Salve
a tutti, generalmente non scrivo a inizio capitolo dato che
nell’”angolo
autrice” non mi risparmio… ma questo capitolo
è un po’ diverso dagli altri,
capire leggendo, ed è molto importante perché
crea un allacciamento con due
episodi, uno in particolare, di Mind’s Shades.
Buona
lettura!
Capitolo
15
La detestava. E in quel momento detestava
ancora di più se stesso, e
non per averle dato addosso in quel modo ma per il bruciore agli occhi
e per la
consapevolezza che non avrebbe dovuto lasciarla lì. Che non voleva lasciarla lì; tutto
quello schifo
sarebbe stato anche sopportabile se, proprio in quel preciso istante,
non
avesse inconsciamente deciso di fare manovra e caricarsela in macchina
con o
senza il suo consenso.
Non era solo una
questione
di… affetto, ma di
principio: si era
fatto mettere sotto e rivoltare come un calzino da poco più
di quaranta chili
di Intrepida tutta occhi e capelli. Non era da lui. Non poteva
dargliela vinta
di nuovo e così facilmente.
Aveva guidato...
sì, per
circa novanta secondi, li aveva
meticolosamente contati nel tentativo di calmarsi, durante i quali,
nonostante
la rabbia e l’amarezza per quello che era successo, si era
sentito soddisfatto
per quella vittoria, per averla spuntata.
Si sbagliava.
Perché non era
lei quella che sentiva l’impulso irrefrenabile di tornarsene
indietro, caricare
l’altro in macchina, tornarsene alla Residenza e chiudersi in
camera per rimettere
le cose al loro posto. No, era lui il rincoglionito le cui dita stavano
dolorosamente sterzando il volante, mentre il piede destro frenava
bruscamente
per fare inversione in una sola manovra, in barba alle norme stradali.
Lo aveva
manipolato
abbastanza bene da fargli credere di agire per sua
iniziativa… ma la conclusione
era che, alla fine dei conti, aveva fatto quello che voleva lei. Come
al
solito.
Iniziò
a vedere la sagoma di
Kaithlyn dopo alcuni secondi, ancora inginocchiata a terra e con le
spalle
scosse dai singhiozzi.
Se per un
istante aveva
provato qualcosa di molto simile al senso di colpa, questo, aveva
impiegato
solo pochi secondi a trasformarsi in rabbia, irritazione. Lei non era
debole.
Faceva tante
storie per fare
di testa sua e poi rimaneva lì? Rannicchiata come una
ragazzina a frignare con
l’ingresso di quel posto maledetto a poco più di
cinquanta metri?
Si fermo a una
ventina di
metri da lei, spense il motore, si appellò a una pazienza e
a un autocontrollo
che probabilmente non aveva e scese, sbattendo la portiera.
Rabbrividì
quando l’aria
fredda della notte gli sferzò contro le braccia nude,
facendogli venire la
pelle d’oca. Era doppiamente stupido: non solo era tornato
indietro, ma le
aveva anche dato il suo giaccone restando scoperto; la povera, piccola
Kaithlyn.
Si
passò sbrigativamente le
mani sulle braccia e chiuse l’auto, prima di avviarsi verso
la figura minuti
inginocchiata a terra.
- Alzati!
– ordinò, con voce
ruvida.
Kaithlyn
sussultò e alzò gli
occhi su di lui, sorpresa, fissandolo per un lungo istante e smettendo
di
piangere. Tirò su con il naso, mentre la scintilla della
rabbia si riaccendeva
dietro ai suoi occhi e stringeva le labbra in una linea dritta.
- Avanti!
–insistette,
schiarendosi la voce con un colpo di gola, mentre si piegava su di lei
e la
afferrava per le braccia, mettendola in piedi senza sforzo. Kaithlyn si
lasciò
sollevare passivamente, sulla difensiva.
- Ed io che
speravo di essermi
liberata di te… - gracchiò con voce impastata,
deglutendo, le sopracciglia chiare
abbassate sugli occhi. La teneva ancora per le braccia: non era sicuro
che
potesse stare in piedi da sola, senza un appoggio.
Roteò
gli occhi al cielo. –
Hai cantato vittoria troppo presto, Katy.
Ora smetti di piagnucolare e vieni con me. –
sillabò, cercando di controllare la
voce e il tremore alle mani. Le passò un braccio dietro la
schiena, per
sospingerla verso l’ingresso dell’edificio.
Sulle prime lo
seguì, un
passetto alla volta. Sembrava confusa sul da farsi e anche lui lo era.
Perché
diavolo non se n’era andato e tanti saluti?
Sentì
le dita sottili
poggiarsi sul suo avambraccio e si affretto e stringerle il gomito, per
tenerla
in piedi. Non voleva che cadesse.
Aveva lo
straordinario
potere di tirargli fuori le migliori e le peggiori intenzioni in un
colpo solo.
Lo confondeva. Riusciva a farlo passare dalla voglia di ucciderla a
quella di baciarla
e passare ogni secondo con lei in pochi attimi, se non a fargli provare
entrambe le sensazioni contemporaneamente.
Lei scosse la
testa, facendo
un altro paio di passi incerti accanto a lui. – Allora hai la
testa dura. –
disse, flebilmente. – Cosa c’è di poco
chiaro nella frase “togliti dai piedi”?
– chiese, arrestandosi.
Si
fermò anche lui: se
avesse proseguito tenendole la mano sulla schiena, sarebbe finita
faccia a
terra.
Si
voltò verso di lei: non
sarebbero andati molto lontano di quel passo... – Bene. Mi
sono rotto i
coglioni! – annunciò, stringendosi nelle spalle.
Il passo successivo fu quello
di piegarsi verso le sue gambe e caricarsela in spalla come un sacco di
patate.
Era una fortuna
che fosse
tanto minuta e leggera: completamente inerme rispetto a lui. Non
avrebbe potuto
forzarlo a mollare la presa neanche nei suoi sogni più
entusiasti, con quelle
braccine.
Come ben sapeva,
la teoria è
da sempre molto diversa dalla pratica: forse fu per quello che non si
sorprese
nel doversi sforzare più del dovuto. Kaithlyn aveva le
braccia fuori uso, certo,
ma non le gambe e sembrava decisa a fare quello che poteva per
sgusciare via.
Le mise una mano
sulla
schiena, sentendo il suo ventre contrarsi spasmodicamente contro la sua
spalla.
Non fosse mai che gli venisse una sincope sul più bello.
Gli sembrava
talmente
piccola e indifesa che non si preoccupò neanche di tenerle
ferme le gambe. Era
troppo debole per ribellarsi.
Non
finì di formulare quel
pensiero che ricevette un calcio nello stomaco: non abbastanza forte da
fargli
mollare la presa, ma abbastanza fastidioso da fargliela allentare per
un
istante.
La mano che le
teneva sulla
schiena strusciò in modo doloroso contro il giaccone che le
aveva dato,
facendogli stringere i denti mentre lei gli scivolava sul petto, tra le
braccia.
Il taglio gli
bruciava
maledettamente.
Doveva
disinfettarsi al più
presto: probabilmente la ringhiera dello Strapiombo era popolata da
chissà
quali strani batteri letali e sconosciuti al pianeta… e lui,
nel delirio
dell’attacco di rabbia, era riuscito a tagliarsi
all’attaccatura delle dita di entrambe
le mani.
Forse si sarebbe
ricoperto
di macchie verdi. Prima, comunque, doveva liberarsi del problema
indisponente
che teneva tra le braccia.
Ne andava della
sua dignità.
- Mettimi
giù! –strillò,
premendogli le mani sul petto per allontanarlo, scendere e rimettersi
in piedi.
La
ignorò. Strinse i denti e
la presa sul suo corpo, ricaricandosela in spalla. La gomitata che gli
arrivo
dietro la testa, riuscì quasi a fargli il solletico.
Nel giro di
pochi attimi
successero più cose contemporaneamente: Kaithlyn gli
assestò una seconda pedata
in mezzo al ventre, costringendolo a piegarsi in avanti e si udirono
delle voci
concitate e dei passi in lontananza. Qualcuno che correva in quella
direzione.
Lei
raddrizzò la schiena
cadendo all’indietro, e si sarebbe spaccata la testa
sull’asfalto se non avesse
avuto la prontezza di riflessi di riafferrarla. Inavvertitamente, un
bottone
gli passo sulle mani e sulle ferite, annebbiandogli la vista per il
dolore.
Boccheggiò
e strinse la
presa su di lei, rimettendola in terra con tanta forza da farla
impallidire, se
possibile, ancora di più.
Sentiva di nuovo
un’ondata
di furia cieca partire dalla testa e diffondersi al resto del corpo.
Era
stanco, di essere allontanato e non gli interessava, non in quel
momento, se le
aveva fatto di nuovo male. Non mentre lui cercava, con le su penose e
pressoché
inesistenti capacità empatiche di comportarsi abbastanza
bene da rasentare
appena la decenza. Era stanco. Esausto. Umiliato. Demoralizzato. La
testa gli
pulsava in modo doloroso. Gli occhi gli bruciavano e sentiva crescere
dentro il
petto la voglia di urlare e distruggere qualcosa e,
l’intento, era quello di
non far diventare quel “qualcosa”
da
distruggere il bel visino di Kaithlyn.
Sul serio, non
voleva farle
ancora più male. Se si fosse trattato di chiunque altro, un
pugno in mezzo agli
occhi non glielo avrebbe tolto nessuno. Lei, però, non era tutti gli altri.
Strinse i pugni,
provocandosi un’altra scarica di dolore. Aprì la
bocca per urlarle qualcosa, ma
non ne ebbe il tempo.
Prima che
potesse anche solo
prendere fiato per parlare, si sentì spintonare
all’indietro: non aveva sentito
nessuno arrivare. Riacquistò l’equilibrio,
ritrovandosi a fronteggiare un paio
di occhi chiari e furenti.
- Non toccarla!
– gli urlò
lo sconosciuto, spingendolo ancora all’indietro e facendolo
barcollare di
nuovo.
Non
reagire. Non reagire.
Impiegò
un paio di secondi per
racimolare il poco buon senso che aveva a disposizione e limitarsi a
spintonarlo all’indietro, anziché saltargli alla
gola. – E tu, - sputò,
riacquistando l’equilibrio. – Chi cazzo sei, eh? -.
Vide Kaithlyn
girarsi con il
chiaro intento di mettersi nel mezzo e fece per raggiungerla. Non aveva
la più
pallida idea di chi fosse quel tizio, ma sicuramente non lo avrebbe
fatto
avvinare a lei. Con sua grande sorpresa il nuovo arrivato,
anziché lasciarla
fare, la spinse all’indietro con braccio, facendola finire
con il sedere per
terra.
Quel gesto,
seppur fatto con
il chiaro intento di difenderla, gli fece oscurò la vista
per un istante e, in
una sola falcata lo raggiunse, agguantandolo per la camicia e
sollevandolo di
dieci centimetri da terra.
Sentiva la
stoffa leggera e
liscia della camicia tendersi sotto le dita, mentre il peso del
proprietario
trascinava in giù il corpo. Era massiccio, per essere un
Erudito, ma non
abbastanza da potersi anche solo sognare di metterlo in
difficoltà.
Lo
lasciò andare con un
gesto di stizza e lui, per poco, non cadde addosso a Kaithlyn ancora
con il
sedere per terra e il viso imbrattato di lacrime e sangue. Solo in quel
momento
notò che non sembrava turbata. Nervosa, magari. Irritata
dalla presenza del
nuovo arrivato ma non abbastanza. Se fosse stato uno sconosciuto si
sarebbe
alzata prima di lui per dirgli di farsi i fatti i suoi. Ne era
assolutamente
certo. Il giorno in cui Kaithlyn Evenson avesse taciuto su qualcosa che
la
disturbava anche in minima parte, il sole sarebbe sorto a Ovest e
Quattro,
forse, avrebbe organizzato un Rave Party.
Lei gli
lanciò un’occhiata strana,
mentre si alzava con una smorfia. Face un paio di passi verso
l’Erudito,
immobile ma evidentemente pronto a scattare e strinse le dita intorno
alla
stoffa del camice.
-
Lucas… - gracchiò, con
voce strozzata. – Calmati –. Sfruttò la
presa sul camice per avanzare più
rapidamente e mettersi in mezzo, dandogli le spalle.
Sembrava ancora
più piccola
e fragile con quel giaccone troppo grande per lei, ma la sua voce, per
quanto
provata era ferma. Decisa.
L’Erudito
sembrò perdere le
staffe. – Stai scherzando? – le urlò, a
pochi centimetri dal viso, con gli
occhi spalancati d’incredulità. Poi si rivolse a
lui, sporgendosi oltre la
spalla di Kaithlyn e puntandogli un dito contro,
l’espressione deformata dalla
rabbia. – Se ti azzardi a toccarla un’altra volta
te ne pentirai. – sibilò,
posandole una mano su un braccio.
Sentiva sulla
pelle il
desiderio pulsante di colpirlo, come una leggera carica elettrica. E
l’avrebbe
fatto, se non fossero stati quasi attaccati: così vicini,
avrebbe fatto fatica
a spostare Kaithlyn dalla traiettoria della raffica di botte con cui
stava per
omaggiare il nuovo venuto.
Kaithlyn
posò le mani sul
petto dell’Erudito, in un chiaro invito a indietreggiare.
Lo
osservò, valutando quanti
problemi avrebbe potuto creare. Era diversi centimetri più
basso di lui, ma
aveva le spalle larghe e sembrava piuttosto solido per essere un Lasso,
la cui
vita veniva trascorsa principalmente sui libri. Le uniche
attività fisiche per
cui gli Eruditi stravedevano erano quelle che davano crediti extra.
Non riusciva a
distinguere
bene i colori con la sola, lontana, illuminazione di qualche sporadico
lampione
e dell’ingresso del pronto soccorso, ma i capelli arruffati,
all’apparenza
castano chiaro e la tonalità evidentemente azzurra degli
occhi lo bloccarono,
impedendogli di scagliarsi definitivamente contro di lui.
Lui conosceva
quell’iride.
Così come aveva già visto la punta del suo naso e
c’era qualcosa, anche, del
suo viso che era familiare, vicino. Forse era la stanchezza ma
l’espressione
furiosa sul suo volto e il modo in cui aveva abbassato le sopracciglia,
non gli
lasciarono neanche l’ombra del dubbio: Kaithlyn.
Avrebbe
riconosciuto le sue
espressioni su chiunque e quello non poteva che essere uno dei suoi
fratelli
maggiori. Tra l’altro, aveva senso: quale altro Erudito si
sarebbe preso la
briga o avrebbe avuto il fegato di picchiarlo, anziché
chiamare il Centro di
Controllo, se non un parente, qualcuno a lei abbastanza vicino da non
limitarsi
a desiderare di allontanarla da lui per una questione
d’incolumità? Nessuno. I
Lassi non intervenivano nelle dispute fisiche, era molto difficile;
soprattutto
se si trattava di Intrepidi, dai quali in linea di massima potevano
solo prenderle
di santa ragione, come in quel caso.
Non portava gli
occhiali.
Strano: erano come un segno di riconoscimento, tra gli Eruditi e
l’unica altra
persona che non ne aveva bisogno e non portava neanche quelli senza
gradazione,
era sua madre. Un caso umano che non avrebbe dovuto fare testo, a suo
dire.
Il nuovo
arrivato lo fissò a
lungo, prima di spostare gli occhi su Kaithlyn e aggirarla,
arrivandogli a
pochi centimetri dal viso.
- Se ti avvicini
di nuovo a
mia sorella… - gli intimò in tono basso, tanto
vicino che avrebbe potuto
contargli le lentiggini sul naso.
Da che ne aveva
ricordo, non
era mai stato un amante del contatto fisico: anzi, lo evitava il
più possibile
se non in particolari situazioni.
Detestava essere toccato troppo, ciancicato o sentire le mani di
qualcuno
addosso.
- Tu cosa?
– lo schernì, in
un soffio. - mi prendi a pugni? –.
Avrebbe proprio
voluto
vederlo. Forse non se ne sarebbe neanche accorto, se l’avesse
colpito.
- Smettetela!
– sibilò
Kaithlyn allontanandosi di un passo dal fratello e mettendosi di lato,
tra
loro.
Il ragazzo
continuò a
guardarlo in cagnesco. Non sapeva se considerarlo coraggioso o molto
stupido.
Immaginava ci fosse una linea molto sottile, tra le due cose.
Roteò
gli occhi al cielo e
fissò l’altro con un ghigno, prima di muoversi
verso Kaithlyn. Vide con la coda
dell’occhio l’altro seguire ogni suo movimento e
voltarsi con lui.
Sentiva ancora
la sensazione
di una tenue corrente a fiori di pelle che, lentamente, si stava
caricando.
Avrebbe dovuto sfogarsi in palestra, più tardi. O sfiancarsi
con una bella
corsa.
- Kaithlyn.
– la chiamò il
fratello, in tono duro. - Tu, lasciala stare. Ci penso io a lei.
– disse,
raggiungendoli e stringendogli un polso.
Chiuse gli occhi
e inspirò.
– Hai tre secondi per lasciarmi il braccio.
– lo minacciò. – Poi ti
riempio di botte. –
L’Erudito
non parve turbato
e mantenne un’espressione impassibile, senza mollare la
presa.
- La stavi
portando qui, è
corretto? – gli domandò, improvvisamente in tono
calcolato, professionale.
Annuì.
– No, pezzo d’idiota.
Stiamo facendo una passeggiata al chiaro di Luna, è una zona
così bella. – lo
schernì, sarcasticamente.
Le labbra di
Kaithlyn ebbero
un guizzo, mentre quelle di suo fratello si piegarono in
un’espressione
fintamente accondiscendente. – Eccellente. Ci penso io. Sono
di turno, se sai
di cosa sto parlando e, precisamente, al pronto soccorso. –
Eric lo
fissò. – Tu? O sei
molto più vecchio di quanto sembri o
c’è qualcosa che non torna: hanno portato
le matricole universitarie a fare una visa guidata in notturna?
– domandò,
accentuando un’espressione di finta simpatia.
- Taci. Non
sapresti neanche
da che parte iniziare. – sibilò,
l’altro, stringendo i pugni.
Eric
ghignò. – Dici? -.
Si fissarono in
cagnesco per
un lungo istante.
- Ad ogni modo,
- proruppe
in tono professionale il fratello di Kaithlyn. – La tua
presenza è superflua al
fine che ti eri prefissato di raggiungere accompagnandola. È
arrivata e tu non
disponi di alcuna competenza pregressa o non per renderti utile.
–
-
L’inutile se superfluo al
raggiungimento di un risultato ottimale, va evitato. Ergo, ci serve un
medico
non un tirocinante che non ha niente di meglio da fare. Non mi farei
toccare da
te neanche in punto di morte. – lo interruppe, Eric.
L’altro
richiuse le labbra e
lo osservò con circospezione.
Eric si
avvicinò. – Fai un
favore a te stesso e a me ed evita di rifilarmi queste cazzate, okay?
– disse,
inarcando le sopracciglia e sollevando un angolo della bocca.
Tornò
vicinò a Kaithlyn che
però non sembrava intenzionata a muoversi e continuava a
fissarlo con due occhi
enormi. – Devi medicarti anche tu –
mormorò, abbassando gli occhi sulle sue
mani insanguinate.
- Sì,
be’. Non è il mio
primo problema al momento. – ribatté. –
Vuoi andare con lui? – aggiunse, vedendola
indecisa sul da farsi.
Annuì.
– Bene. Allora posso
andare. – mormorò, sentendo la delusione farsi
largo dentro di lui. Era una
cosa stupida e si rendeva perfettamente conto che sarebbe stato molto
più
logico non imbastire una discussione solo per chi la accompagnava
dentro con il
suo fratello tirocinante.
Era infantile,
ma arrivati a
quel punto avrebbe voluto finire. Averla vinta almeno nel confronto con
uno suo
fratello.
Kaithlyn gli si
avvicinò
camminando instabilmente e gli strinse appena un polso. Sentiva tra le
loro
pelli qualcosa di umido, forse sangue. Le prese la mano, fissando il
terreno.
- Vai tu.
– disse, dopo
qualche secondo. - Avrei dovuto lasciarti in mezzo di strada tre
chilometri fa,
invece di insistere. A questo punto immagino che potrai cavartela da
sola. –
Kaithlyn
alzò gli occhi su
di lui, l’espressione dispiaciuta. – Non fare
l’idiota, - gracchiò, mentre il
fratello la affiancava e le metteva una mano sulla schiena, con fare
protettivo.
– Non puoi lasciarle così –
asserì stringendogli un po’ il polso e
costringendolo a togliere le dita dal dorso della sua. –
Guarda come ti sei
ridotto. -
- Mi pareva di
aver intuito
che non dovesse interessarti più, il mio stato di salute.
Sei stata piuttosto
chiara, circa dieci minuti fa. Premesso questo, se hai qualcosa da dire
fammi
il sacrosanto piacere di cucirti la bocca, una buona volta, e tenerla
per te. –
disse, freddamente, scostandosi e facendo sì che la sua mano
le ricadesse lungo
il fianco lasciandogli una piccola chiazza di sangue sul polso.
- Come scusa?
– intervenne,
Lucas voltandosi verso di lui.
- Fatti gli
affari tuoi. – lo
zittì Kaithlyn, girando appena la testa.
Si
girò di nuovo verso di
lui. Sembrava più tranquilla, anche se era pallida e
tremante. Non era una
tranquillità che condivideva. Quello era il vero punto di
rottura, di stacco.
La frattura definitiva.
Prese un bel
respiro. – Sono
stanco di discutere con te. – disse, guardandola. Lei
abbassò gli occhi. – Sì,
anch’io.
– concordò, stringendosi il giaccone addosso.
- Possiamo
parlarne, dopo? –
gli chiese.
Eric scosse la
testa. – Ci
siamo già detti tutto e non ho intenzione di darti altre
munizioni da usare contro
di me. Va’ con lui. Ci vediamo in giro. –
biascicò, sentendo un nodo
all’altezza dello stomaco stringere fastidiosamente.
Kaithlyn
contrasse il viso
in una smorfia. – Le tue mani. – mormorò.
- Non
è affare tuo. Ho fatto
male a tornare indietro: se ti avessi lasciato lì come
volevi avrei fatto il
mio. Nel caso avessi bisogno di un passaggio fino a casa, quindi, sei
liberissima di chiamare il tuo amichetto, io non ho intenzione di fare
nient’altro,
per te. –
Quella era la
fine: ne era
conferma l’espressione dispiaciuta di Kaithlyn e quasi si
sorprese nel
costatare che, a quanto pareva, provava qualcosa anche lei.
Eureca.
Erano dovuti arrivare a quel punto, per quello.
La
lasciò lì, tornando sui
suoi passi senza rivolgere un solo sguardo al fratello di lei.
Si sentiva
sconfitto e
briciava terribilmente, anche se ormai avrebbe dovuto esserci abituato.
Raggiunse
l’auto, salì, mise
in moto e partì sgommando. Girò per diversi
minuti, senza fare troppo caso al
tragitto: a quell’ora era quasi facile confondersi, per le
strade ordinate nel
quartiere; poi imboccò una strada secondaria che lo condusse
fino a un grosso
stradone.
Era abbastanza
inquietante,
con i pochi lampioni e l’oscurità che si
prospettava davanti all’auto. Alla sua
destra c’erano a intervalli regolari di qualche decina di
metri degli alberi
dal fusto alto e grosso e, dietro di loro, un fosso non troppo profondo
delimitato
dal guardrail e dai paletti catarifrangenti che delimitavano il
percorso
rettilineo. Aveva la strana sensazione di conoscere quella strada, di
esserci
già passato in un momento particolare, ma era troppo
arrabbiato per farci caso.
Ingranò
la prima, e ripartì.
- Ciao Kaithlyn!
–.
Alzò
gli occhi sull’uomo
slanciato che le dava le spalle: Andrew.
Aveva il naso
tappato, la
testa ovattata e faticava a reggersi in piedi. La spalla continuava a
lanciarle
fitte dolorose e sentiva il braccio con il palmo tagliato freddo.
La mano di
Lucas, sul suo
fianco, la sorresse stringendola, mentre avanzavano. Suo fratello si
era
caricato in spalla il suo borsone appena entrati poi si era seduto con
lei e
avevano aspettato insieme, in silenzio, il suo turno.
Non
c’era molta gente, per
cui era stata un’attesa breve.
Andrew si
voltò verso di lei
e la squadrò dalla testa ai piedi da dietro gli occhiali
dalla montatura nera e
rettangolare. – Che diavolo ti è successo? -.
Aprì
la bocca per
rispondere, aggrappandosi al braccio di Lucas per non cadere, ma
sentiva le
forze venirle meno e il sangue defluire rapidamente verso il basso,
mentre le
calava la pressione a picco.
La testa le
pulsava… perché
non poteva semplicemente stendersi e dormire? Solo un po’.
Cercò
di concentrarsi sul
fratello e sulla sua aria preoccupata, mentre il suo campo visivo
diventava
sfarfallante.
Sentì
le gambe cedere
mollemente e sarebbe caduta se il braccio di Lucas non si fosse
prontamente
infilato sotto le sue ginocchia. Sentì il borsone scivolare
lungo il braccio
del fratello e dondolare sotto le sue gambe mentre veniva sollevata da
terra.
Ci furono un
paio di secondi
di silenzio, durante i quali sentì il rumore delle carta che
ricopriva il
lettino venire strappata per essere sostituita con altra carta pulita.
Poi avvertì
la superficie ruvida della carta contro il corpo.
Poi, il buio.
Sentì
la porta della
cornetteria aprirsi e un brivido di disagio gli corse lungo la schiena.
Abbassò
la testa, anche se i capelli erano ancora troppo corti per coprirgli
del tutto
il viso; quelli davanti gli arrivavano poco oltre gli zigomi.
La sensazione di
conoscere
il cliente appena entrato sembrava scorrergli nelle vene fino ai
capillari
della punta delle dita; era una strana sensazione di
familiarità quella che
provava nell’ascoltare, immobile e teso, i passi dello
sconosciuto sul
pavimento di legno.
Il rumore dei
passi s’interruppe
bruscamente ed Eric s’irrigidì ancora di
più, sentendosi osservato. Qualche
altro passo esitante gli annunciò che l’uomo gli
era arrivato alle spalle.
Doveva essere un
cliente
abituale, perché il barista di turno, un uomo alto e dagli
atteggiamenti
burberi rivolse un cenno di saluto alle sue spalle, mentre lui si
sentiva
sbiancare.
- Berry, -
salutò il nuovo
arrivato, in tono incerto.
Eric per poco
non si strozzò
con il caffè che stava bevendo: non poteva aver raggiunto
livelli di sfortunata
tanto elevati, gli sembrava utopistico. Impossibile. Di tutta la gente
che
frequentava quel posto non poteva esserci passato nell’unica
notte in cui poteva
incontrarlo, dopo, tra le tante cose, essere rimasto impantanato con
l’auto a
qualche chilometro di distanza.
Se
qualcosa può andar male, lo farà.
Avrebbe dovuto
farsi tatuare
quel modo di dire da qualche parte, anche solo come promemoria.
Azzardò
a sbirciare di lato,
affilando lo sguardo tra le ciocche di capelli scuri che si era fatto
ricadere
sul viso per coprirlo ma fu un errore; lo capì
nell’esatto istante in cui i
suoi occhi s’incrociarono un paio di occhi azzurri, sorpresi.
- Eric...!
– boccheggiò,
l’uomo accanto a lui.
A quel punto era
inutile
nascondersi, ma mantenne comunque lo sguardo puntato sul bancone, quasi
volesse
mettersi a memorizzare le linee morbide dei motivi del legno scuro.
-
Pa’… -.
Quando riprese i
sensi, la
prima cosa che avvertì, fu qualcosa che le tirava sulla
schiena e la sua mano
che si muoveva. Era semi seduta su un lettino, in una stanza tanto
asettica che
dovette stringere leggermente gli occhi per la luce.
La schiena le
faceva male,
ma non era più il dolore sordo di prima: era qualcosa di
diverso, di attutito.
Sentiva il sangue pulsare nella zona lesa della schiena e qualcosa
frapporsi
tra la sua pelle e la superficie del lettino. Una benda, forse:
dovevano averla
medicata.
Suo fratello era
seduto
accanto a lei: aveva gli occhi fissi sulla sua mano e gli occhiali
sulla testa.
Teneva in mano una pinzetta e indossava dei guanti in lattice bianco.
Sotto le
luci chiare del soffitto, i suoi capelli assumevano una strana
sfumatura
rossastra.
Alzò
gli occhi su di lei,
assottigliandoli appena nel guardarla. – Ti sei svegliata,
finalmente. –
costatò, accennando un sorriso.
Si sentiva
confusa, con la
testa ovattata forse da qualche antidolorifico o antiinfiammatorio, ma
una cosa
la sapeva.
- Se dici a
papà che sono
qui – biascicò, debolmente. – Ti uccido.
–
Sentì
una risatina e le
venne da stendere appena le labbra, ma quello che ne uscì
non fu altro che una
smorfia, mentre lui tornava a occuparsi del taglio alla sua mano. Era
completamente insensibile su tutto il braccio.
- Che ti
è successo? – le
chiese, senza staccare gli occhi dal suo lavoro mentre allungata una
mano per
prendere qualcosa dal mobiletto a più piani che aveva
accanto. Aveva la mano
sporca di qualcosa di rossastro… forse tintura di iodio, per
metterle i punti.
- Il
braccio… - mormorò,
cercando di alzarsi per verificare la motilità
dell’arto. Andrew si alzò in
piedi e la rispinse gentilmente distesa.
- Stai buona.
– le disse,
passandole una mano sulla fronte. Aveva le mani freddissime e asciutte,
ma era
piacevole sentirle sulla pelle.
- Eric?
– chiese, non
vedendolo. Non era venuto con lei?
Suo fratello
scosse un po’
la testa. – Chi? -.
Guardò
Andrew, confusa:
forse se n’era andato. Non ricordava con chiarezza gli ultimi
minuti, prima di
perdere i sensi. Ricordava solo di sentire un gran dolore
più o meno ovunque.
- Eric.
– ripeté. – Oh, era
con me quando sono arrivata. Mi ha portata lui qui… in
macchina. – aggiunse,
dato che il fratello non poteva capire altrimenti.
Le rivolse
un’occhiata
strana e strinse le labbra. – Il tipo inquietante di cui mi
ha parlato Lucas?
-.
- Può
darsi… è – prese
fiato, mentre il fratello interrompeva quello che stava facendo per
afferrare
un garza dal mobiletto. – Molto alto, moro…
è attraente e dovrebbe avere le
mani insanguinate… è stata una serataccia anche
per lui. –
Andrew annuiva,
mentre
parlava. - È andato via quando Lucas vi ha raggiunto fuori,
allora. Qui non è
entrato nessuno di alto, moro e
attraente. –
Portò
l’altro braccio,
indolenzito, alla fronte e si massaggiò le tempie. Le
scoppiava la testa.
- È
un tuo amico? – si sentì
chiede dopo qualche secondo in cui aveva tenuto gli occhi chiusi
lasciandosi
accudire.
Aprì
gli occhi e fissò il
soffitto poi girò la testa verso il fratello e sorrise un
po’. – Amico
– disse, con un’alzata di
sopracciglia.
Andrew scosse la
testa e
respirò dal naso. – Lo immaginavo. È il
tuo ragazzo? – chiese, senza
inclinazioni.
Quella
sì che era una
domanda interessante. Si erano lasciati? Non si erano lasciati?
Immaginava di
doverlo chiedere a lui, per capire se erano giunti a una conclusione o
se si
era trattato dell’ennesima litigata furiosa e inutile.
- Ottima domanda
– commentò,
tornando a guardare il soffitto bianco.
Suo fratello
posò le
pinzette con cui teneva il filo. – O lo è o non lo
è, Kaithlyn. Non mi sembra
difficile. –
- Geloso?
– lo punzecchiò.
Iniziava a sentirsi un po’ meglio e un po’ meno
confusa.
Suo fratello
scosse la
testa. – No. Sei abbastanza grande da fare ciò che
credi meglio, immagino. –
affermò, ostentando indifferenza e stringendosi nelle spalle.
Anche se il
sorriso non le
arrivò alle labbra, iniziava a sentire la tensione
allentarsi un po’ e
stuzzicare il fratello era divertente. – Ci siamo lasciati
venendo in qua. –
disse, alla fine, anche se non era del tutto sicura che fosse
esattamente così.
Le cose, per lei, dovevano essere chiare e, al momento, non lo erano.
- Ah.
–
-
Già. Il mio borsone? –
chiese, cambiando argomento.
- Sulla sedia
nell’angolo. –
rispose, prontamente quasi sapesse che glielo avrebbe chiesto.
– È un po’ che
vi frequentate. – commentò.
Kaithlyn scosse
appena la
testa, sentendo i capelli solleticarle il collo. – Qualche
mese. Perché ti
interessa? -.
Lui si strinse
nelle spalle.
– Curiosità. Non l’hai lasciato per non
farlo conoscere a nostro padre, vero?
-.
Rise, mentre un
leggero
dolore al petto le si irradiava ovunque. – Scherzi? Era il
mio sogno
presentarglielo: gli avrebbe fatto accapponare la pelle, altro che
Jason! –
esclamò, mentre suo fratello iniziava a fasciarle la mano. I
punti le tiravano
leggermente.
- Ad ogni modo,
per
rispondere alla tua velata minaccia
di poco fa, no. Non sono stupido, quindi non dirò niente a
nostro padre. – le
disse.
- Bravo. Questo
è lo spirito
giusto. Ti ricordi forse di quanto mi sono rotta un braccio
sull’albero? O di
quando dovevi venirmi a prendere a scuola ed io sono scappata dalle
sbarre del
giardino e sono venuta qui da lui, da sola? – gli
rammentò, ricordando
chiaramente la sgridata che era seguita. Sia per lei, chiaramente, che
per lui
che si ritrovava sempre con la responsabilità di tenerla
d’occhio. Fallendo, il
più delle volte.
Andrew
rabbrividì. –
Indelebilmente. Ti avrei uccisa, Kaithlyn. Sei stata la sorella
più dispettosa,
indisponente, saccente e rompi scatole della storia. –
- Non essere
cattivo, era
piccola… - cercò di difendersi, mettendo su la
sua miglior espressione
innocente.
- Non incanti
nessuno,
signorina. Cosa pensi, che Samantha non si ricordi dei tuoi scherzetti?
–
insistette, assottigliando gli occhi.
Scoppiarono a
ridere. - È
stato divertente! Hai riso anche tu, traditore. – si difese,
mentre lui la
aiutava a mettersi seduta sul lettino e le spostava una ciocca di
capelli da
sopra la faccia.
-
L’alternativa era mettermi
a piangere, cerca di capirmi. – disse, in tono drammatico.
- Che disgrazia.
– asserì,
annuendo.
- Una piaga.
Dove passavi te
non cresceva più neanche un filo d’erba.* -
rincarò.
Sorrise un
po’. Andrew era
il più grande dei suoi fratelli e quello a cui era toccato
occuparsi più di
lei, dati i quasi undici anni di differenza. Era anche quello di cui
era più
gelosa… Dylan, il secondo e oggettivamente più
bello era un donnaiolo e con
Lukas, il più piccolo, aveva sempre avuto un rapporto di
amore-odio. Manuel, il
terzo e forse il più sacrificato, se di sacrificio si poteva
parlare, era invece
tranquillo, gentile e posato. Spesso faceva da paciere, in particolare
tra lei
e Lucas che discutevano una volta sì e l’altra
pure.
Ricordava,
quando era più
piccola, di aver storto il naso a ogni ragazza con ognuno di loro, ma
per
nessuno le si era contorto lo stomaco come per Andrew. Aveva fatto
passare
l’inferno a quella che, qualche anno prima, era diventata sua
moglie. Se non
altro era sicura che fosse amore: in nessun altro caso, avrebbe
sopportato. Lei
non l’avrebbe fatto.
Suo fratello la
riportò con
i piedi per terra. – Non raccontarlo a Michael. Non vorrei
prendesse esempio,
sua madre non potrebbe sopportarlo. –
- Ah!
– esclamò. - È stato
un bello scherzetto genetico, eh? – rise, pensando al
nipotino.
Michael, cinque
anni, era il
bambino meno Erudito che avesse incontrato. Oltre a lei stessa,
chiaramente.
Un
mostriciattolo pestifero
di poco meno di un metro che, ne era sicura, sarebbe diventato un
Intrepido con
i fiocchi. La madre, però, non l’aveva presa molto
bene preferendo tenerglielo
lontano affinché non si influenzasse troppo.
Che
zia degenere, povero piccolo.
Suo fratello
sorrise un po’.
- Aspetta che la
nuova
arrivata si metta a parlare di relatività ancor prima di
nascere? – gli chiese.
Si strinse nelle
spalle. –
Non esagerare, non è così fissata. È
più il pensare di avere gli anni contati
con Michael a turbarla… non ricordarglielo troppo magari,
okay? -.
Kaithlyn
assottigliò gli
occhi. – O forse è il fatto che, quando
arriverà il momento, sarò io la figura
di riferimento, per lui. – suggerì. –
Non mentire, so che è così. –
Andrew
annuì un po’,
scoccandole un’occhiata complice. Per lui, da quel che ne
sapeva, non sarebbe
cambiato niente. Sua moglie, invece, era un altro paio di maniche e da
quando
aspettava il secondo genito, una femmina, era ancora meno ben disposta
nei suoi
confronti.
Se ne sarebbe
fatta una
ragione.
Uno…
due… tre… fatto!
Stava tirando
fuori i soldi
per pagare, quando il barista gli mise in mano un sacchetto con quelle
che
sembravano paste calde e lo congedò sparendo nel retro
bottega, lasciandolo lì,
impalato, come un idiota.
Dal sacchetto
bianco, con il
logo della cornetteria, s’irradiò un tenue calore
alla sua mano fredda, facendo
rabbrividire.
Gli
riportò alla mente una
notte piovosa, di un tempo passato e imprecisato. Sicuramente non
arrivava
neanche al bordo del bancone, ancora, ma ricordava William e suo padre
che li
metteva a sedere sugli sgabelli girevoli e prendeva a entrambi una
pasta calda,
appena sfornata, nel tentativo di farli dormire. Sua madre non
c’era, forse di
turno in ospedale, e suo padre li aveva montati in macchina e portati a
fare un
giro notturno nella speranza, forse, di farli addormentare.
Doveva essergli
sembrata
chissà quale avventura uscire da casa al buio…
invece, in quel momento, lo
preferiva alla luce del Sole, lo sentiva più vicino.
Era un ricordo
stranamente
piacevole, anche se sbiadito dal tempo. Ricordava la sensazione del
vetro
freddo sotto i palmi e la musica tranquilla della radio
dell’auto, intervallata
dalla voce di suo padre e dalle occhiate che ricevevano dallo
specchietto
retrovisore lui e suo fratello.
Anche
l’odore delle paste
era simile a quello di tanti anni prima, ma anziché farlo
contento, lo incupì.
Era in quel
periodo che era
iniziato il suo declino e quello che olfatto e tatto gli stavano
riportando
alla mente era qualcosa che non gli apparteneva più e che
sarebbe dovuto
restare seppellito nel passato.
Era solo un
ricordo sbiadito
di un bambino che non esisteva più.
Seguì
suo padre oltre
l’uscio, raggiungendolo a pochi passi dall’auto.
- Quanto ti
devo? – chiese,
trattenendolo per un braccio.
Suo padre
abbassò gli occhi
sul suo braccio con lentezza e strinse le labbra. – Prendile
e basta. – rispose,
scandendo le parole, mentre lui aumentava la presa.
- Io non voglio
niente da
te. – ringhiò, in tono basso. – Non
m’interessa dei tuoi sensi di colpa o della
pena che ti faccio. -
Suo padre
corrugò le
sopracciglia scure. – Non mi fai pena e, cosa più
importante, non mi sento
particolarmente colpevole di niente. Perciò, se potessi
lasciarmi il braccio in
modo da farmi ripartire la circolazione nell’arteria
brachiale, te ne sarei
grato. – scandì, accigliandosi.
Eric
lasciò la presa.
Osservò
suo padre sistemarsi
la felpa: era vestino in modo piuttosto sportivo, con i pantaloni della
tuta,
una maglia bianca e le scarpe da ginnastica. Ed erano alti uguali. Non
ci aveva
fatto caso. Quand’era bambino suo padre gli sembrava
l’uomo più alto del mondo,
mentre in quel momento poteva guardarlo tranquillamente negli occhi.
Forse era
anche un centimetro o due più alto di lui o, forse, era solo
il fatto di essere
più grosso a dargli quell’impressione.
Strinse le
labbra,
frustrato. Era possibile che, quella sera, non ci fosse una cosa che
andasse
come doveva?
Suo padre
salì in auto, la accese
e abbassò il finestrino. – Vuoi un passaggio fino
alla macchina? – domandò,
seraficamente.
Eric
scattò. – Ti ho detto
che non voglio niente da te. Lasciami in pace e vattene, è
qui vicino. – sbottò,
facendo un passo indietro, dopo avergli lanciato sulle gambe il
sacchetto con
le paste, in un gesto di stizza.
Suo padre non si
scompose,
limitandosi a spostarle sul sedile del passeggero. - Talmente vicino
che sei
riuscito a sudare, in piena notte, e con le maniche corte? –
gli chiese,
candidamente.
Chiuse gli
occhi. – Non sono
fatti tuoi, comunque. –
Suo padre
annuì. – Come non
detto, va’ pure a piedi. Non ho voglia di discutere anche con
te. – disse,
stringendosi nelle spalle e ingranando la prima. – Sicuro,
vero? Non torno
indietro a prenderti, se cambi idea. – lo avvisò.
Annuì,
con un gesto
esasperato del capo e suo padre, dopo averlo salutato con una mano,
ripartì.
Camminò
percorrendo la
strada a ritroso per qualche minuto poi, con un lampo,
iniziò a diluviare.
Suo fratello
l’aveva
accompagnata insieme a Lucas, che si era offerto di portare il borsone,
fino
alle macchinette a prendere qualcosa da mangiare.
- Andrew
– lo chiamò, mentre
un sottile dubbio iniziava a insinuarsi nella sua mente. –
Per quale ragione
non dovrei far pesare a tua moglie il fatto che ha un bel bambino
Intrepido? -.
Suo fratello si
voltò a
guardarla seriamente, con un velo di colpevolezza sul viso.
Lucas face un
paio di colpi
di tosse. – Che giorno siamo, tonta? – chiese,
girando la testa verso di lei.
Scosse la testa.
– Non… oh.
– balbettò, comprendo perché le era
stato chiesto di non infierire sulla
cognata.
Si
appoggiò contro lo schienale
della sedia di plastica, lasciando scivolarle gambe in avanti.
– Ti rendi
conto, vero, che tu hai trent’anni e nostro padre
cinquantasei? Non vi sembra
un po’ infantile, farmi il “sorpresone”
per il Giorno delle Visite? – chiese, guardandolo senza
espressione.
- Non sei felice
di vederci?
– la stuzzicò, Lucas dandole un colpetto con la
spalla.
- Ahi!
– sbottò,
restituendogliela e facendosi quasi più male. –
No. –
Entrambi risero.
- Voglio dire,
perché dovete
tendermi un agguato? – si difese, massaggiandosi il braccio
con cui aveva
restituito la spallata a suo fratello.
Lucas si
rabbuiò. – Non
chiederlo a me: nostro padre sta dando i numeri, ultimamente.
– brontolò, in
tono basso e ruvido.
Kaithlyn
inarcò un sopracciglio,
in attesa di spiegazioni. – Più del solito?
– chiese, inclinando la testa e
tirandosi su sulla sedia, in modo da poter incrociare le gambe: quelle
non le
facevano male, fortunatamente.
Suo fratello
annuì
gravemente, facendosi cadere una ciocca di capelli biondo scuro sulla
fronte.
La riportò indietro con un gesto di stizza. Suo fratello non
era messo meglio
di lei a capelli: ne aveva tantissimo, gonfi e arruffati.
- La stessa
ragione per cui
ho iniziato a lavoricchiare al locale qui vicino. – le disse,
in tono basso.
Aggrottò
le sopracciglia. –
Lavorare? Ai nostri genitori non mancano certo i soldi per... -.
- Lo so
benissimo, Kaithlyn!
– sbottò lui. – Nostro padre,
però, a quanto pare, ha deciso che vuole tutti
medici in famiglia… ad eccezione tua, che non conti proprio
perché sei tu e ti
permette di fare ciò che preferisci. –
- Dovresti farlo
anche tu,
allora. Se non ti piace quello che fai, molla tutto e iscriviti a
un’altra facoltà.
Non ho capito perché devi anche lavorare, però.
–
Suo fratello si
voltò verso
di lei, con lentezza. – Paparino mi
ha tagliato tutti i fondi. – disse lentamente.
Era sorpresa.
Suo padre era
esigente, ma li aveva sempre lasciati liberi di fare ciò che
sentivano più
nelle loro corde… perché voleva spingere Lucas in
una strada che non
evidentemente la sua.
Suo fratello si
tirò un
pugnetto sul petto e assunse un’espressione austera.
– Lucas, - esordì con voce
più profonda. – Non comprendo per quale ragione tu
voglia cambiare corso di
studi. I tuoi fratelli non mi hanno dato mai dato di questi problemi,
perciò,
contro ogni buon senso, o prosegui con quello che hai iniziato o
significa che
sei abbastanza maturo da mantenerti. Non avrai un centesimo,
d’ora in avanti. –
disse, imitando il padre.
Kaithlyn rise.
– Vuoi
cinquanta dollari? – gli chiese, guardano le ombre scure che
aveva sotto gli
occhi.
- Non mi
ridurrò a prendere
la paghetta da mia sorella minore. – le sibilò,
passandosi le mani tra i
capelli.
- Be’,
hai altri tre
fratelli. Nessun buon samaritano? – gli chiese scoccando
un’occhiata alla
schiena di Andrew, intento a prendere un caffè.
- Tu sei
sposato. Vivi da
solo e ti mantieni. Dovresti fare il bravo fratello maggiore.
–
- Lo fa.
– lo difese, Lucas.
Kaithlyn si mise
più comoda,
sulla sedia, stringendo un po’ le gambe incrociate.
– Cosa volevi fare, di
tanto scandaloso? Lo sportellista? –.
Lucas sorrise un
po’. – Il ricercatore.
–
- Che
delinquente. Che
ragazzo degenere. Andrew, come puoi passare soldi sottobanco a un
soggetto
simile? – esclamò, scandalizzata.
Andrew si
strinse nelle
spalle. – Papà avrà le sue ragioni,
comunque. – borbottò.
Lucas
s’infiammò. – Ah sì? Stai
dalla sua parte, ora? – ringhiò, alzandosi gli
occhi accesi d’irritazione.
Kaithlyn gli
tirò il camice
verso il basso, un paio di volte. – Oh, rilassati. Ti sentono
tutti. –
- Da che
pulpito! – urlò. –
Tu non puoi parlare, ti è sempre stato dato tutto
senza… -.
- Lucas, - lo
riprese
seriamente il fratello. – Non prenderla per lei. Abbiamo
avuto tutti le nostre
diatribe e abbiamo dovuto fare tutti i conti con le fissazioni dei
nostri
genitori. Se lei si sbucciava le ginocchia, era colpa mia, ricordi? Non
importava
dove mi trovassi: a scuola, a letto o in giro. Dovevo raccomandarle di
non
correre, non esagerare e di stare brava prima di uscire se restava con
la
baby-sitter. Dylan ha la mamma che lo falcheggia da mesi,
perché ha ventisette
anni e non ha una ragazza fissa. Manuel, per nostro padre, dovrebbe
essere più
incisivo perché è troppo accomodante e Kaithlyn
ha sempre dovuto essere una
spanna sopra chiunque se voleva uscire di casa e date le sue
inclinazione,
magari, passare il suo tempo e studiare come se frequentasse tra classi
avanti
alla sua invece di uscire a correre non è stato esattamente
il massimo della
semplicità.–.
- Lei lo faceva
a prescindere:
se voleva uscire prendeva e andava, che papà fosse d'accordo
o meno. Se ci
provassi io, non durerei neanche per il tempo di arrivare alla porta.
– sputò,
stringendo i pugni mentre lei lo ritirava a sedere. – Non
negare. –
- Non lo faccio.
Dovresti
farlo anche tu, non è difficile: entri in casa, annunci la
tua decisione e
agisci di conseguenza. Polso fermo! – lo spronò,
stringendo il pugno e
riabbassandolo con una smorfia.
Andrew
annuì. – Ecco, questo
giochetto di passare il pomeriggio fuori senza dare notizie e rientrare
la sera
prima di cena, lo potevi fare solo te perché sei una
ragazza. Per noi ha
funzionato solo fino agli undici anni. – le disse, stringendo
le labbra.
Ci fu un momento
di
silenzio, poi Kaithlyn si voltò verso il fratello.
– Ricordami di darti
cinquanta dollari. – disse, dandogli una pacca con non troppa
forza sulla
schiena.
- Non li voglio
soldi da te!
– insistette con veemenza. – Come te lo devo dire?
-.
Kaithlyn
iniziava a sentirsi
meglio: il dolore era decisamente più sopportabile e
scherzare con loro lo
stava aiutando a non
pensare a quello
che era successo, poco prima.
- Sai quanto
guadagno, come
tiratrice e con tutti gli “extra” che faccio?
– gli domandò, lentamente.
Lucas si
girò a guardarla. –
Sentiamo allora… - le disse, come se le stesse facendo un
piacere.
- Più
di te! – rise.
Probabilmente
sarebbe
annegato prima di raggiungere la sua auto impantanata, se avesse
continuato a
piovere con quel ritmo. Non mancava molto al punto in cui la sua auto
l’aveva
brutalmente abbandonato, ma iniziava a sentire freddo e mal di testa e
non
riusciva a vedere che a pochi metri di distanza, tanto era fitta la
pioggia
torrenziale che aveva iniziato a cadere con provvidenziale
puntualità.
Avrebbe dovuto
farsi
accompagnare da suo padre e approfittarne per scoprire cosa diavolo ci
faceva
suo fratello a spasso per la Rete Centrale a quell’ora la
sera. Di certo, non
era lì per passare il tempo, poco ma sicuro.
Il suo
Cercapersone
probabilmente si sarebbe suicidato prima di riuscire a metterlo
all’asciutto e,
isolato, non poteva fare molto di più che camminare.
I lampioni non
erano molto
d’aiuto: i cerchi di luce che lasciavano sul terreno creavano
quasi una barriera
di pioggia luminosa che rendeva quello che c’era dopo anche
più buio.
Non
c’era un’anima, tranne
lui.
Non riusciva a
tenere le
mani in tasca a causa del bruciore alle dita, per cui le
incrociò davanti al
petto, infreddolito. Aveva anche lasciato il suo giaccone a Kaithlyn.
Che
genio del crimine.
Camminò
per diversi minuti,
cercando di acuire la vista per vedere oltre la punta del suo naso
senza
risultati. Riuscì a trovare la strada giusta tentoni,
cambiando direzione di
continuo.
La strada dove
ricordava di
essersi impantanato era naturalmente
isolata, poco illuminata e di dubbia tranquillità. Il posto
perfetto per
commettere un omicidio efferato a suo parere. O come accampamento per
Lupi
Mannari. Il campo che la circondava sul lato alla sua destra, verso
Est,
sarebbe stato perfetto per un raduno di bestie inferocite e assetate di
sangue.
Gli alberi erano
ben
distanziati e facevano sembrare, non che vedesse molto con quella
pioggia,
l’oscurità oltre di loro ancora più
cupa e spaventosa. Se avesse avuto paura
del buio, se la sarebbe fatta addosso.
I lampioni erano
pochi ed
erano stati accesi in modo alternato, per risparmiare corrente
perché, nessuno
sano di mente sarebbe mai andato a fare un giro in quel postaccio la
notte e
nessuno, teoricamente, era
abbastanza
sfigato da impantanarsi nell’unico spiazzo utile di quel
primo tratto, di
notte, senza la possibilità di comunicare e con una pioggia
torrenziale.
Nessuno a parte lui.
Quando ritenne
di essere
sufficientemente vicino alla sua auto, estrasse la chiave dalla tasca
posteriore dei pantaloni e premette il pulsante di apertura a caso,
indirizzandolo lungo il lato destro della strada, dalla parte del
campo. Era
l’unico modo per trovarla, ammesso che i circuiti della
chiave funzionassero
ancora.
Strizzo gli
occhi, più
volte, infastidito dalle gocce. Era talmente bagnato che iniziava anche
a
dubitare di riuscire a spogliarsi di nuovo, un giorno. Non che gli
interessasse
particolarmente: non aveva troppa considerazione della sua salute e,
l’unica
cosa che gli interessava, era tornare alla sua auto, prendere la
Piccola
Bastarda e tornarsene a casa a dormire.
Finalmente, vide
qualcosa
lampeggiare una decina di metri più avanti e si
avviò in quella direzione.
Entrando nello
spiazzo,
sentì l’acqua entrargli dentro le scarpe e
bagnarli i piedi in uno sciacquettio
spugnoso.
Sentì
il rumore dei
sassolini sotto gli scarponi e arrancando riuscì a trovare
lo sportello e a
infilarsi dentro l’abitacolo, dalla parte del conducente.
Una botta di fortuna, ogni tanto: almeno non avrebbe
allagato l’auto.
Richiuse con un
tonfo la
portiera. La pioggia era ancora più fitta e, in quelle
condizioni, non poteva
certo guidare. O sperare di uscire da quel pantano. Se ci avesse
provato, alla
cieca, sarebbe probabilmente finito giù nel canalino
laterale.
Estrasse da una
delle due
tasche anteriori dei pantaloni il Cercapersone fradicio e,
notò, spento.
Era morto,
sicuro.
Premette il
pulsante
dell’accensione, senza risultati e imprecò,
tirando un calcio sotto il volante.
Appoggiò
l’oggetto sopra il
piccolo ripiano davanti ai bocconi dell’aria condizionata e
accese la macchina.
Immediatamente i fari illuminarono davanti a lui… la
pioggia. C’era solo quella
in fin dei conti, ovunque.
Impostò
il condizionatore
sui ventitré gradi e aspettò, dando di tanto in
tanto gas.
Riprovò
ad accendere il
Cercapersone dopo una decina di minuti, ma aveva le mani talmente
infreddolite
e irrigidite dal freddo che cadde rovinosamente sul tappetino della
postazione
del passeggero.
Si morse la
lingua per non
imprecare ancora e si allungò per raccattarne i pezzi. I
muscoli della schiena,
a quel gesto, si tesero in modo spiacevole facendogli stringere i
denti.
Reinserì
la piccola batteria
e riprovò ad accenderlo.
Funzionava,
almeno quello.
Reimpostò
l’ora e la data e
aspettò che ricaricasse tutti i messaggi, poi
cercò il numero di Kaithlyn.
Lo
ritrovò sotto Nana Malefica.
“Ti
devo venire a prendere?”
Era una domanda
stupida,
dato che le aveva chiaramente detto di arrangiarsi con uno dei suoi
fratelli o
chiamando Jason. In realtà preferiva portala lui indietro,
tanto per essere
sicuro che arrivasse e avere anche modo di controllare il suo amico
biondo. Più
le stava alla larga, meglio si sarebbe sentito.
La risposta
arrivò in meno
di un minuto, come sempre.
“Fa’
come ti pare.”
Chiara e
concisa.
Storse le labbra.
“…
Per quando ne hai, ancora? Dammi un’ora!”
Posò
il Cercapersone tra il
cruscotto e il vetro e incrociò le braccia in attesa. Le
mani gli lanciarono
una fitta di protesta piuttosto dolorosa che ignorò.
Il taglio che si
era fatto
lungo l’attaccatura delle dita era peggio di quanto
sembrasse: non abbastanza
profondo da richiedere dei punti, ma abbastanza estero, sicuramente, da
dove
essere medicato e coperto al più presto. Peccato che non
potesse muoversi e non
avesse niente per lo scopo, oltre alla mancanza momentanea di
manualità.
Il dispositivo
s’illuminò e
vibro con vigore. Si era ripreso bene, almeno lui.
“Non
lo so, un po’.”
Chiuse gli
occhi,
imponendosi di non risponderle di getto.
“Allora
ci vediamo lì davanti “tra un
po’”.
Lanciò
il Cercapersone
contro il vetro e giro i direzionatori dell’aria condizionata
verso di sé,
infreddolito. L’avrebbero ritrovato il giorno dopo ibernato.
Lentamente la
pioggia si
affievolì fino a ridursi solo a qualche goccia sparsa.
Guardò oltre il vetro
del finestrino e considerò seriamente l’idea di
portarsi dietro un gommone, la
volta dopo. Giusto per rimanere sul sicuro.
Scese
dall’auto e si chiuse
la portiera alle spalle: si era impantanato perpendicolarmente alla
strada e le
ruote posteriori erano sprofondate di una quindicina di centimetri nel
terreno
acquoso.
Seguì
con gli occhi la linea
del guardrail che riprendeva cinque metri più in
là, in direzione dell’ospedale
e si sentì raggelare il sangue.
Chiuse
distrattamente
l’auto, lasciandole solo una brevissima occhiata e si
avvicinò al bordo del
guardrail, percependo in modo quasi amplificato lo scricchiolio dei
sassolini
sotto i suoi scarponi fradici.
Lo spiazzo era
grande abbastanza
da farci stare comodamente più di un’auto. Era
usato spesso, da quando ne aveva
memoria, per scambiarsi o per sostare. Lo faceva spesso con i suoi
genitori e
suo fratello e non erano certo gli unici, in quanto era molto pratico.
Lo spazio era un
semicerchio
impreciso e, notò solo in quel momento, lungo tutta la
semicirconferenza o
presunta tale, non c’era il guardrail. O meglio: ce
n’era solo una parte, sul
lato più a nord, mentre, per il resto era stato sostituito
da travi di legno.
C’era
anche un muricciolo
basso, in pietra, a fare da base. Nessuno si preoccupava di quella
strada, non
più. Con tutti gli incidenti che c’erano stati, la
gente, se non in caso di
stratta necessità, se ne teneva alla larga e non si fermava
certo lungo il
percorso, preferendo di gran lunga tirare dritto.
Rabbrividì
e sentì la gola
seccarsi: non si era reso conto di dove si trovasse. Aveva evitato
quella strada
maledetta all’andata di proposito, beccandosi anche la
derisione di Kaithlyn
per aver allungato il percorso e aveva finito per impiantarcisi
involontariamente. Lo scansava da cinque anni quel maledetto spiazzo.
C’erano
delle assi, poggiate
da una parte e notò qualcosa di lucido sotto di esse. Sapeva
con assoluta
certezza di cosa si trattasse e non voleva vederla.
Non in quel
momento: aveva
bisogno di tutte le sue facoltà per uscire da quel casino il
prima possibile.
Poteva mettere qualcosa sotto le ruote inferiori, poteva funzionare.
Si
obbligò a muovere le
gambe per fare il giro dell’auto e guardare il danno. Dietro
le ruote
posteriori, il terreno s’inclinava bruscamente conducendo a
un canalino d’acqua
nascosto da alcuni arbusti.
Gli vennero le
vertigini,
insieme alla nausea, mentre indietreggiava fino a battere le gambe
contro il
portabagagli dell’auto che si mosse appena dondolando in
avanti.
Si
passò le mani tra i
capelli bagnati, cercando di calmarsi e controllare gli spasmi del
freddo alla
braccia. Doveva riprendere il controllo. Era un Capofazione Intrepidi.
Doveva
superarla, prima o poi, e agire senza timore. Niente poteva ferirlo, in
quel
momento. Se si fosse lasciato sopraffare dalla stanchezza e dal panico,
non si
sarebbe mosso da lì. Gli serviva controllo. Disciplina.
Disciplinati
Eric.
Cercò
con tutte le sue forze
di imporsi la calma, senza successo. Non sapeva neanche da che parte
iniziare,
per ritrovare il raziocinio: di solito c’era Sean in quei
momenti, a riportarlo
con i piedi per terra anche a costo di prenderlo a schiaffi. E
funzionava… per
un po’. Ma era sciocchezze, cazzate, in confronto alla
situazione in cui si
trovava in quel momento.
Gli sembrava di
essere
precipitato in una voragine senza fine, stretta e buia come un tombino
senza
aver possibilità di risalita. Riusciva quasi a sentire le
gambe strette e le
braccia compresse contro il proprio corpo.
Sentiva
l’aria mancargli e,
improvvisamente, il freddo scomparve e iniziò a sudare
mentre il suo stomaco si
contraeva in modo quasi doloroso.
Era bloccato.
Era bloccato.
Bloccato. Non sarebbe riuscito a far niente, mai.
Si
portò una mano alla
fronte e spostò i capelli scuri indietro. Forse, se si
comportava come nel suo
scenario, sarebbe riuscito ad agire, a muoversi.
Era come
sbagliare una
postura, si disse. Doveva trovare il modo corretto. Stare in piedi,
dritto. Come
a scuola.
Invece si
sentiva accartocciare
su se stesso, come una pallina di carta che soccombe alla stretta di
una mano,
prima di essere lanciata nel cestino. O per terra.
Sembrava che il
terreno
avesse iniziato a tremare, ma erano le sue gambe a farlo sentire
instabile,
come se improvvisamente tutto intorno a lui avesse iniziato a
ondeggiare
pericolosamente.
Non
è una simulazione. Non è una simulazione.
Si
girò verso la macchina e
appoggiò le braccia sul tettuccio per sorreggersi,
seppellendo la testa tra le
mani. Doveva calmarsi. Respirare.
Respira.
Era una cosa
naturale,
bastava far entrare l’aria, lasciando che scendesse lungo la
trachea ed
espandesse i polmoni, riempiendo ogni bronchiolo finale.
Giù, fin dentro la
pancia, con lentezza. Era naturale, una cosa che faceva ogni giorno in
automatico e perlopiù senza accorgersene.
Poi doveva
ributtarla fuori.
Espirare. Con calma, nessuno gli sarebbe saltato alla gola. Con
lentezza, anche
quello prendendosi tutto il tempo per farla uscire.
Il macigno che
sentiva sulla
schiena era frutto della sua immaginazione. Solo quella.
Fu quasi
doloroso fermare il
tremore alle braccia, ma ci riuscì.
Non poteva
restare lì,
doveva muoversi.
Imponiti.
Strinse i pugni,
sentendo
contro la superficie ghiacciata e bagnata del tetto della macchina.
Un forte odore
di bruciato
gli arrivò alle narici. Anche quello, era frutto della sua
mente. Niente
bruciava, in quella nottata piovosa. Solo lui, ma era un fuoco fittizio
limitato ai suoi ricordi.
Appoggiò
le mani sul bordo
del tettuccio, lasciandole scivolare con forza sulla superficie liscia,
fredda
e bagnata e si spinse indietro con un ringhio frustrato.
Il passo che
fece indietro,
sprofondò in un punto particolarmente melmoso.
Non appena fu in
piedi, tirò
un calcio alla ruota posteriore con tutta la forza che aveva.
Il dolore lo
accecò per un
momento, ma era quasi un toccasana. Lo riportava con i piedi per terra,
facendogli disgiungere la realtà dai demoni che gli
popolavano la mente.
Quello
era
reale.
Si
passò le mani tra i
capelli e sul viso, sentendo le unghie graffiargli
l’attaccatura dei capelli.
Respirare tra i denti non lo avrebbe aiutato.
Il cuore gli
schizzò nel
petto facendolo sobbalzare, voltare di scatto e sbattere con la schiena
contro
l’auto, quando sentì il suono leggero di un
clacson e due fari lampeggiare da
un’auto accostata sul ciglio della strada.
La sua mano
andò
istintivamente all’altezza della cintura, senza tuttavia
trovare quello che
cercava: la sua pistola. Dov’era? Perché non
l’aveva presa, quando poteva
tornargli utile?
Strinse i pugni,
grattandosi
la superficie delle dita con la stoffa del bordo dei pantaloni e
preparandosi a
uno scontro.
- Eric! -.
Cercò
di calmarsi,
riconoscendo la voce.
- Che
è successo? – chiese
la voce di suo padre, scendendo dall’auto e avvicinandosi a
passo svelto. – Hai
battuto la macchina? -.
- NO!
– gridò, sentendo la
voce graffiargli la gola. – No… -
tossì, indietreggiando lungo il profilo
dell’auto.
Suo padre aveva
le mani
alzate come a fargli vedere che non aveva niente in mano. Come si fa
con i
bambini o con qualcuno che vuole convincerti di non avere cattive
intenzioni.
- Che
è successo? – ripeté,
calmo.
Un singulto gli
risalì in
gola e si coprì il viso con le mani. – Niente che
ti riguardi. Vattene, che
fai? Mi segui? Vuoi controllarmi anche adesso? – stridette,
con i battiti alle
stelle, in un ringhio che gli ricordò quello di un animale
ferito.
Suo padre
strinse le labbra.
– No, certo che no. Sono riuscito per prendere una cosa a tua
madre e per fare
prima sono passato da qui. Sei ferito? – domandò.
Scosse la testa
con forza. –
Non… non ti deve interessare. Sto bene, vattene. Non voglio
niente da te. –
ringhiò, riuscendo finalmente a raddrizzarsi.
- Sei sicuro?
– insistette,
l’uomo davanti a lui.
- Non voglio
– iniziò,
alzando la voce, - il tuo aiuto. Non lo voglio. –
L’altro
annuì piano. –
D’accordo. – gli concesse, con cautela. –
Puoi fare da solo. Se mi fossi impantanato
con l’auto, - gli suggerì, facendo un cenno con la
testa verso il bordo dello spiazzo.
– Userei quelle assi di legno laggiù. Sei
d’accordo? -.
Eric si
avvicinò a lui,
stringendo la mandibola tanto da farsi male. – Non fare
questi giochetti con
me. Risali in auto e vattene. – gli intimò.
C’erano
solo poche decine di
centimetri a dividerli. Quando si era avvicinato?
Suo padre non si
scompose,
mantenendo un tono controllato. – Allora agisci. Facendo il
pazzo e prendendo a
calci l’auto non la convincerai a ritornare in carreggiata.
– lo sgridò.
Se chiunque
altro gli avesse
parlato in quel modo, facendolo sentire stupido, sarebbe stato
già a terra con
il naso rotto in attesa di ricevere il resto delle botte che gli
avrebbe
tirato.
Non lo voleva
lì, ma
l’arrivo di suo padre l’aveva distratto e iniziava
a riprendere il controllo e
a sentire la pressa opprimente che sembrava soffocarlo allentarsi. Si
stava
distraendo. Doveva sfruttare la cosa per calmarsi.
Doveva. Era
l’unica
possibilità.
Suo padre, un
Erudito, non
era spaventato. Non doveva esserlo neanche lui, che era un Intrepido.
- Non mi ero
accorto di
essermi fermato qui… - disse, velocemente, cercando di
regolare il respiro,
senza conoscere neanche lui il perché stesse dicendo quelle
parole. – Io… me ne
sono accorto adesso. Pioveva, prima. –
Suonava come una
scusa, una
giustificazione. Ma non lo era. Non aveva niente da giustificare
all’uomo che
si trovava davanti.
Suo padre
annuì con
lentezza, come dandogli manforte. – Certo, può
succede. La pioggia era molto
fitta. – convenne.
Eric
annuì velocemente.
- Sono quasi le
quattro. Forse
dovresti tirarla fuori prima che ricominci a piovere. – gli
suggerì, abbassando
le mani.
Lo vide
guardarsi distrattamente
la felpa che portava addosso e stringere le labbra con disappunto, dopo
avergli
riservato un’occhiata. Non gli chiese se voleva la sua felpa:
sapeva che non
avrebbe accettato o che, eventualmente, gliela avrebbe tirata dietro.
Annuì
di nuovo. – Sì… le
assi. Le prendo. – farneticò, mentre la testa
iniziava a pulsargli in modo
fastidioso. Sentiva la schiena ancora rigida, i muscoli contratti. La
confusione gli annebbiava la testa.
Deglutì
e si diresse verso
il lato da cui era arrivato, dove le assi erano più
dismesse.
Respirò
a fondo e, con le
mani tremanti per il dolore e per il freddo, strinse un lato della
prima e
tirò. Ci fu un rumore forte, di qualcosa che si spezza, e il
pezzo di legno
intagliato gli rimase in mano. Grattava, sulla pelle secca. Avevano una
consistenza umida, ma sembravano ancora abbastanza solide nonostante
l’esposizione
alle intemperie degli ultimi cinque anni.
Lasciò
andare la trave,
cercando di ignorare la targhetta luccicante che nascondeva e
respirò
profondamente. Sapeva che era lì. Era per quello che non
voleva usarle, sapeva
che vedere quell’oggetto l’avrebbe mandato nel
panico.
Meno di quanto
pensasse,
comunque.
Era infantile,
ma si sentiva
più tranquillo con suo… padre,
a
pochi metri da lui.
La sua attenzione venne di nuovo attirata da quel tenue luccichio, forse opera del lampione poco più indietro a una ventina di metri da lì. Era difficile non guardare. Il contrasto con il muricciolo su cui era affissa era troppo evidente per essere ignorato del tutto e le lettere dorate risaltavano come fili di seta sullo sfondo chiaro.
In memoria di Rosalie Powell in Turner.
Deglutì,
allungando
debolmente le mani verso la seconda asse. Strinse le mani intorno al
bordo,
come aveva fatto poco prima e tirò, senza ottenere nulla.
Era come se tutta la
forza se ne fosse andata. Non riusciva a staccare gli occhi da
lì.
Era un debole.
Uno stupido.
Un inetto.
Sentì
dei passi dietro di
lui. – Ce la faccio. – disse, in un gracidio mal
articolato. Gli tremavano
ancora le gambe. Respirò, per correggersi.
- Oh Cristo
Eric! – esclamò
suo padre dopo un paio di tiri a vuoto.
Lo fece spostare
senza
troppa gentilezza da un lato, prese il suo posto, afferrò la
trave e tirò,
staccandola in un colpo solo e porgendogliela.
Eric lo
guardò con astio,
ricevendo un’occhiata severa. – La targhetta.
– disse, raccogliendo l’altra
asse e allungando la mano per farsi passare l’altra, le dita
tremanti.
- Non credo
sentirà freddo.
È una targhetta, Eric.
Una targhetta
in lega metallica. – disse pragmaticamente, senza
espressione.
Annuì.
Aveva ragione. Era
solo un pezzo di metallo. Non significava niente, farsi sopraffare da
una cosa
del genere era illogico e stupido. Da bambini. E lui non era
più un bambino,
era da considerarsi un adulto a tutti gli effetti.
Vedendolo
indeciso, suo
padre gli strappò le assi dalle mani. – Avanti, ti
faccio vedere. – disse un
po’ più gentilmente. Gli faceva rabbia, rendersi
conto di avere ancora qualcosa
da imparare, da lui.
Suo padre, senza
un’altra
parola “si” diresse dietro la sua auto. Sembrava
tranquillo, composto. Anche se
quel posto era intriso di brutti momenti anche per lui.
Eric si
obbligò a muovere le
gambe e a seguirlo, un passo alla volta, cercando di non concentrarsi
sul
posto. Se si estraniava, poteva farcela. Non voleva che lo vedesse in
difficoltà. Aveva già visto abbastanza prima che
si accorgesse della sua
presenza.
L’aveva
visto debole.
Lo raggiunse.
- Hai fatto una
bella buca,
eh? – commentò lui, abbassandosi
all’altezza delle ruote e studiando la
scavatura provocata dai suoi tentativi di uscire.
- Non mi serve
il tuo aiuto.
– insistette.
Suo padre lo
ignorò e tornò a
osservare la fossa che aveva
scavato
con le ruote posteriori. – Se pensi di tirarla fuori da quei
con la forza del
pensiero, tanti auguri. – commento, sedendosi sui talloni.
Dietro suo
padre, il terreno
s’inclinava bruscamente verso il basso, conducendo su un
canalino d’acqua nascosto
da sassi e arbusti. Cadere da lì equivaleva a spaccarsi la
testa e a una fine
lenta e penosa.
Ricordava ancora
la
sensazione di vuoto, di equilibrio precario che aveva provato in quella
macchina, mentre iniziava a sentire odore di benzina. Ricordava il
terrore nel
non riuscire a slacciare la cintura, l’istinto di dibattersi
e la paura alla
vista del corpo accanto al suo. La sensazione d’impotenza,
d’inutilità più
assoluta.
Tremò,
mentre sentiva il
panico impadronirsi nuovamente di lui. Gli scorreva nelle vene come un
liquido
vischioso e pesante, facendolo sentire come se fosse di piombo e stesse
affondando. Tutto lo tirava in basso, facendo sprofondare e
agganciandolo con
mille aghi di ferro, impedendogli di muoversi.
Suo padre si
girò verso di
lui e lo guardo per lungo secondo, poi si concentrò sulle
ruote impantanate,
poggiando le assi da un lato. – Solleva il retro
dell’auto, così le infilo
sotto. – gli disse, facendogli spazio sulla parte anteriore e
riportandolo
bruscamente con i piedi per terra. Poi si guardò alle
spalle, come a valutare
il rischio di cadere di sotto. Non sembrava turbato. Forse non era
un’altezza
tale da dargli fastidio.
- Anzi, facciamo
al
contrario: io sollevo il retro dell’auto e tu infila le travi
sotto le ruote. –
rettificò, mettendosi dietro l’auto e passandogli
le due assi. – Non vorrei
doverti riattaccare le dita, più tardi. – gli
disse, con un cenno alle sue
mani. Non sembrava molto contento di vederlo in quello stato.
Avevano un
aspetto
terribile, in effetti.
Annuì
distrattamente,
cercando di pensare a qualcos’altro che non fosse quel giorno. – Pronto? -.
–
Appena le ruote posteriori
si alzano, infilale sotto, okay? – lo istruì,
asciugandosi le mani sui
pantaloni.
Annuì
e si spostò di lato.
Suo padre infilò le dita sotto la parte posteriore
dell’auto e fece forza. Per
un momento penso che, nonostante la sua auto fosse relativamente
leggera, non
ce la facesse: poi il veicolo iniziò a sollevarsi.
Infilò
la prima trave sotto
la ruota sinistra e aggirò suo padre per infilare
l’altra sotto la destra. Suo
padre riappoggiò il retro della macchina a terra.
Aprì
e chiuse le dita più volte,
forse per allievare l’indolenzimento e riattivare la
circolazione.
- Fatto. Vuoi
finire da
solo? – gli domandò, leggermente affannato,
aggirando l’auto con lentezza e appoggiando
la mano destra sul finestrino posteriore.
Annuì
con la testa, convinto
di riuscire a gestire la situazione da solo da quel momento in poi. Il
più era
già fatto.
Si sbagliava.
Non appena
inserì la chiave e accese il motore, l’angoscia
iniziò nuovamente a
strisciargli dentro come un serpente, attorcigliandosi intorno a tutti
gli
organi. Anche alla testa. Si sentiva schiacciare, di nuovo. Soffocare.
Suo padre
raggiunse il
finestrino e lo osservò con le sopracciglia aggrottate in
un’espressione
comprensiva. - Devo
girarla io? –
domandò, forse vedendolo fissare il vuoto, alla ricerca di
una soluzione.
Eric
rabbrividì per il
freddo. – No. – grugnì, stringendo le
dita sul volante.
Mise in moto,
inspirando dal
naso.
Giù,
fin dentro la pancia e poi fuori.
Ancora.
Ingranò
la prima, con
lentezza, sentendosi addosso gli occhi chiari di suo padre. Aveva
già visto
abbastanza, non voleva che lo vedesse perdere di nuovo la testa. Doveva
controllarsi. Respirare. Far rallentare il cuore impazzito. Riprendere
il
controllo.
Respira,
è solo aria.
Tolse con
cautela il freno a
mano, cercando il punto d’innesto della frizione. Quando lo
trovò, premette
nervosamente l’acceleratore, facendo girare a vuoto le ruote
posteriori e
sentendo le assi sprofondare. Sarebbe scivolato di sotto. Sarebbe
rimasto lì,
lo sapeva. Lo sentiva. Non riusciva a stare tranquillo, era come se
avesse una
spada di Damocle che gli penzolava dietro il collo, pronta a tagliargli
la
testa da un momento all’altro. Doveva uscire da
quell’auto. Allontanarsi.
Come quando
giocando a
nascondino, capitava di nascondersi in un ripostiglio o in anfratto
buio, la
notte, e di sentire l’improvvisa e immotivata voglia di
scappare. Era cosa
sentirsi qualcuno alle spalle.
Suo padre
bussò al
finestrino, facendolo sobbalzare. – Scendi, la giro io.
– gli disse, aprendogli
la portiera.
- No!
–urlò, furioso,
richiudendola. – Ce la faccio, vattene. Hai già
fatto abbastanza. –
- Scendi.
– gli impartì
duramente, senza più ombra di gentilezza sul viso.
- Altrimenti?
– ringhiò,
scendendo dall’auto e andandogli incontro a viso duro. Come
faceva a non
capire?
– Che
fai? -.
Suo padre non si
scompose e
lo ignorò. – Smettila e vedi di usare un
po’ la testa: ragiona e…-.
S’interruppe bruscamente, fissandolo. – Che
c’è? – chiese, forse notando la sua
espressione sconvolta.
L’aveva
sentito un attimo
prima: pungente, e sembrava quasi doloroso percepirlo nelle narici.
Sapeva che
c’era qualcosa che non andava, dannazione. Avrebbe dovuto
fidarsi di più del
suo istinto, invece che fare considerazioni idiote sulle sue paure.
- Lo senti
l’odore? – gemette,
tachicardico. – Lo senti? –ribadì,
ancora, portandosi una mano a coppa sotto la
bocca.
Gli veniva da
vomitare.
Suo padre
cambiò espressione
e si fece più vicino. – C’è
odore di pioggia. Intendi quello? – chiese, con
lentezza.
Scosse la testa.
– Non lo
senti? Come fai a non sentirlo? – gracchiò,
cercando di capire se lo stesse
prendendo in giro o meno.
- Che cosa
dovrei sentire
Eric? -.
- Bruciato.
– boccheggiò,
guardandosi le mani. – Po… potrebbe essere la
macchina? -.
Sentì
i battiti aumentare il
ritmo esponenzialmente.
Suo padre
abbasso le
sopracciglia sugli occhi in un’espressione seria. –
No, Eric non c’è puzza di
bruciato. – lo tranquillizzò, stringendogli le
braccia. – Non brucia niente. –
- Che ne sai
tu?! Non eri
lì, non sai cosa ha fatto la macchina, cosa ho…
l’odore…- strillò, mentre
iniziavano a susseguirsi come in un flashback tutti gli avvenimenti di
quella
dannata notte.
La macchina non
si muoveva
neanche quel giorno. Lui non sapeva neanche da che parte iniziare, ma
quando
aveva cercato di premere l’acceleratore, allungando oltre le
gambe del
guidatore nel disperato tentativo di uscire, la macchina non si era
mossa.
Aveva solo fatto girare a vuoto le ruote ed erano sprofondati con le
ruote
anteriori.
E lui, lui era
arrivato
dopo. Quando c’erano già le fiamme, non aveva idea
di cosa avesse sentito. Dei
rumori, anche minimi, del sibilo, del crepitio. Delle ruote che
giravano a
vuoto, nel terreno.
Perché
lui non sapeva
mettere una dannata retromarcia. Non lo sapeva fare.
Suo padre gli
prese il viso
con le mani. Sentiva il metallo freddo della fede che portava
all’anulare
sinistro contrastare con la sua tempia che sentiva calda. Forse era
solo
un’impressione. – Va tutto bene, Eric. La tua auto
non ha niente, calmati. Ci
sono io, adesso. Ci penso io. – lo tranquillizzò,
abbassando una mano e
stringendogli un braccio, mentre lo conduceva verso la sua auto, ancora
posteggiata lì accanto e lo faceva sedere sul sedile del
passeggero. Aveva un
odore familiare.
Suo padre gli
passò
distrattamente una mano dietro la nuca, in un gesto quasi affettuoso.
Si
scansò quasi a quel
contatto inaspettato: non c’era più abituato e
anche Kaithlyn, per quanta
confidenza potessero avere dal punto di vista fisico, non si lasciva
spesso
andare a gesti affettuosi, nei confronti di nessuno.
- Va tutto bene
– ripeté,
piano. – Vuoi dell’acqua? – aggiunse,
abbassandosi su di lui per guardarlo.
Annuì.
Non era una cattiva
idea e poi gli faceva male la gola, dopo le urla e il freddo. Suo padre
aprì la
portiera posteriore e dopo qualche secondo piegato in avanti alla
ricerca di
qualcosa, tornò da lui con una bottiglietta
d’acqua. – Bevi. – gli disse,
poggiandogli una mano sulla spalla.
Eric la prese,
titubante. –
Se tornassi indietro dovresti fermarti da lei, prima che da me.
– mormorò. –
Faresti un affare – aggiunse, sfiorando appena il piccolo
collo della
bottiglietta con le labbra secche, prima di bere un piccolo sorso.
Le dita di suo
padre gli
strinsero una spalla, con forza. – Se potessi tornare
indietro, non mi
soffermerei: correrei più veloce e basta. –
ribatté cupamente, sfiorandogli
appena un orecchio.
Lo
guardò dal basso,
deglutendo.
Com’era
finito in quella
situazione? Come si era ritrova a discutere con suo padre, dopo due
anni di
silenzio, proprio lì e proprio di quella cosa?
Non doveva
trovarsi lì, non
voleva esserci. Sarebbe dovuto essere a casa o, al massimo, a discutere
con gli
altri Capifazione su come la presa di potere che stavano architettando
con gli
Eruditi. Non lì a farsi consolare da lui.
Quel tempo era
finito da un
pezzo.
- Sei sicura?
Una notte qui
ti farebbe bene, solo per sicurezza… - insistette, per
l’ennesima volta, mentre
Kaithlyn si chiedeva cosa, esattamente, non fosse chiaro nella frase “torno a casa mia e fammi firmare i
maledetti fogli delle dimissioni”.
Forse aveva
sopravvalutato
le capacità di comprensione di suo fratello che, da quando
Lucas se n’era
andato, sembrava più apprensivo del solito. Neanche fosse
arrivata lì in coma,
o con un proiettile infilato da qualche parte.
- Sì,
Andy, sì. Ora passami una
penna e chiudiamo questa faccenda definitivamente,
okay? – biascicò, allungando una mano e facendogli
cenno di darle l’oggetto
richiesto.
Sentiva la testa
ovattata,
come se fosse stata a lungo sott’acqua e avesse ancora le
orecchie tappate, ma
non aveva intenzione di rimanere in quel posto un solo secondo in
più fintanto
che era abbastanza lucida. Di lì a poco sarebbe stata troppo
intontita per
opporsi.
Il fratello le
lasciò cadere
la panna sul palmo e alzò gli occhi al cielo, prima di
iniziare a rimettere le
cose della sorella minore nel borsone nero.
Il silenzio
regnò sovrano
per qualche lungo istante, mentre Kaithlyn firmava i fogli delle
dimissioni
senza cercare di nascondere la sua impazienza di andarsene e lui
chiudeva la
cerniera del bagaglio scuro, prima di caricarselo in spalla e fare
cenno alla
sorella di seguirlo fuori dalla stanza.
Kaithlyn lo
seguì in
silenzio, tirandosi il più possibile le maniche della sua
felpa sulle dita pallide.
Si sistemò il giaccone di Eric addosso, stringendolo con le
dita all’altezza
della gola.
Aveva ancora il
suo odore.
Non era sicura
della sua
decisione di rompere, ma che alternative aveva quando l’unico
modo per restare
con lui era azzerare ogni cosa? Cancellare le ultime
ventiquattr’ore se non
addirittura gli ultimi giorno e ripartire da lì, alla sera
prima: dalla sua
vasca da bagno, la stessa dove l'aveva aspettato per curare il suo
orgoglio
ferito.
Rimuginava da
tutta la sera
su di lui e suo fratello aveva ragione: non poteva. Non poteva ignorare
lo scatto
rabbioso che aveva avuto. Ricordava il modo cadenzato in cui faceva
dondolare
le sbarre cigolanti dello Strapiombo, la tesa china in avanti e i
muscoli tesi,
mentre faceva avanti e indietro come un pazzo.
Non era una cosa
normale.
Avrebbe voluto comprendere cosa fosse successo e, forse andargli
incontro…
Non
era giusto. Lui le piaceva.
Il pensiero di
rompere le
faceva venire uno strano groppo alla gola, ma era la scelta migliore
per entrambi.
Lei ed Eric avevano due personalità distruttive, come
avrebbero potuto
continuare a stare insieme se ogni volta che discutevano, il fine
ultimo,
anziché chiarire, diventava ferire e umiliare
l’altro come se questo
comportasse l’avere ragione? Come se, chi riusciva indenne
dalla discussione
avesse automaticamente ragione?
Scosse la testa:
non
potevano continuare così. Un taglio netto era la cosa
migliore… lui l’avrebbe
riaccompagnata a casa e lei, l’indomani, avrebbe recuperato
le sue cose da casa
sua; dal quel momento avrebbe tagliato ogni contatto e si sarebbero
visti
esclusivamente per l’ultimo giorno di combattimenti degli
iniziati o incrociati
nei corridoi.
Sapeva anche che
all’inizio
sarebbe stato difficile, perché si era abituata ad averlo
intorno tutto il
giorno. Eric non era particolarmente loquace o di compagnia e ci voleva
un po’
per notarlo, nonostante fosse alto. Il fatto era che, se non si faceva
caso
alla sua presenza – sapeva essere incredibilmente silenzioso
anche nel muoversi
– sembrava riuscire a mimetizzarsi. Eric non era un tipo
estroverso o entrante.
Era silenzioso come un’ombra, taciturno e profondamente
introverso. Ed era con
la stessa facilità con cui lo fa un’ombra, che
riusciva a non farsi vedere. Gli
bastava appoggiarsi alla parete della palestra, arrivando senza far
rumore, e
nessuno si accorgeva della sua presenza. Dal momento però in
cui faceva un
appunto, o lo si vedeva, era impossibile ignorarlo. E non solo sul
lavoro, ma
ovunque. Anche nella quotidianità era così e
quello le sarebbe sicuramente
mancato, almeno all’inizio.
La cosa
più divertente,
anche se non era certa di essere in possesso di tutte le sue
facoltà mentali,
era che, dopo lo sfogo fuori dall’ingresso del pronto
soccorso, aveva iniziato
ad avvertire una pungente e fastidiosissima sensazione di disagio.
Il
senso di colpa.
Non quello cui
aveva
accennato Jason, quando gli aveva parlato della discussione della
mattina. Era
diverso, più forte, e si contorceva all’altezza
del suo stomaco da tutta la
sera, per quanto avesse provato a ignorarlo il più possibile
distraendosi con i
suoi fratelli.
Non tanto per
quello che si
era urlati addosso alla Residenza, o per la scenata della mattina sui
piagnistei insensati di Eric… ma per l’ultima
discussione: era stata stupida,
avventata e aveva finito per sragionare senza analizzare i fatti e
finendo per
farsi più male, testimoni i sei punti di sutura alla mano.
Alla fine non
era niente che
non si potesse risolvere con qualche iniezione e un po’ di
riposo e lei aveva
dato i numeri, incolpandolo di tutto. Se invece di andare lì
a continuare la
discussione avesse aspettato che si calmasse, non si sarebbe fatta
niente. Nessuno
le aveva puntato una pistola alla testa per costringerla ad avvinarsi a
lui in
quel momento mentre, evidentemente, non era in grado di ragionare come
avrebbe
dovuto.
Avrebbe voluto
che lui
l’avesse lasciata a metà strada, almeno non si
sarebbe sentita così in difetto
per essere stata accompagnata fin lì e averlo preso a
schiaffi. E a calci. E a
pugni. E averlo insultato, deriso e mortificato. E
quell’idiota non l’aveva
lasciata lì, ma l’aveva portata, in modo e
nell’altro, fino alla meta. L’aveva
aiutata, anche se si meritava di essere scaricata dall’altra
parte della città
con tanto di borsone a carico e le aveva dato il suo giaccone, per
tenerla al
caldo a sue spese.
Stupido.
Senza rendersene
pienamente
conto aveva arrancato meditabonda dietro al fratello fino
all’uscita. L’aria
all’esterno era fredda e a causa del buio era difficile
distinguere l’esterno
nella sua interezza. Solo alcuni lampioni, quelli del parcheggio per
pazienti e
personale erano accesi a illuminare un’aria circoscritta.
Ciò
nonostante, la sua
attenzione fu calamitata dal profilo di un’auto scura,
posteggiata dall’altra
parte della strada. Non ne distingueva bene i contorni, ma intravide la
figura
alta del proprietario poggiato al fianco della vettura a braccia
conserte.
Suo fratello la
precedette.
Si avvicinarono
all’auto, attraversando
rapidamente la strada deserta.
Eric non
sembrava molto in
sé. Nonostante da lontano sembrasse tranquillo, fermo come
un statua non era
così: era pallido, sudato e aveva l’aria di
qualcuno che sta per mettersi a
urlare.
Sembrava quasi
spaventato e
notò che, le braccia conserte, servivano a nascondere il
tremore alle mani. Gli
tremava leggermente anche la bocca.
Si sentiva un
po’
rallentata, dopo la pasticca di antidolorifico che gli aveva dato suo
fratello quando
quelli per le medicazioni avevano iniziato a smettere di fare effetto.
Si sfilò
la giacca con lentezza e un brivido freddo le corse lungo il corpo,
mentre la
piegava sulle braccia e si avvicinava ancora.
Eric la
guardò con gli occhi
spalancati e preoccupati, quasi non capisse cosa stesse facendo. Le
labbra non
erano altro che una linea dritta.
Aprì
la bocca per dire
qualcosa, ma la richiuse subito come se si fosse dimenticato cosa stava
dicendo
e osservò i suoi movimenti.
Si
avvicinò a lui e appoggiò
la giacca sulle mani, mentre Eric continuava a guardarla come se avesse
voglia
di piangere. O urlare. O scappare. Vide le sue dita stringersi intorno
al
tessuto fino a fargli sbiancare quello che rimaneva, sotto le croste,
delle
nocche bianche.
Sembrava perso.
Come se non
sapesse cosa stava facendo, perché era lì.
Gli
appoggiò una mano sul
braccio e lo scrollò un po’ e, per istante, parve
tornare con i piedi per
terra.
Poi udirono le
sirene di
un’ambulanza rientrare e quello che le sembrava rimasto di
lui sul suo viso,
sparì.
Rieccomi,
non
sono morta!
Andiamo
subito al sodo, così non vi annoio con le mie chiacchiere:
che ne dite? Vi
aspettavate una cosa del genere? Cosa pensate possa accadere, adesso?
Idee?
Teorie? Ditemi, ditemi!
La
parte in
cui c’è il padre di Eric come vi è
smembrata? Ho sempre paura di essere troppo
“tenera”,
morbida, di andare fuori dai personaggi… anche se qualcuno,
come la famiglia di
origine di Eric, tutta quella di Kaithlyn eccetera, li ho inventati io!
Insomma, non vorrei andare fuori dai miei stessi personaggi. E men che
mai da
quelli del libro e da come li ho resi finora, dato che mi reputo
complessivamente abbastanza soddisfatta.
Insomma,
placatemi, ditemi qualcosa di positivo, negativo… consigli,
pareri, numeri di
bravi specialisti… fatemi sapere!
Questo
capitolo è stato piuttosto faticoso, lo confesso: mi ero
bloccata, esattamente
come con Mind’s Shades, l’anno scorso... poi il
blocco è sparito e tutto sta
riprendendo la piega giusta.
Vi
chiedo
scusa per l’attesa, ma spero che mi perdoniate data la
lunghezza! Il prossimo è
già a metà e in questi giorni non mi stacco dalla
tastiera… quindi non perdete
la speranza! Cercherò di velocizzarmi anche con gli esami
che incombono.
Vi
ricordo
come sempre la mia paginetta facebook, della quale riuscirò
a inserire il link
diretto forse alla fine della storia: https://www.facebook.com/Kaithlyn24-865334640156569/?ref=bookmarks
Alla prossima!