Uruha _ Touch
Un leggera brezza fa ondeggiare le finestre bianche alla mia finestra, mentre il dottore esce dalla stanza accostando delicatamente la porta.
Lo fa sempre, quando entra e quando esce, per paura che i rumori troppo forti e improvvisi possano mettermi in agitazione.
Cosa importa se vengo colto di sorpresa, se chiudono la porta con un po’ più di normalità? Che cosa importa?
Se potessi, spalancherei io stesso quella dannata porta e la sbatterei così forte da farla saltare dai cardini.
Ma non posso, non più.
È tutto così umiliante.
A cosa serve stare al mondo in queste condizioni?
Posso sentire, è vero, e vedere, fino a poco tempo fa riuscivo ancora persino ad articolare qualche suono. Ma ormai anche la bocca è andata, riesco solo ad aprirla e chiuderla, se mi sforzo.
E a cosa mi serve la vista, a cosa mi serve l’udito se sono impossibilitato a dare una qualsiasi risposta, se non posso reagire? A cosa serve poter ascoltare la voce rotta dal pianto di mia sorella, a cosa, se non a tormentarmi? Non posso più neanche abbracciarla, non sono neanche più in grado di avvertire il calore del suo corpo, quando si protende per abbracciarmi stretto. Non posso risponderle, non posso dirle che ho fiducia in lei, che so che è abbastanza forte da superare questa cosa anche per me.
Non sono stato abbastanza forte da proteggerla.
Ormai non sento più niente se non il sapore amaro del fallimento.
E la rabbia.
Una rabbia così forte e scottante che mi chiedo come possa essere contenuta in questo fragile corpo.
Eppure le emozioni forti sono l’unica cosa capace di ricordarmi che sono vivo, almeno finché la paralisi non raggiungerà anche il mio cuore, fermando finalmente questo tormento infinito.
Avrei preferito mille volte essere morto, piuttosto che ritrovarmi alle prese con questo surrogato scadente di vita. I miei occhi sono fissi sulla finestra davanti al mio letto. Penso di conoscerne a memoria ogni cazzo di particolare, ormai.
Ora che anche i muscoli della mia faccia stanno iniziando a cedere, irrigidendosi sempre di più. Tra qualche settimana sarò in grado di muovere solo gli occhi.
Sono una coscienza intrappolata in un corpo morto.
Una tomba vivente.
Una bambola rotta.
Imprigionato nel corpo che ora invece giace inerte sulla poltrona che apparteneva al nonno, conto i secondi di vita che mi rimangono. E che scivolano via senza che io possa fare niente per sfruttarli. Se potessi, donerei tutti quei preziosi minuti alla mia bellissima nipotina. Tanto a me questo tempo è inutile.
L’unica cosa che mi rimane da fare in questa vita è aspettare che la morte venga a prendermi, infine.
Di tempo per mettere ordine in me stesso ne ho avuto fin troppo. Ho analizzato la mia intera vita, istante per istante, catalogandola. Ho perdonato i miei sbagli, giustificato quelli altrui.
Potrei morire anche adesso, in pace. Sono pronto.
Anche la morte è preferibile a una vita così.
Non posso più neanche prendere la mia chitarra tra le mani e suonare tutta la mia frustrazione, facendo urlare lei al posto mio. Non sentirò più la durezza delle corde sotto i polpastrelli…e dire che per me lei era quasi un’estensione naturale del mio corpo. Si muoveva con me, mi accompagnava. Adesso il massimo che posso fare è ascoltare vecchie registrazioni di mie composizioni. Senza la musica mi sento ancora più vuoto. E più mi svuoto, più la rabbia e l’amarezza si fanno largo. Non ho idea di come sfogare tutto questo, che si accumula minuto dopo minuto, ora dopo ora, e mi avvelena da dentro.
Perché non ha sfogo, non ha nessuna via d’uscita.
Ma ne sono anche contento, in un certo senso. La rabbia mi ricorda che sono ancora vivo, che respiro e penso e sento, anche se non posso fare molto altro. Mi fa accelerare il cuore, me lo fa battere così forte che a volte fa quasi male.
E allora lascio che mi consumi dall’interno, annidandosi dentro di me come un disgustoso verme, consumando quello che ancora non si è portato via la malattia. Lascio che il dolore mi bruci, per convincermi che ci sia ancora qualcosa da bruciare. Lascio che la frustrazione mi divori lo stomaco, tenendomi sveglio la notte, perché ho paura che se mi addormento potrei sognare di suonare di nuovo, di correre sul palco.
I ricordi dei concerti sono il peggiore dei miei incubi e allo stesso la cosa migliore che io possa sognare.
Ma poi, sono davvero vivo? Anche i fantasmi vagano sulla terra senza requie, tormentati dalla rabbia, legati per l’eternità al luogo in cui sono morti. Con un brivido freddo, immagino di morire e risvegliarmi fantasma, su questa stessa sedia a rotelle, a guardare fuori dalla finestra della mia stanza l’eternità che scorre davanti ai miei occhi. a guardare un mondo di cui io non faccio più parte.
Avrei dovuto mettere fine a tutto prima di arrivare a questo punto, lo so. Avrei dovuto tagliarmi le vene o impiccarmi alle travi della soffitta finchè ero ancora in tempo per farlo. E invece avevo esitato, spaventato dal dolore e dall’ignoto, preferendo affrontare, come il codardo che mi sono rivelato di essere, quest’agonia che sembra non dover finire mai.
Si fosse trattato almeno di agonia fisica, avrei potuto sopportarla o almeno cercare di superarla con l’aiuto di qualche forte antidolorifico. Ma il mio corpo ormai da molto non sente più niente. La mia è un’agonia dell’anima. Come alleviare queste spaventose ondate di rabbia e paura, come attenuare la disperazione che alle volte mi serra la gola così strettamente che quasi non riesco a respirare?
A volte spero di poter vomitare. Almeno avrei la possibilità di morire soffocato ora, invece di dover aspettare che mia sorella vada in bancarotta per continuare a prolungare la mia esistenza pietosa.
Non so come ho fatto a non essere ancora impazzito. O forse lo sono già senza essermene accorto? Ci sono giorni in cui sento la follia premere ai limiti della mia coscienza, quella tentazione terribile di rifiutare tutto, di sparire, anche solo a livello psichico. Vorrei non ricordare chi sono, vorrei non ricordare affatto come le mie dita si rincorrevano lungo il manico della mia chitarra elettrica, o la sensazione del vento addosso, quando prendevo la moto per sfrecciare lungo le strade di Tokyo.
Dimenticare.
Questa sì che sarebbe un’ottima medicina.
Sicuramente meglio delle porcherie che il medico ancora insiste a darmi. Perché sprecarsi a farmi battere il cuore? Voglio solo riposare in pace. Mettere a tacere questi pensieri. mettere a tacere tutto, tutto, tutto. Perché nessuno lo capisce? Perché nessuno capisce quanto io sia dannatamente stanco?
Sento due gocce bollenti correre lungo il profilo delle mie guance. Almeno i condotti lacrimali funzionano ancora. Ben presto, molte altre lacrime vanno seguire le prime due. Ho lo sguardo appannato. Sbatto gli occhi per schiarirmi la vista, ma non serve a niente. Il groppo che mi serra la gola si fa ancora più stretto, il mio respiro affannoso, mentre il mio corpo lotta contro la paralisi, per sfogare i singhiozzi che mi restano intrappolati nel petto. Eppure neanche un rumore esce dalle mie labbra sigillate.
Il mio corpo, nonostante l’intensità dell’emozione che mi travolge, riversandosi a ondate, non si muove di un millimetro. Non trema, non ha spasmi, niente di niente. Mi sono trasformato in una statua piangente.
Lascio che le lacrime sgorghino, sperando di esorcizzare un po’ di quel dolore. Ma so che non sarà così, non è la prima volta che succede. Quel pianto non è che un’ombra di ciò che mi si agita dentro, è un sollievo momentaneo, menomato, che quando termina non mi lascia altro se non un disgustoso senso di liberazione negata. Come se fossi stato sul punto di ottenere qualcosa solo per rendermi poi conto che invece sono sempre rimasto al punto di partenza. E così, quando le lacrime iniziano a calmarsi, l’ansia torna a serrarmi lo stomaco e quel vago senso di nausea mi fa desiderare di avere qualcosa nello stomaco da rimettere.
Quando finalmente la crisi si calma, mi sono stremato. Completamente a pezzi, pur non essendomi mosso di un millimetro.
Gli occhi sono gonfi e bruciano, il mio cuore non ha ancora rallentato la sua corsa, lo sento rimbombare nelle orecchie. Il nodo alla gola si è un po’ allentato, permettendomi di respirare più liberamente.
Con un senso di spossatezza addosso, alzo di nuovo lo sguardo verso la finestra davanti a cui mia sorella mi ha sistemato. Fuori, gli alberi hanno cominciato a perdere le foglie, assumendo colori sempre più aranciati. Un altro giorno sta per volgere al termine, le ombre si allungano e i colori del mondo si fanno di ora in ora più freddi.
Chiudo gli occhi, cercando di tenere a bada l’angoscia che sento agitarsi sotto pelle.
Spero di non svegliarmi, domani, ma sento che non sarò così fortunato.
E allora lancio un ultimo desolato sguardo ai rami quasi spogli degli alberi, con gli occhi che ancora bruciano per le lacrime versate.
Un altro giorno è passato, quante ora interminabili sarò costretto a passare così? quanti altri giorni? Quanti mesi, prima che il mio corpo si arrenda?
Chiudo di nuovo gli occhi.
Non mi resta che aspettare con pazienza che arrivi anche per me l’inverno. E allora, come le foglie secche sugli alberi, anche io potrò staccarmi e volare via, trasportato dal vento.
Angolo Autrice: Beh, che dire…alla fine ho aggiornato di nuovo. Mi dispiace di avervi fatte aspettare, ma per questa raccolta di solito per scrivere devo aspettare un’ispirazione decente (senza contare che la maturità mi svuota di tutte le energie /piange). E così, questa è la penultima shot…il tatto. Come vedete, mi sono dovuta un po’ giostrare. Spero vivamente che vi sia piaciuta, perché scriverla mi ha lasciato addosso un sottile senso di angoscia…fatemi sapere.
Spero di riuscire a scrivere presto la shot conclusiva (e magari anche di finire la parte Reituki che mi tiene bloccata su Captivity da MESI), quella di Kai.
A presto e un bacio,
Fra.