“Nevermore”
Once upon a midnight dreary, while I pondered,
weak
and weary,
Over many a quaint and curious volume of forgotten
lore...
Era
sdraiata su un fianco e la stava fissando.
Non
l’aveva sentita girarsi. Era completamente immobile,
più seria. Clarke trasse
un respiro, rendendosi improvvisamente conto dello spazio vuoto tra i
loro
corpi. Rendendosi pienamente conto che quello spazio tra poco sarebbe
aumentato.
Lexa
si sporse di nuovo verso di lei.
Clarke
socchiuse le labbra e le bocche si aprirono l’una contro
l’altra, il calore
dolce e ormai così familiare di Lexa che si riversava in
lei, scivolandole
sulla lingua. L’ora che si erano concesse era scaduta, ma
Clarke non riusciva a
pensare bene, non riusciva a fare altro che abbeverarsi di lei,
colmandosi di
ogni suo respiro. Strappandole altri baci. Alcuni dolci, semplici,
vellutati
come carezze. Altri più ardenti.
Lexa
profumava di boschi e terra. Di mandorle e incenso.
Il
cavallo proseguiva al trotto. Il
sole era tramontato da un pezzo e le tenebre si stavano prendendo ogni
cosa. Il
bosco sembrava sempre più spettrale, un luogo desolato e
pieno di insidie.
Clarke
sobbalzava ad ogni minimo
rumore. Sapeva che Ontari avrebbe scoperto presto che la Fiamma era
sparita e
avrebbe mandato qualcuno a cercarla.
Era
stanca.
La
torre di Polis era svanita tra
gli alberi da un bel pezzo. La torre con il suo fumo rosso che si
levava verso
il cielo. Aveva udito il suono delle trombe che annunciava la morte di
un
Comandante e la venuta di quello nuovo. Un abominio partorito da
Azgeda.
Natblida,
li
chiamavano.
Nightblood.
Solo
chi aveva sangue nero poteva
diventare Heda.
Solo
lei poteva essere Heda.
Natblida.
...Eagerly
I wished the morrow; - vainly I had sought
to borrow
From my books surcease of sorrow – sorrow for the lost
Lenore –
For the rare and radiant maiden whom the angels name
Lenore
Nameless here
for evermore...
Clarke
aveva ancora ben chiara la sensazione dei suoi capelli tra le dita, del
suo
respiro contro il suo collo, della mani che stringevano e
accarezzavano, dell’indice
che tracciava disegni immaginari sulla pelle. Della sua bocca che
seguiva il
percorso del tatuaggio sulla sua schiena.
Ora
che doveva rialzarsi e raccogliere i suoi vestiti, ora che il tempo a
loro
disposizione era davvero scaduto, Clarke avrebbe voluto trovare le
parole
giuste. Qualcosa di più di quel: “magari un
giorno”.
Ma
non ce n’erano. Nessuna sembrava abbastanza potente.
I
loro sguardi si incrociarono.
“Non
avere paura”.
Ad
un certo punto dormì. Solo per
pochi minuti, ma dormì.
Dormì
e si destò in una radura
sterminata, disseminata di tronchi caduti da tempo. I pini alti e
robusti,
spruzzati di neve, si allungavano fino al cielo grigio e pesante come
un muro
di torri maestose. Clarke si riparò gli occhi dal vento
frizzante e freddo.
Sembrava di essere in un mondo completamente nuovo, appena nato. Un
mondo tetro
e già contaminato dalle malattie.
In
mezzo alla radura sostava uno
stormo di corvi.
Sulle
prime nessuno di quegli
uccelli si mosse. La guardavano con occhi scintillanti, rossi come
braci.
Poi
lo stormo si ruppe. I corvi si
alzarono in volo tutti insieme, una nuvola nera che vorticò
e vorticò,
spingendosi verso l’alto.
Ne
rimase uno solo. Un solo corvo
più grande degli altri, con le piume lucide e il lungo becco
appena dischiuso.
Alle
sue spalle risuonarono dei
fruscii. Rumori di passi che avanzavano senza fretta, strisciando
sull’erba
della radura.
Una
mano gelida parve afferrarle il
cuore e stringerlo in una morsa. Non erano i suoi
passi. Non potevano essere i suoi passi.
In quel sogno iniziarono a balenarle immagini
terribili. Sapeva che, se si fosse voltata, l’avrebbe
rivista. Morta anziché
viva. Avrebbe visto lei, fredda e
pallida, il sangue nero rappreso sull’angolo della bocca. La
maglia strappata.
Il
foro del proiettile. Quel mostruoso
foro di proiettile e ondate di quel sangue nero...
Il
corvo lanciò un gracchio.
…But the silence was unbroken, and
the stillness gave
no token,
And the only word there spoken was
the whispered word, “Lenore?”
Clarke
non era nemmeno in grado di pensarlo, quel nome.
Non
era in grado di pronunciarlo.
Però
lo udì. Lo udì con estrema chiarezza. E il dolore
le piombò addosso in pieno.
“Non
avere paura”.
Il
cielo sopra la sua testa si strappò, quasi fosse fatto di
carta. Attraverso lo
strappo nel firmamento, sbirciò colori allucinanti e vivi,
pulsanti. Oltre il
cielo c’erano delle entità. Cose onnipotenti e
completamente folli.
Poi
il sogno cambiò.
Svanì
per qualche momento e lei ebbe modo di scorgere il lampeggiare di un
paio di
occhi verde chiaro. Un flash e precipitò ancora nel suo
incubo.
“Non
avere paura”.
Clarke
era sdraiata su un letto. E non su un letto qualsiasi. Era su quel letto. Dove avevano adagiato lei. Era sdraiata sulla coperta
impregnata di sangue nero. Il corvo se ne stava appollaiato sulla
sponda, con
lo sguardo acceso come un tizzone ardente e teneva qualcosa nel becco.
Qualcosa
di piccolo. Un...
“È
lo spirito del Comandante”.
L’Intelligenza
Artificiale che avevano estratto dal suo collo.
Quel piccolo congegno che recava il simbolo sacro.
L’infinito. Lo stesso che lei
portava tatuato sulla nuca.
L’infinito spezzato. La Fiamma. Il corvo ce l’aveva
nel becco. Il corvo la
guardava e le mostrava il chip e l’infinito.
...This I whispered, and an echo murmured back
the
word, “Lenore!”—
Merely
this and nothing more...
I
loro sguardi si incrociarono.
Clarke
si rivestì con una certa urgenza, pensando ad Octavia, che
probabilmente la
stava aspettando. Forse stava anche pensando che non sarebbe venuta.
Forse era
già furiosa perché credeva che avesse scelto di
restare a Polis. E nemmeno
immaginava quanto le sarebbe costato lasciare quel posto.
“Lascia.
Faccio io”, disse a Lexa.
Si
stava riannodando i lacci della maglia dietro al collo. Clarke li prese
e
rifece il nodo. Si fermò un istante per accarezzarle una
ciocca di capelli che
le sfiorava la nuca. Poi baciò un lembo di pelle scoperta.
Lexa chiuse gli
occhi. Infine si voltò.
“Puoi
prendere Elios. È uno dei miei cavalli più
veloci”, disse lei. “Ti porterà ad
Arkadia. Ma devi sbrigarti. Sei già in ritardo”.
Il
suo sguardo era risoluto. Verde chiaro e screziato d’oro. La
luce del sole
giocava con il colore delle sue iridi.
“Though thy crest be
shorn and shaven, thou”, I said, “art sure no
craven,
Ghastly grim and
ancient Raven wandering from the Nightly shore—
Tell me what thy
lordly name is on the Night’s Plutonian shore!”
Quoth
the Raven “Nevermore”
Il
corvo gracchiò ancora, ma questa
volta il gracchio la svegliò, precipitandola nel mondo
reale. Ce n’era uno, di
corvo, appollaiato su un ramo. Uno vero. Non un corvo con occhi di
brace, ma un
uccellaccio nero e spennacchiato, con la testa incassata nelle piume.
L’andatura
del cavallo l’aveva
spinta a dormire.
Elios.
Elios era mansueto e
proseguiva sicuro nella notte scura. Il suo manto bianco era quasi un
conforto.
Sentire i suoi muscoli tendersi contro le cosce le infondeva sicurezza.
Doveva
andare avanti. Doveva proseguire. Mai fermarsi. Per nessuna ragione.
Doveva
raggiungere Arkadia. Doveva parlare con Lincoln.
Doveva.
Doveva. Doveva.
Clarke
si riempì di lei, così come aveva fatto quando
era entrata in quella stanza per
salutarla, per dirle che se ne sarebbe andata. Si riempì di
lei, della vista
dei suoi capelli, sistemati in modo da ricadere tutti su una spalla,
della
curva delle sue labbra, del verde dei suoi occhi. C’era
qualcosa di diverso nel
suo sguardo, un’intensità che non conosceva. E che
la trafiggeva. Ecco. Sì, era
proprio quello che provava. Si sentiva trafitta da quel verde, quel
verde che a
volte sembrava non essere del tutto verde, perché possedeva
delle sfumature. Quasi
avesse assorbito i colori della Terra.
Quando
era in isolamento e disegnava sulle pareti della sua cella, Clarke
sognava il
pianeta distrutto che il genere umano aveva abitato per milioni di
anni.
Immaginava gli alberi, gli oceani, il cielo. Ne immaginava i colori. Ed
erano i
colori che vedeva in Lexa.
Avrebbe
voluto riprendere il suo disegno, quello che non aveva terminato.
Avrebbe
voluto riprenderlo o magari ricominciare daccapo. Disegnarla con gli
occhi aperti.
Disegnare la forma di quegli occhi. Il profilo del viso.
Disegnarla
dopo che aveva fatto l’amore.
Seguire
il filo dei propri pensieri era diventato difficile.
“Hai
un’ora di tempo per salutare chi vuoi”, le aveva
detto Octavia.
Tempo
che le era già sfuggito di mano e quando Lexa la
baciò un’ultima volta, Clarke
le strinse la nuca per trattenerla vicino a sé.
“...Wretch,”
I cried, “thy God hath lent thee—by these angels he
hath sent thee
Respite—respite and nepenthe from thy memories of
Lenore;
Quaff, oh
quaff this kind nepenthe and forget this lost
Lenore!”
Quoth
the
Raven “Nevermore...”
Clarke giunse nei pressi di un
fiume.
Le
acque erano calme e poco
profonde, quindi decise di guadarlo. Accarezzò la criniera
bianca di Elios.
“Puoi
prendere Elios. È il mio cavallo più
veloce”.
“Non
avere paura”.
Si
guardò alle spalle. La brezza
soffiò, scuotendo le foglie. Portando con sé un
gracchio. E poi un altro.
Forse
i corvi la stavano seguendo.
La seguivano perché lei era Wanheda. Lei era il Comandante
della Morte. E
ovunque andasse la Morte stava al passo. La Morte le ricordava quello
che aveva
fatto. Non c’era modo di dimenticare, per quanto a volte lo
desiderasse. Non
c’era modo di scordarselo, neanche quando chiudeva gli occhi.
Lei doveva
ricordare per sempre.
“L’hai
uccisa tu. Io ho premuto il grilletto, ma sei stata tu”.
Sentì
le lacrime pungerle gli
occhi, ma le ricacciò indietro con forza.
“...On this
home by Horror haunted—tell me truly, I
implore—
Is there—is there
balm in Gilead?—tell
me—tell me, I implore!”
Quoth
the Raven
“Nevermore”
Riprese
ad avanzare.
Clarke
fece in modo che quell’ultimo slancio durasse abbastanza a
lungo. Le labbra di
Lexa premute contro le sue erano qualcosa che doveva portare con
sé. Non sapeva
quando avrebbe potuto baciarla ancora. Quando si sarebbero riviste.
Si
separò da lei e il suo respiro era ridotto ad un affanno.
“Vai,
ora”, disse Lexa, senza smettere di fissarla. “Fa
attenzione”.
L’ultima
cosa che sentì, furono le dita di Lexa che serravano le sue.
La
stanchezza aveva vinto di nuovo,
ma quando si destò di soprassalto cadde da cavallo.
Urtò la spalla e restò là
per terra, tra le foglie morte. Pensò per un momento di non
essere in grado di
alzarsi. Era al di là delle sue forze. Sarebbe rimasta
là fino a che non si
sarebbe addormentata.
Sì,
posso fermami. Posso fermarmi per un po’.
Ma
fu quel pensiero, così
falsamente confortevole, a spingerla a rimettersi in cammino.
Perché se fosse
rimasta chiunque la stesse inseguendo l’avrebbe trovata... e
Luna. C’era Luna a
cui pensare. La Fiamma.
Presa
da un improvviso moto di
panico si tastò l’armatura e infilò una
mano sotto di essa. Trovò la scatoletta
e l’aprì.
Il
chip era ancora al suo posto. Il
simbolo dell’infinito che la occhieggiava.
-
Va tutto bene. – sussurrò.
E
poi si impietrì.
Qualcosa
si muoveva dietro di lei.
Era un rumore furtivo, un lieve frusciare di erba secca e aghi di pino,
il
secco spezzarsi di un rametto, un fruscio guardingo tra il fogliame del
sottobosco.
-
Chi c’è?
“...Tell this soul with sorrow laden
if, within the
distant Aidenn,
It shall clasp a sainted maiden
whom the angels name Lenore—
Clasp a rare and radiant maiden whom the angels name
Lenore.”
Quoth
the
Raven “Nevermore...”
Pensò
allo stormo di corvi. Pensò a
quello con gli occhi di brace che emetteva un suono quasi umano. Un
nome.
Pensò
al corvo sulla sponda del
letto, con il chip nel becco.
E
le coperte impregnate di sangue.
E la litania di Titus. E la striscia nera sulla sua testa rasata. E la
maglia
strappata. Il foro del proiettile.
“Non
avere paura”.
Toccò
di nuovo la scatoletta che
conteneva la Fiamma. La speranza per la sua gente.
Una
parte di lei.
I
rumori erano cessati. Una cosa
nera tagliò, correndo, il sentiero. Era dotata di occhi
gialli, ma non era per
niente interessata alla ragazza in sella al cavallo bianco.
Proseguì.
Uno zoccolo di Elios
calpestò una piuma nera.
Leave my loneliness unbroken!—quit
the bust above my door!
Take thy beak from out my heart, and take thy form
from off my door!
Afferrò
la prima cosa che le capitò a tiro. Una sedia. La
scagliò contro il consigliere con tutte le sue forze.
Travolto, Titus cadde per
terra, dandole il tempo di correre verso la porta, mentre Murphy
mugugnava
qualcosa, lottando contro le corde e il bavaglio.
Le
porte si spalancarono. Nel mentre, Titus sparò alla cieca
un terzo colpo di pistola.
Andò
a segno.
“Lexa!”,
disse Clarke.
Quoth the
Raven: “Nevermore”
____________________
Angolo
autrice:
La
mia prima storia su The 100 e
sulla mia coppia preferita, ovvero la Clexa.
È
una storia nata dopo la puntata
più dolorosa della storia, ovvero la 3x07.
All’inizio era completamente
diversa, ma con il tempo l’ho modificata fino a quando non
sono giunta a
questo. Spero possa piacervi. Dovevo proprio scriverci sopra qualcosa.