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Autore: AnnabethJackson    30/04/2016    7 recensioni
| Percabeth | AU |
---------------------------TRAMA---------------------------
Annabeth ha 18 anni quando viene violentata. Subisce un trauma così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere,a vivere. Nessuno è in grado di aiutarla ad uscire da quella bolla di indifferenza in cui è intrappolata.
Due anni dopo Annabeth non è diversa da quella maledetta sera, e il padre, l'unico uomo di cui lei si fidi ancora, non riesce più a vederla riversa in quello stato. Così convince la figlia a partire per il Brasile in veste di insegnante, ed è così che la ragazza fa una promessa a sé stessa: nulla avrebbe dovuto rinvangare il suo passato.
Annabeth però non sa che la scintilla perduta è proprio dietro l'angolo della bella Rio, mascherata da un ragazzo da cui deve stare lontana, dei bambini che amano la vita, e un amore inaspettato, per nulla voluto, ma in grado di innescare il processo di rinascita inevitabile.
------------------------DAL TESTO------------------------
«Non voglio spaventarti, non voglio allarmarti e sopratutto non voglio metterti fretta. Accettalo e basta. È importante che tu ti prenda tutto il tempo necessario, ma ho l'urgenza di dirti che...» mormorò.
E poi accadde, senza alcun preavviso. «Ti amo, Annabeth.»
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nico di Angelo, Percy/Annabeth
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love the way you live - La raccolta'
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 


Capitolo 25

 

Rio de Janeiro, il giorno dopo

 


«Ho fame.»
Spostai la mano verso l'interno, mettendo una certa forza nel movimento del polso. Essendo lisci e molto scuri non sembrava, ma i capelli di Nico erano nemici giurati di qualsiasi spazzola e quella mattina avevano deciso di dichiarare guerra al mio pettine blu. Così, non solo il mio polso cominciava a dolere, ma Nico non smetteva un attimo di agitarsi sullo sgabello e a lamentarsi di stargli strappando tutti i capelli dalla nuca.
«Appena finisco scendiamo a fare colazione, promesso» dissi, cercando di districare una ciocca particolarmente ostinata e, allo stesso tempo, di non tirare troppo per evitare di fargli ancora del male.
Probabilmente Nico non gradì la combinazione delle mie parole con il movimento della spazzola perché sporse il labbro inferiore e incrociò le braccia al petto. «Ma è un oooora che mi stai pettinando, Annabeth!» protestò, incrociando il mio sguardo allo specchio.
Non era colpa mia se odiava passarsi il pettine al mattino, ma dal momento che lo avevo aiutato a prepararsi per la giornata, non potevo permettere che non si sistemasse un minimo anche i capelli.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo: quel bambino era una trottola anche di mattina presto. Il sole e i suoi raggi avevano già fatto la loro timida comparsa all'orizzonte scuro – si preannunciava un bel temporale – ma Nico sembrava aver appena bevuto una tazza di caffè.
«Okay, ho finito» dissi, appoggiando il pettine sulla base del lavandino del bagno. «Forza, campione. È ora di colazione!»
Mentre Nico alzava i pugni al cielo liberando un urlo di esultazione, feci passare le mani sotto le braccia di Bianca e la presi in braccio, sollevandola dal pavimento. La piccola era rimasta tutto il tempo seduta a terra a guardare il fratello lamentarsi, ridendo sporadicamente delle sue facce di sofferenza che lei, evidentemente, trovava buffe. Dovevo solo ringraziare il cielo che Bianca fosse una bambina molto brava, altrimenti, se si fosse messa a strillare mentre cercavo di sistemarla un po' dopo la notte, avrei fatto molta più fatica.
«Nico, non correre sulle scale altrimenti rischi di cadere!» urlai rivolta al corridoio dove lui era già scomparso, probabilmente diretto al piano inferiore. Ovviamente era una raccomandazione inutile: sentii distintamente i suoi passi leggeri sugli scalini uno di seguito all'altro e il successivo tonfo sordo di chi atterra pesantemente sul pavimento di legno dopo un salto.
Tutta quell'energia, in effetti, era un bel po' fuori dall'ordinario per Nico. Non l'avevo mai visto così impaziente per qualcosa e, sebbene non l'avesse ancora nominata, ero sicura che la ragione fosse la prospettiva di andare da Katia in ospedale dopo la scuola.
Con Bianca appoggiata sul fianco, scesi le scale e girai a destra, entrando in cucina e venendo subita travolta da un profumo paradisiaco: era come entrare nella cuore pulsante di un ristorante di lusso, il cui chef – pluristellato – aveva appena finito di preparare una quantità tale di piatti che anche un esercito ne sarebbe uscito più che sazio. Sentii distintamente l'odore del bacon, quello del pane tostato e un dolciastro profumo di arancia.
Che diavolo stava succedendo in quella cucina?
I patti erano stati chiari: mentre io svegliavo e preparavo i bambini, Percy doveva occuparsi della colazione.
Logicamente entrambi i compiti si addicevano più a una figura femminile per ovvi motivi e quindi, tra le due, ero stata quasi tentata di lasciare il primo a Percy – dopotutto, la prospettiva di una cucina in fiamme non era molto invitante –, ma lui mi aveva subito bloccata dicendo che avrebbe pensato lui alla colazione. Dopo un istante di tentennamento, alla fine avevo capitolato vedendolo piuttosto determinato: l'immagine che lo vedeva coinvolto in un incendio domestico persisteva ancora nella mia testa, ma, in fin dei conti, ero giunta alla conclusione che, nella prospettiva peggiore, un paio di fette di pane bruciato non avrebbero ammazzato nessuno.
In qualche modo la mia logica aveva fatto un grosso buco nell'acqua perché Percy era in piedi dietro ai fornelli con una paletta di metallo in mano e un grembiule allacciato in vita sopra la maglietta a mezze maniche blu.
«Oh, ehi!» esclamò, accogliendo me e Bianca con quel sorriso sbilenco che tanto amavo. «Cosa prendi, Sapientona? Bacon? Uova? Succo d'arancia?»
Inevitabilmente rimasi a bocca aperta.
Fissai con gli occhi sbarrati la famigliare figura di Percy che, però, non era Percy. La faccia era la stessa, le spalle pure, e così anche gli occhi brillanti. Tutto era a posto, così come lo avevo lasciato poco prima. Ma quello non poteva essere lui.
Dove cavolo era finito Percy Jackson? Nell'ultima ora erano per caso sbarcati gli alieni senza che me ne fossi accorta, rapendo la versione originale del mio ragazzo e lasciando al suo posto un fantoccio parlante, sorridente, e che – orrore degli orrori – sapeva cucinare?
Per qualche motivo ero più favorevole ad accettare quell'assurda ipotesi pur di credere che Percy si fosse messo ai fornelli, preparando quella che – a naso – sembrava una colazione migliore anche a quelle paradisiache di Chintia.
«Tu» dissi, indicandolo con l'indice della mano libera.
Entrai in cucina, avvicinandomi alla figura del mio ragazzo che mi guardava con il capo leggermente piegato e un'espressione divertita in volto, un sopracciglio alzato e l'angolo della bocca arricciato.
«Io?» domandò innocentemente, mentre mi fermavo a mezzo metro da lui.
Lo guardai in faccia, accigliata. «Sì. Tu» articolai. «Che ne hai fatto del mio ragazzo?»
La sua risposta fu immediata: nemmeno si sforzò di trattenere la fragorosa risata che lo scosse. Continuò solo a ridere sguaiatamente, incurante che le altre tre persone presenti nella stanza – io, Nico e persino Bianca – lo stessero fissando straniti, un'espressione confusa e il dubbio di una presunta instabilità mentale che cresceva – questo per quanto riguardava me.
«Guarda che sono seria» borbottai, mentre andavo a posare Bianca nel seggiolone che Chintia aveva scovato dallo scantinato la prima volta che Katia e i figli erano venuti a cena da noi. Mi accertai che le sicure fossero allacciate, prima che due braccia mi circondassero la vita, attirandomi indietro.
Sentii il corpo di Percy aderire al mio, mentre il suo fiato caldo mi solleticava il collo.
«Suvvia, Sapientona. Sono un uomo dalle mille sorprese» mormorò al mio orecchio, facendomi rabbrividire visibilmente. Dovette accorgersene perché la sua presa si fece più salda e io mi trovai a inclinare la testa nella sua direzione. «Mi dovrei sentire offeso che tu non te ne sia accorta prima, sai? Per tua fortuna, oggi mi sento piuttosto generoso quindi potrei anche prendere in considerazione l'idea di perdonarti questa tua ignobile svista» aggiunse, dandomi un pizzicotto sul fianco.
D'istinto mi piegai, ma non potei trattenere una risata e un tentativo di fuga, divincolandomi nelle sue braccia che, per ripicca, mi strinsero ancora più forte.
«Ma quale onore e onore! Sentiamo, per quale motivo oggi si sente così magnanimo, signore?» domandai, stando al gioco.
Sentivo il cuore battermi nel petto e quella sensazione di leggerezza – felicità, forse? – irradiarsi nel mio petto. Mi girai nelle braccia di Percy con un sopracciglio alzato e uno sguardo eloquente dipinto in volto.
«Non vedo perché non dovrei sorridere alla vita in un giorno così radioso! Vede, signorina, la notte appena trascorsa è stata alquanto piacevole e anche il risveglio si è rivelato sorprendente. Sa come vanno le cose... Un letto... Un uomo... Una bella donna... Credo lei possa trarre le dovute conclusioni in autonomia» disse, facendo l'occhiolino.
Scossi il capo, alzando gli occhi al cielo. Quel ragazzo non si smentiva mai.
Eppure, tutto ciò che aveva detto era realisticamente vero: un letto, un uomo, una – sull'aggettivo di mezzo avevo qualche dubbio – donna... In fin dei conti si era solo trattato di quello: sesso. Ma tra del semplice sesso e ciò che avevamo condiviso quella notte vi era un oceano di differenze, ed entrambi ne eravamo consapevoli.
Perciò risi brevemente e lo spinsi via, per andare al piano cottura, versare del latte e cacao in un bicchiere e appoggiarlo di fronte a Bianca che era prevedibilmente affamata. Dall'altro capo del tavolo, Nico era concentrato sul far sparire anche la più microscopica briciola presente sul suo piatto, la bocca cosparsa da dei residui di polpa d'arancia e le guance gonfie di cibo.
Percy si sedette accanto a Nico, appoggiando davanti a sé e nel posto di fronte due piatti bianchi, ricchi delle più golose leccornie mattutine, in linea con la tipica colazione della tradizione americana: bacon a volontà, uova strapazzate, pane tostato e un grosso bicchiere di aranciata fresca.
«Grazie» gli dissi, accomodandomi al tavolo. Impiegai un istante per incrociare il suo sguardo e rimanervi incastrata: con gli occhi stava cercando di comunicarmi tutto ciò che, in quel momento, non poteva proclamare a voce alta e così feci anch'io.
Vorrei tenerti tra le mie braccia. Baciami. Stringimi a te. Mi manchi anche se sei qui con me. Ti amo.
«Figurati» rispose Percy, allungando la mano per intrecciare le sue dita alle mie.
Bastò quel contatto e la consapevolezza che non sarebbe svanito da un momento all'altro per sorridere.
Potevo essere felice.
«Quando andiamo dalla mamma?» chiese all'improvviso Nico, prendendo alla sprovvista sia me che Percy – il quale sembrò sobbalzare sulla propria sedia.
Per essere del tutto sincera, stavo aspettando quella domanda – e molte altre – fin da quando lo avevo svegliato. Era sorprendente che si fosse trattenuto fino a quel momento: mentre gli passavo la spazzola tra i capelli, più volte lo avevo visto perdersi nei proprio pensieri, aggrottare la fronte e guardarmi di sottocchio, cercando il coraggio di domandarmi ciò che più lo tormentava.
E io, un po' in difficoltà su come affrontare l'argomento, me n'ero rimasta in silenzio, preferendo che fosse Nico a iniziare il discorso se ne avesse avuto voglia.
Lanciai un'occhiata a Percy che scosse leggermente il capo.
«Oggi pomeriggio, Nico» rispose, optando per la sincerità. Era disonesto – e completamente inutile – mentire a un bambino in una situazione del genere: si sarebbe solo fatto false speranze.
«Perché così tardi? Non possiamo andare subito, ora?»
Tentennai davanti a quegli occhi grandi, spalancati e le sopracciglia aggrottate in un'espressione contrita. Mi piangeva il cuore doverlo far attendere per ricongiungersi con la madre, ma purtroppo era lunedì e avevamo pur sempre degli impegni da rispettare.
«Nico, c'è la scuola. Io e Percy dobbiamo lavorare e tu non puoi saltare le lezioni senza un permesso scritto dalla tua mamma» dissi, allungandomi per stringere la piccola mano calda del bambino nella mia, cercando di rassicurarlo. «Ti prometto che appena suonerà la campanella, tu, Percy ed io correremo in ospedale dalla tua mamma, okay?»
Nico mi fissò negli occhi per un istante che mi parve infinito, il labbro inferiore appena sporgente. Pensavo che stesse per mettersi piangere o a fare i capricci, ma dopo un lungo istante alla fine annuì con la testa, tornando subito a mangiare, ma con meno foga di prima.
Io e Percy avevamo passato quasi un ora al telefono con Chintia e Grover appena prima di alzarci dal letto: eravamo stati svegliati dalla suoneria del mio cellulare che squillava insistente e non avevamo impiegato molto per ritornare al triste presente, malgrado fossimo ancora abbracciati sotto le lenzuola.
A Grover era stato gentilmente rubato di mano il telefono pochi istanti dopo averci salutati da una Chintia premurosa e sbrigativa. Ci aveva aggiornati in poche parole sulle condizioni stabili di Katia e poi si era dilungata a spiegarci – o meglio, dettarci – ciò che avremmo dovuto fare quel giorno.
Senza troppi giri di parole, aveva proclamato con chiarezza che non potevamo non andare a scuola, malgrado la situazione: che lo volessimo o no, era impensabile lasciare due classi intere di bambini e ragazzi scalmanati nelle mani di un burbero signor Dioniso. Perciò, in base al semplice piano che Chintia aveva ideato durante la notte, io e Percy avremmo tenuto le lezioni normalmente, mentre lei e Grover sarebbero rimasti al fianco di Katia per tutto il corso della mattinata e buona parte del pomeriggio.
Mentre ascoltavamo la voce di Chintia dall'altoparlante del mio telefono, io e Percy ci eravamo scambiati un paio di occhiate, convenendo di essere d'accordo su una cosa: la voglia di passare ore intere lontano da Katia era praticamente nulla, ma Chintia aveva ragione.
Perciò, dopo esserci accordati sulla sorte di Bianca, avevo proposto di permettere anche a Nico di saltare le lezioni per stare con la madre, ma sia Chintia che Grover avevano contravvenuto – già, quei due erano miracolosamente d'accordo su qualcosa una volta tanto – che il bambino non poteva passare un'intera giornata all'ospedale, stando a guardare la madre stesa su un letto, pallida e triste per la recente perdita del figlio. Nico aveva bisogno di distrarsi e la scuola era l'unica opzione possibile.
Anche io e Percy non avevamo impiegato molto per capire che i due avevano ragione, così ci eravamo inventati una scusa da rifilare a Nico nel caso – concreto – in cui avesse posto la domanda e, poco dopo, avevamo chiuso la conversazione per iniziare la giornata e seguire le direttive dateci da Chintia.
Grazie al cielo, Chintia non si era accorta – o aveva preferito ignorare – l'inusuale fatto che Percy avesse risposto al posto mio allo squillare del telefono: sarei morta d'imbarazzo se avesse cominciato a fare domande.
Mi destai dai miei pensieri quando Percy cominciò a raccogliere le stoviglie sporche per posarle nel lavandino, mentre Nico osservava il prato della fattoria con la faccia attaccata al vetro della porta-finestra. Bianca, invece, stava ancora bevendo il suo latte e aveva cominciato a giocare con un laccetto della bavaglia sfilacciato che aveva allacciata al collo.
Sbrigammo velocemente le ultime faccende, finendo di rendere quantomeno presentabili i bambini e, prese le ultime cose, salimmo in tutta fretta sulla macchina di Percy e partimmo diretti a scuola, fin troppo in ritardo sulla nostra abituale tabella di marcia che avevamo sviluppato nel corso degli ultimi mesi.

«Eccovi qua, finalmente! Pensavo vi foste persi a sbaciucchiarvi nella stanza di Percy» esclamò Grover allargando le braccia, un sorriso sbilenco sulla faccia e le sopracciglia alzate. «Non pensate che non me ne sia accorto, stamattina: so bene che eravate nello stesso letto, furbacchioni.» Poi scoppiò in una risata genuina, dando a Percy una pacca complice sulla spalla.
Inevitabilmente, sentii la mia faccia andare a fuoco: anche se Grover non l'avesse capito da solo, gli bastava guardarmi in viso per sapere di aver centrato il punto. Spostai lo sguardo su Bianca, che avevo in braccio, fingendomi troppo occupata a togliere un filo invisibile dalla sua tutina per potergli rispondere, mentre, con la coda dell'occhio, vedevo le guance di Percy tingersi di una leggera sfumatura rosea e accennare un sorriso di circostanza in direzione di Grover.
«Suvvia, ora non fate i timidi. Io ho sempre saputo che saresti finiti a fare coppia fissa» continuò lui, facendo un occhiolino a Percy.
Grazi al cielo, il mio ragazzo ebbe il buonsenso di non commentare. In quel modo ogni tentativo di continuare il discorso da parte del nostro amico venne troncata in fretta: nel caso contrario, avrei sul serio potuto prendere in considerazione l'idea di telefonare a Piper per lamentarmi di quanto Percy fosse stato cattivo nei miei confronti e lasciare che lei facesse il resto.
Certo, avrei mentito su tutti i fronti – perché, in definitiva, non c'era bugia più grande di quella –, ma almeno non mi sarei macchiata le mani con del metaforico sangue.
«Allora, come sta?» domandai, lasciando che implicitamente capisse a chi mi stessi riferendo.
Grover si strinse nelle spalle assumendo un'aria seria, ma accennò un debole sorriso. «Se la caverà. I dottori dicono che non dovrebbe avere problemi a riprendersi completamente, anche se le hanno consigliato di frequentare uno psicologo per un certo periodo. La perdita del bambino è stata un forte trauma per lei.»
Annuii mentre i miei presupposti venivano confermati: se il perdere un bambino valeva anche solo un decimo della situazione che avevo passato io a mio tempo, potevo capire come Katia si sentisse.
Venimmo interrotti da un suono metallico proveniente dall'edificio alla nostra sinistra, segno che le lezioni stavano per cominciare.
Presi Bianca per le ascelle e l'allungai a Grover, il quale la prese con cautela e se l'appoggiò sul fianco, facendole le smorfiette per farla ridere.
«Okay, ora dobbiamo proprio andare» disse Percy, appoggiando una mano alla base della mia schiena e tenendo con l'altra Nico che guardava Grover con un'espressione triste. Sapevo esattamente cosa stava pensando: quando aveva saputo che sua sorella sarebbe andata in ospedale fin da subito, aveva cominciato a lamentarsi che non fosse giusto e avevo passato tutto il tragitto dalla fattoria fino alla scuola a cercare di tranquillizzarlo.
«Ci vediamo dopo» dissi, salutando Grover già diretto verso il suo furgoncino.
Rivolsi un sorriso rassicurante a Nico, poi diedi un rapido bacio a Percy sulla soglia del cancello e andai dritta nella mia classe per iniziare quella lunga giornata, sperando che passasse in fretta.

Prevedibilmente non fu così: le ore si susseguivano una di seguito all'altra, ma il passaggio era così lento che sembrava stesse durando un'eternità di più rispetto all'effettiva realtà. Passai la mattinata cercando di svolgere una normale lezione, ma concentrarsi risultò più difficile che mai. I miei alunni, fortunatamente non si accorsero di nulla, ma Nico passò tutta la mattina con lo sguardo perso fuori dalla finestra, il broncio sul viso e completamente disinteressato rispetto alla lezione.
Non potevo certo biasimarlo: lo avevo già costretto a venire a scuola e stare lontano dalla madre. Era impensabile pretendere che seguisse anche le mie spiegazioni mostrando interesse.
Quando alla fine arrivò l'ora di pranzo, mi trovai a ringraziare tutti gli Dei del cielo per quell'ora di pausa. Non sarei riuscita a mantenere il mio ruolo professionale ancora a lungo senza scoppiare.
Katia non era solo una donna che avevo preso a cuore, ma anche un'amica. Tenevo a lei tanto da farmi prendere dall'ansia al pensiero di ciò che stava affrontando, proprio perché in qualche modo riuscivo a capirla.
E poi... Poi, c'era l'altro motivo.
Quello che inevitabilmente tornò a galla nel momento in cui i miei occhi si posarono su Percy quando lo vidi seduto al nostro solito tavolo, con il vassoio davanti a sé e il capo chino.
Non potei evitare che i ricordi della notte appena trascorsa mi invadessero la mente nel vedere i suo capelli corvini spettinati, la linea della mascella spezzare quella armonica delle labbra. Le sue braccia che nemmeno dodici ore prima mi stringevano a sé, le dita che avevano toccato ogni centimetro della mia pelle, avanti indietro, ancora e ancora finché non ero riuscita più a capire se mi stesse accarezzando il fianco o la gamba. E poi i suoi occhi, quegli occhi che mi avevano vista. Che mi avevano coccolata, venerata, amata.
Non c'era niente di più sbagliato che lasciare libera la mente di ripensare al nostro atto d'amore per molto motivi, uno dei quali la presenza di decine di bambini nella mensa. Ma non potei evitare di sorridere come un'idiota per un momento.
Mentre mi avvicinavo al bancone per prendere il mio vassoio e servirmi il pranzo, cercai di darmi un contegno, riuscendo per lo meno a non dare l'impressione di essere una pazza con problemi di paralisi facciale quando mi sedetti di fronte a Percy. Lui alzò lo sguardo, e ricambiò il mio sorriso e fu come se il mondo si rischiarisse molto più di quanto il sole non stesse facendo con i suoi raggi.
La mano che avevo appoggiato sul tavolo, accanto al mio vassoio, venne stretta dalla sua: con le dita andò a farsi largo tra le mie in modo da poterle intrecciare. Sentivo il calore del suo palmo, la morbidezza della sua pelle a contatto con la mia e inevitabilmente mi persi nel mondo di Percy Jackson salvo poi sussultare quando Nico prese posto accanto a me, abbassando il capo sul suo piatto e cominciando a giocherellare con la forchetta.
Ritrassi con uno scatto la mano, appoggiandomela in grembo per poi stringerla in un pugno: a scuola ci era severamente vietato alludere a dei contatti intimi – e non – sopratutto dopo esserci messi insieme. Eravamo così presi da noi stessi da non esserci accorti di essere andati oltre il semplice sorriso complice che ci scambiavamo ogni giorno.
Diedi un colpo di tosse e sfuggii allo sguardo di Percy, leggermente in imbarazzo, per concentrarmi su Nico.
«Tutto bene?» gli domandai, accarezzandogli la testa con un gesto lento. Volevo solo che lui stesse bene: gli ero troppo affezionata per far finta di nulla nel vederlo giù di morale.
Nico annuì con la testa e io percepii una leggera pressione sul palmo della mano quando lui si piegò impercettibilmente indietro, permettendomi d'infondergli un po' di conforto. Per lo meno non rifiutava l'aiuto che cercavo di dargli.
Perciò, con il cuore un po' meno pesante, iniziai a mangiare.
Sentivo come se, da quel momento in avanti, la giornata fosse migliorata in qualche modo, anche se la tragedia del giorno prima rimaneva a infestare i nostri animi come un fantasma, alleviata solo dalla rassicurazione di non essere più la persona della settimana precedente, degli ultimi due anni trascorsi.

Riuscimmo davvero a raggiungere la fine di quella lunga giornata lavorativa, dopo la quale saltammo in macchina e andammo da Katia in ospedale velocemente, traffico permettendo. La trovammo seduta sul suo letto, due cuscini bianchi dietro la schiena e la piccola Bianca sdraiata accanto a lei, un pollice in bocca e l'espressione beata di chi si trova nel mondo dei sogni.
Chintia e Grover, una volta rassicurati che tutto fosse apposto, tornarono alla fattoria per dormire un po' e compiere le loro faccende: erano stati al fianco di Katia per tutta la notte e anche il giorno e questo era un evidente gesto di quanto anche loro si fossero affezionati a quella famiglia.
Non nascondo che fu strano vedere il volto pallido e incavato di Katia mentre cercava di articolare le labbra in un debole sorriso di circostanza. Nella stanza aleggiava uno strano senso d'inquietudine, come se tutti stessimo aspettando che qualcuno sottolineasse l'evidenza, che desse esponesse quanto la situazione fosse tragica.
Che dicesse la verità.
Ma era chiaro come il sole che Katia non aveva bisogno di sentirsi ripetere l'esperienza del giorno prima visto che, probabilmente, i dottori avevano già provveduto abbastanza a sottolineare l'evidenza.
Perciò, quando Nico si buttò tra le braccia della madre, mostrando un'incredibile delicatezza nello stringerla a sé, e Katia immerse la fronte nell'incavo tra la spella e la testa del figlio trattenendo il respiro, non riuscii a impedire che la lacrima sfuggisse al mio controllo dall'occhio destro.
Provvedii subito ad asciugarne il percorso incriminato, ma Percy se ne accorse perché il suo sguardo attento catturò il mio: con naturalezza il suo braccio salì a circondarmi le spalle e io mi strinsi a lui.
Katia non stava bene, me ne accorsi subito quando cominciammo a parlare del più e del meno. Si sforzava di mostrarsi normale, ma è difficile mantenere una maschera imperturbabile quando il peso del mondo passa dalle spalle di Atlante alle tue senza che tu possa opporre resistenza. Stringeva a sé i due figli a intervalli uguali: da una parte c'era Bianca che dormiva, dall'altra Nico che aveva trascorso un ora a raccontarle la notte e la mattinata precedente, soffermandosi sui dettagli più curiosi e buffi – come la morbidezza del mio cuscino e il profumo di bacon che aleggiava in tutta la casa quando si era svegliato.
Tutto sommato fu un bel pomeriggio. Tra chiacchiere leggere e silenzi ovattati, alla fine Katia si addormentò e io e Percy ci ritrovammo seduti su due sedie gemelle, io con la testa appoggiata sulla sua spalla e lui che mi stringeva a sé. Parlammo un po' di argomenti futili come se avessimo voluto ignorare la realtà della situazione: ero sicura che, con il passare del tempo, questa si sarebbe fatta più facile da affrontare.
Certo, le cose non sarebbero cambiate in meglio per miracolo: Katia aveva perso il bambino, non c'era rimedio a tutto ciò. Ma, se con me la terapia non aveva funzionato finché non l'avevo provata sulla mia pelle intraprendendo quel viaggio che mi aveva portata lontano da casa ma, allo stesso tempo, vicina, ciò non precludeva che con lei le cose non sarebbero potute andare diversamente.
Inoltre, ci saremmo sempre stati noi a riempire i buchi lasciati vuoti nella vita di Katia, almeno fino a Dicembre.
A quel punto, però, la situazione si traduce in un altro problema: che sarebbe successo dopo il nostro ritorno a New York?
La domanda rimbombò nella mia testa a lungo quel pomeriggio, ripresentandosi a intervalli regolari malgrado il mio impegno a scacciarla lontano. Ero appena riuscita ad alleggerire la mia vita del più grande peso che mi avesse mai afflitto. Possibile che fossi destinata a non essere mai del tutto tranquilla, malgrado ora, in compagnia di Percy, fossi decisamente più felice?
«Ehi, tutto okay?»
Alzai lo sguardo e reclinai il capo poco dopo per evitare di andare a scontrare la fronte con il naso di Percy, data la vicinanza. La sua era una domanda casuale, un gesto divenuto abituale negli ultimi tempi.
Non era tutto “okay”, ma, nel vedere quella scintilla viva nei suoi occhi, non riuscii a dare voce alla questione che mi assillava perché volevo che continuasse a guardarmi in quel modo ancora e ancora. Non avevo voglia di cancellare il senso di pienezza e completezza che, dal nostro risveglio quella mattina, ci aveva avvolto. A quel punto, inevitabilmente, divenni fin troppo consapevole della sua mano sulla mia vita, dell'altra sulla mia guancia e della sua fronte che sfiorava la mia.
Lo sentivo.
«Tutto okay» mormorai, sfiorando per un istante le sue labbra con le mie.
Avevo una voglia pazza di dargli un altro genere di bacio, decisamente meno casto, come mai in vita mia, ma preferivo aspettare di essere in un ambiente più intimo e meno denso di tristezza e tragedia.
Presi dunque la decisione di tenere i miei tormenti per me, almeno finché la situazione non si fosse assestata un po', e di vivere alla giornata facendo il possibile per alleviare il peso sulle spalle di Katia e, nel mentre, di godermi al meglio quell'incredibile esperienza educativa.

I giorni passarono, uno di seguito all'altro, finché non si trasformarono in settimane, e le settimane in mesi. Sull'iniziare di Ottobre la situazione ebbe una sorprendente svolta positiva, malgrado Katia fosse diventata una persona molto diversa da quella che avevo conosciuto prima di Agosto.
Dopo essere stata dimessa in fretta dall'ospedale, Chintia aveva insistito affinché Katia e i figli venissero a vivere con noi, nelle due camere vuote al piano terra. Come sosteneva la donna, lo spazio nella fattoria non mancava affatto. Dopo continue suppliche, alla fine Katia si era lasciata convincere, sopratutto perché era difficile dire di no a Nico – il quale si era rivelato essere un ottimo alleato per Chintia. In quel modo, noi tutti avevamo avuto l'occasione di tenere d'occhio Katia nel suo cammino di recupero: seguendo il consiglio del dottore che l'avva seguita in ospedale, eravamo riusciti a organizzare degli incontri con uno psicoloco tramite l'associazione per cui io e Percy lavoravamo.
Le prime settimane erano state difficili. La donna si ostinava a non voler uscire dalla sua stanza, se non per mangiare. Si era inevitabilmente lasciata andare.
Grazie al cielo però, Nico e Bianca non se n'erano accorti – forse anche perché trascorrevano la maggior parte del tempo a giocare con Frappola in giardino o ad aiutare Grover e Percy con il furgoncino. Quei tre avevano sviluppato una complicità particolare e io non potevo che esserne più felice.
A metà Settembre la situazione non era cambiata di molto, malgrado le visite dello psicologo si fossero fatte meno frequenti. E poi, un sabato mattina, la sua sempre più esile figura aveva fatto capolino sull'uscio della cucina mentre noi facevamo colazione, delle ciabatte chiare ai piedi e i capelli legati in una coda.
Da quel momento in poi la situazione era nettamente migliorata e Katia si era fatta sempre più partecipante alla vita della casa. Aveva acquistato forze a sufficienza per potersi alzare ogni mattina e poter abbracciare i suoi figli senza scoppiare a piangere ogni volta.
E, per ora, tutto ciò poteva bastare.
Io, nel mentre, mi ero applicata per risolvere la questione che mi assillava da quel pomeriggio in ospedale e quel giorno, finalmente, avevo trovato ciò che cercavo. Ero tornata alla fattoria qualche minuto prima di cena con la macchina di Percy – presa gentilmente in prestito, malgrado mi fossi dovuta sorbire venti minuti di raccomandazione su cosa fare e non fare con la sua amata auto a noleggio – e, con un largo sorriso spontaneo, avevo annunciato a tutti che ero riuscita a trovare un lavoro a Katia in un ristorante di lusso in centro città e che lei era convocata per una prova il giorno dopo.
Come avevo sperato ardentemente, la notizia era stata accolta con esultanza da tutti, Katia compresa che, con un largo sorriso, mi aveva chiesto incredula se stessi dicendo sul serio: nelle ultime settimane mi ero accorta di quanto fosse brava nell'aiutare Chintia con i pranzi e le cene.
Ero sicura che avrebbe superato la prova senza troppi problemi e, a quel punto, anche l'impiccio degli orari non sarebbe stato un grosso problema: Nico e Bianca erano diventati parte della famiglia. Qualcuno che se ne occupasse ci sarebbe sempre stato.
Con quel gesto speravo solo di poter ridare un po' di speranza a una donna infranta, come lo ero stata io a mio tempo.
Fu come se un altro grosso capitolo della mia vita stesse volgendo al termine: i tasselli del complicato puzzle che era stato il mio passato avevano trovato gli incastri perfetti con l'esperienza vissuta negli ultimi mesi.
C'era ancora una cosa che disturbava il mio animo, anche se non direttamente: capitava che a volte, mentre ero al telefono con mio padre, Percy si estraniasse dal mondo, puntando lo sguardo fuori dalla finestra come se si domandasse cosa il suo, di padre, stesse facendo in quel momento.
Più volte avevo cercato di affrontare l'argomento, ma lui trovava sempre un modo per cambiare discorso, oppure diceva chiaramente che non aveva voglia di parlarne, interrompendomi con un bacio – a cui, ovviamente, non potevo dire mai di no – e una carezza.
E poi, un giorno, sul finire di Ottobre, io e Percy scendemmo a fare colazione come tutte le mattine, dopo aver passato la notte abbracciati nel mio letto, e Chintia allungò una mano per porgergli una busta all'apparenza completamente bianca, chiusa da un sigillo di cera.
Percy, seduto di fronte a me come sempre, abbassò lo sguardo mentre girava e rigirava il verso della busta, la fronte aggrottata e le labbra leggermente dischiuse. Chissà perché, ero certa che entrambi fossimo consapevoli di cosa, quel pezzo di carta, significasse, malgrado il suo contenuto o il mittente non fosse dichiarato esplicitamente con dell'inchiostro.
D'istinto, allungai la mano per posarla sull'avambraccio scoperto di Percy, stringendolo in segno di vicinanza. Io ero lì per lui e ciò era l'unica cosa importante, in quel momento.
Percy, di rimando, alzò gli occhi nei miei e deglutì. Eravamo lui ed io, isolati dal mondo per un istante: qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi decisione Percy avrebbe preso, qualsiasi incontro avremmo fatto, noi due saremmo stati lì, l'uno per l'altra.
Perciò, quando alla fine del nostro momento Percy annuì impercettibilmente, mi scoprii felice di poter essere in due compagnia anche nell'affrontare quella questione che coinvolgeva la sua vita e, di conseguenza, anche la mia.

In realtà, trascorsero varie settimane prima che Percy decidesse di prendere in mano il telefono e comporre il numero inserito nella lettera. Non ebbi mai il piacere di leggere per intero quel foglio perché preferii aspettare che fosse Percy a parlarmene, quando fosse stato pronto.
Probabilmente, però, senza una mia esortazione – diciamo che avevo messo un promemoria con il numero anche sotto il cuscino, proprio come mio padre aveva fatto nei miei confronti con la brochure del progetto – Percy avrebbe aspettato molto più tempo.
Alla fine, un sabato pomeriggio d'inizio Novembre, mi trovai nella veranda di una maestosa villa, costruita sulla spiaggia di Rio. All'orizzonte vedevo solo una distesa limpida di mare blu, tinteggiato di svariate sfumature infuocate. Il tramonto faceva da sfondo a due figure alte, volte di spalle, fianco a fianco.
Da quella distanza riuscivo a vedere chiaramente i capelli neri di Percy – che, a ben pensare, necessitavano di un taglio – svolazzare a causa del vento e le sue spalle alzarsi e abbassarsi.
«Vedrai, andrà tutto bene.»
Voltai la testa alla mia sinistra, non riuscendo a trattenere un sorriso leggero davanti a quello confortante di Anfitrite. Come sempre, quella donna era uno spettacolo per gli occhi: i capelli erano ordinatamente raccolti in una crocchia sopra la testa e sulle spalle portava un maglione di seta rosa, perfettamente intonato alle scarpe. Ero felice che si fosse posta come intermediaria tra padre e figlio, cercando di farli parlare almeno una volta.
Non ero così ingenua da pensare che le cose tra Percy e Poseidone si sistemassero in un'ora, ma da un piccolo passo ne potevano nascere molti altri. E poi, chissà, magari un giorno saremmo potuti tornare su quella spiaggia per un pranzo di famiglia.
Annuii, tornando a guardare il mare.
«Lo so.»
Un po' di tempo dopo, quando Percy salì in solitario gli scalini della veranda e si avvicinò, chinandosi per lasciarmi un leggero bacio sulla fronte, lo guardai e vidi nei suoi occhi la serenità più assoluta.
«Va tutto bene?»
«Ora sì.»
E quella era senza dubbio la verità.


 


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Dunque. Eccoci qua riuniti nuovamente.
Okay, come saluto introduttivo fa abbastanza schifo.
Facciamo finta che non abbia mai scritto nulla e ripartiamo da capo: CIAO! A parlare è sempre la rompiballe che, ogni tanto, un mese si e i seguenti due no, ricompare con un puff! polveroso per postare dei capitoli che fanno schifo.
Pace.
Ormai sapete anche voi come la penso sul ritardo cronico e, sopratutto, sui motivi per cui sembro scomparire dalla faccia di Internet per un po'. La scuola fa la sua grande parte, ovvio, ma anche i periodi di scrittura vanno e vengono a loro discrezione. Conseguenza: riesco a scrivere qualcosa di decente solo quando la vena creativa si risveglia dal suo sonno eterno. Pace all'anima sua.
Per tornare a ciò che ci interessa: questo è il capitolo 25.
E, guardacaso, corrisponde anche al PENULTIMO capitolo :)))))))))))) *momento di risate allegre per mascherare la depressione che scaturisce da tale affermazione*
Già, avete capito bene: pernultimo capitolo. Il che vuol dire che il prissimo sarà l'ultimo e poi... *sigh*... non voglio nemmeno pensarci. Anche perché, in effettiva, il prossimo sarà più una sorta di epilogo e non un capitolo vero e proprio, ecco.
Lo so, lo so, la scorsa volta avevo detto che ne mancavano tre di capitoli, ma quando mi sono trovata davanti alla trama da me scritta e a tutto il resto mi sono accorta di non avere elementi sufficienti a scrivere un capitolo in più che risulterebbe soltanto noioso, tedioso, inutile, piatto e _________ (aggiungete nello spazio qualsiasi altro sinonimo vi viene in mente). Già questo non mi convince molto, ma è quello che è la conclusione che ho pianificato da quando ho iniziato a scrivere questa storia, quindi mi sembrava giusto rispettare i canoni predisposti.
Spero, malgrado ciò, che possa piacervi, come sempre.
Eeeee... null'altro, in realtà. Credo di aver detto tutto.
Come sempre, non aspettatevi l'epilogo domani o il giorno dopo perché chiaramente non arriverà in tempo. Anzi, mettetevi già da ora il cuore in pace: probabilmente pubblicherò in Giugno, dopo aver (spero) superato l'inferno di Maggio. Che Zeus me la mandi buona.
Vi voglio tantisssssssssimo bene, pulcini miei <3


Annie
  
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