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Autore: crazy lion    07/05/2016    10 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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In questo capitolo si cambia focus sul personaggio. Mi sono concentrata su Andrew e su com'è la sua vita da un anno a questa parte. Non ho parlato moltissimo di lui fino ad ora, ma vi anticipo che la sua allegria è solo una facciata, che lo aiuta a nascondere a tutti la dura realtà che deve affrontare ogni giorno.
Ci sarà anche un nuovo personaggio che comparirà pochissimo, ma che aiuterà a capire non solo ciò che Andrew sta affrontando, ma anche quello che era successo prima che lui si trovasse in quella situazione.
Nel corso della storia, anche molto più avanti, ci saranno delle altre new entry, ma ne parlerò in seguito.
Per la fine di maggio vorrei pubblicare fino al capitolo 16, per riprendere poi a settembre, dopo la sessione d'esami e il viaggio studio in Spagna che farò ad agosto. Quindi oggi pubblicherò altri tre capitoli e poi, come al solito, fino alla fine di maggio ne metterò uno a
settimana.
Buona lettura.
 
 
 
CAPITOLO 10.

IL SEGRETO DI ANDREW

Andrew chiamò Demi in tarda mattinata.
"Non posso venire a pranzo con te" le disse.
La ragazza sentì che aveva una voce strana. Non era da lui usare quel tono triste. Sembrava giù di morale, se non addirittura a terra. La sua voce era incrinata, come se stesse piangendo.
"Stai bene?" gli domandò, preoccupata.
"Sì, tranquilla, è solo che… devo fare una cosa per il lavoro e purtroppo non posso rimandare a domani. Mi dispiace."
Sospirò, sperando con tutto se stesso che Demi non avesse notato che, ad un certo punto, si era bloccato, non sapendo che scusa inventare. Si trattava proprio di quello: una scusa. Il lavoro non c'entrava niente.
"Sei sicuro che sia tutto a posto?" insistette la ragazza.
"Sì, è che ho appena ricevuto una lettera da mia sorella, dal Madagascar e mi sono emozionato."
Fantastico, ora le stava mentendo ancor di più, pensò dandosi dell'idiota.
"Davvero? Cosa ti ha scritto? Quando torna?"
"Non torna."
"Come no? Credevo che sarebbe tornata per Natale!"
Demi non vedeva Carlie da tantissimo tempo. Lei era partita nel 2015, poco dopo l'uscita di "Confident" e quando era tornata, a dicembre di quello stesso anno, Demi aveva appena iniziato il percorso adottivo e aveva avuto altro a cui pensare. Sapeva che era partita poco dopo le vacanze di Natale. Questo era quanto Andrew le aveva detto a suo tempo.
"Nel villaggio dove lavora c'è un'epidemia di malaria e non può. Ha scritto che non verrà a casa per molto tempo."
"Mi dispiace! Allora è per questo che stai così?"
"Sì. Mi manca da morire. Non so più se potrò parlarle" disse e si rese conto di aver detto troppo.
"Cosa dici? Certo che potrai! Carlie non starà via per sempre, Andrew! Posso solo immaginare quanto ti manchi, ma non devi buttarti giù in questo modo. Non farlo, ti prego."
Se sapessi quello che sto passando staresti malissimo anche tu, Demi, pensò Andrew.
"Hai ragione. La nostalgia è davvero una brutta bestia, a volte."
"Già. Sei libero stasera? Forse stare un po' in compagnia ti tirerebbe su il morale."
"No, lavorerò fino a tardi purtroppo. Ci potremmo vedere domani, se ti va."
"Va bene!"
Andrew tirò un sospiro di sollievo e la salutò, promettendole che sarebbe venuto a prenderla.
Uscì di casa e, dopo aver camminato per circa due chilometri, si fermò su una strada. Per chiunque quella sarebbe stata una normale via trafficata di Los Angeles, senza un significato particolare, ma per lui l'aveva eccome. Andava lì ogni giorno e sentiva sempre un gran vuoto nel petto e poi un forte dolore riempirgli l'anima. Nessuno sapeva. I suoi genitori non c'erano più e lui era solo… beh, quasi. A parte Carlie non aveva nessun altro al mondo e sapeva che prima o poi avrebbe perso anche lei. Era praticamente inevitabile. Non parlava mai del suo passato con nessuno, perché farlo non gli piaceva. Non ne sapeva niente nemmeno Demi e, in fondo, era meglio così. Lei adesso era troppo felice e lui non aveva il diritto di raccontarle quella disgrazia e di riempirle la testa di discorsi cupi.
Ritornò a casa, salì in macchina ed arrivò ad un ospedale vicino.
Iniziò a camminare per un lungo corridoio, prese l'ascensore per arrivare al reparto di terapia intensiva e vide che, dato che era orario di visita, c'era la possibilità di entrare. Un'infermiera lo fermò.
"Ciao, Andrew!" esclamò.
Ormai lo conosceva bene.
"Ciao, Kelly. Come sta Carlie?"
"Come sempre" disse la ragazza con un sospiro, tirandosi una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio.
"Lo immaginavo. Posso vederla?"
"Certo, vai pure."
Andrew conosceva a memoria la strada. Dopo aver fatto una ventina di metri entrò in una stanza. Le finestre erano chiuse e le serrande alzate, per far entrare la luce del sole mattutino. Guardò la sorella e si sedette vicino a lei. Era sempre bella, anche se i capelli ormai erano rovinati.
"Ciao, Carlie" disse piano. "Hai visto? Sono venuto a trovarti anche oggi!"
La accarezzò, ascoltando il suono del monitor che misurava i battiti cardiaci. La ragazza sembrava serena. Andrew sperava che potesse sentirlo, anche nello stato in cui si trovava, ma più il tempo passava più iniziava a dubitarne fortemente e anche i medici non gli avevano dato molte speranze a riguardo. Era stanco di vederla così. Ogni volta che la guardava, sdraiata immobile su quel letto, in coma da poco più di un anno, con un sondino che le alimentava, il cuore gli si stringeva e gli saliva in corpo una rabbia furiosa. In quel momento pensò che avrebbe potuto tirare via il sondino e lasciarla morire in pace. Nessuno se ne sarebbe accorto, almeno all'inizio, ma così l'avrebbe uccisa o, comunque, anche se i medici se ne fossero accorti in tempo, l'avrebbe sottoposta a gravi sofferenze. Era convinto che lei avrebbe potuto sentire, in qualche modo, che nel suo corpo qualcosa era cambiato e che sarebbe stata malissimo. Tuttavia non ne era sicuro, non ne aveva mai parlato con i medici e per decidere di fare una cosa del genere avrebbe dovuto domandare a loro e poi non sapeva cosa sarebbe accaduto. In ogni caso, se avesse staccato quel sondino da solo sarebbe andato incontro, giustamente, a conseguenze gravissime. Lui non voleva perderla, quindi non avrebbe né trasformato in azione quel terribile, schifoso pensiero che aveva appena avuto, né chiesto l'intervento dei medici perché lo facessero. Preferiva vederla lì piuttosto che in una tomba. Quel giorno non era andato da Demi perché, per problemi lavorativi, la sera prima non era riuscito ad andare a trovare Carlie. Quando lei era finita in coma, le aveva promesso che sarebbe andato a trovarla tutti i giorni. Gli dispiaceva tantissimo aver mentito a Demi. Lei era una bravissima persona e non se lo meritava, ma Andrew non voleva dirle la verità. Avrebbe odiato sentirsi dire che le dispiaceva o che lo guardasse con compassione. Nemmeno i suoi colleghi di lavoro erano a conoscenza della sua situazione. Lui non voleva né essere compatito, né aiutato, anche perché a quello stato di cose non c'era rimedio. Tutto dipendeva da Carlie: solo lei avrebbe potuto svegliarsi dal coma, ma erano trascorsi molti mesi e i medici dicevano che più il tempo passava, più le possibilità che lei si svegliasse e tornasse ad una vita normale si riducevano.
"Carlie, tesoro, non sai quanto mi manchi! So che a te non piace essere chiamata così, ma non importa, io lo faccio lo stesso. La verità è che sento un vuoto incredibile dentro di me notte e giorno e niente e nessuno riesce a colmarlo. Anche se ne parlassi, sono sicuro che sarebbe la stessa cosa. Stringi la mia mano, solo un po'."
Gliela prese nella sua e la accarezzò piano. La ragazza non si mosse.
"Non ci riesci, vero? Perché? Come posso aiutarti per farti sentire meglio?"
Andrew le aveva già fatto ascoltare innumerevoli volte la musica classica, la sua preferita e le aveva letto i libri che le piacevano di più, ma nulla era cambiato. Una volta solo gli aveva stretto la mano, alcuni mesi prima e lui aveva sperato che presto si sarebbe svegliata, ma era stata solo un'illusione.
Per le due ore successive Andrew le raccontò com'era andata la sua giornata e quello che era successo a Demi.
"Mi ha detto che il bambino è dolce e simpatico. Io non vedo l'ora di vederlo e spero che prima o poi potrai farlo anche tu."
A un tratto qualcuno bussò alla porta.
"Avanti" disse Andrew, alzando un po' la voce per farsi sentire.
Entrò una ragazza bionda, magra e alta. Era Alice, una grande amica di Carlie. Si erano conosciute in Madagascar.
"Ciao, Alice" la salutò Andrew, alzandosi e andandole incontro per stringerle la mano.
"Ciao. Come sta?" chiese la ragazza, con voce dolce.
"Come l'ultima volta che l'hai vista. Quando sei tornata?"
"Vengo adesso dall'aeroporto e la prima cosa che ho voluto fare è stata venire qui" disse, cercando di sorridere.
Andrew la ringraziò: era stanca dopo il lungo viaggio, lo si vedeva, eppure era venuta lì, dalla sua amica.
"Tu come stai, Andrew?"
"Non bene, a dir la verità. Vado avanti per lei, ecco tutto."
"Dovresti farlo anche per te stesso" constatò Alice.
"Finché lei è in questo stato? No, non ci riuscirei mai. Come vanno le cose alla missione?"
"C'è stata un'epidemia di colera, ma i medici sono riusciti a debellarla. Io e gli altri volontari, che non abbiamo studiato medicina, non potevamo fare molto. Più che altro ci occupavamo dei bambini più piccoli, che magari avevano solo febbre, o curavamo i feriti se ce n'erano. Io ho anche aiutato una donna a partorire. Quando è arrivata al villaggio dove noi lavoriamo, le sue contrazioni erano fortissime e il marito la portava in braccio perché lei non ce la faceva più a camminare. Ha avuto un bel maschietto!"
"Tu, Carlie e gli altri volontari siete stati molto coraggiosi a partire per quella missione. Insomma, tu e lei avevate solo ventitré anni eppure avete mollato tutto per iniziare quel nuovo viaggio, se così lo si può chiamare."
"Volevamo fare qualcosa per gli altri."
"Lo so, ma io non credo che avrei avuto il vostro stesso coraggio."
Andrew era stato reticente all'inizio, quando Carlie gli aveva spiegato di voler partire per quella missione con un gruppo di medici e volontari. Aveva temuto che sarebbe stata in pericolo. Per questo aveva contattato l'associazione alla quale sua sorella si sarebbe voluta iscrivere. Aveva avuto una lunga conversazione con il suo fondatore per farsi spiegare come veniva gestita quella missione: un gruppo di medici volontari e di persone non laureate in medicina aveva l'opportunità di partire per il Madagascar e di lavorare in un villaggio nel Sud-Est del Paese, del quale, ora, Andrew non ricordava il nome. Se ci fosse stato bisogno di loro, però, si sarebbero spostati in altre aree. I medici curavano i feriti, mentre i volontari facevano giocare i bambini, insegnavano loro l'inglese, aiutavano le donne a fare i lavori domestici o a lavorare nei campi e, se ce n'era bisogno, davano una mano ai dottori a far partorire le donne, o anche solo a curare i malati di influenza, o a mettere dei punti, o a fare bendaggi. Carlie era stata entusiasta di quel progetto e Andrew, alla fine, l'aveva lasciata partire.
Dopo tre mesi nei quali non si erano sentiti, Carlie era tornata a casa per Natale. Era felice di lavorare in Madagascar, aveva raccontato ad Andrew di aver dato una mano a molte persone. Poco prima del suo rientro negli Stati Uniti il villaggio aveva preso fuoco, ma per fortuna l'incendio era stato domato. Non c'erano state vittime e nessun ferito, solo qualche casa danneggiata. Carlie aveva avuto paura, ma alla fine tutto si era risolto. Aveva intenzione di ripartire, ma non era più riuscita a
farlo.
"Non nego che là la situazione sia complicata" disse Alice. "Ogni giorno la gente combatte una vera e propria battaglia per la sopravvivenza, lottando contro la fame o le malattie. Queste sono cose che non può capire chi non le prova sulla propria pelle, chi non le vive ogni giorno. Sì, è dura, ma quando una persona guarisce e tu sai che è stato anche per merito tuo - oltreché di Dio o di qualsiasi cosa in cui credi -, capisci che nonostante le difficoltà, ne vale la pena. Inoltre, anche grazie agli aiuti di alcuni sostenitori di bambini a distanza, siamo riusciti a completare la costruzione di una scuola per i bambini. Prima era solo un edificio provvisorio, ora invece è una bella e solida costruzione di mattoni e legno. Non è molto grande, sono solo diciotto metri circa, ma gli scolari sono novanta ed è importante che studino per costruirsi un futuro migliore. I genitori sono entusiasti. Riceviamo molti aiuti dai sostenitori dei bambini e le famiglie pagano la loro istruzione per quel poco che possono. Tutti hanno voglia di fare e poi i Malgasci sono, in generale, un popolo aperto e gentile."
Ad Alice si illuminò il volto mentre diceva quelle cose.
"Ripartirai?" le domandò Andrew.
"Sì, tra un paio di settimane e verrò ogni giorno da Carlie. Lo faccio anche per lei, sai. Quando ho saputo quello che era successo, come sai sono tornata il più presto possibile, ma la lettera che mi hai mandato mi è giunta in ritardo perché là le comunicazioni sono difficili. Tornata qui, parlando con la mia famiglia ho ammesso che stavo pensando di mollare tutto, ma poi ho capito che Carlie non lo vorrebbe e così ho deciso di continuare non solo per me, ma anche per lei, di portare avanti ciò che abbiamo iniziato insieme. Se un giorno - e sono sicura che sarà così -, lei si sveglierà e vorrà tornare alla missione, io e tutti gli altri saremo lì ad aspettarla e la accoglieremo a braccia aperte. A proposito, tutti, medici e volontari, mi hanno detto di portare a Carlie un saluto e un bacio, così come alcuni pazienti che lei aveva curato e salvato."
"Sei molto cara Alice, grazie! Io spero davvero che lei si riprenderà, ma a volte la mia speranza si affievolisce."
La ragazza sospirò e non disse niente. Anche lei soffriva molto, ma di certo non poteva comprendere il dolore che Andrew provava. Non riusciva neanche ad immaginarlo.
"Vi lascio un po' da sole. Immagino che avrai molte cose da raccontarle."
"Sì, infatti!" esclamò lei, sempre allegra.
Quando Andrew uscì dall'ospedale pensò ad Alice. Quasi non la conosceva, ma Carlie gliene aveva parlato benissimo una volta tornata dal Madagascar. Erano diventate grandi amiche in poco tempo e Carlie la descriveva come una persona speciale e meravigliosa, dolce, disponibile e gentile. Era una di quelle persone che avevano deciso, seppur in giovane età, di dedicare la propria vita agli altri. Andrew la invidiava: lei era sempre solare e allegra nonostante il luogo nel quale lavorava e il pensiero di Carlie! Come faceva ad essere sempre così? Lui non lo capiva, ma non sapeva cos'avrebbe dato per avere la metà della positività e dell'ottimismo di quella ragazza. Alice era riuscita ad andare avanti nonostante tutto, mentre lui no, era rimasto incatenato al passato. Solo Alice e il gruppo di volontari con i quali Carlie aveva lavorato sapevano della sua situazione, ma Andrew non aveva contatti con loro, se non qualcuno, sporadico, con Alice, per cui non c'era nessuno con il quale si potesse sfogare. Certo, c'erano il Signore e la Madonna e spesso lui andava in chiesa a pregare per la sorella, perché la aiutassero. La preghiera dava una gran mano anche a lui. Non diminuiva la sua sofferenza, ma lo consolava. A volte avrebbe voluto qualcun altro con il quale sfogarsi e parlare, ma se si fosse aperto poi quella persona avrebbe sicuramente cominciato a compatirlo, innescando un circolo vizioso nel quale lui non voleva finire. Era meglio tenersi dentro il suo gran dolore, quel peso enorme, che a volte rischiava di farlo scoppiare. L'avrebbe nascosto per quanto possibile. Se un giorno sarebbe crollato, avrebbe deciso cosa fare, ma aveva intenzione di impedire che ciò accadesse.
A volte, dopo essere stato da sua sorella, Andrew aveva voglia di ubriacarsi. Non era una persona che beveva molto. Lo faceva solo qualche rara volta a pranzo o in occasioni speciali come a Natale, il giorno del suo compleanno o a Pasqua, ma in certi giorni, nei quali vedere sua sorella in quello stato e sentirsi così impotente lo faceva stare ancora più male del solito, non riusciva a reggere tutta quella sofferenza e quindi la annegava nell'alcol. Sapeva che era sbagliato, che non era il massimo per la salute, che non avrebbe dovuto farlo, ma era più forte di lui. Oltre a quelle rare volte nelle quali si ubriacava, però, non fumava e non prendeva droghe. Non l'avrebbe mai fatto. Tornato a casa, nonostante fossero solo le 14:00, la prima cosa che fece fu correre in cucina e aprire il frigo. C'era un po' di vino rosso frizzante in una bottiglia. Lo versò in un bicchiere e lo bevve tutto d'un fiato, ma questo non gli bastò. Andò in salotto e aprì una dispensa. Era piena di liquori. Fece un miscuglio di quelle bevande alcoliche e, quando il bicchiere fu pieno, lo bevve e poi lo riempì ancora e ancora quasi senza fermarsi, finché l'alcol gli diede così tanto alla testa che dovette sedersi per evitare di cadere a terra. Iniziò a cantare a squarciagola una canzone della quale nessuno avrebbe potuto capire le parole ascoltandolo. Non le comprendeva nemmeno lui. Andrew non sapeva cantare e ne era cosciente. Chi lo conosceva gli diceva, per prenderlo in giro, che era stonato come una campana e che anche gli animali si spaventavano quando lo sentivano cantare. Da bambino queste prese in giro da parte dei suoi compagni di scuola l'avevano fatto soffrire molto, ma ora, da adulto, ci rideva sopra con gli amici. Solo Demi non gli diceva niente a riguardo. Anzi, lei sosteneva che, se Andrew avesse cominciato a cantare in un coro e quindi avesse avuto la possibilità di ascoltare gli altri, sarebbe diventato molto bravo.
"Potresti iniziare cantando piano" gli aveva detto una volta "e poi, man mano che migliori, aumentare la potenza della tua voce. In questo modo, un giorno, potresti riuscire a fare il solista nel coro nel quale canteresti."
Lei si intendeva di queste cose, ma fino a quel momento Andrew non si era mai sentito pronto a farlo. Si vergognava troppo della sua voce, che considerava orribile. Demi diceva che, quando parlava, aveva una voce bellissima e anche lui lo pensava. Il problema era il canto. Dopo essersi ubriacato, però, Andrew cantava senza preoccuparsi di quanto fosse stonato o di quello che avrebbero potuto pensare coloro che, forse, lo avrebbero sentito. I vicini per fortuna non si erano mai lamentati.
Cercò di alzarsi per andare in camera da letto, ma cadde a terra. Riuscì ad andare carponi fino al bagno e vomitò, poi tornò in salotto sempre camminando a quattro zampe. Guardò i gatti che dormivano nella cuccia accanto al divano, ma non li accarezzò. Iniziò a ridere sguaiatamente e senza un motivo, non riuscendo a fermarsi e provando ad alzarsi in piedi. Quando ci riuscì si mise a saltare per la stanza, sbatté contro un muro e, poco dopo, cadde di nuovo sul pavimento
freddo.
A fatica riuscì a salire le scale e ad arrivare nella sua stanza. Gli girava la testa e gli sembrava che fosse una trottola impazzita che non si fermava mai. Si sdraiò sopra le coperte. Come tutte le altre volte nelle quali lo aveva fatto, il giorno dopo si sarebbe pentito di quella cazzata. Sarebbe stato malissimo, ma per ora non ci pensava e non gli importava. Non aveva sopportato di vedere la sorella in tali condizioni, quel giorno non ce l'aveva fatta e si era lasciato andare. Era ingiusto che le fosse capitato tutto questo. Perché proprio a lei? Perché non a lui? Perché la vita doveva essere così ingiusta e schifosa? Fu con queste domande, che si poneva spesso e alle quali non riusciva mai a darsi una risposta, che si addormentò ancora vestito.
   
 
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