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Autore: Stephanie86    07/05/2016    2 recensioni
[Clexa | Post!3x07]
Clarke socchiuse le labbra e le bocche si aprirono l’una contro l’altra, il calore dolce e ormai così familiare di Lexa che si riversava in lei, scivolandole sulla lingua. L’ora che si erano concesse era scaduta, ma Clarke non riusciva a pensare bene, non riusciva a fare altro che abbeverarsi di lei, colmandosi di ogni suo respiro.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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“Nevermore”

 

 

Once upon a midnight dreary, while I pondered, weak and weary,
Over many a quaint and curious volume of forgotten lore...

 

 
Era sdraiata su un fianco e la stava fissando.

Non l’aveva sentita girarsi. Era completamente immobile, più seria. Clarke trasse un respiro, rendendosi improvvisamente conto dello spazio vuoto tra i loro corpi. Rendendosi pienamente conto che quello spazio tra poco sarebbe aumentato.

Lexa si sporse di nuovo verso di lei.

Clarke socchiuse le labbra e le bocche si aprirono l’una contro l’altra, il calore dolce e ormai così familiare di Lexa che si riversava in lei, scivolandole sulla lingua. L’ora che si erano concesse era scaduta, ma Clarke non riusciva a pensare bene, non riusciva a fare altro che abbeverarsi di lei, colmandosi di ogni suo respiro. Strappandole altri baci. Alcuni dolci, semplici, vellutati come carezze. Altri più ardenti.

Lexa profumava di boschi e terra. Di mandorle e incenso.

 

Il cavallo proseguiva al trotto. Il sole era tramontato da un pezzo e le tenebre si stavano prendendo ogni cosa. Il bosco sembrava sempre più spettrale, un luogo desolato e pieno di insidie.

Clarke sobbalzava ad ogni minimo rumore. Sapeva che Ontari avrebbe scoperto presto che la Fiamma era sparita e avrebbe mandato qualcuno a cercarla.

Era stanca.

La torre di Polis era svanita tra gli alberi da un bel pezzo. La torre con il suo fumo rosso che si levava verso il cielo. Aveva udito il suono delle trombe che annunciava la morte di un Comandante e la venuta di quello nuovo. Un abominio partorito da Azgeda.

Natblida, li chiamavano.

Nightblood.

Solo chi aveva sangue nero poteva diventare Heda.

Solo lei poteva essere Heda.

Natblida.

 

...Eagerly I wished the morrow; - vainly I had sought to borrow
From my books surcease of sorrow – sorrow for the lost Lenore –
For the rare and radiant maiden whom the angels name Lenore
Nameless here for evermore...

 

 La seconda volta erano state meno impazienti. Avevano assaporato ogni istante con più calma, mentre il crepuscolo avanzava, lentamente, quasi il sole non volesse tramontare mai.

Clarke aveva ancora ben chiara la sensazione dei suoi capelli tra le dita, del suo respiro contro il suo collo, della mani che stringevano e accarezzavano, dell’indice che tracciava disegni immaginari sulla pelle. Della sua bocca che seguiva il percorso del tatuaggio sulla sua schiena.

Ora che doveva rialzarsi e raccogliere i suoi vestiti, ora che il tempo a loro disposizione era davvero scaduto, Clarke avrebbe voluto trovare le parole giuste. Qualcosa di più di quel: “magari un giorno”.

Ma non ce n’erano. Nessuna sembrava abbastanza potente.

I loro sguardi si incrociarono.

 

“Non avere paura”.

Ad un certo punto dormì. Solo per pochi minuti, ma dormì.

Dormì e si destò in una radura sterminata, disseminata di tronchi caduti da tempo. I pini alti e robusti, spruzzati di neve, si allungavano fino al cielo grigio e pesante come un muro di torri maestose. Clarke si riparò gli occhi dal vento frizzante e freddo. Sembrava di essere in un mondo completamente nuovo, appena nato. Un mondo tetro e già contaminato dalle malattie.

In mezzo alla radura sostava uno stormo di corvi.

Sulle prime nessuno di quegli uccelli si mosse. La guardavano con occhi scintillanti, rossi come braci.

Poi lo stormo si ruppe. I corvi si alzarono in volo tutti insieme, una nuvola nera che vorticò e vorticò, spingendosi verso l’alto.

Ne rimase uno solo. Un solo corvo più grande degli altri, con le piume lucide e il lungo becco appena dischiuso.

Alle sue spalle risuonarono dei fruscii. Rumori di passi che avanzavano senza fretta, strisciando sull’erba della radura.

Una mano gelida parve afferrarle il cuore e stringerlo in una morsa. Non erano i suoi passi. Non potevano essere i suoi passi. In quel sogno iniziarono a balenarle immagini terribili. Sapeva che, se si fosse voltata, l’avrebbe rivista. Morta anziché viva. Avrebbe visto lei, fredda e pallida, il sangue nero rappreso sull’angolo della bocca. La maglia strappata.

Il foro del proiettile. Quel mostruoso foro di proiettile e ondate di quel sangue nero...

Il corvo lanciò un gracchio.

 
…But the silence was unbroken, and the stillness gave no token,
And the only word there spoken was the whispered word, “Lenore?”

 

 Il corvo non si limitò a gracchiare. Era un gracchio, ma era anche un suono umano. Era un nome. Era il suo nome.

Clarke non era nemmeno in grado di pensarlo, quel nome.

Non era in grado di pronunciarlo.

Però lo udì. Lo udì con estrema chiarezza. E il dolore le piombò addosso in pieno.

“Non avere paura”.

Il cielo sopra la sua testa si strappò, quasi fosse fatto di carta. Attraverso lo strappo nel firmamento, sbirciò colori allucinanti e vivi, pulsanti. Oltre il cielo c’erano delle entità. Cose onnipotenti e completamente folli.

Poi il sogno cambiò.

Svanì per qualche momento e lei ebbe modo di scorgere il lampeggiare di un paio di occhi verde chiaro. Un flash e precipitò ancora nel suo incubo.

“Non avere paura”.

Clarke era sdraiata su un letto. E non su un letto qualsiasi. Era su quel letto. Dove avevano adagiato lei. Era sdraiata sulla coperta impregnata di sangue nero. Il corvo se ne stava appollaiato sulla sponda, con lo sguardo acceso come un tizzone ardente e teneva qualcosa nel becco. Qualcosa di piccolo. Un...

“È lo spirito del Comandante”.

L’Intelligenza Artificiale che avevano estratto dal suo collo. Quel piccolo congegno che recava il simbolo sacro. L’infinito. Lo stesso che lei portava tatuato sulla nuca. L’infinito spezzato. La Fiamma. Il corvo ce l’aveva nel becco. Il corvo la guardava e le mostrava il chip e l’infinito.

 

...This I whispered, and an echo murmured back the word, “Lenore!”—
Merely this and nothing more...

 

 
I loro sguardi si incrociarono.

Clarke si rivestì con una certa urgenza, pensando ad Octavia, che probabilmente la stava aspettando. Forse stava anche pensando che non sarebbe venuta. Forse era già furiosa perché credeva che avesse scelto di restare a Polis. E nemmeno immaginava quanto le sarebbe costato lasciare quel posto.

“Lascia. Faccio io”, disse a Lexa.

Si stava riannodando i lacci della maglia dietro al collo. Clarke li prese e rifece il nodo. Si fermò un istante per accarezzarle una ciocca di capelli che le sfiorava la nuca. Poi baciò un lembo di pelle scoperta. Lexa chiuse gli occhi. Infine si voltò.

“Puoi prendere Elios. È uno dei miei cavalli più veloci”, disse lei. “Ti porterà ad Arkadia. Ma devi sbrigarti. Sei già in ritardo”.

Il suo sguardo era risoluto. Verde chiaro e screziato d’oro. La luce del sole giocava con il colore delle sue iridi.

 

“Though thy crest be shorn and shaven, thou”, I said, “art sure no craven,
Ghastly grim and ancient Raven wandering from the Nightly shore—
Tell me what thy lordly name is on the Night’s Plutonian shore!”
Quoth the Raven “Nevermore”

 

Il corvo gracchiò ancora, ma questa volta il gracchio la svegliò, precipitandola nel mondo reale. Ce n’era uno, di corvo, appollaiato su un ramo. Uno vero. Non un corvo con occhi di brace, ma un uccellaccio nero e spennacchiato, con la testa incassata nelle piume.

L’andatura del cavallo l’aveva spinta a dormire.

Elios. Elios era mansueto e proseguiva sicuro nella notte scura. Il suo manto bianco era quasi un conforto. Sentire i suoi muscoli tendersi contro le cosce le infondeva sicurezza. Doveva andare avanti. Doveva proseguire. Mai fermarsi. Per nessuna ragione. Doveva raggiungere Arkadia. Doveva parlare con Lincoln.

Doveva. Doveva. Doveva.

 

Clarke si riempì di lei, così come aveva fatto quando era entrata in quella stanza per salutarla, per dirle che se ne sarebbe andata. Si riempì di lei, della vista dei suoi capelli, sistemati in modo da ricadere tutti su una spalla, della curva delle sue labbra, del verde dei suoi occhi. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo, un’intensità che non conosceva. E che la trafiggeva. Ecco. Sì, era proprio quello che provava. Si sentiva trafitta da quel verde, quel verde che a volte sembrava non essere del tutto verde, perché possedeva delle sfumature. Quasi avesse assorbito i colori della Terra.

Quando era in isolamento e disegnava sulle pareti della sua cella, Clarke sognava il pianeta distrutto che il genere umano aveva abitato per milioni di anni. Immaginava gli alberi, gli oceani, il cielo. Ne immaginava i colori. Ed erano i colori che vedeva in Lexa.

Avrebbe voluto riprendere il suo disegno, quello che non aveva terminato. Avrebbe voluto riprenderlo o magari ricominciare daccapo. Disegnarla con gli occhi aperti. Disegnare la forma di quegli occhi. Il profilo del viso.

Disegnarla dopo che aveva fatto l’amore.

Seguire il filo dei propri pensieri era diventato difficile.

“Hai un’ora di tempo per salutare chi vuoi”, le aveva detto Octavia.

Tempo che le era già sfuggito di mano e quando Lexa la baciò un’ultima volta, Clarke le strinse la nuca per trattenerla vicino a sé.

 

“...Wretch,” I cried, “thy God hath lent thee—by these angels he hath sent thee 
Respite—respite and nepenthe from thy memories of Lenore; 
Quaff, oh quaff this kind nepenthe and forget this lost Lenore!” 
Quoth the Raven “Nevermore...”

 

 
Clarke giunse nei pressi di un fiume.

Le acque erano calme e poco profonde, quindi decise di guadarlo. Accarezzò la criniera bianca di Elios.

“Puoi prendere Elios. È il mio cavallo più veloce”.

“Non avere paura”.

Si guardò alle spalle. La brezza soffiò, scuotendo le foglie. Portando con sé un gracchio. E poi un altro.

Forse i corvi la stavano seguendo. La seguivano perché lei era Wanheda. Lei era il Comandante della Morte. E ovunque andasse la Morte stava al passo. La Morte le ricordava quello che aveva fatto. Non c’era modo di dimenticare, per quanto a volte lo desiderasse. Non c’era modo di scordarselo, neanche quando chiudeva gli occhi. Lei doveva ricordare per sempre.

“L’hai uccisa tu. Io ho premuto il grilletto, ma sei stata tu”.

Sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò indietro con forza.

 

“...On this home by Horror haunted—tell me truly, I implore— 
Is there—is there balm in Gilead?—tell me—tell me, I implore!” 
Quoth the Raven “Nevermore” 

 

 Gli alberi erano solo forme che si muovevano contro un cielo nero e nuvoloso. In una pozza di oscurità, tra due piante che formavano un passaggio ad arco unendo i rami, si assicurò che Elios stesse bene e lo tranquillizzò, dato che il cavallo era molto nervoso dopo la traversata. Le acque del fiume erano gelide.

Riprese ad avanzare.

 

Clarke fece in modo che quell’ultimo slancio durasse abbastanza a lungo. Le labbra di Lexa premute contro le sue erano qualcosa che doveva portare con sé. Non sapeva quando avrebbe potuto baciarla ancora. Quando si sarebbero riviste.

Si separò da lei e il suo respiro era ridotto ad un affanno.

“Vai, ora”, disse Lexa, senza smettere di fissarla. “Fa attenzione”.

L’ultima cosa che sentì, furono le dita di Lexa che serravano le sue.

 

La stanchezza aveva vinto di nuovo, ma quando si destò di soprassalto cadde da cavallo. Urtò la spalla e restò là per terra, tra le foglie morte. Pensò per un momento di non essere in grado di alzarsi. Era al di là delle sue forze. Sarebbe rimasta là fino a che non si sarebbe addormentata.

Sì, posso fermami. Posso fermarmi per un po’.

Ma fu quel pensiero, così falsamente confortevole, a spingerla a rimettersi in cammino. Perché se fosse rimasta chiunque la stesse inseguendo l’avrebbe trovata... e Luna. C’era Luna a cui pensare. La Fiamma.

Presa da un improvviso moto di panico si tastò l’armatura e infilò una mano sotto di essa. Trovò la scatoletta e l’aprì.

Il chip era ancora al suo posto. Il simbolo dell’infinito che la occhieggiava.

- Va tutto bene. – sussurrò.

E poi si impietrì.

Qualcosa si muoveva dietro di lei. Era un rumore furtivo, un lieve frusciare di erba secca e aghi di pino, il secco spezzarsi di un rametto, un fruscio guardingo tra il fogliame del sottobosco.

- Chi c’è?

 
“...Tell this soul with sorrow laden if, within the distant Aidenn, 
It shall clasp a sainted maiden whom the angels name Lenore— 
Clasp a rare and radiant maiden whom the angels name Lenore.” 
Quoth the Raven “Nevermore...” 

 

Un altro gracchio e lei ripensò al corvo del suo sogno.

Pensò allo stormo di corvi. Pensò a quello con gli occhi di brace che emetteva un suono quasi umano. Un nome.

Pensò al corvo sulla sponda del letto, con il chip nel becco.

E le coperte impregnate di sangue. E la litania di Titus. E la striscia nera sulla sua testa rasata. E la maglia strappata. Il foro del proiettile.

“Non avere paura”.

Toccò di nuovo la scatoletta che conteneva la Fiamma. La speranza per la sua gente.

Una parte di lei.

I rumori erano cessati. Una cosa nera tagliò, correndo, il sentiero. Era dotata di occhi gialli, ma non era per niente interessata alla ragazza in sella al cavallo bianco.

Proseguì. Uno zoccolo di Elios calpestò una piuma nera.

 

 ...Leave no black plume as a token of that lie thy soul hath spoken! 
Leave my loneliness unbroken!—quit the bust above my door! 
Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my door! 

 
Clarke udì il secondo proiettile sibilare sopra la sua schiena. Colpì le candele disposte in circolo su un tavolino.

Afferrò la prima cosa che le capitò a tiro. Una sedia. La scagliò contro il consigliere con tutte le sue forze. Travolto, Titus cadde per terra, dandole il tempo di correre verso la porta, mentre Murphy mugugnava qualcosa, lottando contro le corde e il bavaglio.

Le porte si spalancarono. Nel mentre, Titus sparò alla cieca un terzo colpo di pistola.

Andò a segno.

“Lexa!”, disse Clarke.

 
Quoth the Raven: “Nevermore”

 

 

____________________

 

 

Angolo autrice:

 

La mia prima storia su The 100 e sulla mia coppia preferita, ovvero la Clexa.

È una storia nata dopo la puntata più dolorosa della storia, ovvero la 3x07. All’inizio era completamente diversa, ma con il tempo l’ho modificata fino a quando non sono giunta a questo. Spero possa piacervi. Dovevo proprio scriverci sopra qualcosa.

I versi citati sono tratti dalla poesia di E.A. Poe, The Raven.


   
 
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