Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    11/05/2016    4 recensioni
Il messaggio di Moriarty ha sortito l’effetto desiderato: trattenere Sherlock a Londra. Ma il consulente investigativo sa bene che Moriarty non può essere l’autore di quel messaggio dato che si è ucciso sul tetto del Bart’s tre anni prima. Eppure qualcuno aveva degli interessi nel trarlo fuori da quella missione suicida. Ma chi?
Le indagini riprenderanno e Sherlock si ritroverà a dover affrontare un nuovo nemico, forse ancora più pericoloso di Moriarty che non solo sembra conoscerlo così bene da sapere esattamente dove andare a colpire, ma che è pronto a tutto per ottenere quello che vuole. E Sherlock, ancora una volta, dovrà fare i conti con i suoi demoni e con il suo cuore, sperando di riuscire ad avere la meglio.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For darkness shows the stars
 

IV
A crack in the glass
 
 
 John venne svegliato nel bel mezzo della notta da ansiti sommessi. Non appena aprì gli occhi, sentì un’ondata di dolore attraversargli la base del collo. Inclinò il capo a destra e a sinistra, sentendolo scricchiolare, massaggiandoselo con una mano. Sbatté più volte le palpebre e fu allora che vide Sherlock dimenarsi sotto le coperte. Ricordava di essersi addormentato sulla seggiola accanto al letto del suo amico, dato che aveva preferito non lasciarlo solo e adesso il suo corpo ne risentiva per aver dormito in una posizione così scomoda. Si massaggiò gli occhi e riportò lo sguardo su Sherlock.
 Il consulente investigativo si stava agitando, intrappolato fra le lenzuola, ansimando e gemendo sommessamente, ancora profondamente addormentato.
 John si mise in piedi e si avvicinò al materasso, accendendo l’abatjour sopra il comodino. La luce illuminò il volto pallido di Holmes, segnato da profonde occhiaie e scavato dopo settimane passate a mangiare di rado per dedicarsi ai casi. Il suo corpo era scosso da tremori potenti, quasi i muscoli si stesse contraendo tutti contemporaneamente. Il dottore scosse il capo e sospirò. Probabilmente stava avendo un incubo. Perciò, vedendo che l’amico non si era svegliato nemmeno quando aveva acceso la luce, gli poggiò una mano sulla spalla e lo scosse leggermente.
 «Sherlock» lo chiamò. «Svegliati.»
 Sherlock ansimò, bofonchiando qualcosa di incomprensibile e scuotendo il capo.
 «Sherlock» ripeté John, scuotendolo nuovamente, ma l’amico continuò a lamentarsi e tremare sotto il suo tocco, senza aprire gli occhi. «Avanti, apri gli occhi. Svegliati.»
 Il consulente investigativo spalancò gli occhi di scatto e annaspò per cercare aria. Volse il capo a destra e a sinistra per capire dove si trovasse e per un momento i suoi occhi vennero attraversati dal panico. Gemette, disorientato e apparentemente spaventato.
 «Ehi…» sussurrò John, accarezzandogli il capo e cercando il suo sguardo. «Tranquillo, sei in ospedale.»
 Sherlock, dopo aver incrociato lo sguardo dell’amico, si mise a sedere respirando affannosamente per lo sforzo. Rivoli di sudore colavano lungo il suo viso e i suoi occhi erano spenti e vitrei. Si portò le mani alle orecchie e le ginocchia al petto, tentando di calmare i suoi respiri e recuperare la lucidità.
 «Non è reale…» ansimò, dondolandosi avanti a indietro, premendo con più forza le mani ai lati del viso. «Non è reale. Non è reale. Non è reale… stai sognando. Lui non c’è più. Non c’è più… non può più farci del male…»
 John aggrottò le sopracciglia, confuso di fronte a quelle parole, apparentemente prive di senso. «Era solo un brutto sogno, Sherlock. Va tutto bene.» assicurò, stringendo la mano intorno alla sua spalla per richiamare la sua attenzione e riportarlo alla realtà. «Stai tranquillo. Qualsiasi cosa fosse, è finita.»
 Sherlock continuò ad ansimare e scuotere il capo. «Non volevo che morisse… non volevo…» balbettò. «Mi dispiace…»
 Quando il consulente investigativo ebbe sollevato lo sguardo sul suo volto, il medico poté vedere che le lacrime gli avevano rigato le guance e sentì il cuore sprofondare nel petto. Sherlock non piangeva mai. Aveva scelto di non provare emozioni, di distaccarsi da tutto ciò che avrebbe potuto renderlo debole. Eppure in quel momento… era crollato. Era successo solo sul tetto del Bart’s prima che si buttasse e dopo aver sparato a Magnussen… cosa poteva aver sognato per avergli provocato quella reazione? Qualsiasi cosa fosse, si disse John alla fine, non poteva vederlo così.
 «Mi dispiace tanto…» singhiozzò Sherlock, scuotendo il capo. «Non doveva finire così… non doveva morire… avrebbero dovuto uccidere me…»
 Watson, colpito in pieno da quelle parole cariche di dolore, si sporse verso di lui, gli circondò le spalle con le braccia e lo tirò verso di sé, abbracciandolo. «Shh…» sussurrò, accarezzandogli i capelli. «Shh… è tutto ok. Calmati.»
 Sherlock scosse il capo, stringendosi contro il suo petto. «Mi dispiace… non volevo… Mary dovrebbe essere qui con te… io dovrei essere morto…» singhiozzò scuotendo il capo e aggrappandosi alle spalle di John. «Dovrei essere morto…»
 Il dottore sentì il cuore ricevere l’ennesima stilettata. «Non dire sciocchezze.» replicò, accarezzandogli la schiena. «Non è vero. Sai che non è vero.»
 Holmes singhiozzò. «Hai perso tutto a causa mia… ho distrutto tutto…»
 «No, non è così.» disse Watson. «È vero, Mary non c’è più, ma ho ancora Gemma.» fece notare. «E te.» lo allontanò dal suo petto e gli prese il volto fra le mani, accarezzandogli le guance con i pollici, per asciugargli le lacrime. «Ehi, Sherlock, guardami…» disse e quando il moro sollevò lo sguardo sul volto di John, lui gli sorrise dolcemente. «Ho te. E mi basta.»
 Sherlock scosse il capo, abbassandolo per nascondere le lacrime.
 John gli accarezzò nuovamente il viso e fu allora che si accorse che la sua pelle era bollente. Aggrottò le sopracciglia, scostando i riccioli dell’amico e poggiandogli una mano sulla fronte. «Scotti.» fece notare. «Hai la febbre alta.» forse era proprio quella la ragione per cui era crollato in quel modo. «Sdraiati.» disse il medico, poggiandogli le mani sulle spalle. Non appena si fu sdraiato sulla schiena, John gli poggiò due dita su un polso. Il battito era accelerato e irregolare, segno che la tachicardia era tornata. Vedendo che aveva ripreso ad agitarsi sul materasso, gli accarezzò il capo. «Shh… calmati, va tutto bene.» sospirò e riprese. «Vado a cercare un dottore.»
 Non appena tentò di allontanarsi, Sherlock lo prese per un polso e lo bloccò. «No…» scattò «Non lasciarmi solo…» lo implorò. «Non andare via… non voglio stare solo, John… per favore…»
 «Voglio solo trovare un dottore.» spiegò Watson, accarezzandogli il capo. «Torno subito. Promesso.» concluse e dopo avergli rivolto uno sguardo rassicurante, uscì per trovare un medico che potesse occuparsi di lui.
 
 Dopo averlo visitato, il dottore spiegò a Watson che probabilmente si trattava di un’infezione. Perciò ricontrollò la ferita, la ripulì e somministrò a Sherlock degli antibiotici, raccomandandosi di rimanere a riposo per permettere alle medicine di fare effetto. Poi uscì dalla stanza, lasciando Sherlock e John nuovamente soli.
 Il medico si avvicinò al materasso e vedendo Sherlock lamentarsi e respirare affannosamente, cercò il suo sguardo. «Senti dolore?» chiese.
 Il consulente investigativo inspirò profondamente. «Le gambe e le braccia…»
 Watson annuì. «È la febbre.» spiegò «È normale avere dolori articolari in questi casi. Vedrai che con gli antibiotici passeranno in fretta.» assicurò, poi sorrise, prendendo posto sulla seggiola accanto al materasso. «Adesso dormi, Sherlock.»
 «Puoi rimanere qui?» chiese Holmes, speranzoso, la voce flebile.
 «Ma certo che rimango.» assicurò John, accarezzandogli il dorso della mano. La febbre aveva abbassato ogni sua difesa e probabilmente se fosse stato lucido non avrebbe mai pronunciato quelle parole, ma poco importava. In quel momento aveva bisogno di lui e non l’avrebbe lasciato. «Dove pensi che potrei andare?»
 Sherlock ansimò. «Non voglio rimanere solo…» bofonchiò.
 «Non sei solo.» assicurò il dottore. «Ci sono io, qui.»
 Le lacrime rigarono il volto del consulente investigativo, che singhiozzò. «Tu mi lascerai… te ne andrai ancora…» ansimò «Ti prometto che non ti ferirò più, ma non andartene di nuovo…»
 John aggrottò le sopracciglia Ancora? Non l’aveva mai lasciato solo. Gli era sempre rimasto accanto, nonostante tutto. Non avrebbe avuto motivo di abbandonarlo o lasciarlo indietro. Eppure Sherlock pensava il contrario. Perché?
 «Io non ti lascerò, Sherlock.» assicurò il dottore, stringendogli la mano per rassicurarlo dato che aveva nuovamente preso ad agitarsi. «Non ti ho mai lasciato solo e tantomeno lo farò adesso. Te lo prometto.»
 Sherlock, a quelle parole, sembrò rilassarsi. Per un momento i suoi occhi percorsero il volto di John, carpendo ogni dettaglio, quasi stesse studiando la sua espressione in cerca di qualcosa. «John, io sono…» esordì con voce tremante. Inspirò profondamente. «Io ti…»
 «Shh…» replicò John, interrompendolo e stringendogli maggiormente la mano. «Chiudi gli occhi e tenta di dormire. Quando ti sveglierai ti sentirai meglio.»
 Il consulente investigativo gemette nuovamente, rannicchiandosi su un fianco e chiudendo gli occhi. Cominciò a respirare affannosamente, quasi l’aria nella stanza fosse rarefatta e si portò le mani allo stomaco.
 «Ehi…» sussurrò John, accarezzandogli il capo.
 «Lo stomaco…» bofonchiò Sherlock. «Fa male…»
 Il medico rifletté per un momento sul da farsi, ma considerando che probabilmente era l’infezione a causare quei dolori, non avrebbe potuto fare molto, nemmeno con qualche terapia. Perciò si mise in piedi e si chinò su di lui per parlargli all’orecchio.
 «Sdraiati sulla schiena.» sussurrò.
 Sherlock, a fatica, eseguì, continuando ad ansimare dal dolore.
 Una volta sdraiato supino, John prese a massaggiargli il petto all’altezza dello stomaco, muovendo la mano in circolo, mentre con l’altra gli accarezzava i capelli. Cercò il suo sguardo e quando agganciò i suoi occhi, sorrise.
 «Shh… passerà.» disse, parlando dolcemente. «Respira profondamente.»
 Sherlock prese a fare respiri profondi, senza staccare gli occhi da quelli di John, che continuò a sorridergli rassicurante fino a che non si fu tranquillizzato del tutto. Poco dopo, beandosi delle carezze di John, Sherlock cadde in un sonno profondo.
 
 Mycroft e Greg raggiunsero l’ospedale il giorno seguente. Quando entrarono nella stanza di Sherlock, trovarono John seduto sulla seggiola, il capo poggiato sulle braccia, incrociate sul materasso; era profondamente addormentato proprio come Sherlock, tanto che non si accorsero nemmeno del loro ingresso.
 Lestrade e il politico si scambiarono uno sguardo, poi il poliziotto si mosse verso il medico, poggiandogli una mano sulla spalla per svegliarlo.
 Lo scosse leggermente. «John?»
 Il dottore inspirò profondamente e aprì lentamente gli occhi. Sollevò il lentamente il capo e incontrò lo sguardo di Lestrade. A quel punto si mise a sedere diritto sulla sedia. «Ciao.»
 «Ehi…» ricambiò il poliziotto, accarezzandogli la spalla. «Sei qui da tre giorni, John, dovresti andare a casa a riposare. Sei distrutto.»
 «Non posso lasciarlo solo.» affermò John, stropicciandosi gli occhi e voltandosi verso Sherlock, ancora profondamente addormentato. «Ieri notte si è sentito male. Ha sviluppato un’infezione e i medici l’hanno messo sotto antibiotici. Mi ha chiesto di rimanere e di non lasciarlo solo. Non posso andarmene.»
 «Posso rimanere io con lui, John.» affermò Mycroft, avanzando. «Tu devi andare da tua figlia e poi a casa a riposare. Non ti sei ancora mosso di qui da quando l’hanno operato. Hai bisogno di una pausa.»
 John si voltò verso Sherlock, osservandolo nuovamente per un lungo momento. Poi sospirò e annuì. «D’accordo.» concesse e si mise in piedi, stiracchiandosi. «Se si sveglia e chiede di me, digli che torno stasera per darti il cambio.» aggiunse, rivolto al politico.
 Mycroft annuì e prese posto sulla seggiola accanto al letto.
 «Ti accompagno a casa.» aggiunse Greg, poggiandogli una mano sulla spalla. «A presto, Mycroft.» concluse, rivolgendo un sorriso al politico, che ricambiò debolmente.
 
 Sherlock aprì gli occhi di scatto, svegliato da un incubo. Ansimò, disorientato, ma non appena volse il capo, i suoi occhi si posarono sul viso di suo fratello, seduto sulla seggiola accanto materasso. Si rilassò e i suoi respiri divennero più regolari, ricordando che era in ospedale dopo essere stato ferito da Moran. Sbatté più volte le palpebre per mettere a fuoco ciò che aveva intorno e poi inspirò profondamente. Si mosse sul materasso, sentendo i muscoli delle gambe e delle braccia ancora doloranti a causa della febbre.
 «Mycroft…» mormorò, voltandosi verso di lui.
 «Come ti senti?» chiese il maggiore, mettendosi in piedi e poggiandogli una mano sulla fronte.
 Sherlock tremò. «Ho freddo…» mormorò. La febbre non era ancora passata del tutto, ma poteva decisamente affermare di sentirsi meglio dopo aver assunto gli antibiotici che il medico gli aveva somministrato la notte precedente.
 Mycroft annuì e prese la coperta che era poggiata ai piedi del letto, stendendola su di lui. «Hai ancora la febbre.» affermò, guardandolo negli occhi. «L’infezione non è ancora passata del tutto, ma con gli antibiotici che ti hanno somministrato presto ti sentirai meglio.»
 Al minore servì qualche istante per processare quelle parole, ancora avvolto dall’alone della febbre, ma alla fine annuì. «John?» chiese immediatamente, dopo aver voltato il capo a destra e a sinistra in cerca dell’amico, vedendo che non era lì con lui.
 «Gli ho dato il cambio per qualche ora. Non si muoveva di qui da tre giorni. Aveva decisamente bisogno di dormire e di vedere sua figlia.» lo informò il politico, prendendo posto sulla seggiola accanto al letto. «Tornerà questa sera. Non preoccuparti.» concluse.
 Sherlock inspirò profondamente e poi annuì. Anche se avrebbe tanto voluto che John fosse lì con lui, sapeva bene che avrebbe dovuto occuparsi di sua figlia e che avrebbe avuto bisogno di riposare, perciò non si lamentò.
 Per un momento rimase con gli occhi puntati sul soffitto, poi li spostò sul viso del fratello. Solo qualche giorno prima l’aveva trovato coperto di dinamite nel suo ufficio, insieme a Moran, che non solo l’aveva costretto a dire e fare ciò che voleva ma che aveva anche minacciato di farlo saltare in aria. Doveva ammettere che in quel momento aveva provato paura… paura di poter vedere suo fratello morire sotto i suoi occhi, senza la possibilità di aiutarlo o impedire che accadesse… paura di perderlo per sempre. Era stata una sensazione terribile – anche se gli era costato ammetterlo – la peggiore che avesse mai provato. Per questo l’avrebbe fatta pagare a Moran per ciò che aveva fatto. L’avrebbe trovato e l’avrebbe fatto soffrire per aver fatto una cosa del genere a suo fratello e per aver ucciso Mary, lasciando John vedovo e Gemma orfana.
 Si voltò verso il maggiore e si schiarì la voce. «Stai bene?» chiese, puntando gli occhi nei suoi, in cerca di qualche segno che lasciasse intendere che andava tutto bene.
 Mycroft sembrò sorpreso di fronte a quella domanda, tanto che esitò. I suoi occhi incontrarono quelli di Sherlock e vi si soffermarono per un momento. Aggrottò le sopracciglia. «Sì, certo.» rispose, perplesso. «Non dovrei?»
 «Dopo Moran…» disse soltanto Sherlock.
 A Mycroft bastarono quelle parole per capire cosa intendesse dire. Infatti abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi per un lungo momento, riordinando le idee e tentando di allontanare le immagini di quel terrificante pomeriggio dalla mente.
 «È solo…» si schiarì la voce e impallidì improvvisamente. «È stato…»
 «Eri spaventato.» concluse Sherlock. «Te l’ho letto negli occhi.»
 Mycroft sollevò le sopracciglia, poi abbassò lo sguardo. «Ero coperto di esplosivo.»
 Sherlock sospirò e si zittì, poi, dopo un momento, riprese. «Anche io ho avuto paura.» ammise. «Per un momento, io… non sapevo come comportarmi, non sapevo cosa fare per tirarti fuori da quella situazione. E ho avuto paura che Moran potesse farti del male.»
 Il politico risollevò il capo e assottigliò lo sguardo, osservandolo guardingo per qualche secondo. «La febbre ti sta facendo straparlare.» concluse, avendo intuito che fosse l’unica spiegazione possibile per quel comportamento. Sherlock non esprimeva mai i suoi sentimenti, esattamente come lui. E l’unico motivo per cui avrebbe dovuto cominciare in quel momento era che la febbre lo avesse confuso più del dovuto.
 «Forse.» concesse l’altro, portandosi una mano al petto e accarezzando le bende che coprivano la ferita inferta da Moran. «Ma ho veramente avuto paura di perderti. E dopo ciò che è successo con Mary…» sospirò. «Non voglio che altre persone muoiano a causa di Moran, quando è evidente che è me che vuole.»
 «Sì, ora ne ho la conferma. Stai straparlando.» disse Mycroft. «Dormi e quando sarai tornato completamente in te, potrai mettermi al corrente riguardo a ciò che pensi davvero.»
 Sherlock sospirò, deluso di fronte a quella reazione da parte del fratello, ma alla fine annuì, tornando ad affondare il capo tra i cuscini. Chiuse gli occhi e poco dopo cadde nuovamente in un sonno profondo.
 
 Quando Sherlock tornò a casa, la settimana seguente, lo fece insieme a John e Gemma, che finalmente era stata dimessa per restare in via definitiva insieme al padre. Watson si era offerto di riaccompagnare a casa il consulente investigativo, in modo da assicurarsi che tutto fosse in ordine e che l’amico non avesse bisogno di nulla. Perciò entrambi avevano preso un taxi ed erano partiti alla volta di Baker Street, ansiosi di tornare a casa e lasciarsi l’ospedale alle spalle.  
 Una volta entrati in salotto, Sherlock sorrise, sospirando. «Finalmente.» esordì. «Non vedevo l’ora di tornare a casa.» si voltò verso John e sorrise, abbassando poi lo sguardo sull’ovetto in cui Gemma giaceva addormentata. «Ti va una tazza di tè?»
 John esitò. Forse sarebbe stato meglio tornare a casa per sistemare le cose di Gemma e preparare il lettino e tutto il necessario per prendersi cura di lei… ma in fondo che fretta c’era? Perciò alla fine si ritrovò ad annuire. «Certo. Grazie.»
 Holmes sorrise. «Siediti.» disse, dopo essersi sfilato il cappotto. «Ci penso io.» e, detto questo, si avviò in cucina.
 John poggiò l’ovetto sul tavolino da caffè, sedendosi sul divano e osservando sua figlia dormire tranquillamente. La signora Hudson aveva portato degli abiti in ospedale e gli aveva spiegato di vestirla in modo che non prendesse freddo, quindi, prima di tornare a casa, l’uomo aveva fatto indossare a Gemma la sua giacca, i guanti e un cappellino verde acqua che la padrona di casa aveva tessuto apposta per lei, per ripararla dal freddo invernale.
 Dato che in salotto l’ambiente era riscaldato dal fuoco che scoppiettava nel camino, John tolse alla figlia i guanti e il cappellino, scoprendo il leggero strato di capelli biondi e le manine dalle dita sottili. Accennò un sorriso. Quella bambina era sempre più simile a sua madre. I capelli, la forma del viso, il naso sottile, gli occhi… ogni cosa in lei ricordava Mary. Distolse lo sguardo, poggiando i guanti e il cappellino a terra sul borsone in cui erano contenuti tutti gli oggetti da utilizzare per Gemma.
 Chiuse gli occhi. Da quel momento in poi sarebbe rimasto solo. Avrebbe dovuto crescere una figlia e prendersene cura senza l’aiuto di nessuno. E sapeva che non sarebbe stato affatto facile. Sospirò. Nonostante tutto ciò che gli aveva fatto passare, doveva ammettere che avrebbe tanto voluto che Mary fosse lì con lui. Non poteva farcela da solo. Non sapeva come prendersi cura di un bambino, non sapeva come fare il padre… e se avesse sbagliato? Come avrebbe potuto rimediare? Gemma non era un giocattolo, ma una bambina vera, che aveva bisogno di cure vere e di attenzione, cose che John non era certo di poterle dare.
 Il corso dei suoi pensieri venne interro da Sherlock che entrò in salotto con un vassoio tra le mani. Lo poggiò sul tavolino da caffè, vicino all’ovetto e prese posto sul divano accanto all’amico. Versò il tè, miscelato con un po’ di latte, nelle tazze e porse a John quella senza zucchero, immergendo due zollette nell’altra, prendendola poi tra le mani.
 «È una gran dormigliona.» affermò, indicando Gemma con un cenno del capo, mescolando il tè con un cucchiaino. «Mi ricorda qualcuno…»
 John sorrise. «Non sono un dormiglione.» protestò portandosi la tazza alle labbra.  
 Sherlock rise. «Ma se sei il primo a crollare, quando ci occupiamo di qualche caso.» esclamò divertito. «Devo ricordarti chi resta sveglio tutta la notte fino a che non è venuto a capo del mistero?»
 «Infatti.» confermò John. «Sei tu che rimani sveglio troppo a lungo. E poi diventi suscettibile e ti chiedi il perché. Dormire è salutare, dovresti farlo più spesso. Così potresti essere mansueto come in questi giorni in ospedale.»
 Il consulente investigativo scosse il capo, risoluto. «Perderei solamente tempo se passassi metà della mia esistenza a dormire.» fece notare con un’occhiata d’intesa. «Sono molto più produttivo quando sono sveglio.»
 John rise e si voltò di scatto verso Gemma, avendola sentita lamentarsi nel sonno. Vedendo che aveva preso a stiracchiarsi e lamentarsi sommessamente, poggiò la tazza sul tavolino da caffè, sganciò le cinghie che la tenevano legata alla culla e la prese tra le braccia. «Shh…» sussurrò, accarezzandogli la testolina con delicatezza e cullandola per calmarla. «Shh…» prese il ciuccio, che era caduto e lo avvicinò nuovamente alla bocca della piccola, che riprese a succhiarlo delicatamente, tranquillizzandosi.
 «Per essere qualcuno che è diventato padre per la prima volta, te la cavi molto bene.» fece notare Sherlock.
 Il medico accennò un sorriso, senza staccare gli occhi dal viso della figlia, che lo stava osservando con i suoi grandi occhi blu, tentando di afferragli la mano. «Non sarò mai all’altezza.» confessò, sentendo il suo cuore appesantirsi dopo quella ammissione.
 Holmes aggrottò le sopracciglia. «All’altezza di cosa?»
 «Di Mary.» replicò Watson, spostando lo sguardo sul volto di lui. «Lei sarebbe stata una buona madre, aldilà di tutte le cose brutte che aveva fatto. Ma io…» sospirò e scosse il capo. «Non so da che parte si comincia a fare il padre e quando Gemma crescerà non credo che sarò in grado di-»
 «Tu non devi essere all’altezza di nessuno.» affermò Sherlock, interrompendolo e poggiando la tazza vuota sul vassoio. «Tu devi essere tu. John Watson. Il padre di Gemma. Anche perché, per quanti errori potrai fare, per quante volte potrai sbagliare, una cosa di cui non dovrai mai avere paura sarà di perdere la stima di tua figlia.»
 John, stupito da quelle parole, agganciò gli occhi dell’amico per un lungo istante.
 Sherlock, notando che il medico sembrava perplesso, riprese. «Sono cresciuto con Mycroft e grazie a Mycroft, anche se mi costa molto ammetterlo.» spiegò. «Quand’ero piccolo, i miei genitori non c’erano quasi mai. Avevano il lavoro di cui occuparsi e non avevano certo tempo di star dietro ai propri figli. Quindi passavo la maggior parte del tempo insieme a mio fratello. È stato lui ad insegnarmi tutto quello che so ed è grazie a lui se adesso sono… be’… così. Anche se, adesso che ci penso, non credo sia un vanto.» aggiunse inarcando le sopracciglia.
 John rise sommessamente.
 «Ciò che sto cercando di dirti, John, è che anche se i miei genitori non ci sono mai stati per me, questo non cambia di certo il fatto che io li stimi profondamente come persone e che li rispetti pienamente.» affermò Holmes, tornando serio. «Certo, hanno scelto una strada diversa a quella che avrei scelto io se i figli fossero stati miei, ma comunque sono orgoglioso per tutto ciò che sono stati capaci di costruire. E allo stesso modo, anche se mi costa ammetterlo, stimo mio fratello per ciò che è stato capace di insegnarmi, nonostante tutti gli errori che può aver fatto nel percorso.»  
 Il sorriso di John si addolcì.
 «Perché quella faccia? Non mi credevi capace di dire una cosa del genere?» domandò il consulente investigativo. «Guarda che a volte anche io dico cose sensate.»
 Il medico scosse il capo. «Non è questo.» dichiarò. «So bene che sei più saggio di quanto non ti piaccia mostrare e ammetto che sì, un po’ mi stupisce vederti attribuire a Mycroft il merito di tutto ciò che sai. Ma so che sei capace di questo e molto altro.»
 Sherlock abbassò lo sguardo.
 «Ho visto come sei veramente, Sherlock. Non devi nasconderlo.» aggiunse John, vedendo che Holmes era arrossito. «Magari con gli altri sì, ma non con me. Ormai siamo amici da troppo tempo per poterci nascondere certe cose.»
 Sherlock rise sommessamente. «Non ti si può nascondere niente, dottor Watson.» disse, poggiando la tazza del dottore sul vassoio, per non dover incontrare il suo sguardo. «Non poteva capitarmi un amico migliore.»
 John gli diede un buffetto sul braccio e quando i loro sguardi si incontrarono nuovamente, gli sorrise dolcemente, tentando di celare il velo di tristezza che da tempo gli attanagliava il cuore. «Grazie per ciò che fai per me.» affermò. «È importante.»
 «Lo so.» confermò il moro e i suoi occhi blu incontrarono quelli dell’amico, studiando ogni particolare del suo viso. «Per questo lo faccio.»
 Dopo un momento di silenzio, John spostò lo sguardo su sua figlia, per poi riportarlo sul consulente investigativo. «Ti va di tenerla?» chiese. «Non l’hai ancora presa in braccio da quando l’hanno tolta dall’incubatrice.»
 Sherlock esitò, scuotendo leggermente il capo. «Non so se sono in grado.»
 «Non è difficile.» replicò Watson, porgendogli la bambina. «Devi mettere una mano dietro la testa e una dietro la schiena.» affermò e quando Sherlock la prese tra le braccia, sorrise. «Così, bravo. Ora fai in modo che abbia il collo poggiato nell’incavo del tuo gomito, in modo che il tuo braccio le regga la testa.» aggiunse.
 Sherlock eseguì e quando si fu posizionato la bambina tra le braccia, le accarezzò delicatamente una guancia con le dita. Un sorriso gli increspò le labbra e i suoi occhi sembrarono illuminarsi. «Diventa più bella ogni giorno che passa.» mormorò.
 John sorrise a sua volta, intenerito da quella scena. «Finalmente una donna è riuscita a conquistare il tuo cuore.» replicò. «Non credevo sarebbe mai accaduto.»
 Sherlock sollevò lo sguardo sul volto dell’amico e aggrottò le sopracciglia, studiandolo per un lungo istante. «Ha conquistato il mio, ma sembra che non abbia fatto lo stesso con te.» fece notare.
 John sentì un moto di senso di colpa aggrovigliargli lo stomaco.
 «John, ho notato che ti comporti in modo strano da quando Gemma è nata. E non ho potuto fare a meno di notare che le riservi uno sguardo diffidente ogni volta in cui posi gli occhi su di lei.» riprese Sherlock «Quindi la mia domanda è: cosa può averti fatto una bambina tanto piccola per guadagnarsi quello sguardo?»
 John sospirò e scosse il capo. Ovviamente Sherlock l’aveva scoperto. Era stato stupido, da parte sua, tentare di nasconderlo. Era ovvio che prima o poi il suo amico lo avrebbe dedotto. «È solo che…» esordì, ma subito si interruppe. «Lei… io…» strinse i pugni tanto da far sbiancare le nocche. Come poteva ammettere una cosa tanto stupida e priva di senso? E soprattutto ingiusta. Perché in fondo sapeva di non poter incolpare sua figlia per i peccati della madre… eppure non poteva fare a meno di pensarci e ripensarci.
 «Fammi indovinare: ogni volta che la guardi ti sembra di vedere Mary.» disse Sherlock e vedendo lo sguardo stupito di Watson, aggiunse: «Avanti, John, non sono stupido. Tu stesso hai detto che siamo amici da troppo tempo per poterci nascondere certe cose.»
 John chinò il capo e per qualche secondo non parlò. Poi, con voce flebile e tremante disse: «È identica a lei. Ogni volta che la guardo rivedo Mary e le sue bugie. E allo stesso tempo vedo il sacrificio che ha compiuto per tenere Gemma in vita e mi sento in colpa perché sono così furioso con lei per quello che mi ha fatto… eppure non ha esitato a salvare nostra figlia.» spiegò con un sospiro. «Sembra che Gemma voglia ricordarmi costantemente che sono una persona orribile, che il mio odio per Mary era sbagliato, che non se lo meritava e che avrei dovuto perdonarla realmente, invece di fingere e illuderla.»
 «Avevi solo bisogno di tempo.»
 «Ho avuto sei mesi e non sono riuscito a perdonarla. Quanto tempo credi che ci voglia a perdonare qualcuno?» chiese, la voce incrinata dalla frustrazione. «Con te mi sono bastati pochi secondi, ma con lei non sono bastati sei mesi. E ancora adesso, dopo averla vista morire, non riesco a perdonarle ciò che ha fatto.»
 Sherlock abbassò lo sguardo su Gemma, cullandola delicatamente. «È stato un duro colpo per te. Hai scoperto la verità sul suo passato e il fatto che avesse tentato di uccidere Magnussen in un colpo solo. È normale che sia così complicato.» concluse, afferrando la manina di Gemma che le stava muovendo lentamente, tentando di afferrare le dita del consulente investigativo.
 «Credo che la cosa che più mi ha infastidito sia stata il fatto che abbia tentato di uccidere te.» confessò. Si portò le mani al viso e si massaggiò gli occhi. «Il fatto che ti stesse così vicino e il fatto di non sapere cosa gli passasse per la testa mi tormentava. A volte avevo paura che potesse tirare fuori la sua pistola e spararti ancora. Che potesse portarti via da me di nuovo.»
 «È assurdo, John.» replicò Sherlock, scuotendo il capo, riportando lo sguardo sul volto di John. «Abbiamo già chiarito che mi ha sparato per assicurarsi che né tu né io fossimo accusati dell’aggressione a Magnussen. L’ha fatto per aiutarci e di certo non mi avrebbe sparato ancora. Non ne avrebbe avuto motivo.»
 John si volse verso di lui, incrociando il suo sguardo. «Davvero la reputavi una così brava donna? Davvero credevi che se le fosse ricapitata un’occasione del genere ti avrebbe risparmiato?» chiese. Poi scosse il capo. «Se ti fossi messo nuovamente sulla sua strada, magari per proteggermi e farmi sapere la verità, lei ti avrebbe eliminato senza esitare. Ti aveva avvertito quella sera a Leinster Garden. Ti aveva detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per impedire che io venissi a sapere la verità e se tu avessi tentato di informarmi, lei ti avrebbe tolto di mezzo senza problemi.» fece notare. «Era prima di tutto un’assassina, Sherlock. Ricordatelo bene.»
 «Un’agente della CIA addestrata per uccidere criminali.» lo corresse. «Se davvero nella sua vita passata ha ucciso qualcuno, di certo quel qualcuno doveva essere un criminale. La CIA non permette ai suoi assassini di uccidere vicini di casa molesti.»
 «È pur sempre uccidere.» fece notare John.
 «Poco meno di un mese fa ho sparato a Magnussen.» dichiarò Sherlock. «Eppure non mi sei sembrato così turbato dopo avermi visto uccidere un uomo a sangue freddo.»
 «È diverso.»
 Holmes aggrottò le sopracciglia. «Cosa è diverso?» domandò. «Magnussen era un criminale, esattamente come le persone che Mary ha ucciso prima di lasciare la CIA. Io e lei non siamo poi così diversi.» affermò. «Devo pensare che come non hai potuto perdonare lei, non riuscirai a perdonare me?»
 «Ti ho già perdonato.» replicò John.
 «Perché hai perdonato me e non lei?»
 Il dottore sembrò spiazzato da quella domanda. Esitò. «Perché tu… tu l’hai fatto per noi. Hai ucciso Magnussen per proteggere noi.» rispose. «Mary ha ucciso perché era pagata per farlo.»
 «E questo la rende più colpevole di me?»
 «Sì.» disse John, con voce ferma. «Tu uccideresti mai per denaro? Toglieresti la vita a qualcuno e accetteresti di essere pagato per averlo fatto?» chiese e quando Sherlock abbassò lo sguardo, capì di aver colto nel segno. «No, infatti. Come immaginavo.» confermò. «Ed è perché sei una brava persona. Ma Mary ha scelto di farlo e io non sono costretto a condividere la sua scelta. E sì, quello è il suo passato, ma il fatto che abbia deliberatamente tentato di nasconderlo non giocava a suo favore e io non potrò mai perdonarglielo. Tu mi hai sempre raccontato la verità riguardo tutto ciò che ci e ti riguardava e come l’hai fatto tu con il tuo passato, poteva farlo anche lei con il proprio. Magari senza arrivare a spararti.»
 Sherlock sospirò.
 «Sai bene che ho ragione.»
 «Non ti sto dando torto. So che hai tutti i motivi per essere furioso.» affermò Sherlock. «Ma non far ricadere le colpe di Mary su Gemma. Tua figlia non è colpevole dei peccati della madre, né tantomeno è qui per farti sentire in colpa. È qui perché è nata dal vostro amore.»
 John strinse i pugni, sentendo pronunciare quelle parole. «Amore finito quando ti ha sparato.» precisò. «Non la amavo più, era evidente.»
 «Non importa.» replicò Sherlock. «L’amore potrà essere finito, ma Gemma rimane ed è tua figlia, John.» disse, accarezzandole il capo, vedendo che si era riaddormentata. Quando risollevò lo sguardo e vide che John aveva nuovamente il capo chinato, riprese, parlando dolcemente. «Davvero non ti rendi conto di quanto ti somigli?»
 Watson risollevò lo sguardo, stupito, incontrando gli occhi dell’amico. Non aveva notato nessuna somiglianza. Sua figlia era esattamente identica a Mary. Non somigliava per niente a lui. Era innegabile.
 «È te in tutto e per tutto.» dichiarò Holmes. «Avanti, John, guardala. Ha il tuo viso, i tuoi occhi e i tuoi capelli. È una bambina meravigliosa ed è tutto grazie a te.»
 John si stupì. Quella era la conversazione più strana che avesse mai avuto con Sherlock Holmes. E quello che aveva appena sentito aveva tutta l’aria di essere un complimento. Quando tentò di ribattere, però, la voce di Mycroft, proveniente dal corridoio, lo interruppe.
 «Disturbo?» chiese il politico, avanzando e varcando la soglia, senza nemmeno disturbarsi a chiedere il permesso.
 Sherlock e John sollevarono lo sguardo su di lui, vestito nel suo elegante completo grigio, abbinato a una cravatta verde acqua e a una camicia bianca. Il cappotto grigio scuro arrivava fino alle ginocchia e si abbinava perfettamente al fedele ombrello che teneva stretto nella mano destra.
 «No, fratellone.» rispose Sherlock. «Ti direi di accomodarti, ma sarebbe inutile.»
 «Infatti. In ogni caso sono solo di passaggio.» confermò il maggiore degli Holmes, infilando una mano nella tasca interna della giacca, estraendo un piccolo oggetto nero. «Sono venuto per portarti ciò che mi avevi chiesto.» concluse e si avvicinò al tavolino da caffè, per poggiarci sopra una chiavetta.
 John aggrottò le sopracciglia.
 Sherlock si voltò verso di lui e captando il suo sguardo perplesso passò a spiegare. «Ricordi quando mi hai affidato la copia che avevi fatto della chiavetta che Mary ti aveva dato?» e vedendolo annuire, proseguì. «L’ho affidata a Mycroft. Ma ho pensato che fosse arrivata l’ora di leggerla per scoprire qualcosa di più sui presunti legami tra Moran e Mary. Sebastian conosceva troppe cose per essere qualcuno non coinvolto.»
 Watson annuì. «Probabilmente lì c’è tutto ciò che stiamo cercando.»
 «Esattamente.» confermò Sherlock.
 Mycroft si schiarì la voce, riportando l’attenzione dei due su di sé. «Bene, credo che per me sia arrivato il momento di togliere il disturbo.» disse. «Vedo che la nuova arrivata ha già conquistato un posto nel tuo cuore, Sherlock.» fece notare, indicando la bambina, ancora stretta tra le braccia di suo fratello. «Credevo che appartenesse già a qualcun altro.»
 «Non avevi detto di essere solo di passaggio, Mycroft?» replicò il minore, senza tracce di imbarazzo dopo quell’insinuazione.
 Mycroft sorrise. «È stato un piacere.» disse, poi si voltò verso il medico e con sguardo gentile aggiunse: «Se avessi bisogno di qualcosa, John, non esitare a chiedere.» 
 John sgranò gli occhi. «Oh, d’accordo.» disse, stupito. «Grazie, Mycroft.»
 Il politico chinò il capo a mo’ di saluto e poi lasciò l’appartamento, chiudendosi la porta alle spalle. Scese lentamente le scale e quando la porta d’ingresso si fu richiusa, i due furono certi che avesse lasciato Baker Street.
 «A cosa si stava riferendo?» domandò John, tornando a voltarsi verso Sherlock, con le sopracciglia aggrottate. Aveva detto che credeva che il cuore di suo fratello appartenesse già a qualcun altro. Ma a chi? Sherlock aveva forse trovato qualcuno? O si stava riferendo alla sua passata attrazione per Irene Adler? Sempre che sia passata, sussurrò una voce nella sua testa. John tentò di allontanarla, dicendosi che Irene Adler era un capitolo chiuso e che era morta da troppo tempo per avere ancora un posto d’onore nel cuore di Sherlock. Eppure quel pensiero, non seppe perché, gli fece contorcere lo stomaco.
 «Non ne ho la più pallida idea.» rispose Sherlock, facendo spallucce. «Credo che dopo l’episodio con Moran abbia perso la testa. Quando mai Mycroft ti avrebbe offerto il suo aiuto? È chiaramente confuso.» concluse.
 John sospirò e decise di non indagare oltre, avendo capito che l’amico non gli avrebbe mai spiegato nulla. «Allora, cosa stia aspettando a leggerla?» chiese, indicando la chiavetta.
 Sherlock sospirò. «Non voglio che tu ci sia mentre lo faccio.»
 John sgranò gli occhi. «Cosa?!» esclamò.
 Gemma trasalì tra le braccia di Sherlock e l’uomo riprese a cullarla dolcemente. «Non sei ancora riuscito a perdonare Mary per ciò che ha fatto e vuoi leggere la chiavetta contenente le informazioni sul suo passato? Credi davvero che sia saggio?»
 «È mio diritto sapere cosa la madre di mia figlia aveva a che fare con Moran.» fece notare, con risolutezza. «Se prima non ero pronto, adesso lo sono. E poi hai bisogno di una mano con questo caso e se non mi coinvolgi non posso aiutarti.»
 «John…»
 «Non puoi impedirmelo. Mary era mia moglie.» gli ricordò. «Non mi escluderai da questo caso, Sherlock. Non te lo permetterò.»
 Sherlock sospirò. «D’accordo.» concesse dopo un momento. «Come vuoi.»
 John annuì. «Prendo il computer.» e detto questo si mise in piedi e si avvicinò al tavolo per prendere il portatile. Tornò a sedersi e lo accese, inserendo la chiavetta nella porta USB, facendo un respiro profondo, pronto a tutto. Sapeva che ciò che avrebbe letto non gli sarebbe piaciuto e che non avrebbe fatto altro che alimentare il suo odio per Mary, ma poco importava. In quel momento la priorità era ottenere delle risposte.
 Si voltò verso Sherlock e indicò Gemma. «Dalla a me.» disse.
 Sherlock sollevò Gemma, reggendole la testa e la passò a Watson, che quando l’ebbe fatta sdraiare nuovamente nell’ovetto, tornò a voltarsi verso lo schermo.
 «Pronto?» chiese Sherlock, incontrando il suo sguardo.
 John annuì.
 E il consulente investigativo aprì i file.
 
 Dopo due intere ore passate ad analizzare i documenti sulla chiavetta, Sherlock e John avevano scoperto che Mary e Sebastian Moran erano fratelli di madre, nati da due padri diversi che li avevano abbandonati entrambi prima della nascita. I due erano cresciuti insieme in una piccola cittadina del Sud Dakota, per poi essere reclutati dalla CIA ed essere addestrati come cecchini. Ovviamente Moran dopo qualche anno aveva lasciato il lavoro per dedicarsi alla sua attività da criminale, mentre Mary aveva continuato a lavorare per la CIA, lasciandosi dietro un curriculum di tutto rispetto, insieme alla più lunga lista di soggetti eliminati che Sherlock avesse mai visto.
 Durante la lettura, John non aveva aperto bocca. Era impallidito sempre di più, man mano che l’analisi dei documenti proseguiva, ma non aveva fatto una piega di fronte alle informazioni raccolte, mantenendo la posa da soldato e sguardo impassibile.
 «Stai bene?» chiese Sherlock, voltandosi verso John per studiare il suo viso, una volta finita l’analisi dei file. Avrebbe voluto consolarlo e fare di più, ma sapeva di non potersi spingere troppo oltre con il medico, altrimenti non sarebbe più riuscito a fermarsi. E non poteva permettersi di perdere il controllo.
 «Sì.» rispose lui, con voce ferma, forse con troppa rapidità.
 Holmes gli poggiò una mano sulla spalla in un gesto involontario. «Hai bisogno di un momento?»
 Il medico, stupito da quel contatto, si voltò e incontrò il suo sguardo preoccupato. Scosse il capo. «No. Voglio finirla con questa storia e metterci una pietra sopra.» affermò «C’è qualcos’altro?»
 Sherlock scosse il capo. «È tutto.»
 Dopo un momento di silenzio passato ad osservare lo schermo del portatile, Watson riprese. «Quindi è per questo che Moran la conosceva. Erano fratello e sorella.»
 «Già.»
 «Ma allora perché l’ha uccisa?» chiese John, confuso. Non avrebbe avuto senso. A meno che non l’avesse odiata per qualche torto che lei gli aveva fatto in passato, perché ucciderla? Anche tra Sherlock e Mycroft non scorreva buon sangue, eppure non si sarebbero certo uccisi a vicenda. Erano pur sempre fratelli. «Se voleva arrivare a te, perché sparare rischiando di colpire lei?» aggrottò le sopracciglia, poi riprese. «Forse sapeva che Mary era tua amica e pensava che colpendo lei…»
 «Invece io credo che in qualche modo non fossi soltanto io l’obiettivo.» spiegò Sherlock, le sopracciglia aggrottate, le mani giunte sotto il mento nella sua posa meditativa. «Moran è un cecchino, un tiratore di precisione. Non avrebbe mai sbagliato quel colpo. Dopotutto io ero più esposto di Mary e se davvero avesse voluto uccidere solo me ci sarebbe tranquillamente riuscito. E se avesse voluto colpire soltanto lei, avrebbe potuto aspettare che la visuale fosse libera.» continuò, riflettendo ad alta voce.
 «A meno che sia tu che lei non foste i suoi obiettivi.» concluse John per lui, gli occhi spalancati. «Ma perché? Che cosa poteva avergli fatto, Mary, per spingerlo a volerla uccidere? E che cosa puoi avergli fatto tu?»
 «A parte battere Moriarty al suo stesso gioco?» chiese Holmes, sollevando un sopracciglio. «Sebastian vuole portare a termine l’obiettivo che si era prefissato Moriarty. Vuole distruggermi ed è stato disposto a esporsi in maniera eccessiva per arrivare a me. Ciò significa che non ha niente da perdere.» disse, come se stesse riflettendo ad alta voce.
 John scosse il capo. «Sì, ma cos’ha a che fare con Mary?»
 Sherlock sospirò. «Non lo so. Forse Mary gli ha fatto qualche torto quando ancora vivevano e lavoravano insieme. Forse…» si interruppe, i suoi occhi si spalancarono.
 «Che succede?» chiese John, cercando il suo sguardo.
 «C’è un buco temporale di cinque anni, da quando Mary è stata congedata dalla CIA a quando ha cominciato a lavorare come infermiera a Londra.» disse Sherlock, lo sguardo perso nel vuoto, la mente che lavorava freneticamente. «Dev’essere successo qualcosa in quel lasso di tempo. Per questo Maron l’ha uccisa. Deve essere così.»
 Watson scosse il capo. «Ma cosa?»
 «Non lo so.» rispose Sherlock, incontrando gli occhi di John. «Ma intendo scoprirlo.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Come state? ;)
Eccomi qui, come promesso, con il quarto capitolo della mia storia! :)
Come potete vedere, la vicenda si sta lentamente sviluppando e altri dettagli si stanno aggiungendo ad infittire il mistero. Ovviamente Sherlock Holmes si è messo all’opera per svelare il tutto e risolvere il caso, con l’aiuto del nostro caro John Watson. :)
Che altro dire? Non credo ci sia nulla da spiegare, perciò non mi dilungo oltre.
A venerdì con il prossimo…
Baci,
Eli♥
 
 
 
 
  
 
 
 
 
    
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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