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Autore: Dragon gio    30/04/2016    2 recensioni
Era salito sul taxi e poi… ecco, da lì iniziava il vuoto. Un pesante, inquietante vuoto di memoria. John a stento si rendeva conto di dove si trovasse ma, qualcosa nel suo istinto di soldato gli impose di svegliarsi immediatamente. [...]
A quel punto comprese fin troppo bene di trovarsi in una situazione di pericolo.

John si ritrova a dover fare i conti con una parte del suo passato, con una vita che non è stato in grado di salvare. Ed ora, un uomo grida vendetta e sarà John a doverne pagare le conseguenze.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Let us be brave cap 3
Cap. #3 The time has come

L’atmosfera nella stanza era apparentemente serena, John venne fatto accomodare dall’avvocato di Parker, un certo Steven Thompson. Scostò la sedia con calma e si sedette, sporgendosi poi in avanti verso Barry, senza alcun timore.
L’uomo dal canto suo teneva la testa china, il piede destro in preda a un tic nervoso picchiava a terra interrottamente. Non aveva ancora osato alzare lo sguardo verso John da quando era entrato. Notò immediatamente che le braccia dell’uomo tremavano appena, le mani nascoste sotto il tavolo probabilmente erano arpionate ai pantaloni. L’avvocato di Barry stava per dire qualcosa, ma John lo precedette abilmente.
- Signor Parker si calmi, non è bene che un uomo che è appena stato operato al cuore si agiti così tanto. –
Barry fu visibilmente scosso da quella frase, come testimoniò il suo viso sollevato di colpo verso John.
- Allora signor Watson, non ho ancora ben capito il motivo di questo incontro, ma devo avvisarla che il mio cliente non può divulgare alcuna informazione riguardo questo caso! –
- Non voglio parlare del caso, voglio solo parlare con lui – replicò secco John. Sapeva che non sarebbe stato semplice poter avere una semplice conversazione con Barry data la gravità delle accuse.
- Comunque non può dire niente che non sia approvato dal sottoscritto, spero le sia chiaro signor Watson! –
- Va bene, ma spero che gli permetterà almeno di parlare con la sua bocca – affermò con una calma a dir poco saccente - O pensa di fare pure questo per lui? –
Fu esemplare l’espressione di stizza che gli rivolse l’avvocato, ecco, doveva essere quella la sensazione che provava Sherlock ogni santa volta che sputava le sue “frecciatine moleste”.
- Thompson, per favore ci lasci da soli un momento. – Sentenziò improvvisamente Barry con tono serio. L’avvocato gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, sudava da matti ed era nervoso come pochi, ma dopo l’ennesima occhiataccia da parte del suo cliente si alzò abbandonando il tavolo.
- Dieci minuti, non di più! – uscendo dalla stanza si premurò di chiudere la porta con forza, sbattendola, per ostentare tutto il suo disappunto su una simile folle scelta.
- Non l’ha presa molto bene, direi! –
- Perché è qui?! – sbottò Barry tradendo un impazienza vistosa. Si mordicchiava frenetico il labbro inferiore, facendolo arrossare.
- Lei che cosa dice? –
- Non lo so e non ho voglia di giocare agli indovinelli, dottore. Mi risponda, perché è qui? Vuole bearsi di aver vinto, di avermi costretto a vivere per poter finire i miei giorni in prigione?! –
- Lei è incredibile, nonostante tutto continua ancora a pensare di voler morire. -
- Come, scusi?! –
- Ha tendenze suicide, chissà da quanto ormai ed io francamente non ne comprendo il motivo. –
- Sta scherzando?! Mi sta prendendo in giro?!! –
Barry scattò in piedi, i palmi delle mani sbattute con violenza sul tavolo, il respiro accelerato. John non dovette fare nulla per placarlo, gli bastò mostrare il suo sguardo più penetrante perché l’uomo si desse una regolata da solo. A volte si scordava che John Watson aveva vissuto la guerra in prima linea.
- I…io non ho motivi per vivere… -
- Sono solo scuse, tutti hanno un motivo per vivere, sempre! –
- Io no. Non più… non mi è rimasto più niente, non ho più nessuno… nessuno a cui gli importi qualcosa di me… -
- Si sbaglia, a me importa di lei. –
- C… cosa dice? –
- Jay non avrebbe voluto questo -  fece una pausa inspirando profondamente -Insomma, che suo padre si lasciasse andare così e desiderasse di morire. Mi ha detto che l’amore per i fiori glielo avete trasmesso lei e sua moglie, che quando fosse tornato a casa lo avreste aiutato ad aprire un negozio. -
- E’ troppo tardi ormai… -
- No, non lo è, ma gli fa comodo pensarlo non è vero? Perché arrendersi è più facile che provare a combattere! –
- Dottore… -
- Mi ascolti bene, io oggi testimonierò in quell’aula e dirò tutte le diavolerie a cui mi ha sottoposto, ogni cosa, tutto – John si preoccupò di scandire con lentezza ogni singola parola – Il fatto che io la perdoni, non significa che abbia dimenticato cosa mi abbia fatto passare! -
Barry deglutì rumorosamente, incapace di riuscire a spiccicare parola, rimanendo immobile a fissare quel piccolo uomo che proseguiva il suo accorato discorso.
- Ma dirò anche, in quanto medico, che la cosa migliore per lei sarebbe di essere ricoverato in un istituto di igiene mentale. –
- Ma… perché?! –
- Perché se finisse in galera non potrebbe mai rifarsi una vita, come Jay avrebbe voluto. –
- Io… -
- Ci sono persone che non hanno la sua fortuna, di essere vive intendo. Ho molti pazienti che sono ad un passo dalla morte per malattia e darebbero tutto pur di avere una seconda possibilità come quella che le sto offrendo io. –
Ancora una volta, Barry fu incapace di articolare le parole. Si sentiva letteralmente in balia di John, travolto totalmente dalla sua incredibile compassione.
- Non la sprechi e se ha ancora un briciolo di amor proprio lo usi per onorare suo figlio e il suo desiderio. Viva! Viva per lui. Si faccia curare, si rifaccia una vita e per l’amor del cielo la smetta di essere così autodistruttivo! –
Dopo l’ultima frase John prese fiato e poi, con estrema lentezza, si alzò. Dava le spalle a Barry, fermo davanti la porta, le mani leggermente nervose che si aprivano e richiudevano rapidamente a pugno.
Dopo alcuni stanti di esitazione, Barry esclamò confuso – Dottor Watson… perché lo fa?! Perché lo sta facendo?! Io… io non merito il suo perdono! L’ho quasi uccisa… - stava letteralmente incespicando, le parole biascicate e la voce roca – Perché? – chiese con un filo di voce infine. C’era quasi disperazione in quella domanda.
John si girò allora, accorgendosi che Barry stava piangendo. Prese coraggio prima di concludere definitivamente quella conversazione.
- Si sbaglia, non lo faccio per lei, ma per Jay. Perché lui da morto dimostra più orgoglio di lei da vivo. Si dia una ripulita, ed inizi ad affrontare i suoi errori a partire da questo processo. –
Senza dargli il tempo di reagire, si aggrappò alla maniglia della porta spalancandola. Barry, preso dal panico gli corse dietro. Non poteva lasciarlo andare via così, no. Gli afferrò un polso – Aspetti! – John non si mosse, rimase rigido nella sua posizione.
- M…mi dispiace… mi dispiace… - sussurrò Barry, le lacrime ormai gli rigavano totalmente le guance. Udì solo la voce di John che, con una certa freddezza replicò – Anche a me. –
Le dita di Barry cedettero e lo lasciarono andare. John richiuse la porta dietro di sé, lasciando quell’uomo solo a singhiozzare come un bambino. Per un istante, ma forse era stata solo la sua immaginazione, gli era parso anche di sentire un grazie spezzato fra i singulti sconclusionati.

In corridoio ad attenderlo vigile, come sempre, c’era Sherlock. Non appena incrociò il suo sguardo si incamminò verso lui, il passo sicuro. Sherlock, leggendo quei movimenti così privi di esitazione si ritrovò a sorridere impercettibilmente. Attese che John lo affiancasse prima di accompagnarlo fino in aula.
Il consulente investigativo si sedette in fondo e, incredibilmente, rimase pure in silenzio senza ammorbare nessuno con le sue deduzioni. Seguì con attenzione l’intero processo che, da come stava andando, era facile prevedere che Barry Parker sarebbe stato incriminato per sequestro di persona e tentato omicidio.

Quando fu il turno di John di testimoniare, Sherlock quasi si scordò di respirare tanto era concentrato su di lui. Nonostante avesse nutrito qualche timore in merito, l’amico si mostrò calmo e sicuro di sé mentre rispondeva alle domande degli avvocati.
Ebbe solo un piccolo sussulto quando mostrarono alla giuria alcuni spezzoni delle riprese video della telecamera a infrarossi posta da Barry nel magazzino.

Verso l’una il giudice decretò la fine del processo, per quella prima giornata almeno; Sherlock non perse tempo e si precipitò da John trascinandolo via.
- Vieni! – aveva esclamato afferrandogli una mano, prendendolo alla sprovvista. Fuori dal tribunale c’erano già svariati giornalisti ad attenderli. Volevano intervistare John Watson in quanto “vittima di questo caso”.
Lo tirò fra la folla, pestando piedi a chiunque pur di farsi strada. Dovettero correre e infilarsi nei vicoli più sudici e stretti che conoscessero per seminare la schiera di telecamere che gli stavano alle costole.
Solo quando furono abbastanza lontani lasciò andare la mano del suo blogger. John inspirava forte, accaldato per la folle corsa.
- Accidenti, non mollavano eh?! –
- Sono giornalisti John, sarebbero capaci di seguirci fino a Baker Street! –
Il petto di John venne scosso da una risata vigorosa e quella voce melodiosa scaldò il cuore di Sherlock in qualche modo.
- Spero di no, per il loro bene, perché potrei prenderli a calci! E non scherzo! – affermò infine, mantenendo però sempre un tono canzonatorio.
- Taxi? –
- Buona idea. –

Sherlock ne chiamò uno e ci salirono entrambi, la meta ovviamente il 221B. Entrambi non dissero nulla durante il tragitto, Sherlock osservava fuori il paesaggio che scivolava via, sfumando veloce e confondendosi con la nebbia che si era alzata.
Nonostante fosse ancora presto, il cielo era plumbeo e scuro, pareva di essere a pomeriggio inoltrato. Un rumore di carta stropicciata attirò la sua attenzione. Quando si voltò verso John, notò che l’amico stava guardando una foto. Era vecchia e rovinata, ma tenuta con cura notò immediatamente Sherlock. Era qualcosa a cui John teneva molto dunque.
Si sporse appena, inquadrando rapidamente le tre persone ritratte, senza dubbio commilitoni di John: il primo era un uomo di colore, sui venticinque anni, l’altro uomo a sinistra era John stesso, mentre il ragazzino al centro doveva essere Jay Parker. Aveva un viso molto ordinario, una corporature esile, forse troppo per essere un soldato. I capelli corti erano scuri e aveva gli occhi particolarmente chiari. Ma a colpirlo maggiormente non furono tutti questi dettagli quanto il suo sorriso.
Forse era per la giovane età, pensò, di norma chi si trovava su un campo di battaglia, per quanto si forzasse di risultare allegro nelle foto, il velo di inquietudine rimaneva impresso sul rullino. Il medesimo sguardo afflitto si palesava difatti sui visi di John e dell’altro compagno. Sherlock sbatté ripetutamente le palpebre, quasi non riconoscendo in quell’espressione malinconica l’uomo che gli stava seduto accanto. Lo stesso che poteva illuminare una stanza con la sua semplice risata, o con un sorriso che mostrava fiero tutti i denti senza vergogna.
John continuava a fissare quel pezzo di carta sgualcito, senza emettere un fiato. Non c’era bisogno che parlasse, che spiegasse chi fosse quel ragazzo nella foto perché era sicuro che Sherlock lo avesse già capito.
Avrebbe voluto dirgli tante cose, raccontargli di chi fosse realmente Jay Parker, di come con la sua spensieratezza riuscisse a rallegrare le giornate buie dei suoi commilitoni più anziani.
Di come si fosse sentito impotente quando aveva stretto fra le mani il suo corpo ricoperto di sangue. Sì, un giorno glielo avrebbe raccontato, ma non ora, non oggi.

Sospirò forte prima di rimettere la foto nella tasca della giacca, per poi passarsi una mano sul volto stanco.
- Dio, ho bisogno di dormire… -
Quella fu l’ultima cosa che disse John, perché non appena commise il grave errore di chiudere un momento gli occhi, si assopì. Sherlock se ne accorse solo quando ormai era troppo tardi e la testa di John gli si era accasciata sulla spalla.
Il consulente investigativo non si mosse minimamente, cercò di restare il più possibile immobile per non svegliare l’amico. Riuscì giusto a far scivolare il suo braccio dietro la schiena di John, per permettergli di sistemarsi meglio su di lui.
Ordinò anche al tassista di allungare la strada, così da poter permettere a John di riposare ancora un altro po’ prima di tornare a casa.
Rimase a contare i suoi respiri e i battiti del suo cuore fino a che non giunsero a destinazione. Lo svegliò delicatamente, precipitandosi fuori dal taxi prima che John potesse realizzare che stava praticamente dormendo appiccicato a lui. Non appena rientrarono, John si congedò andando dritto nel suo letto, doveva recuperare parecchie ore di sonno e di certo non era bastata la corsa in taxi di appena venti minuti.

Nei giorni seguenti il processo proseguì, ma John si limitò a seguirne gli sviluppi dai giornali. Il verdetto della giuria alla fine fu colpevole. Tuttavia Barry Parker non venne condannato alla galera, bensì a farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico e, una volta visti i primi miglioramenti, sarebbe passato agli arresti domiciliari per un periodo di tempo scelto dal giudice. Inutile dire che le parole di John Watson, pronunciate alla sbarra, furono determinanti per questa soluzione. Essendo lui stesso un medico aveva inciso fortemente sui giurati, inoltre il suo aspetto rassicurante da ex soldato, il viso pulito e la generosità dimostrata nel perdonare il suo aguzzino, gli avevano concesso il lusso di entrare nel cuore di quelle persone e di determinare così il futuro di Barry.

John lesse solo poche righe dell’articolo in prima pagina che narrava del “coraggioso ex soldato John Watson che ha perdonato il suo attentatore”. Ripiegò il giornale con cura e l’abbandonò sul tavolo, preferendo riordinare i propri pensieri.
Era stato un periodo davvero difficile, le giornate si erano susseguite una dopo l’altra e John si era trascinato stancamente avanti senza sosta. Con il senno di poi, si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta senza l’aiuto di quel “sociopatico iperattivo” del suo coinquilino. A modo suo, Sherlock gli era stato vicino, lo aveva sostenuto e protetto. Con lo sguardo cercò per la stanza l’amico; se ne stava attaccato al suo microscopio, in una mano una fiamma ossidrica e nell’altra una tazza di té. Si ritrovò a sorridere senza motivo, scuotendo la testa divertito. Si fece un importante appunto mentale: trovare il modo di ringraziare come si doveva Sherlock.
Ma per ora, avrebbe dovuto accontentarsi di un sorriso complice che gli rivolse non appena Sherlock alzò gli occhi dal microscopio. Come se avesse letto nella sua mente, ricambiò, tirando appena le labbra in una fugace espressione felice. John uscì silenziosamente dalla stanza, non smettendo di chiedersi però perché il suo cuore si fosse riscaldato così tanto all’improvviso.

Forse anche Sherlock se lo stava domandando, ma questa è un'altra storia…

END



Prima di tutto, chiedo perdono per aver aggiornato così in ritardo, ma sono stata male questa settimana e sono successe tante cose importanti per la mia vita! Ma ora, eccomi qua con il capitolo conclusivo di questa breve long fiction, spero vi sia piaciuta! ♥
Aha, non ho resistito, alla fine un tocco di Johnlock è  prevalso, mannaggia me! XDD  Dubito che sia stato sgradito, però mi ero ripromessa di non lasciarmi andare "troppo" al Johnlock stavolta e, in qualche modo, penso di essere stata fedele al mio patto! XD Ma prossimamente, chiedo venia, tornerò sulla via del Johnlock perchè li amo troppo, sorry (not sorry XD)!

Ringrazio infinitamente tutti coloro che hanno letto, recensito e aggiunto questa fiction fra le loro favorite, GRAZIE DI CUORE!!  Mi auguro di tornare presto ad ammorbarvi con qualche altra One Shot! ♥

Per stasera è tutto, buona notte e buona Domenica! ♥

Giò
  
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