, come in quel caso.

Non portava gli occhiali. Strano: erano come un segno di riconoscimento, tra gli Eruditi e l’unica altra persona che non ne aveva bisogno e non portava neanche quelli senza gradazione, era sua madre. Un caso umano che non avrebbe dovuto fare testo, a suo dire.

Il nuovo arrivato lo fissò a lungo, prima di spostare gli occhi su Kaithlyn e aggirarla, arrivandogli a pochi centimetri dal viso.

- Se ti avvicini di nuovo a mia sorella… - gli intimò in tono basso, tanto vicino che avrebbe potuto contargli le lentiggini sul naso.

Da che ne aveva ricordo, non era mai stato un amante del contatto fisico: anzi, lo evitava il più possibile se non in particolari situazioni. Detestava essere toccato troppo, ciancicato o sentire le mani di qualcuno addosso.

- Tu cosa? – lo schernì, in un soffio. - mi prendi a pugni? –.

Avrebbe proprio voluto vederlo. Forse non se ne sarebbe neanche accorto, se l’avesse colpito.

- Smettetela! – sibilò Kaithlyn allontanandosi di un passo dal fratello e mettendosi di lato, tra loro.

Il ragazzo continuò a guardarlo in cagnesco. Non sapeva se considerarlo coraggioso o molto stupido. Immaginava ci fosse una linea molto sottile, tra le due cose.

Roteò gli occhi al cielo e fissò l’altro con un ghigno, prima di muoversi verso Kaithlyn. Vide con la coda dell’occhio l’altro seguire ogni suo movimento e voltarsi con lui.

Sentiva ancora la sensazione di una tenue corrente a fiori di pelle che, lentamente, si stava caricando. Avrebbe dovuto sfogarsi in palestra, più tardi. O sfiancarsi con una bella corsa.

- Kaithlyn. – la chiamò il fratello, in tono duro. - Tu, lasciala stare. Ci penso io a lei. – disse, raggiungendoli e stringendogli un polso.

Chiuse gli occhi e inspirò. – Hai tre secondi per lasciarmi il braccio.  – lo minacciò. – Poi ti riempio di botte. –

L’Erudito non parve turbato e mantenne un’espressione impassibile, senza mollare la presa.

- La stavi portando qui, è corretto? – gli domandò, improvvisamente in tono calcolato, professionale.

Annuì. – No, pezzo d’idiota. Stiamo facendo una passeggiata al chiaro di Luna, è una zona così bella. – lo schernì, sarcasticamente.

Le labbra di Kaithlyn ebbero un guizzo, mentre quelle di suo fratello si piegarono in un’espressione fintamente accondiscendente. – Eccellente. Ci penso io. Sono di turno, se sai di cosa sto parlando e, precisamente, al pronto soccorso. –

Eric lo fissò. – Tu? O sei molto più vecchio di quanto sembri o c’è qualcosa che non torna: hanno portato le matricole universitarie a fare una visa guidata in notturna? – domandò, accentuando un’espressione di finta simpatia.

- Taci. Non sapresti neanche da che parte iniziare. – sibilò, l’altro, stringendo i pugni.

Eric ghignò. – Dici? -.

Si fissarono in cagnesco per un lungo istante.

- Ad ogni modo, - proruppe in tono professionale il fratello di Kaithlyn. – La tua presenza è superflua al fine che ti eri prefissato di raggiungere accompagnandola. È arrivata e tu non disponi di alcuna competenza pregressa o non per renderti utile. –

- L’inutile se superfluo al raggiungimento di un risultato ottimale, va evitato. Ergo, ci serve un medico non un tirocinante che non ha niente di meglio da fare. Non mi farei toccare da te neanche in punto di morte. – lo interruppe, Eric.

L’altro richiuse le labbra e lo osservò con circospezione.

Eric si avvicinò. – Fai un favore a te stesso e a me ed evita di rifilarmi queste cazzate, okay? – disse, inarcando le sopracciglia e sollevando un angolo della bocca.

Tornò vicinò a Kaithlyn che però non sembrava intenzionata a muoversi e continuava a fissarlo con due occhi enormi. – Devi medicarti anche tu – mormorò, abbassando gli occhi sulle sue mani insanguinate.

- Sì, be’. Non è il mio primo problema al momento. – ribatté. – Vuoi andare con lui? – aggiunse, vedendola indecisa sul da farsi.

Annuì. – Bene. Allora posso andare. – mormorò, sentendo la delusione farsi largo dentro di lui. Era una cosa stupida e si rendeva perfettamente conto che sarebbe stato molto più logico non imbastire una discussione solo per chi la accompagnava dentro con il suo fratello tirocinante.

Era infantile, ma arrivati a quel punto avrebbe voluto finire. Averla vinta almeno nel confronto con uno suo fratello.

Kaithlyn gli si avvicinò camminando instabilmente e gli strinse appena un polso. Sentiva tra le loro pelli qualcosa di umido, forse sangue. Le prese la mano, fissando il terreno.

- Vai tu. – disse, dopo qualche secondo. - Avrei dovuto lasciarti in mezzo di strada tre chilometri fa, invece di insistere. A questo punto immagino che potrai cavartela da sola. –

Kaithlyn alzò gli occhi su di lui, l’espressione dispiaciuta. – Non fare l’idiota, - gracchiò, mentre il fratello la affiancava e le metteva una mano sulla schiena, con fare protettivo. – Non puoi lasciarle così – asserì stringendogli un po’ il polso e costringendolo a togliere le dita dal dorso della sua. – Guarda come ti sei ridotto. -

- Mi pareva di aver intuito che non dovesse interessarti più, il mio stato di salute. Sei stata piuttosto chiara, circa dieci minuti fa. Premesso questo, se hai qualcosa da dire fammi il sacrosanto piacere di cucirti la bocca, una buona volta, e tenerla per te. – disse, freddamente, scostandosi e facendo sì che la sua mano le ricadesse lungo il fianco lasciandogli una piccola chiazza di sangue sul polso.

- Come scusa? – intervenne, Lucas voltandosi verso di lui.

- Fatti gli affari tuoi. – lo zittì Kaithlyn, girando appena la testa.

Si girò di nuovo verso di lui. Sembrava più tranquilla, anche se era pallida e tremante. Non era una tranquillità che condivideva. Quello era il vero punto di rottura, di stacco. La frattura definitiva.

Prese un bel respiro. – Sono stanco di discutere con te. – disse, guardandola. Lei abbassò gli occhi. – Sì, anch’io. – concordò, stringendosi il giaccone addosso.

- Possiamo parlarne, dopo? – gli chiese.

Eric scosse la testa. – Ci siamo già detti tutto e non ho intenzione di darti altre munizioni da usare contro di me. Va’ con lui. Ci vediamo in giro. – biascicò, sentendo un nodo all’altezza dello stomaco stringere fastidiosamente.

Kaithlyn contrasse il viso in una smorfia. – Le tue mani. – mormorò.

- Non è affare tuo. Ho fatto male a tornare indietro: se ti avessi lasciato lì come volevi avrei fatto il mio. Nel caso avessi bisogno di un passaggio fino a casa, quindi, sei liberissima di chiamare il tuo amichetto, io non ho intenzione di fare nient’altro, per te. –

Quella era la fine: ne era conferma l’espressione dispiaciuta di Kaithlyn e quasi si sorprese nel costatare che, a quanto pareva, provava qualcosa anche lei.

Eureca. Erano dovuti arrivare a quel punto, per quello.

La lasciò lì, tornando sui suoi passi senza rivolgere un solo sguardo al fratello di lei.

Si sentiva sconfitto e briciava terribilmente, anche se ormai avrebbe dovuto esserci abituato.

Raggiunse l’auto, salì, mise in moto e partì sgommando. Girò per diversi minuti, senza fare troppo caso al tragitto: a quell’ora era quasi facile confondersi, per le strade ordinate nel quartiere; poi imboccò una strada secondaria che lo condusse fino a un grosso stradone.

Era abbastanza inquietante, con i pochi lampioni e l’oscurità che si prospettava davanti all’auto. Alla sua destra c’erano a intervalli regolari di qualche decina di metri degli alberi dal fusto alto e grosso e, dietro di loro, un fosso non troppo profondo delimitato dal guardrail e dai paletti catarifrangenti che delimitavano il percorso rettilineo. Aveva la strana sensazione di conoscere quella strada, di esserci già passato in un momento particolare, ma era troppo arrabbiato per farci caso.

Ingranò la prima, e ripartì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Ciao Kaithlyn! –.

Alzò gli occhi sull’uomo slanciato che le dava le spalle: Andrew.

Aveva il naso tappato, la testa ovattata e faticava a reggersi in piedi. La spalla continuava a lanciarle fitte dolorose e sentiva il braccio con il palmo tagliato freddo.

La mano di Lucas, sul suo fianco, la sorresse stringendola, mentre avanzavano. Suo fratello si era caricato in spalla il suo borsone appena entrati poi si era seduto con lei e avevano aspettato insieme, in silenzio, il suo turno.

Non c’era molta gente, per cui era stata un’attesa breve.

Andrew si voltò verso di lei e la squadrò dalla testa ai piedi da dietro gli occhiali dalla montatura nera e rettangolare. – Che diavolo ti è successo? -.

Aprì la bocca per rispondere, aggrappandosi al braccio di Lucas per non cadere, ma sentiva le forze venirle meno e il sangue defluire rapidamente verso il basso, mentre le calava la pressione a picco.

La testa le pulsava… perché non poteva semplicemente stendersi e dormire? Solo un po’.

Cercò di concentrarsi sul fratello e sulla sua aria preoccupata, mentre il suo campo visivo diventava sfarfallante.

Sentì le gambe cedere mollemente e sarebbe caduta se il braccio di Lucas non si fosse prontamente infilato sotto le sue ginocchia. Sentì il borsone scivolare lungo il braccio del fratello e dondolare sotto le sue gambe mentre veniva sollevata da terra.

Ci furono un paio di secondi di silenzio, durante i quali sentì il rumore delle carta che ricopriva il lettino venire strappata per essere sostituita con altra carta pulita. Poi avvertì la superficie ruvida della carta contro il corpo.

Poi, il buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sentì la porta della cornetteria aprirsi e un brivido di disagio gli corse lungo la schiena. Abbassò la testa, anche se i capelli erano ancora troppo corti per coprirgli del tutto il viso; quelli davanti gli arrivavano poco oltre gli zigomi.

La sensazione di conoscere il cliente appena entrato sembrava scorrergli nelle vene fino ai capillari della punta delle dita; era una strana sensazione di familiarità quella che provava nell’ascoltare, immobile e teso, i passi dello sconosciuto sul pavimento di legno.

Il rumore dei passi s’interruppe bruscamente ed Eric s’irrigidì ancora di più, sentendosi osservato. Qualche altro passo esitante gli annunciò che l’uomo gli era arrivato alle spalle.

Doveva essere un cliente abituale, perché il barista di turno, un uomo alto e dagli atteggiamenti burberi rivolse un cenno di saluto alle sue spalle, mentre lui si sentiva sbiancare.

- Berry, - salutò il nuovo arrivato, in tono incerto.

Eric per poco non si strozzò con il caffè che stava bevendo: non poteva aver raggiunto livelli di sfortunata tanto elevati, gli sembrava utopistico. Impossibile. Di tutta la gente che frequentava quel posto non poteva esserci passato nell’unica notte in cui poteva incontrarlo, dopo, tra le tante cose, essere rimasto impantanato con l’auto a qualche chilometro di distanza.

Se qualcosa può andar male, lo farà.

Avrebbe dovuto farsi tatuare quel modo di dire da qualche parte, anche solo come promemoria.  

Azzardò a sbirciare di lato, affilando lo sguardo tra le ciocche di capelli scuri che si era fatto ricadere sul viso per coprirlo ma fu un errore; lo capì nell’esatto istante in cui i suoi occhi s’incrociarono un paio di occhi azzurri, sorpresi.

- Eric...! – boccheggiò, l’uomo accanto a lui.

A quel punto era inutile nascondersi, ma mantenne comunque lo sguardo puntato sul bancone, quasi volesse mettersi a memorizzare le linee morbide dei motivi del legno scuro.

- Pa’… -.

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando riprese i sensi, la prima cosa che avvertì, fu qualcosa che le tirava sulla schiena e la sua mano che si muoveva. Era semi seduta su un lettino, in una stanza tanto asettica che dovette stringere leggermente gli occhi per la luce.

La schiena le faceva male, ma non era più il dolore sordo di prima: era qualcosa di diverso, di attutito. Sentiva il sangue pulsare nella zona lesa della schiena e qualcosa frapporsi tra la sua pelle e la superficie del lettino. Una benda, forse: dovevano averla medicata.

Suo fratello era seduto accanto a lei: aveva gli occhi fissi sulla sua mano e gli occhiali sulla testa. Teneva in mano una pinzetta e indossava dei guanti in lattice bianco. Sotto le luci chiare del soffitto, i suoi capelli assumevano una strana sfumatura rossastra.

Alzò gli occhi su di lei, assottigliandoli appena nel guardarla. – Ti sei svegliata, finalmente. – costatò, accennando un sorriso.

Si sentiva confusa, con la testa ovattata forse da qualche antidolorifico o antiinfiammatorio, ma una cosa la sapeva.

- Se dici a papà che sono qui – biascicò, debolmente. – Ti uccido. –

Sentì una risatina e le venne da stendere appena le labbra, ma quello che ne uscì non fu altro che una smorfia, mentre lui tornava a occuparsi del taglio alla sua mano. Era completamente insensibile su tutto il braccio.

- Che ti è successo? – le chiese, senza staccare gli occhi dal suo lavoro mentre allungata una mano per prendere qualcosa dal mobiletto a più piani che aveva accanto. Aveva la mano sporca di qualcosa di rossastro… forse tintura di iodio, per metterle i punti.

- Il braccio… - mormorò, cercando di alzarsi per verificare la motilità dell’arto. Andrew si alzò in piedi e la rispinse gentilmente distesa.

- Stai buona. – le disse, passandole una mano sulla fronte. Aveva le mani freddissime e asciutte, ma era piacevole sentirle sulla pelle.

- Eric? – chiese, non vedendolo. Non era venuto con lei?

Suo fratello scosse un po’ la testa. – Chi? -.

Guardò Andrew, confusa: forse se n’era andato. Non ricordava con chiarezza gli ultimi minuti, prima di perdere i sensi. Ricordava solo di sentire un gran dolore più o meno ovunque.

- Eric. – ripeté. – Oh, era con me quando sono arrivata. Mi ha portata lui qui… in macchina. – aggiunse, dato che il fratello non poteva capire altrimenti.

Le rivolse un’occhiata strana e strinse le labbra. – Il tipo inquietante di cui mi ha parlato Lucas? -.

- Può darsi… è – prese fiato, mentre il fratello interrompeva quello che stava facendo per afferrare un garza dal mobiletto. – Molto alto, moro… è attraente e dovrebbe avere le mani insanguinate… è stata una serataccia anche per lui. –

Andrew annuiva, mentre parlava. - È andato via quando Lucas vi ha raggiunto fuori, allora. Qui non è entrato nessuno di alto, moro e attraente.

Portò l’altro braccio, indolenzito, alla fronte e si massaggiò le tempie. Le scoppiava la testa.

- È un tuo amico? – si sentì chiede dopo qualche secondo in cui aveva tenuto gli occhi chiusi lasciandosi accudire.

Aprì gli occhi e fissò il soffitto poi girò la testa verso il fratello e sorrise un po’. – Amico – disse, con un’alzata di sopracciglia.

Andrew scosse la testa e respirò dal naso. – Lo immaginavo. È il tuo ragazzo? – chiese, senza inclinazioni.

Quella sì che era una domanda interessante. Si erano lasciati? Non si erano lasciati? Immaginava di doverlo chiedere a lui, per capire se erano giunti a una conclusione o se si era trattato dell’ennesima litigata furiosa e inutile.

- Ottima domanda – commentò, tornando a guardare il soffitto bianco.

Suo fratello posò le pinzette con cui teneva il filo. – O lo è o non lo è, Kaithlyn. Non mi sembra difficile. –

- Geloso? – lo punzecchiò. Iniziava a sentirsi un po’ meglio e un po’ meno confusa.

Suo fratello scosse la testa. – No. Sei abbastanza grande da fare ciò che credi meglio, immagino. – affermò, ostentando indifferenza e stringendosi nelle spalle.

Anche se il sorriso non le arrivò alle labbra, iniziava a sentire la tensione allentarsi un po’ e stuzzicare il fratello era divertente. – Ci siamo lasciati venendo in qua. – disse, alla fine, anche se non era del tutto sicura che fosse esattamente così. Le cose, per lei, dovevano essere chiare e, al momento, non lo erano.

- Ah. –

- Già. Il mio borsone? – chiese, cambiando argomento.

- Sulla sedia nell’angolo. – rispose, prontamente quasi sapesse che glielo avrebbe chiesto. – È un po’ che vi frequentate. – commentò.

Kaithlyn scosse appena la testa, sentendo i capelli solleticarle il collo. – Qualche mese. Perché ti interessa? -.

Lui si strinse nelle spalle. – Curiosità. Non l’hai lasciato per non farlo conoscere a nostro padre, vero? -.

Rise, mentre un leggero dolore al petto le si irradiava ovunque. – Scherzi? Era il mio sogno presentarglielo: gli avrebbe fatto accapponare la pelle, altro che Jason! – esclamò, mentre suo fratello iniziava a fasciarle la mano. I punti le tiravano leggermente.

- Ad ogni modo, per rispondere alla tua velata minaccia di poco fa, no. Non sono stupido, quindi non dirò niente a nostro padre. – le disse.

- Bravo. Questo è lo spirito giusto. Ti ricordi forse di quanto mi sono rotta un braccio sull’albero? O di quando dovevi venirmi a prendere a scuola ed io sono scappata dalle sbarre del giardino e sono venuta qui da lui, da sola? – gli rammentò, ricordando chiaramente la sgridata che era seguita. Sia per lei, chiaramente, che per lui che si ritrovava sempre con la responsabilità di tenerla d’occhio. Fallendo, il più delle volte.

Andrew rabbrividì. – Indelebilmente. Ti avrei uccisa, Kaithlyn. Sei stata la sorella più dispettosa, indisponente, saccente e rompi scatole della storia. –

- Non essere cattivo, era piccola… - cercò di difendersi, mettendo su la sua miglior espressione innocente.

- Non incanti nessuno, signorina. Cosa pensi, che Samantha non si ricordi dei tuoi scherzetti? – insistette, assottigliando gli occhi.

Scoppiarono a ridere. - È stato divertente! Hai riso anche tu, traditore. – si difese, mentre lui la aiutava a mettersi seduta sul lettino e le spostava una ciocca di capelli da sopra la faccia.

- L’alternativa era mettermi a piangere, cerca di capirmi. – disse, in tono drammatico.

- Che disgrazia. – asserì, annuendo.

- Una piaga. Dove passavi te non cresceva più neanche un filo d’erba.* - rincarò.

Sorrise un po’. Andrew era il più grande dei suoi fratelli e quello a cui era toccato occuparsi più di lei, dati i quasi undici anni di differenza. Era anche quello di cui era più gelosa… Dylan, il secondo e oggettivamente più bello era un donnaiolo e con Lukas, il più piccolo, aveva sempre avuto un rapporto di amore-odio. Manuel, il terzo e forse il più sacrificato, se di sacrificio si poteva parlare, era invece tranquillo, gentile e posato. Spesso faceva da paciere, in particolare tra lei e Lucas che discutevano una volta sì e l’altra pure.

Ricordava, quando era più piccola, di aver storto il naso a ogni ragazza con ognuno di loro, ma per nessuno le si era contorto lo stomaco come per Andrew. Aveva fatto passare l’inferno a quella che, qualche anno prima, era diventata sua moglie. Se non altro era sicura che fosse amore: in nessun altro caso, avrebbe sopportato. Lei non l’avrebbe fatto.

Suo fratello la riportò con i piedi per terra. – Non raccontarlo a Michael. Non vorrei prendesse esempio, sua madre non potrebbe sopportarlo. –

- Ah! – esclamò. - È stato un bello scherzetto genetico, eh? – rise, pensando al nipotino.

Michael, cinque anni, era il bambino meno Erudito che avesse incontrato. Oltre a lei stessa, chiaramente.

Un mostriciattolo pestifero di poco meno di un metro che, ne era sicura, sarebbe diventato un Intrepido con i fiocchi. La madre, però, non l’aveva presa molto bene preferendo tenerglielo lontano affinché non si influenzasse troppo.

Che zia degenere, povero piccolo.

Suo fratello sorrise un po’.

- Aspetta che la nuova arrivata si metta a parlare di relatività ancor prima di nascere? – gli chiese.

Si strinse nelle spalle. – Non esagerare, non è così fissata. È più il pensare di avere gli anni contati con Michael a turbarla… non ricordarglielo troppo magari, okay? -.

Kaithlyn assottigliò gli occhi. – O forse è il fatto che, quando arriverà il momento, sarò io la figura di riferimento, per lui. – suggerì. – Non mentire, so che è così. –

Andrew annuì un po’, scoccandole un’occhiata complice. Per lui, da quel che ne sapeva, non sarebbe cambiato niente. Sua moglie, invece, era un altro paio di maniche e da quando aspettava il secondo genito, una femmina, era ancora meno ben disposta nei suoi confronti.

Se ne sarebbe fatta una ragione.

Uno… due… tre… fatto!

 

 

 

 

 

 

Stava tirando fuori i soldi per pagare, quando il barista gli mise in mano un sacchetto con quelle che sembravano paste calde e lo congedò sparendo nel retro bottega, lasciandolo lì, impalato, come un idiota.

Dal sacchetto bianco, con il logo della cornetteria, s’irradiò un tenue calore alla sua mano fredda, facendo rabbrividire.

Gli riportò alla mente una notte piovosa, di un tempo passato e imprecisato. Sicuramente non arrivava neanche al bordo del bancone, ancora, ma ricordava William e suo padre che li metteva a sedere sugli sgabelli girevoli e prendeva a entrambi una pasta calda, appena sfornata, nel tentativo di farli dormire. Sua madre non c’era, forse di turno in ospedale, e suo padre li aveva montati in macchina e portati a fare un giro notturno nella speranza, forse, di farli addormentare.

Doveva essergli sembrata chissà quale avventura uscire da casa al buio… invece, in quel momento, lo preferiva alla luce del Sole, lo sentiva più vicino.

Era un ricordo stranamente piacevole, anche se sbiadito dal tempo. Ricordava la sensazione del vetro freddo sotto i palmi e la musica tranquilla della radio dell’auto, intervallata dalla voce di suo padre e dalle occhiate che ricevevano dallo specchietto retrovisore lui e suo fratello.

Anche l’odore delle paste era simile a quello di tanti anni prima, ma anziché farlo contento, lo incupì.

Era in quel periodo che era iniziato il suo declino e quello che olfatto e tatto gli stavano riportando alla mente era qualcosa che non gli apparteneva più e che sarebbe dovuto restare seppellito nel passato.

Era solo un ricordo sbiadito di un bambino che non esisteva più.

Seguì suo padre oltre l’uscio, raggiungendolo a pochi passi dall’auto.

- Quanto ti devo? – chiese, trattenendolo per un braccio.

Suo padre abbassò gli occhi sul suo braccio con lentezza e strinse le labbra. – Prendile e basta. – rispose, scandendo le parole, mentre lui aumentava la presa.

- Io non voglio niente da te. – ringhiò, in tono basso. – Non m’interessa dei tuoi sensi di colpa o della pena che ti faccio. -

Suo padre corrugò le sopracciglia scure. – Non mi fai pena e, cosa più importante, non mi sento particolarmente colpevole di niente. Perciò, se potessi lasciarmi il braccio in modo da farmi ripartire la circolazione nell’arteria brachiale, te ne sarei grato. – scandì, accigliandosi.

Eric lasciò la presa.

Osservò suo padre sistemarsi la felpa: era vestino in modo piuttosto sportivo, con i pantaloni della tuta, una maglia bianca e le scarpe da ginnastica. Ed erano alti uguali. Non ci aveva fatto caso. Quand’era bambino suo padre gli sembrava l’uomo più alto del mondo, mentre in quel momento poteva guardarlo tranquillamente negli occhi. Forse era anche un centimetro o due più alto di lui o, forse, era solo il fatto di essere più grosso a dargli quell’impressione.

Strinse le labbra, frustrato. Era possibile che, quella sera, non ci fosse una cosa che andasse come doveva?

Suo padre salì in auto, la accese e abbassò il finestrino. – Vuoi un passaggio fino alla macchina? – domandò, seraficamente.

Eric scattò. – Ti ho detto che non voglio niente da te. Lasciami in pace e vattene, è qui vicino. – sbottò, facendo un passo indietro, dopo avergli lanciato sulle gambe il sacchetto con le paste, in un gesto di stizza.

Suo padre non si scompose, limitandosi a spostarle sul sedile del passeggero. - Talmente vicino che sei riuscito a sudare, in piena notte, e con le maniche corte? – gli chiese, candidamente.

Chiuse gli occhi. – Non sono fatti tuoi, comunque. –

Suo padre annuì. – Come non detto, va’ pure a piedi. Non ho voglia di discutere anche con te. – disse, stringendosi nelle spalle e ingranando la prima. – Sicuro, vero? Non torno indietro a prenderti, se cambi idea. – lo avvisò.

Annuì, con un gesto esasperato del capo e suo padre, dopo averlo salutato con una mano, ripartì.

Camminò percorrendo la strada a ritroso per qualche minuto poi, con un lampo, iniziò a diluviare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Suo fratello l’aveva accompagnata insieme a Lucas, che si era offerto di portare il borsone, fino alle macchinette a prendere qualcosa da mangiare.

- Andrew – lo chiamò, mentre un sottile dubbio iniziava a insinuarsi nella sua mente. – Per quale ragione non dovrei far pesare a tua moglie il fatto che ha un bel bambino Intrepido? -.

Suo fratello si voltò a guardarla seriamente, con un velo di colpevolezza sul viso.

Lucas face un paio di colpi di tosse. – Che giorno siamo, tonta? – chiese, girando la testa verso di lei.

Scosse la testa. – Non… oh. – balbettò, comprendo perché le era stato chiesto di non infierire sulla cognata.

Si appoggiò contro lo schienale della sedia di plastica, lasciando scivolarle gambe in avanti. – Ti rendi conto, vero, che tu hai trent’anni e nostro padre cinquantasei? Non vi sembra un po’ infantile, farmi il “sorpresone” per il Giorno delle Visite? – chiese, guardandolo senza espressione.

- Non sei felice di vederci? – la stuzzicò, Lucas dandole un colpetto con la spalla.

- Ahi! – sbottò, restituendogliela e facendosi quasi più male. – No. –

Entrambi risero.

- Voglio dire, perché dovete tendermi un agguato? – si difese, massaggiandosi il braccio con cui aveva restituito la spallata a suo fratello.

Lucas si rabbuiò. – Non chiederlo a me: nostro padre sta dando i numeri, ultimamente. – brontolò, in tono basso e ruvido.

Kaithlyn inarcò un sopracciglio, in attesa di spiegazioni. – Più del solito? – chiese, inclinando la testa e tirandosi su sulla sedia, in modo da poter incrociare le gambe: quelle non le facevano male, fortunatamente.

Suo fratello annuì gravemente, facendosi cadere una ciocca di capelli biondo scuro sulla fronte. La riportò indietro con un gesto di stizza. Suo fratello non era messo meglio di lei a capelli: ne aveva tantissimo, gonfi e arruffati.

- La stessa ragione per cui ho iniziato a lavoricchiare al locale qui vicino. – le disse, in tono basso.

Aggrottò le sopracciglia. – Lavorare? Ai nostri genitori non mancano certo i soldi per... -.

- Lo so benissimo, Kaithlyn! – sbottò lui. – Nostro padre, però, a quanto pare, ha deciso che vuole tutti medici in famiglia… ad eccezione tua, che non conti proprio perché sei tu e ti permette di fare ciò che preferisci. –

- Dovresti farlo anche tu, allora. Se non ti piace quello che fai, molla tutto e iscriviti a un’altra facoltà. Non ho capito perché devi anche lavorare, però. –

Suo fratello si voltò verso di lei, con lentezza. – Paparino mi ha tagliato tutti i fondi. – disse lentamente.

Era sorpresa. Suo padre era esigente, ma li aveva sempre lasciati liberi di fare ciò che sentivano più nelle loro corde… perché voleva spingere Lucas in una strada che non evidentemente la sua.

Suo fratello si tirò un pugnetto sul petto e assunse un’espressione austera. – Lucas, - esordì con voce più profonda. – Non comprendo per quale ragione tu voglia cambiare corso di studi. I tuoi fratelli non mi hanno dato mai dato di questi problemi, perciò, contro ogni buon senso, o prosegui con quello che hai iniziato o significa che sei abbastanza maturo da mantenerti. Non avrai un centesimo, d’ora in avanti. – disse, imitando il padre.

Kaithlyn rise. – Vuoi cinquanta dollari? – gli chiese, guardano le ombre scure che aveva sotto gli occhi.

- Non mi ridurrò a prendere la paghetta da mia sorella minore. – le sibilò, passandosi le mani tra i capelli.

- Be’, hai altri tre fratelli. Nessun buon samaritano? – gli chiese scoccando un’occhiata alla schiena di Andrew, intento a prendere un caffè.

- Tu sei sposato. Vivi da solo e ti mantieni. Dovresti fare il bravo fratello maggiore. –

- Lo fa. – lo difese, Lucas.

Kaithlyn si mise più comoda, sulla sedia, stringendo un po’ le gambe incrociate. – Cosa volevi fare, di tanto scandaloso? Lo sportellista? –.

Lucas sorrise un po’. – Il ricercatore. –

- Che delinquente. Che ragazzo degenere. Andrew, come puoi passare soldi sottobanco a un soggetto simile? – esclamò, scandalizzata.

Andrew si strinse nelle spalle. – Papà avrà le sue ragioni, comunque. – borbottò.

Lucas s’infiammò. – Ah sì? Stai dalla sua parte, ora? – ringhiò, alzandosi gli occhi accesi d’irritazione.

Kaithlyn gli tirò il camice verso il basso, un paio di volte. – Oh, rilassati. Ti sentono tutti. –

- Da che pulpito! – urlò. – Tu non puoi parlare, ti è sempre stato dato tutto senza… -.

- Lucas, - lo riprese seriamente il fratello. – Non prenderla per lei. Abbiamo avuto tutti le nostre diatribe e abbiamo dovuto fare tutti i conti con le fissazioni dei nostri genitori. Se lei si sbucciava le ginocchia, era colpa mia, ricordi? Non importava dove mi trovassi: a scuola, a letto o in giro. Dovevo raccomandarle di non correre, non esagerare e di stare brava prima di uscire se restava con la baby-sitter. Dylan ha la mamma che lo falcheggia da mesi, perché ha ventisette anni e non ha una ragazza fissa. Manuel, per nostro padre, dovrebbe essere più incisivo perché è troppo accomodante e Kaithlyn ha sempre dovuto essere una spanna sopra chiunque se voleva uscire di casa e date le sue inclinazione, magari, passare il suo tempo e studiare come se frequentasse tra classi avanti alla sua invece di uscire a correre non è stato esattamente il massimo della semplicità.–.

- Lei lo faceva a prescindere: se voleva uscire prendeva e andava, che papà fosse d'accordo o meno. Se ci provassi io, non durerei neanche per il tempo di arrivare alla porta. – sputò, stringendo i pugni mentre lei lo ritirava a sedere. – Non negare. –

- Non lo faccio. Dovresti farlo anche tu, non è difficile: entri in casa, annunci la tua decisione e agisci di conseguenza. Polso fermo! – lo spronò, stringendo il pugno e riabbassandolo con una smorfia.

Andrew annuì. – Ecco, questo giochetto di passare il pomeriggio fuori senza dare notizie e rientrare la sera prima di cena, lo potevi fare solo te perché sei una ragazza. Per noi ha funzionato solo fino agli undici anni. – le disse, stringendo le labbra.

Ci fu un momento di silenzio, poi Kaithlyn si voltò verso il fratello. – Ricordami di darti cinquanta dollari. – disse, dandogli una pacca con non troppa forza sulla schiena.

- Non li voglio soldi da te! – insistette con veemenza. – Come te lo devo dire? -.

Kaithlyn iniziava a sentirsi meglio: il dolore era decisamente più sopportabile e scherzare con loro lo stava aiutando a  non pensare a quello che era successo, poco prima.

- Sai quanto guadagno, come tiratrice e con tutti gli “extra” che faccio? – gli domandò, lentamente.

Lucas si girò a guardarla. – Sentiamo allora… - le disse, come se le stesse facendo un piacere.

- Più di te! – rise.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Probabilmente sarebbe annegato prima di raggiungere la sua auto impantanata, se avesse continuato a piovere con quel ritmo. Non mancava molto al punto in cui la sua auto l’aveva brutalmente abbandonato, ma iniziava a sentire freddo e mal di testa e non riusciva a vedere che a pochi metri di distanza, tanto era fitta la pioggia torrenziale che aveva iniziato a cadere con provvidenziale puntualità.

Avrebbe dovuto farsi accompagnare da suo padre e approfittarne per scoprire cosa diavolo ci faceva suo fratello a spasso per la Rete Centrale a quell’ora la sera. Di certo, non era lì per passare il tempo, poco ma sicuro.

Il suo Cercapersone probabilmente si sarebbe suicidato prima di riuscire a metterlo all’asciutto e, isolato, non poteva fare molto di più che camminare.

I lampioni non erano molto d’aiuto: i cerchi di luce che lasciavano sul terreno creavano quasi una barriera di pioggia luminosa che rendeva quello che c’era dopo anche più buio.

Non c’era un’anima, tranne lui.

Non riusciva a tenere le mani in tasca a causa del bruciore alle dita, per cui le incrociò davanti al petto, infreddolito. Aveva anche lasciato il suo giaccone a Kaithlyn.

Che genio del crimine.

Camminò per diversi minuti, cercando di acuire la vista per vedere oltre la punta del suo naso senza risultati. Riuscì a trovare la strada giusta tentoni, cambiando direzione di continuo.

La strada dove ricordava di essersi impantanato era naturalmente isolata, poco illuminata e di dubbia tranquillità. Il posto perfetto per commettere un omicidio efferato a suo parere. O come accampamento per Lupi Mannari. Il campo che la circondava sul lato alla sua destra, verso Est, sarebbe stato perfetto per un raduno di bestie inferocite e assetate di sangue.

Gli alberi erano ben distanziati e facevano sembrare, non che vedesse molto con quella pioggia, l’oscurità oltre di loro ancora più cupa e spaventosa. Se avesse avuto paura del buio, se la sarebbe fatta addosso.

I lampioni erano pochi ed erano stati accesi in modo alternato, per risparmiare corrente perché, nessuno sano di mente sarebbe mai andato a fare un giro in quel postaccio la notte e nessuno, teoricamente, era abbastanza sfigato da impantanarsi nell’unico spiazzo utile di quel primo tratto, di notte, senza la possibilità di comunicare e con una pioggia torrenziale. Nessuno a parte lui.

Quando ritenne di essere sufficientemente vicino alla sua auto, estrasse la chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni e premette il pulsante di apertura a caso, indirizzandolo lungo il lato destro della strada, dalla parte del campo. Era l’unico modo per trovarla, ammesso che i circuiti della chiave funzionassero ancora.

Strizzo gli occhi, più volte, infastidito dalle gocce. Era talmente bagnato che iniziava anche a dubitare di riuscire a spogliarsi di nuovo, un giorno. Non che gli interessasse particolarmente: non aveva troppa considerazione della sua salute e, l’unica cosa che gli interessava, era tornare alla sua auto, prendere la Piccola Bastarda e tornarsene a casa a dormire.

Finalmente, vide qualcosa lampeggiare una decina di metri più avanti e si avviò in quella direzione.

Entrando nello spiazzo, sentì l’acqua entrargli dentro le scarpe e bagnarli i piedi in uno sciacquettio spugnoso.

Sentì il rumore dei sassolini sotto gli scarponi e arrancando riuscì a trovare lo sportello e a infilarsi dentro l’abitacolo, dalla parte del conducente.

Una botta di fortuna, ogni tanto: almeno non avrebbe allagato l’auto.

Richiuse con un tonfo la portiera. La pioggia era ancora più fitta e, in quelle condizioni, non poteva certo guidare. O sperare di uscire da quel pantano. Se ci avesse provato, alla cieca, sarebbe probabilmente finito giù nel canalino laterale.

Estrasse da una delle due tasche anteriori dei pantaloni il Cercapersone fradicio e, notò, spento.

Era morto, sicuro.

Premette il pulsante dell’accensione, senza risultati e imprecò, tirando un calcio sotto il volante.

Appoggiò l’oggetto sopra il piccolo ripiano davanti ai bocconi dell’aria condizionata e accese la macchina. Immediatamente i fari illuminarono davanti a lui… la pioggia. C’era solo quella in fin dei conti, ovunque.

Impostò il condizionatore sui ventitré gradi e aspettò, dando di tanto in tanto gas.

Riprovò ad accendere il Cercapersone dopo una decina di minuti, ma aveva le mani talmente infreddolite e irrigidite dal freddo che cadde rovinosamente sul tappetino della postazione del passeggero.

Si morse la lingua per non imprecare ancora e si allungò per raccattarne i pezzi. I muscoli della schiena, a quel gesto, si tesero in modo spiacevole facendogli stringere i denti.

Reinserì la piccola batteria e riprovò ad accenderlo.

Funzionava, almeno quello.

Reimpostò l’ora e la data e aspettò che ricaricasse tutti i messaggi, poi cercò il numero di Kaithlyn.

Lo ritrovò sotto Nana Malefica.

“Ti devo venire a prendere?”

Era una domanda stupida, dato che le aveva chiaramente detto di arrangiarsi con uno dei suoi fratelli o chiamando Jason. In realtà preferiva portala lui indietro, tanto per essere sicuro che arrivasse e avere anche modo di controllare il suo amico biondo. Più le stava alla larga, meglio si sarebbe sentito.

La risposta arrivò in meno di un minuto, come sempre.

“Fa’ come ti pare.”

Chiara e concisa.

Storse le labbra.

“… Per quando ne hai, ancora? Dammi un’ora!”

Posò il Cercapersone tra il cruscotto e il vetro e incrociò le braccia in attesa. Le mani gli lanciarono una fitta di protesta piuttosto dolorosa che ignorò.

Il taglio che si era fatto lungo l’attaccatura delle dita era peggio di quanto sembrasse: non abbastanza profondo da richiedere dei punti, ma abbastanza estero, sicuramente, da dove essere medicato e coperto al più presto. Peccato che non potesse muoversi e non avesse niente per lo scopo, oltre alla mancanza momentanea di manualità.

Il dispositivo s’illuminò e vibro con vigore. Si era ripreso bene, almeno lui.

“Non lo so, un po’.”

Chiuse gli occhi, imponendosi di non risponderle di getto.

“Allora ci vediamo lì davanti “tra un po’”.

Lanciò il Cercapersone contro il vetro e giro i direzionatori dell’aria condizionata verso di sé, infreddolito. L’avrebbero ritrovato il giorno dopo ibernato.

Lentamente la pioggia si affievolì fino a ridursi solo a qualche goccia sparsa. Guardò oltre il vetro del finestrino e considerò seriamente l’idea di portarsi dietro un gommone, la volta dopo. Giusto per rimanere sul sicuro.

Scese dall’auto e si chiuse la portiera alle spalle: si era impantanato perpendicolarmente alla strada e le ruote posteriori erano sprofondate di una quindicina di centimetri nel terreno acquoso.

Seguì con gli occhi la linea del guardrail che riprendeva cinque metri più in là, in direzione dell’ospedale e si sentì raggelare il sangue.

Chiuse distrattamente l’auto, lasciandole solo una brevissima occhiata e si avvicinò al bordo del guardrail, percependo in modo quasi amplificato lo scricchiolio dei sassolini sotto i suoi scarponi fradici.

Lo spiazzo era grande abbastanza da farci stare comodamente più di un’auto. Era usato spesso, da quando ne aveva memoria, per scambiarsi o per sostare. Lo faceva spesso con i suoi genitori e suo fratello e non erano certo gli unici, in quanto era molto pratico.

Lo spazio era un semicerchio impreciso e, notò solo in quel momento, lungo tutta la semicirconferenza o presunta tale, non c’era il guardrail. O meglio: ce n’era solo una parte, sul lato più a nord, mentre, per il resto era stato sostituito da travi di legno.

C’era anche un muricciolo basso, in pietra, a fare da base. Nessuno si preoccupava di quella strada, non più. Con tutti gli incidenti che c’erano stati, la gente, se non in caso di stratta necessità, se ne teneva alla larga e non si fermava certo lungo il percorso, preferendo di gran lunga tirare dritto.

Rabbrividì e sentì la gola seccarsi: non si era reso conto di dove si trovasse. Aveva evitato quella strada maledetta all’andata di proposito, beccandosi anche la derisione di Kaithlyn per aver allungato il percorso e aveva finito per impiantarcisi involontariamente. Lo scansava da cinque anni quel maledetto spiazzo.

C’erano delle assi, poggiate da una parte e notò qualcosa di lucido sotto di esse. Sapeva con assoluta certezza di cosa si trattasse e non voleva vederla.

Non in quel momento: aveva bisogno di tutte le sue facoltà per uscire da quel casino il prima possibile. Poteva mettere qualcosa sotto le ruote inferiori, poteva funzionare.

Si obbligò a muovere le gambe per fare il giro dell’auto e guardare il danno. Dietro le ruote posteriori, il terreno s’inclinava bruscamente conducendo a un canalino d’acqua nascosto da alcuni arbusti.

Gli vennero le vertigini, insieme alla nausea, mentre indietreggiava fino a battere le gambe contro il portabagagli dell’auto che si mosse appena dondolando in avanti.

Si passò le mani tra i capelli bagnati, cercando di calmarsi e controllare gli spasmi del freddo alla braccia. Doveva riprendere il controllo. Era un Capofazione Intrepidi. Doveva superarla, prima o poi, e agire senza timore. Niente poteva ferirlo, in quel momento. Se si fosse lasciato sopraffare dalla stanchezza e dal panico, non si sarebbe mosso da lì. Gli serviva controllo. Disciplina.

Disciplinati Eric.

Cercò con tutte le sue forze di imporsi la calma, senza successo. Non sapeva neanche da che parte iniziare, per ritrovare il raziocinio: di solito c’era Sean in quei momenti, a riportarlo con i piedi per terra anche a costo di prenderlo a schiaffi. E funzionava… per un po’. Ma era sciocchezze, cazzate, in confronto alla situazione in cui si trovava in quel momento.

Gli sembrava di essere precipitato in una voragine senza fine, stretta e buia come un tombino senza aver possibilità di risalita. Riusciva quasi a sentire le gambe strette e le braccia compresse contro il proprio corpo.

Sentiva l’aria mancargli e, improvvisamente, il freddo scomparve e iniziò a sudare mentre il suo stomaco si contraeva in modo quasi doloroso.

Era bloccato. Era bloccato. Bloccato. Non sarebbe riuscito a far niente, mai.

Si portò una mano alla fronte e spostò i capelli scuri indietro. Forse, se si comportava come nel suo scenario, sarebbe riuscito ad agire, a muoversi.

Era come sbagliare una postura, si disse. Doveva trovare il modo corretto. Stare in piedi, dritto. Come a scuola.

Invece si sentiva accartocciare su se stesso, come una pallina di carta che soccombe alla stretta di una mano, prima di essere lanciata nel cestino. O per terra.

Sembrava che il terreno avesse iniziato a tremare, ma erano le sue gambe a farlo sentire instabile, come se improvvisamente tutto intorno a lui avesse iniziato a ondeggiare pericolosamente.

Non è una simulazione. Non è una simulazione.

Si girò verso la macchina e appoggiò le braccia sul tettuccio per sorreggersi, seppellendo la testa tra le mani. Doveva calmarsi. Respirare.

Respira.

Era una cosa naturale, bastava far entrare l’aria, lasciando che scendesse lungo la trachea ed espandesse i polmoni, riempiendo ogni bronchiolo finale. Giù, fin dentro la pancia, con lentezza. Era naturale, una cosa che faceva ogni giorno in automatico e perlopiù senza accorgersene.

Poi doveva ributtarla fuori. Espirare. Con calma, nessuno gli sarebbe saltato alla gola. Con lentezza, anche quello prendendosi tutto il tempo per farla uscire.

Il macigno che sentiva sulla schiena era frutto della sua immaginazione. Solo quella.

Fu quasi doloroso fermare il tremore alle braccia, ma ci riuscì.

Non poteva restare lì, doveva muoversi.

Imponiti.

Strinse i pugni, sentendo contro la superficie ghiacciata e bagnata del tetto della macchina.

Un forte odore di bruciato gli arrivò alle narici. Anche quello, era frutto della sua mente. Niente bruciava, in quella nottata piovosa. Solo lui, ma era un fuoco fittizio limitato ai suoi ricordi.

Appoggiò le mani sul bordo del tettuccio, lasciandole scivolare con forza sulla superficie liscia, fredda e bagnata e si spinse indietro con un ringhio frustrato.

Il passo che fece indietro, sprofondò in un punto particolarmente melmoso.

Non appena fu in piedi, tirò un calcio alla ruota posteriore con tutta la forza che aveva.

Il dolore lo accecò per un momento, ma era quasi un toccasana. Lo riportava con i piedi per terra, facendogli disgiungere la realtà dai demoni che gli popolavano la mente.

Quello era reale.

Si passò le mani tra i capelli e sul viso, sentendo le unghie graffiargli l’attaccatura dei capelli. Respirare tra i denti non lo avrebbe aiutato.

Il cuore gli schizzò nel petto facendolo sobbalzare, voltare di scatto e sbattere con la schiena contro l’auto, quando sentì il suono leggero di un clacson e due fari lampeggiare da un’auto accostata sul ciglio della strada.

La sua mano andò istintivamente all’altezza della cintura, senza tuttavia trovare quello che cercava: la sua pistola. Dov’era? Perché non l’aveva presa, quando poteva tornargli utile?

Strinse i pugni, grattandosi la superficie delle dita con la stoffa del bordo dei pantaloni e preparandosi a uno scontro.

- Eric! -.

Cercò di calmarsi, riconoscendo la voce.

- Che è successo? – chiese la voce di suo padre, scendendo dall’auto e avvicinandosi a passo svelto. – Hai battuto la macchina? -.

- NO! – gridò, sentendo la voce graffiargli la gola. – No… - tossì, indietreggiando lungo il profilo dell’auto.

Suo padre aveva le mani alzate come a fargli vedere che non aveva niente in mano. Come si fa con i bambini o con qualcuno che vuole convincerti di non avere cattive intenzioni.

- Che è successo? – ripeté, calmo.

Un singulto gli risalì in gola e si coprì il viso con le mani. – Niente che ti riguardi. Vattene, che fai? Mi segui? Vuoi controllarmi anche adesso? – stridette, con i battiti alle stelle, in un ringhio che gli ricordò quello di un animale ferito.

Suo padre strinse le labbra. – No, certo che no. Sono riuscito per prendere una cosa a tua madre e per fare prima sono passato da qui. Sei ferito? – domandò.

Scosse la testa con forza. – Non… non ti deve interessare. Sto bene, vattene. Non voglio niente da te. – ringhiò, riuscendo finalmente a raddrizzarsi.

- Sei sicuro? – insistette, l’uomo davanti a lui.

- Non voglio – iniziò, alzando la voce, - il tuo aiuto. Non lo voglio. –

L’altro annuì piano. – D’accordo. – gli concesse, con cautela. – Puoi fare da solo. Se mi fossi impantanato con l’auto, - gli suggerì, facendo un cenno con la testa verso il bordo dello spiazzo. – Userei quelle assi di legno laggiù. Sei d’accordo? -.

Eric si avvicinò a lui, stringendo la mandibola tanto da farsi male. – Non fare questi giochetti con me. Risali in auto e vattene. – gli intimò.

C’erano solo poche decine di centimetri a dividerli. Quando si era avvicinato?

Suo padre non si scompose, mantenendo un tono controllato. – Allora agisci. Facendo il pazzo e prendendo a calci l’auto non la convincerai a ritornare in carreggiata. – lo sgridò.

Se chiunque altro gli avesse parlato in quel modo, facendolo sentire stupido, sarebbe stato già a terra con il naso rotto in attesa di ricevere il resto delle botte che gli avrebbe tirato.

Non lo voleva lì, ma l’arrivo di suo padre l’aveva distratto e iniziava a riprendere il controllo e a sentire la pressa opprimente che sembrava soffocarlo allentarsi. Si stava distraendo. Doveva sfruttare la cosa per calmarsi.

Doveva. Era l’unica possibilità.

Suo padre, un Erudito, non era spaventato. Non doveva esserlo neanche lui, che era un Intrepido.

- Non mi ero accorto di essermi fermato qui… - disse, velocemente, cercando di regolare il respiro, senza conoscere neanche lui il perché stesse dicendo quelle parole. – Io… me ne sono accorto adesso. Pioveva, prima. –

Suonava come una scusa, una giustificazione. Ma non lo era. Non aveva niente da giustificare all’uomo che si trovava davanti.

Suo padre annuì con lentezza, come dandogli manforte. – Certo, può succede. La pioggia era molto fitta. – convenne.

Eric annuì velocemente.

- Sono quasi le quattro. Forse dovresti tirarla fuori prima che ricominci a piovere. – gli suggerì, abbassando le mani.

Lo vide guardarsi distrattamente la felpa che portava addosso e stringere le labbra con disappunto, dopo avergli riservato un’occhiata. Non gli chiese se voleva la sua felpa: sapeva che non avrebbe accettato o che, eventualmente, gliela avrebbe tirata dietro.

Annuì di nuovo. – Sì… le assi. Le prendo. – farneticò, mentre la testa iniziava a pulsargli in modo fastidioso. Sentiva la schiena ancora rigida, i muscoli contratti. La confusione gli annebbiava la testa.

Deglutì e si diresse verso il lato da cui era arrivato, dove le assi erano più dismesse.

Respirò a fondo e, con le mani tremanti per il dolore e per il freddo, strinse un lato della prima e tirò. Ci fu un rumore forte, di qualcosa che si spezza, e il pezzo di legno intagliato gli rimase in mano. Grattava, sulla pelle secca. Avevano una consistenza umida, ma sembravano ancora abbastanza solide nonostante l’esposizione alle intemperie degli ultimi cinque anni.

Lasciò andare la trave, cercando di ignorare la targhetta luccicante che nascondeva e respirò profondamente. Sapeva che era lì. Era per quello che non voleva usarle, sapeva che vedere quell’oggetto l’avrebbe mandato nel panico.

Meno di quanto pensasse, comunque.

Era infantile, ma si sentiva più tranquillo con suo… padre, a pochi metri da lui.

La sua attenzione venne di nuovo attirata da quel tenue luccichio, forse opera del lampione poco più indietro a una ventina di metri da lì. Era difficile non guardare. Il contrasto con il muricciolo su cui era affissa era troppo evidente per essere ignorato del tutto e le lettere dorate risaltavano come fili di seta sullo sfondo chiaro.

In memoria di Rosalie Powell in Turner.

Deglutì, allungando debolmente le mani verso la seconda asse. Strinse le mani intorno al bordo, come aveva fatto poco prima e tirò, senza ottenere nulla. Era come se tutta la forza se ne fosse andata. Non riusciva a staccare gli occhi da lì.

Era un debole. Uno stupido. Un inetto.

Sentì dei passi dietro di lui. – Ce la faccio. – disse, in un gracidio mal articolato. Gli tremavano ancora le gambe. Respirò, per correggersi.  

- Oh Cristo Eric! – esclamò suo padre dopo un paio di tiri a vuoto.

Lo fece spostare senza troppa gentilezza da un lato, prese il suo posto, afferrò la trave e tirò, staccandola in un colpo solo e porgendogliela.

Eric lo guardò con astio, ricevendo un’occhiata severa. – La targhetta. – disse, raccogliendo l’altra asse e allungando la mano per farsi passare l’altra, le dita tremanti.

- Non credo sentirà freddo. È una targhetta, Eric. Una targhetta in lega metallica. – disse pragmaticamente, senza espressione.

Annuì. Aveva ragione. Era solo un pezzo di metallo. Non significava niente, farsi sopraffare da una cosa del genere era illogico e stupido. Da bambini. E lui non era più un bambino, era da considerarsi un adulto a tutti gli effetti.

Vedendolo indeciso, suo padre gli strappò le assi dalle mani. – Avanti, ti faccio vedere. – disse un po’ più gentilmente. Gli faceva rabbia, rendersi conto di avere ancora qualcosa da imparare, da lui.

Suo padre, senza un’altra parola “si” diresse dietro la sua auto. Sembrava tranquillo, composto. Anche se quel posto era intriso di brutti momenti anche per lui.

Eric si obbligò a muovere le gambe e a seguirlo, un passo alla volta, cercando di non concentrarsi sul posto. Se si estraniava, poteva farcela. Non voleva che lo vedesse in difficoltà. Aveva già visto abbastanza prima che si accorgesse della sua presenza.

L’aveva visto debole.

Lo raggiunse.

- Hai fatto una bella buca, eh? – commentò lui, abbassandosi all’altezza delle ruote e studiando la scavatura provocata dai suoi tentativi di uscire.

- Non mi serve il tuo aiuto. – insistette.

Suo padre lo ignorò e tornò a osservare la fossa che aveva scavato con le ruote posteriori. – Se pensi di tirarla fuori da quei con la forza del pensiero, tanti auguri. – commento, sedendosi sui talloni.

Dietro suo padre, il terreno s’inclinava bruscamente verso il basso, conducendo su un canalino d’acqua nascosto da sassi e arbusti. Cadere da lì equivaleva a spaccarsi la testa e a una fine lenta e penosa.

Ricordava ancora la sensazione di vuoto, di equilibrio precario che aveva provato in quella macchina, mentre iniziava a sentire odore di benzina. Ricordava il terrore nel non riuscire a slacciare la cintura, l’istinto di dibattersi e la paura alla vista del corpo accanto al suo. La sensazione d’impotenza, d’inutilità più assoluta.

Tremò, mentre sentiva il panico impadronirsi nuovamente di lui. Gli scorreva nelle vene come un liquido vischioso e pesante, facendolo sentire come se fosse di piombo e stesse affondando. Tutto lo tirava in basso, facendo sprofondare e agganciandolo con mille aghi di ferro, impedendogli di muoversi.

Suo padre si girò verso di lui e lo guardo per lungo secondo, poi si concentrò sulle ruote impantanate, poggiando le assi da un lato. – Solleva il retro dell’auto, così le infilo sotto. – gli disse, facendogli spazio sulla parte anteriore e riportandolo bruscamente con i piedi per terra. Poi si guardò alle spalle, come a valutare il rischio di cadere di sotto. Non sembrava turbato. Forse non era un’altezza tale da dargli fastidio.

- Anzi, facciamo al contrario: io sollevo il retro dell’auto e tu infila le travi sotto le ruote. – rettificò, mettendosi dietro l’auto e passandogli le due assi. – Non vorrei doverti riattaccare le dita, più tardi. – gli disse, con un cenno alle sue mani. Non sembrava molto contento di vederlo in quello stato.

Avevano un aspetto terribile, in effetti.

Annuì distrattamente, cercando di pensare a qualcos’altro che non fosse quel giorno. – Pronto? -.

– Appena le ruote posteriori si alzano, infilale sotto, okay? – lo istruì, asciugandosi le mani sui pantaloni.

Annuì e si spostò di lato. Suo padre infilò le dita sotto la parte posteriore dell’auto e fece forza. Per un momento penso che, nonostante la sua auto fosse relativamente leggera, non ce la facesse: poi il veicolo iniziò a sollevarsi.

Infilò la prima trave sotto la ruota sinistra e aggirò suo padre per infilare l’altra sotto la destra. Suo padre riappoggiò il retro della macchina a terra.

Aprì e chiuse le dita più volte, forse per allievare l’indolenzimento e riattivare la circolazione.

- Fatto. Vuoi finire da solo? – gli domandò, leggermente affannato, aggirando l’auto con lentezza e appoggiando la mano destra sul finestrino posteriore.

Annuì con la testa, convinto di riuscire a gestire la situazione da solo da quel momento in poi. Il più era già fatto.

Si sbagliava. Non appena inserì la chiave e accese il motore, l’angoscia iniziò nuovamente a strisciargli dentro come un serpente, attorcigliandosi intorno a tutti gli organi. Anche alla testa. Si sentiva schiacciare, di nuovo. Soffocare.

Suo padre raggiunse il finestrino e lo osservò con le sopracciglia aggrottate in un’espressione comprensiva.  - Devo girarla io? – domandò, forse vedendolo fissare il vuoto, alla ricerca di una soluzione.

Eric rabbrividì per il freddo. – No. – grugnì, stringendo le dita sul volante.

Mise in moto, inspirando dal naso.

Giù, fin dentro la pancia e poi fuori.

Ancora.

Ingranò la prima, con lentezza, sentendosi addosso gli occhi chiari di suo padre. Aveva già visto abbastanza, non voleva che lo vedesse perdere di nuovo la testa. Doveva controllarsi. Respirare. Far rallentare il cuore impazzito. Riprendere il controllo.

Respira, è solo aria.

Tolse con cautela il freno a mano, cercando il punto d’innesto della frizione. Quando lo trovò, premette nervosamente l’acceleratore, facendo girare a vuoto le ruote posteriori e sentendo le assi sprofondare. Sarebbe scivolato di sotto. Sarebbe rimasto lì, lo sapeva. Lo sentiva. Non riusciva a stare tranquillo, era come se avesse una spada di Damocle che gli penzolava dietro il collo, pronta a tagliargli la testa da un momento all’altro. Doveva uscire da quell’auto. Allontanarsi.

Come quando giocando a nascondino, capitava di nascondersi in un ripostiglio o in anfratto buio, la notte, e di sentire l’improvvisa e immotivata voglia di scappare. Era cosa sentirsi qualcuno alle spalle.

Suo padre bussò al finestrino, facendolo sobbalzare. – Scendi, la giro io. – gli disse, aprendogli la portiera.

- No! –urlò, furioso, richiudendola. – Ce la faccio, vattene. Hai già fatto abbastanza. –

- Scendi. – gli impartì duramente, senza più ombra di gentilezza sul viso.

- Altrimenti? – ringhiò, scendendo dall’auto e andandogli incontro a viso duro. Come faceva a non capire?

– Che fai? -.

Suo padre non si scompose e lo ignorò. – Smettila e vedi di usare un po’ la testa: ragiona e…-. S’interruppe bruscamente, fissandolo. – Che c’è? – chiese, forse notando la sua espressione sconvolta.

L’aveva sentito un attimo prima: pungente, e sembrava quasi doloroso percepirlo nelle narici. Sapeva che c’era qualcosa che non andava, dannazione. Avrebbe dovuto fidarsi di più del suo istinto, invece che fare considerazioni idiote sulle sue paure.

- Lo senti l’odore? – gemette, tachicardico. – Lo senti? –ribadì, ancora, portandosi una mano a coppa sotto la bocca.

Gli veniva da vomitare.

Suo padre cambiò espressione e si fece più vicino. – C’è odore di pioggia. Intendi quello? – chiese, con lentezza.

Scosse la testa. – Non lo senti? Come fai a non sentirlo? – gracchiò, cercando di capire se lo stesse prendendo in giro o meno.

- Che cosa dovrei sentire Eric? -.

- Bruciato. – boccheggiò, guardandosi le mani. – Po… potrebbe essere la macchina? -.

Sentì i battiti aumentare il ritmo esponenzialmente.

Suo padre abbasso le sopracciglia sugli occhi in un’espressione seria. – No, Eric non c’è puzza di bruciato. – lo tranquillizzò, stringendogli le braccia. – Non brucia niente. –

- Che ne sai tu?! Non eri lì, non sai cosa ha fatto la macchina, cosa ho… l’odore…- strillò, mentre iniziavano a susseguirsi come in un flashback tutti gli avvenimenti di quella dannata notte.

La macchina non si muoveva neanche quel giorno. Lui non sapeva neanche da che parte iniziare, ma quando aveva cercato di premere l’acceleratore, allungando oltre le gambe del guidatore nel disperato tentativo di uscire, la macchina non si era mossa. Aveva solo fatto girare a vuoto le ruote ed erano sprofondati con le ruote anteriori.

E lui, lui era arrivato dopo. Quando c’erano già le fiamme, non aveva idea di cosa avesse sentito. Dei rumori, anche minimi, del sibilo, del crepitio. Delle ruote che giravano a vuoto, nel terreno.

Perché lui non sapeva mettere una dannata retromarcia. Non lo sapeva fare.

Suo padre gli prese il viso con le mani. Sentiva il metallo freddo della fede che portava all’anulare sinistro contrastare con la sua tempia che sentiva calda. Forse era solo un’impressione. – Va tutto bene, Eric. La tua auto non ha niente, calmati. Ci sono io, adesso. Ci penso io. – lo tranquillizzò, abbassando una mano e stringendogli un braccio, mentre lo conduceva verso la sua auto, ancora posteggiata lì accanto e lo faceva sedere sul sedile del passeggero. Aveva un odore familiare.

Suo padre gli passò distrattamente una mano dietro la nuca, in un gesto quasi affettuoso.

Si scansò quasi a quel contatto inaspettato: non c’era più abituato e anche Kaithlyn, per quanta confidenza potessero avere dal punto di vista fisico, non si lasciva spesso andare a gesti affettuosi, nei confronti di nessuno.  

- Va tutto bene – ripeté, piano. – Vuoi dell’acqua? – aggiunse, abbassandosi su di lui per guardarlo.

Annuì. Non era una cattiva idea e poi gli faceva male la gola, dopo le urla e il freddo. Suo padre aprì la portiera posteriore e dopo qualche secondo piegato in avanti alla ricerca di qualcosa, tornò da lui con una bottiglietta d’acqua. – Bevi. – gli disse, poggiandogli una mano sulla spalla.

Eric la prese, titubante. – Se tornassi indietro dovresti fermarti da lei, prima che da me. – mormorò. – Faresti un affare – aggiunse, sfiorando appena il piccolo collo della bottiglietta con le labbra secche, prima di bere un piccolo sorso.

Le dita di suo padre gli strinsero una spalla, con forza. – Se potessi tornare indietro, non mi soffermerei: correrei più veloce e basta. – ribatté cupamente, sfiorandogli appena un orecchio.

Lo guardò dal basso, deglutendo.

Com’era finito in quella situazione? Come si era ritrova a discutere con suo padre, dopo due anni di silenzio, proprio lì e proprio di quella cosa?

Non doveva trovarsi lì, non voleva esserci. Sarebbe dovuto essere a casa o, al massimo, a discutere con gli altri Capifazione su come la presa di potere che stavano architettando con gli Eruditi. Non lì a farsi consolare da lui.

Quel tempo era finito da un pezzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Sei sicura? Una notte qui ti farebbe bene, solo per sicurezza… - insistette, per l’ennesima volta, mentre Kaithlyn si chiedeva cosa, esattamente, non fosse chiaro nella frase “torno a casa mia e fammi firmare i maledetti fogli delle dimissioni”.

Forse aveva sopravvalutato le capacità di comprensione di suo fratello che, da quando Lucas se n’era andato, sembrava più apprensivo del solito. Neanche fosse arrivata lì in coma, o con un proiettile infilato da qualche parte.  

- Sì, Andy, sì. Ora passami una penna e chiudiamo questa faccenda definitivamente, okay? – biascicò, allungando una mano e facendogli cenno di darle l’oggetto richiesto.

Sentiva la testa ovattata, come se fosse stata a lungo sott’acqua e avesse ancora le orecchie tappate, ma non aveva intenzione di rimanere in quel posto un solo secondo in più fintanto che era abbastanza lucida. Di lì a poco sarebbe stata troppo intontita per opporsi.

Il fratello le lasciò cadere la panna sul palmo e alzò gli occhi al cielo, prima di iniziare a rimettere le cose della sorella minore nel borsone nero.

Il silenzio regnò sovrano per qualche lungo istante, mentre Kaithlyn firmava i fogli delle dimissioni senza cercare di nascondere la sua impazienza di andarsene e lui chiudeva la cerniera del bagaglio scuro, prima di caricarselo in spalla e fare cenno alla sorella di seguirlo fuori dalla stanza.

Kaithlyn lo seguì in silenzio, tirandosi il più possibile le maniche della sua felpa sulle dita pallide. Si sistemò il giaccone di Eric addosso, stringendolo con le dita all’altezza della gola.

Aveva ancora il suo odore.

Non era sicura della sua decisione di rompere, ma che alternative aveva quando l’unico modo per restare con lui era azzerare ogni cosa? Cancellare le ultime ventiquattr’ore se non addirittura gli ultimi giorno e ripartire da lì, alla sera prima: dalla sua vasca da bagno, la stessa dove l'aveva aspettato per curare il suo orgoglio ferito.

Rimuginava da tutta la sera su di lui e suo fratello aveva ragione: non poteva. Non poteva ignorare lo scatto rabbioso che aveva avuto. Ricordava il modo cadenzato in cui faceva dondolare le sbarre cigolanti dello Strapiombo, la tesa china in avanti e i muscoli tesi, mentre faceva avanti e indietro come un pazzo.

Non era una cosa normale. Avrebbe voluto comprendere cosa fosse successo e, forse andargli incontro…

Non era giusto. Lui le piaceva.

Il pensiero di rompere le faceva venire uno strano groppo alla gola, ma era la scelta migliore per entrambi. Lei ed Eric avevano due personalità distruttive, come avrebbero potuto continuare a stare insieme se ogni volta che discutevano, il fine ultimo, anziché chiarire, diventava ferire e umiliare l’altro come se questo comportasse l’avere ragione? Come se, chi riusciva indenne dalla discussione avesse automaticamente ragione?

Scosse la testa: non potevano continuare così. Un taglio netto era la cosa migliore… lui l’avrebbe riaccompagnata a casa e lei, l’indomani, avrebbe recuperato le sue cose da casa sua; dal quel momento avrebbe tagliato ogni contatto e si sarebbero visti esclusivamente per l’ultimo giorno di combattimenti degli iniziati o incrociati nei corridoi.

Sapeva anche che all’inizio sarebbe stato difficile, perché si era abituata ad averlo intorno tutto il giorno. Eric non era particolarmente loquace o di compagnia e ci voleva un po’ per notarlo, nonostante fosse alto. Il fatto era che, se non si faceva caso alla sua presenza – sapeva essere incredibilmente silenzioso anche nel muoversi – sembrava riuscire a mimetizzarsi. Eric non era un tipo estroverso o entrante. Era silenzioso come un’ombra, taciturno e profondamente introverso. Ed era con la stessa facilità con cui lo fa un’ombra, che riusciva a non farsi vedere. Gli bastava appoggiarsi alla parete della palestra, arrivando senza far rumore, e nessuno si accorgeva della sua presenza. Dal momento però in cui faceva un appunto, o lo si vedeva, era impossibile ignorarlo. E non solo sul lavoro, ma ovunque. Anche nella quotidianità era così e quello le sarebbe sicuramente mancato, almeno all’inizio.

La cosa più divertente, anche se non era certa di essere in possesso di tutte le sue facoltà mentali, era che, dopo lo sfogo fuori dall’ingresso del pronto soccorso, aveva iniziato ad avvertire una pungente e fastidiosissima sensazione di disagio.

Il senso di colpa.

Non quello cui aveva accennato Jason, quando gli aveva parlato della discussione della mattina. Era diverso, più forte, e si contorceva all’altezza del suo stomaco da tutta la sera, per quanto avesse provato a ignorarlo il più possibile distraendosi con i suoi fratelli.

Non tanto per quello che si era urlati addosso alla Residenza, o per la scenata della mattina sui piagnistei insensati di Eric… ma per l’ultima discussione: era stata stupida, avventata e aveva finito per sragionare senza analizzare i fatti e finendo per farsi più male, testimoni i sei punti di sutura alla mano.

Alla fine non era niente che non si potesse risolvere con qualche iniezione e un po’ di riposo e lei aveva dato i numeri, incolpandolo di tutto. Se invece di andare lì a continuare la discussione avesse aspettato che si calmasse, non si sarebbe fatta niente. Nessuno le aveva puntato una pistola alla testa per costringerla ad avvinarsi a lui in quel momento mentre, evidentemente, non era in grado di ragionare come avrebbe dovuto.

Avrebbe voluto che lui l’avesse lasciata a metà strada, almeno non si sarebbe sentita così in difetto per essere stata accompagnata fin lì e averlo preso a schiaffi. E a calci. E a pugni. E averlo insultato, deriso e mortificato. E quell’idiota non l’aveva lasciata lì, ma l’aveva portata, in modo e nell’altro, fino alla meta. L’aveva aiutata, anche se si meritava di essere scaricata dall’altra parte della città con tanto di borsone a carico e le aveva dato il suo giaccone, per tenerla al caldo a sue spese.

Stupido.

Senza rendersene pienamente conto aveva arrancato meditabonda dietro al fratello fino all’uscita. L’aria all’esterno era fredda e a causa del buio era difficile distinguere l’esterno nella sua interezza. Solo alcuni lampioni, quelli del parcheggio per pazienti e personale erano accesi a illuminare un’aria circoscritta.

Ciò nonostante, la sua attenzione fu calamitata dal profilo di un’auto scura, posteggiata dall’altra parte della strada. Non ne distingueva bene i contorni, ma intravide la figura alta del proprietario poggiato al fianco della vettura a braccia conserte.

Suo fratello la precedette.

Si avvicinarono all’auto, attraversando rapidamente la strada deserta.

Eric non sembrava molto in sé. Nonostante da lontano sembrasse tranquillo, fermo come un statua non era così: era pallido, sudato e aveva l’aria di qualcuno che sta per mettersi a urlare.

Sembrava quasi spaventato e notò che, le braccia conserte, servivano a nascondere il tremore alle mani. Gli tremava leggermente anche la bocca.

Si sentiva un po’ rallentata, dopo la pasticca di antidolorifico che gli aveva dato suo fratello quando quelli per le medicazioni avevano iniziato a smettere di fare effetto. Si sfilò la giacca con lentezza e un brivido freddo le corse lungo il corpo, mentre la piegava sulle braccia e si avvicinava ancora.

Eric la guardò con gli occhi spalancati e preoccupati, quasi non capisse cosa stesse facendo. Le labbra non erano altro che una linea dritta.

Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito come se si fosse dimenticato cosa stava dicendo e osservò i suoi movimenti.

Si avvicinò a lui e appoggiò la giacca sulle mani, mentre Eric continuava a guardarla come se avesse voglia di piangere. O urlare. O scappare. Vide le sue dita stringersi intorno al tessuto fino a fargli sbiancare quello che rimaneva, sotto le croste, delle nocche bianche.

Sembrava perso. Come se non sapesse cosa stava facendo, perché era lì.

Gli appoggiò una mano sul braccio e lo scrollò un po’ e, per istante, parve tornare con i piedi per terra.

Poi udirono le sirene di un’ambulanza rientrare e quello che le sembrava rimasto di lui sul suo viso, sparì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rieccomi, non sono morta!

Andiamo subito al sodo, così non vi annoio con le mie chiacchiere: che ne dite? Vi aspettavate una cosa del genere? Cosa pensate possa accadere, adesso? Idee? Teorie? Ditemi, ditemi!

La parte in cui c’è il padre di Eric come vi è smembrata? Ho sempre paura di essere troppo “tenera”, morbida, di andare fuori dai personaggi… anche se qualcuno, come la famiglia di origine di Eric, tutta quella di Kaithlyn eccetera, li ho inventati io! Insomma, non vorrei andare fuori dai miei stessi personaggi. E men che mai da quelli del libro e da come li ho resi finora, dato che mi reputo complessivamente abbastanza soddisfatta.

Insomma, placatemi, ditemi qualcosa di positivo, negativo… consigli, pareri, numeri di bravi specialisti… fatemi sapere!

Questo capitolo è stato piuttosto faticoso, lo confesso: mi ero bloccata, esattamente come con Mind’s Shades, l’anno scorso... poi il blocco è sparito e tutto sta riprendendo la piega giusta.

Vi chiedo scusa per l’attesa, ma spero che mi perdoniate data la lunghezza! Il prossimo è già a metà e in questi giorni non mi stacco dalla tastiera… quindi non perdete la speranza! Cercherò di velocizzarmi anche con gli esami che incombono.

Vi ricordo come sempre la mia paginetta facebook, della quale riuscirò a inserire il link diretto forse alla fine della storia: https://www.facebook.com/Kaithlyn24-865334640156569/?ref=bookmarks

Alla prossima!

 

 

 

  
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