Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    07/05/2016    4 recensioni
Il messaggio di Moriarty ha sortito l’effetto desiderato: trattenere Sherlock a Londra. Ma il consulente investigativo sa bene che Moriarty non può essere l’autore di quel messaggio dato che si è ucciso sul tetto del Bart’s tre anni prima. Eppure qualcuno aveva degli interessi nel trarlo fuori da quella missione suicida. Ma chi?
Le indagini riprenderanno e Sherlock si ritroverà a dover affrontare un nuovo nemico, forse ancora più pericoloso di Moriarty che non solo sembra conoscerlo così bene da sapere esattamente dove andare a colpire, ma che è pronto a tutto per ottenere quello che vuole. E Sherlock, ancora una volta, dovrà fare i conti con i suoi demoni e con il suo cuore, sperando di riuscire ad avere la meglio.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For darkness shows the stars
 

II
The tempest

 
 
 
 Sherlock aprì gli occhi lentamente.
 Una luce bianca e potente lo abbagliò, costringendolo a sbattere più volte le palpebre per mettere a fuoco ciò che lo circondava. Non ricordava di essersi addormentato e quella non sembrava nemmeno la sua stanza… Dopo un momento di disorientamento, intuì che dovesse trattarsi di un ospedale, anche se non ricordava esattamente come ci fosse arrivato. Inspirò profondamente e inclinò il capo in cerca di qualcuno che potesse dargli spiegazioni. Incontrò un paio di occhi blu molto famigliari.
 «John?» mormorò con voce impastata, felice di saperlo al suo fianco.
 «Sì.» confermò il medico, in tono duro.
 E non appena ebbe udito quel tono, intuì ciò che sarebbe successo in seguito.
 «Cosa diavolo ti avevo detto riguardo allo stare a riposo?» ringhiò, infatti, il dottore. «Perché non puoi mai fare come ti viene detto?»
 Sherlock si schiarì la voce, per renderla più chiara. «Smettila, sto bene.»
 «Bene?» chiese Watson, gli occhi che luccicavano per la rabbia. «Sei in un letto d’ospedale, razza di idiota! E tutto perché vuoi sempre fare di testa tua!» ringhiò, frustrato. «Dimmi una cosa, Sherlock: ti importa della tua salute o le tue manie suicide prendono il sopravvento ogni volta in cui sei solo?»
 Sherlock si stupì e abbassò lo sguardo, amareggiato e ferito di fronte alla violenza con cui quelle parole l’avevano colpito. Non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere da John.
 «John, calmati.» si intromise Mary – che fino a quel momento era rimasta seduta sulla seggiola accanto alla porta – in tono di rimprovero, mettendosi in piedi. «Non c’è bisogno di fare così. Nessuno poteva sapere che si sarebbe sentito male ancora.»
 «Se non andasse a cercarsele, certe cose non accadrebbero.» replicò John, tenendo lo sguardo fisso sul volto di Sherlock. «Prima l’overdose e adesso questo. Prima o poi non troverai più nessuno al tuo capezzale e te lo meriteresti.»
 Mary lo prese per un braccio, per attirare la sua attenzione. «Capisco che tu sia arrabbiato, ma non giustifica questo comportamento. Smettila di trattarlo così.» aggiunse, dura. Poi si volse nuovamente verso Sherlock, accarezzandogli il capo. Gli sorrise amichevolmente, ignorando lo sguardo di disapprovazione del marito. «Come ti senti, Sherlock?»
 «Sto bene.» ripeté lui, accennando un sorriso. «Cos’è successo?»
 «Questa mattina sei svenuto di nuovo. Eri al Diogene’s Club e Mycroft e Lestrade e dato che avevi difficoltà a respirare e una leggera tachicardia, hanno chiamato un’ambulanza.» spiegò la donna. «Questa volta la pressione era troppo alta e ha causato tachicardia e vertigini. I medici hanno effettuato degli esami e hanno capito che soffri di sbalzi di pressione e anemia. Per questo ti senti debole e nell’ultimo periodo spesso hai avuto le vertigini e la nausea.»
 Sherlock sospirò e volse il capo verso il soffitto, riflettendo sulle informazioni appena acquisite. «Quando posso andarmene?» chiese. Non voleva che la diagnosi lo rallentasse. Non poteva permettere che lo rallentasse. Aveva bisogno di agire in fretta e tutto ciò che l’avrebbe limitato, avrebbe dovuto essere evitato.
 «Appena saranno certi che i tuoi valori siano tornati nella norma.» rispose Mary. Poi si volse verso il marito e gli rivolse uno sguardo eloquente, per fargli capire che avrebbe dovuto parlare con l’amico. «Ho bisogno di un tè caldo.» annunciò. «Voi volete qualcosa?»
 I due scossero il capo, gli sguardi rivolti verso il basso.
 «Ok. A dopo.» concluse e poi uscì, lasciandoli soli.
 
 John, non appena la moglie ebbe lasciato la stanza, tornò a osservare Sherlock, che aveva lo sguardo puntato verso la finestra. In fondo Mary aveva ragione, aveva esagerato a trattare Sherlock in quel modo, anche se sapeva di avere perfettamente ragione. Sospirò.
 «Ehi…» disse, poggiando la mano sopra la sua per richiamare la sua attenzione. «Mi dispiace per prima. Ho esagerato, scusami. È che…» si schiarì la voce, abbassando lo sguardo. «Sono preoccupato per te.»
 «Dovete smetterla di preoccuparvi.» replicò Sherlock, senza incrociare il suo sguardo. «Non gioverà a nessuno di noi, in questo momento. So badare a me stesso.»
 «Non potrò mai smettere di preoccuparmi per te, lo sai… Tengo a te.» fece notare il dottore, non riuscendo a nascondere il leggero rossore alle guance che quell’ammissione gli aveva provocato. «Vorrei solo che ti comportassi in maniera più responsabile. Lo dico per te. Per la tua salute.»
 Holmes si voltò verso di lui. «Sto bene.» assicurò.
 «Smettila di dire che stai bene.» replicò il dottore. «Dovrai cambiare stile di vita da adesso in poi. Queste non sono cose da prendere alla leggera. Dovrai cominciare ad alimentarti e dormire regolarmente e prendere le cose con più calma. Se dovessi sentirti debole dovrai sederti e riposare e non rincorre qualche criminale per le vie di Londra o potresti avere delle complicazioni molto più gravi di uno svenimento.»
 Sherlock sospirò. Ci mancavano solo la pressione e l’anemia a rallentarlo con il suo lavoro, come se Lestrade e Scotland Yard non fossero abbastanza. Sbuffò sonoramente. «Non posso permettermi pause, in questo momento.» fece notare. «Dobbiamo fermare chiunque ci sia dietro la storia di Moriarty prima che sia troppo tardi.»
 «E lo faremo.» assicurò John, sedendosi accanto a lui sul materasso per poterlo guardare negli occhi, senza nemmeno essersi accorto di avere ancora la mano chiusa intorno alla sua. «Ma con calma, prendendoci tutto il tempo necessario.»
 «È questo il problema. Non abbiamo tempo.» replicò il consulente investigativo. «Chiunque abbia ideato e messo in onda quel messaggio verrà a cercarmi. È solo questione di tempo. E io non posso farmi cogliere impreparato o mostrarmi debole o lui riuscirà a sfruttarlo a suo favore.»
 John sospirò. «Tornerai a fare il tuo lavoro. Nessuno vuole impedirti di farlo. Ti sto solo chiedendo di promettimi che prenderai tutto con più calma.» disse John, con sguardo implorante. Vedendo che l’uomo stava per ribattere, strinse maggiormente la sua mano, notando il leggero rossore che era salito alle guance di Sherlock quando le loro mani erano entrate in contatto. «Ho bisogno che tu me lo prometta. Per favore, Sherlock. Ti prego.»
 I loro sguardi si incontrarono e per un momento i due rimasero immobili e in silenzio ad osservarsi, gli occhi immersi gli uni negli altri, blu nei blu.
 Nessuno dei due parlò. Nessuno dei due ne aveva bisogno. Una battaglia silenziosa era in corso tra i due. Entrambi capivano le ragione dell’altro, ma allo stesso tempo erano fermi sulle proprie posizioni, troppo testardi per cambiare idea.
 Promettimelo, ti prego.
 Non posso.
 Ma alla fine Mary rientrò, interrompendo il loro contatto visivo e tutto finì.
 «Ehi, tutto bene?» chiese lei, richiudendosi la porta alle spalle e osservandoli.
 John si voltò e annuì. «Sì. Tutto ok.» rispose in tono piatto. «Direi che possiamo tornare a casa ora che è sveglio. Devi riposare, Mary.» concluse, avvicinandosi alla donna.
 Mary annuì e poggiò una bottiglietta d’acqua sul comodino. «Bevi, Sherlock.» disse con un sorriso e facendogli l’occhiolino. «E riposati. Devi rimetterti in forze per acchiappare Moriarty e salvare Londra.»
 Una leggera risata sfuggì dalle labbra di Sherlock. Poi annuì.
 A quel punto John e Mary lo salutarono e si avviarono verso la porta, ma prima che potessero uscire, la voce di Sherlock fece nuovamente voltare il medico verso di lui.
 «John?» Sherlock lo stava osservando, gli occhi stanchi, una leggera traccia di amarezza a perturbarne l’azzurro. «Te lo prometto.» concluse con un dolce sorriso sulle labbra.
 John accennò un sorriso e annuì, poi uscì dalla stanza, chiudendo la porta.
 
 Quando Sherlock fece ritorno a casa, la settimana seguente, trovò Mary e Mycroft ad aspettarlo nel salotto di Baker Street, sommersi da documenti e cartelline con tutti i dati che l’MI6 aveva raccolto dopo la comparsa del video.
 John si era offerto di andare a prenderlo e dopo aver firmato i documenti per l’uscita, insieme erano saliti su un taxi, il consulente investigativo decisamente felice di tornare a casa e al lavoro e il medico sollevato di fronte al fatto che l’amico si fosse riposato per alcuni giorni, senza casi o altro a disturbarlo o metterlo sotto stress.
 Quando i due raggiunsero il 221B, si misero immediatamente al lavoro insieme al maggiore degli Holmes e Mary e cominciarono ad esaminare i documenti raccolti sul video lanciato la settimana precedente, analizzando il filmato, la traccia audio e tutti i dati che erano stati estratti dai tecnici del governo.
 Ovviamente, proprio come gli investigatori dell’MI6, non riuscirono a fare progressi. Le prove e gli indizi erano pochi e troppo vaghi per poter essere d’aiuto, perciò dopo un’ora, Mycroft si mise in piedi e annunciò che sarebbe tornato a casa per riposare un po’.
 «Sei molto d’aiuto.» commentò Sherlock senza staccare gli occhi dai documenti.
 Mycroft sospirò, indossando la giacca. «Io, al contrario di te, ho bisogno di dormire, fratellino.» replicò, piccato. «E forse dovresti cominciare a farlo anche tu. Ricorda cos’hanno detto i dottori riguardo-»
 «Come va la dieta?» lo interruppe Sherlock, sollevando lo sguardo sul suo volto.
 Il politico sbuffò. «Fai come ti pare.» e, detto questo, uscì, rivolgendo un cenno di saluto ai coniugi Watson.
 John e Mary lo salutarono, osservandolo andarsene e Sherlock gli concesse un grugnito disinteressato, riportando lo sguardo sui fogli sparsi sul tavolino da caffè. Da quando quel video era comparso sopportava ancora meno la presenza di Mycroft, che si era fatto sempre più assillante e apprensivo. Sopportarlo anche solo per qualche ora era diventato estenuante e quasi impossibile, perciò meno fosse rimasto nei paraggi, meglio sarebbe stato.
 Sherlock, ormai con la testa da un’altra parte, troppo stanco per continuare con l’analisi di quei documenti, si mise in piedi per attizzare il fuoco nel camino. «Il grado di incompetenza degli uomini di Mycroft è direttamente proporzionale a quello degli agenti di Scotland Yard.» affermò. «È incredibile, riesce a sorprendermi ogni volta di più. Sono dei completi idioti.»
 John scosse il capo, sconsolato. «Fanno il possibile, Sherlock.» fece notare «E anche tuo fratello sta provando ad aiutarti, ma tu ovviamente non gliene dai la possibilità. Perché non provi a essere gentile e dargli retta, ogni tanto? Lui lo apprezzerebbe. Non vedi che è preoccupato per te?»
 «Non posso ascoltarlo, John. Lo incoraggerei soltanto.» concluse. «E il fatto che mio fratello sia apprensivo oltre ogni dire, non ha nulla a che fare con il fatto che i suoi uomini siano degli incompetenti.»
 Mary si alzò dalla poltrona e passò alcuni pezzi di legno a Sherlock. «Non tutti possono disporre di un intelletto come il tuo.» fece notare. «Il che li rallenta molto.»
 Sherlock sorrise. «Qualcuno che mi capisce, finalmente.» disse e le fece l’occhiolino.
 «Smettila di dargli corda, Mary.» disse John, in tono duro, ritirando i documenti nelle rispettive cartelline, senza sollevare lo sguardo. «È già abbastanza egocentrico e megalomane senza che tu alimenti il suo amor proprio.»
 «Sai bene che avere un po’ di fiducia in se stesso gli servirà, John.» fece notare Mary, rivolgendogli un’occhiata torva, stupita di fronte al suo strano tono. «Dovrà affrontare Moriarty o chiunque si stia spacciando per lui e non è cosa da poco.»
 Sherlock si rimise in piedi. «Non vinceranno nemmeno stavolta. Non sono così intelligenti.»
 Improvvisamente si sentì un leggero sbuffo e il rumore lieve di vetro infranto; tutto sembrò fermarsi e cadere nel più completo silenzio. Inizialmente nessuno capì di cosa si fosse trattato, poi Sherlock gemette e si portò una mano alla spalla, barcollando sulle gambe.
 «Sherlock?» chiese John, aggrottando le sopracciglia e sollevando lo sguardo su di lui. «È tutto ok?»
 Il consulente investigativo scostò la mano e vide che era macchiata di sangue. Gemette.
 «Sherlock, che succede?» chiese Mary, avvicinandosi e non appena notò il sangue sulla sua mano, i suoi occhi si spalancarono.
 L’uomo impallidì e incrociò il suo sguardo per una frazione di secondo. Poi, con un movimento fulmineo si parò di fronte a lei.
 Si udì un altro sbuffo e sia Sherlock che Mary caddero a terra, uno accanto all’altra, di fronte al camino.
 E poi i colpi partirono a raffica.
 John si sdraiò a terra riparandosi il capo dai vetri e dalle schegge dei soprammobili della casa, che vennero mandati in frantumi dalla raffica di proiettili. Il frastuono dei colpi rimbombò nel silenzio della casa mentre soprammobili e oggetti cadevano a terra, infrangendosi sul pavimento.
 Quando la quiete tornò sulla casa e John si fu assicurato che la sparatoria fosse finita, si mise in piedi e corse verso la moglie e l’amico, ancora sdraiati a terra sulla schiena, immobili e privi di sensi.
 «Mary!» esclamò, prendendole il volto fra le mani. Quando abbassò lo sguardo sul suo corpo, raggelò. Un’enorme macchia di sangue si stava allargando sul suo petto, all’altezza del fianco. «Oh, mio…» gli sfuggì. Poi si voltò verso Sherlock, vedendo che anche lui era stato colpito al fianco e alla spalla e che stava sanguinando copiosamente, facendosi sempre più pallido. «Sherlock…» ansimò. Senza attendere oltre prese il cellulare dalla tasca e compose il numero.
 «999. Qual è l’emergenza?»
 
 John era nella sala d’aspetto del pronto soccorso, le mani e gli abiti coperti di sangue, il volto pallido come un cencio, incapace di rimanere fermo. Camminava avanti e indietro da più di un’ora, da quando aveva raggiunto il pronto soccorso con Mary e Sherlock. I medici li avevano trasportati immediatamente in sala operatoria, chiedendogli di attendere lì e l’uomo, non sapendo cosa fare, aveva inviato un messaggio a Greg, sperando che potesse raggiungerlo. Non si era mai sentito più confuso in tutta la sua vita e in quel momento aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lui e che rimasse al suo fianco e l’unico a poterlo fare era Greg.
 Non sapeva cosa fosse successo a Baker Street, ma chiunque avesse sparato l’aveva fatto con l’intento di uccidere. Sapeva che loro erano in casa e che sarebbero riusciti nel loro intento. Ma chi di loro era il bersaglio? Lui? Mary? Sherlock?
 «John!»
 La voce di Greg lo fece voltare verso l’ingresso del pronto soccorso, interrompendo il corso dei suoi pensieri. Il medico sospirò di sollievo, vedendo l’Ispettore avanzare verso di lui, sentendo le gambe farsi instabili e l’adrenalina scemare.
 Il poliziotto corse verso di lui e quando gli fu accanto spalancò gli occhi e impallidì. «Gesù… stai bene? Cos’è successo?» chiese. «Mio Dio… sei coperto di sangue.»
 «C’è stata una sparatoria a Baker Street. Hanno… hanno colpito Sherlock e Mary…» ansimò John, scuotendo il capo e poggiando la schiena alla parete dietro di sé, sentendo le gambe venir meno. «Sono in sala operatoria. Non si sa ancora nulla, ma li hanno colpiti e sono rimasti privi di sensi per tutto il tempo…» solo in quel momento si rese conto che stava tremando così violentemente che anche la sua voce ne stava risentendo.
 Lestrade si portò le mani al volto e sospirò pesantemente. «Mycroft sa cos’è successo?»
 «No… io non…» balbettò Watson, scuotendo il capo. «Non sono riuscito a chiamare nessuno a parte te.» abbassò lo sguardo. «Mi dispiace, non sapevo chi altro chiamare…»
 «Non devi scusarti.» replicò l’Ispettore, poggiandogli una mano sulla spalla e accarezzandole con fare rassicurante. «Sono qui per te, lo sai.» disse e accennò un sorriso. «Sono sicuro che andrà tutto bene. Adesso vado a chiamare Mycroft e ti porto un po’ d’acqua. Tu siediti e tranquillizzati. Sei sotto shock.»
 John ansimò. «Come faccio a tranquillizzarmi?» chiese. «Mia moglie e il mio migliore amico sono in sala operatoria e stanno lottando tra la vita e la morte. Come posso…?»
 «Ehi, ehi.» lo bloccò Greg, prendendolo per le spalle e cercando il suo sguardo. «Calmati. Andrà tutto bene.» assicurò. «Siediti e fai respiri profondi. Torno subito.» e detto questo prese il cellulare e si allontanò.
 
 Un’ora dopo, il medico uscì dalla sala operatoria. Raggiunse la sala d’aspetto, dove John, Greg e Mycroft stava aspettando, seduti sulle seggiole, pallidi e tesi come corde di violino.
 Il politico era arrivato dieci minuti dopo aver ricevuto la telefonata dell’Ispettore ed era sembrato preoccupato almeno quanto John, tanto che non aveva nemmeno provato a nasconderlo. Nessuno di loro aveva detto nulla, semplicemente si erano seduti sulle seggiole della sala d’aspetto e avevano atteso l’arrivo del medico, sperando in buone notizie.   
 «Dottor Watson?» lo chiamò il medico, avanzando e fermandosi di fronte a lui.
 John sollevò lo sguardo e scattò in piedi. «Come stanno?» chiese immediatamente.
 «Il signor Holmes è ancora in sala operatoria. Ha avuto delle leggere complicazioni durante l’operazione, ma i medici sono riusciti a risolverle.» rispose.
 Mycroft e Greg sospirarono di sollievo, scambiandosi uno sguardo fugace e il poliziotto accarezzò la spalla del politico con fare rassicurante.
 Il dottore sospirò, voltandosi verso Watson. «Sua moglie è cosciente, ma il proiettile ha causato un’emorragia interna che non siamo riusciti ad arginare per via del suo stato.»
 «Non capisco.» replicò John, sentendo il cuore perdere un battito.
 Il dottore sospirò mestamente. «Mi dispiace, John. Non… non ci sarà modo di salvarli entrambi.» spiegò, esitante. «Se dovessimo arginare l’emorragia, la bambina non ce la farebbe e in caso contrario Mary non supererebbe il parto.»
 John ansimò e le lacrime gli appannarono la vista. Sentì la mano di Greg poggiarsi sulla sua spalla. «Una delle due deve morire?» chiese con voce tremante.
 Il medico annuì flebilmente. «Mi dispiace tanto.»
 Watson volse lo sguardo, imponendosi di mostrare contegno e freddezza. «Posso vederla?»
 «Certo.» replicò l’uomo. «Mi segua.»
 John rivolse un’occhiata a Greg, che annuì mestamente, e poi si allontanò.
 
 John entrò in sala operatoria dopo aver indossato il camice e le scarpe sterilizzate.
Sua moglie era stesa su una barella e non appena lo vide varcare la soglia, allungò un braccio verso di lui, sorridendo debolmente. «John…» sussurrò.
 Lui le prese la mano e accennò un sorriso, ma non poté nascondere le lacrime che gli avevano appannato la vista. Ciò che il medico gli aveva detto l’aveva sconvolto. Non voleva dover scegliere se uccidere sua moglie o sua figlia. Quella scelta lo spaventava più di ogni altra, soprattutto pensando alle terribili conseguenze che avrebbe avuto. Se avesse salvato la bambina, non avrebbe potuto prendersene cura senza l’aiuto di Mary e se avesse salvato Mary… avrebbe dovuto continuare a mentire, come aveva fatto fino a quel momento.
 «Non fare così.» disse la donna, accarezzandogli il dorso della mano. «Adesso ascoltami… non abbiamo molto tempo e quello che abbiamo ce l’ha concesso Sherlock, impedendo a chiunque abbia sparato di uccidermi.» sospirò. «Ho chiesto ai medici di far nascere la bambina.»
 John sembrò sorpreso di fronte a quelle parole. «Non… non puoi…» balbettò. «Mary, non puoi farlo. Non puoi semplicemente lasciarti morire in questo modo.»
 «Nostra figlia ha il diritto di vivere. Molto più di me.» replicò Mary, con voce flebile.
 «Non è giusto.» replicò il marito, scuotendo vigorosamente il capo.
 «Sì, invece.» la donna gli accarezzò il viso e sorrise. «Va bene così, credimi.»
 «Non va bene così.» insistette. «Non posso farcela senza di te. Non posso perderti così.»
 Mary accennò un sorriso. «Ci siamo persi nel momento in cui ho sparato a Sherlock, lo sai anche tu.» replicò. «So che hai detto di avermi perdonata e so che in parte era la verità, ma so anche che nel profondo del tuo cuore non potrai mai farlo completamente. Ormai sono mesi che mi guardi con occhi diversi… qualcosa si è rotto nel nostro rapporto. E non te ne faccio di certo una colpa. Ti ho fatto soffrire, John, e nulla giustificherà mai le mie azioni. Perciò ti capisco.»
 Gli occhi dell’uomo si spalancarono di fronte a quelle parole. Lei sapeva. Aveva sempre saputo. «Mary, io… mi dispiace. Mi dispiace…» balbettò e le lacrime gli rigarono le guance. Il senso di colpa gli fece contorcere lo stomaco. «Ci ho provato… davvero. Ma io non…»
 La donna portò un dito alle sue labbra. «Shh… non devi spiegare nulla.» poi sorrise dolcemente. «Voglio che da oggi in poi tu vada avanti con la tua vita, che cresca nostra figlia e che la renda meravigliosa tanto quanto lo sei tu.»
 «Non posso.» affermò Watson. «Da solo non posso farcela.»
 «Hai Sherlock.» dichiarò lei, con ovvietà. «Lui sarà un buon padre, proprio come te. Vi amerà entrambi come meritate e vi renderà felici.» concluse. «Prenditi cura di lui. Ha bisogno di te, anche se non se n’è ancora reso conto. E siate felici.»
 John inspirò profondamente, trattenendo a stento le lacrime. «Mary…»
 «Sii forte, John. Promettimelo.» insistette, stringendogli forte la mano.
 Dopo un momento di immobilità, John annuì. «Te lo prometto.» mormorò.
 Mary accennò un sorriso. «Voglio che tu veda nascere nostra figlia.» disse. «Resta qui, ti prego.»
 Lui annuì e le strinse la mano.
 
 Sherlock rinvenne lentamente.
 Si accorse di essere cosciente non appena sentì un forte dolore attraversargli il fianco e la spalla, trafiggendo la sua pelle con violenza e facendolo gemere. Aprì gli occhi e tentò di mettere a fuoco ciò che lo circondava. Si trovava di nuovo in ospedale, ma era sicuro di essere stato dimesso da poco… perché era di nuovo lì?
 Inspirò profondamente e si mosse, sentendo gli arti dolere e recuperare lentamente la sensibilità, come se fosse stato fermo per giorni.
 «Ehi…» disse una voce gentile, accanto a lui. Una mano si poggiò sulla sua spalla impedendogli di muoversi. «Fermo, così farai saltare i punti.»
 Sherlock volse il capo e sentì che un tubo gli attraversava la gola, graffiandola e grattandola, rendendogli impossibile parlare per quanto ci stesse provando. Sbatté più volte le palpebre e finalmente incontrò gli occhi marroni di Lestrade, in piedi accanto al materasso. Ansimò nuovamente, sentendo il dolore al petto aumentare.
 Greg gli poggiò una mano sul braccio e lo accarezzò. «Tranquillo, va tutto bene. Sei in ospedale.» spiegò, parlando lentamente. «Adesso vado a chiamare un dottore, così può toglierti il tubo dalla gola. Ma tu devi stare fermo.» concluse. Vedendolo annuire uscì dalla stanza, lasciandolo solo.
 
 Quando il medico ebbe rimosso il tubo e concluso la visita di accertamento, raccomandando a Sherlock di rimanere fermo il più possibile e tentare di riposare, uscì dalla stanza, lasciando soli Lestrade e Holmes.
 Greg a quel punto si avvicinò al letto e si sedette sul materasso accanto al consulente investigativo, che si era messo seduto, con tre cuscini posti dietro la schiena a sorreggerlo in modo da non danneggiare le ferite o far saltare i punti.
 «Cos’è successo?» domandò Sherlock con voce roca, la gola ancora dolente per essere stata lesa dal tubo, mentre era privo di sensi. Era possibile che si fosse sentito male di nuovo? Non aveva fatto sforzi o seguito casi… era stato attento. Non poteva essere successo di nuovo e soprattutto non poteva essere stata una cosa tanto grave dal dover rimanere attaccato a un respiratore.
 «C’è stata una sparatoria a Baker Street, due giorni fa.» spiegò Greg, gli occhi segnati dalla stanchezza, il volto tirato e pallido. «Qualcuno ha fatto fuoco sull’appartamento mentre eravate dentro.»
 Il volto di Sherlock venne attraversato dal panico. «Eravamo?» chiese, confuso.
 «Tu, John e Mary.»
 Il cuore di Sherlock accelerò. Il suo primo pensiero fu John. L’ultima volta in cui si era svegliato in ospedale era lì accanto a lui, eppure adesso non c’era. Doveva essergli successo qualcosa, altrimenti come spiegare la sua assenza?
 «Dov’è John?» ansimò.
 «Lui sta bene. Non preoccuparti.» rispose l’Ispettore, poi abbassò lo sguardo e sospirò mestamente.
 «Mary.» sbottò Holmes, avendo intuito il perché di quell’espressione. «È successo qualcosa a Mary? Dov’è? Come sta?»
 Lestrade risollevò lo sguardo sul volto dell’amico. Esitò. «Lei non… non ce l’ha fatta.» spiegò con voce flebile. «È morta ieri sera per un’emorragia interna. La ferita era troppo grave e i medici non hanno potuto fare nulla per salvarla.»
 Il cuore del consulente investigativo si fermò e il suo corpo si irrigidì. Quelle parole lo colpirono come un pugno nello stomaco, togliendogli il fiato. «Oh, mio Dio…» scosse il capo e abbassò lo sguardo. Mary non poteva essere morta. Non poteva aver lasciato John. Non dopo tutto ciò che avevano fatto per proteggerla e per assicurarle un futuro privo di minacce. No, era impossibile. Lei era forte, non era morta. Lestrade si stava sicuramente sbagliando. «Non è possibile… lei non può…»
 «Mi dispiace.» aggiunse il poliziotto, poi sollevò lo sguardo. «Sono riusciti a salvare la bambina.»
 Sherlock sentì il suo cuore ripartire. Risollevò il viso di scatto e incontrò gli occhi dell’Ispettore.
 «È nata poco prima che Mary…» Greg non concluse la frase. Sospirò e si schiarì la voce. «È prematura ma sta bene. Dovrà rimanere per un po’ in ospedale, ma i medici hanno detto che sono fiduciosi. Starà bene.»
 Sherlock annuì. La speranza si fece largo nel suo cuore. Almeno la bambina era salva. «John?» domandò poi.
 «Fisicamente sta bene. Aveva solo qualche graffio causato dalle schegge di vetro che l’hanno colpito, ma per il resto…» scosse il capo. «È distrutto.»
 «Devo andare da lui.» sbottò Sherlock, puntellandosi con i gomiti sul materasso per alzarsi. «Devo vederlo.»
 Greg lo bloccò, poggiandogli una mano sulla spalla sana per impedirgli di scendere dal materasso. «Fermo. Non puoi alzarti, hai sentito cos’ha detto il dottore. Hai bisogno di riposo o i punti potrebbero saltare. Non vorrai causarti qualche altra emorragia?» disse. «Ultimamente hai rischiato di morire già troppe volte. Nessuno vuole che accada ancora.»
 «Lestrade, devo vedere John. Non posso lasciarlo solo.» affermò. «Camminare non mi ucciderà.»
 «Non ti permetto di muoverti in queste condizioni. Andrai da lui quando ti sentirai meglio.» replicò Greg. «E poi sono stato da lui un’ora fa, non se ne andrà dal reparto maternità, te lo assicuro. Non c’è nessuna fretta.»
 Sherlock sbuffò sonoramente. «È il mio migliore amico. Non posso abbandonarlo proprio adesso.» disse con voce ferma. «Ha appena perso sua moglie e non voglio che stia solo. Non voglio lasciarlo solo.»
 «Lo so.» affermò Greg. «Ma capisci che non puoi lasciare la tua stanza?»
 Dopo un momento di riflessione, il consulente investigativo riprese. «D’accordo.» concesse. «Se io non posso muovermi, vorrà dire che lo farai tu al posto mio.»
 Gli occhi dell’Ispettore si spalancarono per lo stupore. «Io non credo che John vorrebbe vedermi.» dichiarò. «E non sono la persona giusta per-»
 «Voglio solo che tu gli chieda di venire da me.» lo interruppe Sherlock. «Se non posso andare da lui, tu porterai lui da me. Non dovrebbe essere un compito così complicato andare da lui per chiedergli di venire qui.»
 Greg sospirò. «Ok.» concesse con una scrollata di spalle. «Se serve a tenerti qui…» concluse e scese dal materasso. «Ma tu devi promettermi che non ti muoverai da quel letto, Sherlock. Siamo intesi?»
 «Sì, lo prometto.» replicò Holmes, sbrigativo. «Adesso vai.» e lo liquidò con un gesto della mano. Se quello era l’unico modo che aveva per vedere John, allora si sarebbe accontentato. Lestrade non avrebbe di certo potuto fallire con quel compito così semplice. Doveva solo portare John da lui.
 Greg scosse il capo, sconsolato, e uscì dalla stanza, diretto al reparto maternità.
 
 Quando la porta della stanza di Sherlock si aprì, mezz’ora più tardi, ad entrare fu John.
 Sherlock era seduto sul materasso, gli occhi chiusi, le mani giunte sotto il mento. Stava vagando nel suo palazzo mentale da quando Lestrade aveva lasciato la stanza, sperando di trovare delle risposte e capire chi avrebbe potuto voler tentare di ucciderli mentre erano a Baker Street. Ma non appena sentì lo sbuffo della porta, uscì dal palazzo mentale e aprì gli occhi, tornando alla realtà.
 Vide John avanzare verso di lui e il suo cuore perse un battito. Il medico aveva una mano fasciata e alcune ferite sul viso. Per il resto sembrava stare bene, se non si consideravano, ovviamente, il suo pallore cadaverico e le profonde occhiaie che gli segnavano gli occhi. Un leggero strato di barba gli accarezzava le guance, contribuendo a risaltare ancora di più il suo pallore e i cerchi neri sotto gli occhi. Sembrava – era, si corresse Sherlock, distrutto.
 «John…» sussurrò, studiando il suo viso e il suo corpo.
 Il medico accennò un sorriso privo di emozioni e avanzò, fermandosi accanto al materasso. «Ciao. Come ti senti?» esordì, la voce piatta e priva del suo solito calore.
 Holmes esitò, poi annuì, tentando di ricomporsi e di non far trapelare lo sgomento che gli aveva provocato vederlo in quelle condizioni. «John, io… mi dispiace così tanto…» mormorò. «Non hai idea di quanto sia dispiaciuto per ciò che è successo…»
 John abbassò lo sguardo. «Lo so.»
 Il moro sospirò. «È tutta colpa mia.»
 «No.» replicò il dottore, risollevando lo sguardo di scatto e puntandolo sugli occhi del consulente investigativo. «Non devi nemmeno pensarlo.»
 «Volevano me.» affermò Sherlock, il volto pallido e tirato, una nota di amarezza nella voce, alla consapevolezza che se non fosse stato per lui, Mary sarebbe stata ancora viva. «Stavano mirando a me e hanno ucciso tua moglie. Secondo te di chi è la colpa?»
 Watson scosse il capo, risoluto. «Non tua.» replicò, poi sospirò. «Ti sei parato di fronte a Mary impedendo a quegli assassini di ucciderla sul colpo. È grazie a te se è riuscita a rimanere in vita fino alla nascita di nostra figlia. Se la bambina è qui è solo merito tuo.»
 «Se non fossi stato così lento, adesso starebbe bene. Sarebbe ancora viva e potrebbe essere qui con te e vostra figlia.» replicò Holmes. «Se fossi riuscito a pararmi di fronte a lei prima che sparassero-»
 «Adesso saresti morto tu.» concluse Watson, per lui.
 Sherlock abbassò lo sguardo. «Mi dispiace di non essere riuscito a salvarla.» aggiunse dopo un momento, la voce ridotta ad un sussurro appena udibile.
 «Ti sei beccato due pallottole per lei.» replicò John. «Non hai nulla di cui scusarti.»
 Il consulente investigativo si portò una mano al fianco, sfiorando le bende che gli avvolgevano il petto, sotto la camicia del pigiama. «Avrei voluto… dovuto fare di più.» affermò. «Ho promesso che ci sarei sempre stato per tutti voi… che vi avrei protetti. Ma ho fallito. E non me lo perdonerò mai.»
 «Hai ucciso Magnussen per noi. E ti sei fatto sparare per tentare di proteggere mia moglie.» fece notare John. «Questo non è fallire. Hai fatto più di quanto avresti dovuto.» concluse. «Io avrei dovuto proteggere Mary e mia figlia. Io ho fallito, se mai. Dovrei esserci io in un letto d’ospedale. Non tu.»
 «Se ci fossi tu al mio posto, adesso chi penserebbe a tua figlia?» chiese Sherlock, poi sospirò. «Come sta?» domandò, riferendosi alla bambina.
 «Dovrà rimanere in incubatrice per un po’, ma i medici hanno detto che starà bene.» spiegò John. «Non ha avuto nessuna complicazione, nonostante il proiettile abbia mancato di poco la placenta. È prematura, ma non porterà conseguenze sulla crescita.»
 Sherlock accennò un sorriso. «Ne sono felice.» dichiarò. «Com’è? Descrivimela.» lo incalzò, curioso di sapere di più riguardo la nuova arrivata.
 Watson rimase in silenzio qualche secondo, poi puntò gli occhi in quelli di Sherlock. «Ti piacerebbe vederla?»
 Sherlock sorrise.
 
 Sherlock e John erano nel corridoio del reparto maternità e stavano osservando la bambina aldilà del vetro. La piccola era chiusa nell’incubatrice, un cartellino a identificarla e tubi e fili di ogni genere collegati al suo corpicino, che si muoveva di tanto in tanto nel sonno.
 «Sei riuscito a tenerla in braccio prima che la mettessero in incubatrice?» domandò Holmes, senza staccare gli occhi da lei. «Dicono che è importante che i genitori li stringano tra le braccia quando nascono.»
 Watson sospirò. «L’ha tenuta Mary.»
 Il consulente investigativo si voltò verso di lui, sentendo una leggera fitta alla spalla, dove il proiettile l’aveva colpito. «Quindi l’ha vista.» concluse.
 «Sì.» rispose il medico, puntando gli occhi in quelli di lui, seduto su una sedia a rotelle. «Ha potuto stringerla tra le braccia prima di…» si interruppe, abbassando lo sguardo. Deglutì a vuoto. «Il medico mi aveva detto che avremmo dovuto scegliere tra Mary e la bambina. Che una delle due sarebbe potuta sopravvivere, ma l’altra no. E Mary ha scelto lei.» concluse con voce tremante. «Sono sempre più convinto che abbia fatto uno sbaglio. Non posso crescerla. Non so fare il padre. Non sono in grado.»
 «Imparerai.» assicurò Sherlock. «Nessuno sa farlo. Si impara provandoci e sbagliando.»
 John scosse il capo. «Non so nemmeno da che parte cominciare.»
 «Per prima cosa, devi entrare lì dentro e andare da tua figlia.» disse Holmes, con voce ferma. «So che non puoi tenerla in braccio, ma puoi toccarla, attraverso l’incubatrice. È già qualcosa.» fece notare e quando lo vide sollevare lo sguardo, perplesso. «Non vorrai lasciare che nel primo mese della sua vita a toccarla siano solo medici e infermiere? Sei suo padre.»
 «Non sono pronto.» ribattè il dottore.
 «Non lo sarai mai, John.» dichiarò. «Ma dovrai farlo prima o poi.»
 John esitò. Tornò a voltarsi verso il vetro e osservò sua figlia muoversi nell’incubatrice. «Vieni con me.» sussurrò alla fine, puntando gli occhi in quelli blu dell’amico.
 «È meglio che io rimanga qui.»
 «Non voglio andarci da solo.» replicò John, nuovamente pallido come un cencio. «Ti prego, non lasciarmi solo. Vieni con me.» ripeté, speranzoso.
 Il consulente investigativo sospirò, ma alla fine si ritrovò ad annuire. «D’accordo.» concesse. «Andiamo?» chiese, indicando la porta.  
 Il medico deglutì e inspirò profondamente. Annuì e spingendo la sedia a rotelle di Sherlock varcò la soglia.
 Vennero accolti da un infermiera, che indicò loro dei camici e delle calzature sterilizzate, per non rischiare di contaminare la stanza o la bambina. I due li indossarono, si lavarono mani e braccia con perizia e poi varcarono la soglia.
 La stanza era calda e colma di macchinari che emettevano suoni di ogni genere. L’incubatrice in cui era stata posta la piccola Watson non era l’unica presente nella stanza, ma la figlia di John era l’unica che sembrava essere sveglia. L’infermiera li invitò ad avanzare, dicendo loro che avrebbero potuto accarezzarla se avessero voluto, ma di prestare la massima attenzione.
 I due si avvicinarono all’incubatrice e osservarono la bambina, in silenzio per un lungo istante.
 «È così piccola.» sussurrò Sherlock, sorpreso di fronte all’esile corpicino della piccola. Sorrise dolcemente e poi si voltò verso Watson. «Perché non la accarezzi? L’infermiera ha detto che puoi.»
 Il medico esitò.
 «Avanti.» lo incalzò il consulente investigativo.
 John scosse il capo. «Accarezzala tu.»
 «Per l’amor del cielo, John, sei suo padre.» disse, parlando sommessamente per non svegliare gli altri neonati.
 «Lo so.» confermò lui. «Ma lei non sarebbe qui se non fosse per te.» si scostò per lasciare spazio a Sherlock, per invitarlo ad avvicinarsi e accarezzarla.
 Sherlock sospirò e alla fine si decise. Mosse la sedia a rotelle e l’avvicinò all’incubatrice. «Ok. Ma se lo faccio io, poi dovrai farlo anche tu.» concluse. Poi infilò una mano nell’apertura sul lato dell’incubatrice e delicatamente sfiorò il capo della bambina con le dita. Non poté fare a meno di sorridere. Dopo un istante riprese: «È delicata.» mormorò, quasi la stesse analizzando, memorizzando e catalogando dati. «Sembra di toccare uno di quei piccoli boccioli che nascono in primavera. Sono perfetti, soffici ed estremamente delicati. Basterebbe così poco per farle del male… eppure è così forte.»
 John sorrise, senza staccare gli occhi dal viso di Sherlock, intenerito da quella scena. «Già.» confermò, spostando lo sguardo su sua figlia.
 Sherlock si voltò verso di lui e sorrise, estraendo la mano. «Dai, tocca a te.»
 L’altro abbassò lo sguardo e impercettibilmente indietreggiò.
 «Oh, santi numi…» sfuggì a Holmes. Sospirò sonoramente e allungò una mano prendendo quella di Watson e spingendola verso l’incubatrice. Delicatamente la guidò all’interno, costringendo John a poggiarla sul capo di sua figlia, tenendolo per un polso. «Visto?» chiese. «Non è stato poi così difficile.»
 Watson inizialmente si irrigidì, poi le sue spalle e i suoi muscoli si rilassarono. Accarezzò il capo della bambina con il pollice, muovendolo cautamente e con delicatezza. Si voltò verso Sherlock e accennò un sorriso.
 Sherlock lo osservò per un lungo istante, poi sorrise e allontanò la mano dal braccio di Watson, sfiorando la sua pelle con le dita. Per un momento si guardarono negli occhi, in silenzio, senza dire nulla. Poi il consulente investigativo distolse lo sguardo, riportandolo sulla bambina. «Ti somiglia.» affermò. «È bellissima.»
 John si voltò verso sua figlia, osservando il leggero strato di capelli biondi che le coprivano il capo e i piccoli occhi azzurri che stavano osservando ciò che la circondava.
 «Hai già scelto un nome?» domandò il consulente investigativo.
 Watson scosse il capo.
 «Tu e Mary avevate qualche idea?»
 «No.» rispose il dottore. «Nessuna. Avevamo deciso di pensarci dopo la nascita.»
 «Che nome ti piacerebbe darle?» domandò Sherlock a quel punto, sperando di aiutarlo nella scelta.
 John sospirò. «Non lo so.» affermò. «Non sono bravo in queste cose.»
 Holmes si voltò e osservò la bambina. Dopo un momento parlò: «Che ne dici di Gemma?» propose. Quando John si voltò verso di lui con le sopracciglia aggrottate, riprese. «Hai concordato anche tu che sembri uno di quei boccioli delicati che nascono a primavera. Esiste nome migliore di Gemma?»
 John sembrò pensarci per un momento, ma alla fine sorrise e annuì. «È molto bello.»
 «Ti piace?»
 «Gemma Watson.» disse John, quasi volesse assaporarne il suono. Sorrise. «Suona bene.»
 Sherlock sorrise a sua volta, incontrando gli occhi dell’amico. «Allora Gemma sia.»
 
 
 ANGOLO DELL’AUTRICE
 Ciao a tutti! Eccomi qui con il secondo capitolo, che sono riuscita a pubblicare prima del previsto, dato che era già pronto e solo da rivedere. ;) La storia si sta finalmente delineando e prendendo forma… presto la trama sarà più chiara. :)
Dato che anche il terzo capitolo è pronto e solo da rivedere, lo pubblicherò lunedì ;)
A presto, Eli♥
 
   
 
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