Niente
wi-fi.
Niente-wi-fi.
Nulla.
Nada
de nada.
Segnale
morto.
Defunto.
Ancora.
Di
questo passo si sarebbe procurato un criceto e
lo avrebbe collegato al computer, chissà che in quel modo
così ingegnoso e
tecnologicamente poco avanzato sarebbe finalmente riuscito a vedere
l'ultimo
episodio di America's Next Top Model senza che quell'aggeggio diabolico
perdesse la diretta streaming.
Accidenti
a Manny ed il canone mensile che si era
dimenticato di pagare, accidenti a lui ed a quei dannatissimi operatori
del
modem: oh avanti, nessuno capiva quanto potesse essere tremendamente
noioso
starsene in un abisso dimenticato da dio senza nessuno intorno e con la
sola
compagnia degli occasionali topi e dell'oscurità perenne?
E
del computer, della tv al plasma da cinquanta
pollici, della playstation 4, della Wii, del condizionatore, della
friggitrice,
dell'alcool e di una serie non meglio definita di programmi spazzatura
che
riuscivano ad allietarlo da tipo settecento anni.
Niente
male certo, soprattutto quando seguiva le
sfilate di Victoria's Secret appiccicato
allo schermo con tanto di bavetta alla bocca, ma sarebbe stato disposto
a tutto
per riavere un po' di libertà e di luce, la stessa che gli
aveva tolto quella
sottospecie di alleanza che gli altri guardiani avevano fatto tra loro
quando
si erano resi conto che lui era solamente uno spirito libero: a chi
importava
delle loro regole e dei loro doveri, se non volevano accettare che ci
fosse
qualcuno che non era disposto ad inchinarsi di fronte ai mocciosi umani
allora
potevano anche andare a farsi fottere allegramente.
O
almeno provarci dato che alla fine era stato
solo lui a prenderlo in posti dove non batte il sole.
Ah
già, laggiù il sole non c’era nemmeno.
Comunque
fossero messe le cose in superficie a
Phobos poco importava, a lui bastava avere un bicchiere di vodka liscia
in mano
e poteva anche trascorrere giornate ad ubriacarsi da far schifo persino
a sé
stesso, poi il suo cervello faceva il resto: fantasticava su come
avrebbe
distrutti i regni dei guardiani uno per uno, di come si sarebbe preso
la
felicità dei bambini che Nord amava tanto, del suono delle
urla dell’amabile
Dentolina mentre le strappava le ali, di quanto sarebbe stato
divertente
cucinare uno stufato a base di Calmoniglio, del favoloso modo in cui i
suoi
capelli avrebbero fatto swish mentre si
allontanava dalle città in fiamme stile film americani.
E
soprattutto di come avrebbe avuto vendetta sul
regno di Phantasia, soprattutto quello:
era stata la regina di quell’agglomerato di pezzi di terra
volanti e cascate
fiabesche a gettarlo nell’Abisso, aveva marciato con il suo
esercito di animali
antropomorfi sulla sua terra riducendo in polvere le foreste con i suoi
zoccoli
d’oro, aveva sventolato trionfante la bandiera ridotta a
brandelli del suo
castello mentre squillavano le trombe della vittoria e poi, giusto per
dare
oltre al danno anche la beffa, lo aveva umiliato farfugliando qualcosa
sul
fatto che si conoscessero, che lui “non
fosse più lo stesso”.
Le
avrebbe tolto quella corona dalla testa e
l’avrebbe usata come cavalcatura personale,
l’avrebbe umiliata pubblicamente e
le avrebbe fatto passare l’inferno pur di riprendersi la
dignità che aveva
lasciato sotto i suoi zoccoli: sarebbe stato lungo, difficile e magari
anche
pericoloso ma Phobos, che ormai non aveva più nulla da
perdere, lo avrebbe fatto.
Proprio
mentre era placidamente nei suoi ormai
quotidiani pensieri di vendetta notò con amarezza gli
effetti dell'alcool
iniziavano a farsi sentire, e forse era per quello che quando
notò la bottiglia
ormai vuota stretta nella sua mano fu preso da un sussulto di rabbia
che gliela
fece stringere fino a romperla, con tanto di schegge di vetro piantate
saldamente nel proprio palmo: restò fermo a guardare il
sangue scorrere sulle
schegge, a contemplare le gocce che cadevano a terra dissolvendosi nel
terreno
arido, il tutto lasciando che la propria mente lo trasportasse
aldilà di quel
muro alto migliaia di metri che lo divideva dalla superficie.
Poi,
quasi preso da un'illuminazione, si alzò di
scatto stringendo i pugni e non curandosi delle fitte di dolore
procurate dai
numerosi tagli come se nemmeno li sentisse: si diresse a grandi falcate
verso
la parte più profonda di quella che ora era la sua casa, una
sorta di grossa
voragine scavata in un'altra ancora più profonda che era
l'Abisso chiusa
superiormente da una sorta di intricato labirinto di viticci fioriti
resi
viscidi dal muschio, infine si inginocchiò davanti
all'enorme buco e passò una
mano su quelle grate assaporando l'odore pungente
dell'umidità: quanto tempo
era passato dall'ultima volta che erano state spezzate?
Quattrocento,
cinquecento anni? No, probabilmente
di più.
Molti
di più.
Non
appena la sua pelle sfiorò quelle fronde il
silenzio di tomba che era solito vivere là dentro venne
immediatamente riempito
da un ruggito così forte da smuovere qualche piccolo sasso
dalle ripide pareti,
e per Phobos nessun suono fu più lieto: poteva chiaramente
distinguere il
rumore degli artigli neri come l'ossidiana che cercavano freneticamente
di
trovare un appiglio al quale appoggiarsi per fuoriuscire dalla gabbia
in cui
erano stati rinchiusi, lo schioccare dei denti d'avorio che non
aspettavano
altro che divorare ogni briciolo di speranza rimasto nel mondo, una
miriade di
occhi di rubino che lo scrutavano fedeli quasi a supplicarlo di tirarli
fuori
da quel buco infernale.
Riavrete
la libertà tra poco tesori miei, pazientate come avete fatto
fino ad ora ancora qualche tempo perché l’ora
è ormai vicina,
pensò mentre si inginocchiava a raccogliere uno dei fiori
nati in quel
luogo così oscuro: era del tutto simile ad una rosa tranne
che per i petali dello
stesso colore dell’arcobaleno, una gamma così
vasta ed impensabile di colori
che, nonostante potessero sembrare decisamente in contrasto fra loro,
avevano
un’insospettabile quanto raffinata armonia floreale che non
si trovava in
nessun luogo terreno.
Armonia…
quanto odiava quella parola: forse perché
nel suo inconscio c’era sempre qualcosa che gli ricordava
come l’armonia non
fosse mai stata parte della sua vita immortale, forse perché
non capiva il
motivo per cui gli altri guardiani fossero considerati così
armonici con loro
stessi e con la natura che li circondava, o forse perché
quel nome richiamava
fin troppo quello di Harmonia.
Harmonia,
regina di Phantasia e guardiana della
fantasia, la stessa che si era crogiolata sul suo
trono ancora in tenuta da guerra mentre con uno zoccolo lo
teneva inchiodato al suolo salutando continuamente il suo popolo che la
ringraziava di aver scongiurato ancora una volta la fine del loro
mondo, il
tutto mentre al suo fianco c’erano schierati Nord e compagnia
bella che tenevano
a bada i poveri leoni di Phobos che si contorcevano inutilmente nelle
reti di
sabbia dei sogni create da quella palla rotolante di Sandy.
Ma
quello era stato il meno, il peggio era venuto
quando lo avevano portato davanti all'Abisso: l'Abisso, una vera e
propria
crepa creata appositamente per lui dalla magia congiunta dei guardiani
che divorava
migliaia e migliaia di metri di roccia e terra fino a perdersi in
un'oscurità
alquanto inquietante nel fondo più buio del mondo, un luogo
ben poco ospitale dove
aveva passato secoli a lagnarsi del fatto che lo avessero abbandonato
lì senza
poteri e senza dignità a marcire per il resto della propria
esistenza nella
noia e nella solitudine.
Solitudine
che con il tempo era diventata rimorso,
poi rabbia, infine un profondo senso di vendetta sanguinolenta che lo
aveva
consumato da dentro portandogli via anche l'ultimo briciolo di ricordo
che
aveva della superficie.
E
la sua vendetta l’avrebbe avuta, oh se l’avrebbe
avuta.
Non
capì il perché del suo gesto immediatamente dopo
che lo fece, percepì solo che la sua mano si era contratta
intorno ad uno di
quei viticci verde smeraldo quasi istintivamente e lo aveva stretto, lo
aveva
stretto con tutte le forze che aveva in corpo: c’era voluto
poco perché dal suo
palmo si sviluppassero dei sottili filamenti violacei simili a
fiammelle
brillanti che avevano risalito le dita fino a quando non avevano
incontrato il
quasi impercettibile bagliore azzurrino proveniente da quelle maledette
piante
così rigogliose.
Questa
volta ne era certo, questa volta le avrebbe
spezzate, ormai ce la stava facendo: finalmente,
pensò fra sé e sé, finalmente
avrò
indietro ciò che mi hai tolto!
Ma
non fu così, non proprio:
c’era stato un rombo assordante come un tuono prima di
una tempesta, un lampo così accecante da costringerlo a
proteggersi gli occhi
per il dolore, una malsana danza di fiamme celesti ed altre viola
intenso che
si contorcevano come serpi sopra di lui fino a circondarlo, gli
sembrava quasi
di essere intrappolato nuovamente nella gabbia che Harmonia aveva
utilizzato
secoli e secoli prima per sconfiggerlo una volta per tutte.
E
dinanzi a lui, proprio come allora, si stagliava
ancora una volta un immenso cavallo con un corno dorato in fronte che
oscurava
la poca luce che il lampo gli aveva donato con quelle enormi ali
diafane che
sembravano dissolversi nell’etere come anche la criniera e la
coda, che erano
invece di uno strano arcobaleno che andava dal verde acqua,
all’azzurro fino al
rosa; e poi quel nitrito, quel suono così orribile del tutto
simile ad un
ruggito, lo stesso che anche in quel momento lo aveva terrorizzato al
punto da
costringerlo a rannicchiarsi dondolandosi in un angolino buio con la
testa fra
le ginocchia e le mani sulle orecchie come ad isolarsi da
quell’inferno equino.
Non
sta succedendo niente, non sta succedendo niente,
continuava a ripetersi nel tentativo di calmarsi, lei
non è qui, non può essere qui: sei da solo,
respira, respira… non
sta accadendo nulla, è tutto nella tua testa, tutto nella
tua dannatissima
testa!
Durò
una manciata di secondi, secondi durante i
quali Phobos aveva assaggiato nuovamente il terrore della sconfitta nel
profondo della propria anima dopo i quali, non senza un certo fragore
che
risuonava nell’aria, l’immenso
cavallo di poco prima si era dissolto esattamente come era arrivato,
nell’anonimato più assoluto e senza lasciare
tracce di sé.
Senza
lasciare tracce, certo, ma alcune c’erano
eccome, ed era l’inquietante silenzio proveniente dalla
voragine dove si
trovavano i leoni dell’altro: erano insolitamente taciturni,
anche troppo per i
suoi gusti.
Quando
Phobos trovò finalmente il coraggio di
lasciare la sicurezza della posizione fetale che aveva tenuto fino ad
ora e si era
avvicinato all’orlo del baratro rimase, nonostante in
realtà si aspettasse una
cosa simile, leggermente sconvolto: se ne stavano tutti accucciati sul
fondo
con gli occhi pietrificati, nessuno di loro sembrava
dell’umore di smuoversi
dal luogo in cui si trovava, figurarsi se avevano voglia di ruggire
dopo il
colpo che si erano presi.
La
verità era che quei felini, per quanto fossero
imponenti, erano spaventati a morte dai cavalli in generale, o almeno
lo erano
da quando si erano imbattuti negli immensi branchi di equini selvaggi
della
regina durante la leggendaria Guerra che, da ciò che aveva
sentito dire da Nord
e gli altri, lo aveva “reso
irriconoscibile rispetto a come era sempre
stato”.
Ma
Phobos non ricordava nulla di ciò che fosse
accaduto prima, né tantomeno ricordava di essere stato
diverso da come era ora.
E
nulla voleva ricordare, soprattutto perché ogni
volta che ci provava sentiva delle fitte lancinanti alla testa, era
come se una
moltitudine di pugnali gli trapassassero la mente da una parte
all’altra, come
se ci fosse qualcosa o qualcuno che non volesse che lui ricordasse: e
forse era
proprio per questo che le poche volte che ci aveva provato ci aveva
anche direttamente
rinunciato dopo aver visto gli scarsi risultati ottenuti, specie quando
si
trovava piegato in due a rigettare l’anima.
Quel
suo momento di ritorno ad una condizione di
terrore ancestrale era durata fin troppo per i suoi gusti, forse resa
ancora
più vivida dalla rinnovata potenza con la quale quel
dannatissimo unicorno gli
si era parato davanti inibendo ogni sua emozione, ma proprio quando era
convinto di averla scampata per l’ennesima volta quella sua
calma piatta era
stata bruscamente interrotta da un tonfo sordo seguito da
un’intensa luce che
aveva illuminato l’intero Abisso costringendolo a coprirsi
gli occhi
nuovamente: qualcuno voleva accecarlo quel giorno, ormai aveva
l’assoluta
certezza sulla cosa.
Tutto
quel trambusto lo aveva istintivamente
spinto a rimettersi velocemente in piedi e tendere una mano davanti a
sé, la
quale si era ricoperta dopo pochi secondi di fiammelle nerastre che
avvolgevano
il braccio come vipere desiderose di stringere qualsiasi cosa, ed ormai
era
pronto ad ogni evenienza possibile immaginabile.
Tranne
un eventuale arrivo di Harmonia, a quello non sarebbe mai stato
pronto a sufficienza.
E
invece no, tanto rumore per nulla: appena la
nube di polvere si era diradata Phobos era riuscito a scorgere una
figura che
si dimenava freneticamente al ritmo di “Waka waka”
con tanto di ritornello eseguito
abbastanza a caso con una vocina stridula impregnata di tequila e white
russian,
figura che era andata delineandosi a suon di curve niente male ed una
folta
chioma di un intenso color magenta che andava confondendosi con le alte
fiamme lì
intorno dello stesso colore.
Comet,quell’adorabile
creatura che era Comet E. Halley, chi altri
poteva essere?
Pericolo
centauressa scampato, almeno ora poteva
tranquillizzarsi e godersi la solita entrata trionfale da parte di
quell’esibizionista di Comet che, come suo solito, era ancora
impegnata a
dimenarsi in preda a delle convulsioni che dovevano essere un ballo, o
qualcosa
di molto simile:
«Tsamina
mina eh eh, waka waka eh eh! Tsamina mina zangalewa, this time
for Africa!» ripeteva
ad alta voce uscendo con nonchalance da
quella sfera di fiamme cremisi stile Daenerys Targaryen senza far caso
a quel
povero disgraziato che la guardava ancora tremante:
«Ehm
ehm» si schiarì la voce «Non vorrei
interrompere questa tua danz-»
«People are raising their
expectations, go on
and feel it! This
is your moment, no hesitation!» gli
parlò
sopra come se lui nemmeno esistesse, e allora Phobos aveva capito che
avrebbe
dovuto aspettare che la canzone finisse per ragionare con lei.
Ok,
avrebbe aspettato.
E
aspettato.
E
ancora aspettato.
Finalmente,
dopo una serie non meglio definita di “waka
waka, eh eh!” la donna si era tolta le cuffie
dell’mp4 dalle orecchie, aveva
tirato fuori da chissà dove un grosso borsone talmente
gonfio da sembrare che contenesse
contenere un cadavere e lo aveva trascinato fin da lui buttandoglielo
addosso,
ovviamente senza far caso agli insulti di dolore che erano partiti:
«Ehilà
amicone! Come va la vita nell’umido e
freddo Abisso eh? Hai scaricato le ultime puntate di
America’s Next Top Model?
Le hai scaricate? Eh? Le hai scaricate, Phobos? Eh? Eh,
Phob-»
«No
no no! Non ho il wi fi, Comet! Non ho il wi fi
cazzo!» le urlò contro mettendosi le mano sulle
orecchie per non sentire la sua
voce un’altra volta cercando di alzarsi, se non fosse che un
piede gli era
rimasto incastrato nelle cinghie del borsone ed era caduto
rovinosamente a
terra mangiando terra con un vago sapore di tequila.
Ancora
a pancia all’aria aveva riaperto gli occhi
a fatica trovandosi sopra Halley con lo sguardo alquanto divertito
dalla
situazione, soprattutto quando aveva tirato fuori una tessera magnetica
che
aveva preso a sventolargli davanti:
«Sapevo
che Manny non ti aveva pagato il wi-fi
questo mese, quindi ho provveduto a farlo io al suo posto, non devi
ringraziarmi: sono o no la migliore compagna di trombaris che puoi
trovarti?»
chiese ammiccando ma, proprio quando Phobos stava allungando la mano
speranzoso
di afferrare la preziosa reliquia, lei l’aveva allontanata
ridacchiando:
«Chissà
cosa vuole questo povero disgraziato… vuoi
questa? Ma davvero? Nah, non credo.»
«Avanti
Comet, sono in astinenza da serie tv!» la
pregò con le lacrime agli occhi, ma la donna sembrava
impassibile ed anzi
compiaciuta da quel teatrino pietoso:
«Trovati
un lavoro e pagatelo da solo il canone
mensile, alza il tuo regale culetto e vai a domare leoni,
chissà che fai
qualche spicciolo.»
«Comet…
ti prego, ti scongiuro.»
«Non
ho voglia di essere buona oggi, mi sono anche
trovata davanti quella sottospecie di piccione nero e fumoso che si
lagnava di
quanto facesse pen-» stava per dire quando
l’altro l’aveva afferrata per la
nuca e l’aveva tirata verso sé strappandole un
bacio a tradimento che,
ovviamente, gli aveva dato il tempo di prendersi la tessera senza
problemi:
«Tuttavia,
posso fare un’eccezione: muoviti e sistema il divano, abbiamo
l’alcool e lo
streaming, possiamo andare avanti fino
all’eternità così.»
«Alcool,
streaming e trombaris, non
dimentichiamoci del nostro vecchio amico di post-bevute selvagge da
qualche
secolo» aveva detto buttandosi sul divano di pelle afferrando
una bottiglia che
Comet le aveva allungato, raggiunto poco dopo dalla stessa che si era
invece
occupata della parte burocratica del leggendario abbonamento mensile
degli
streaming.
E
allora il mondo aveva ripreso a girare dalla
parte giusta.
O
almeno, lo aveva fatto fino a quando non era
stato interrotto da un rumore alquanto inquietante simile allo stridio
del
metallo che sembrava scarnificare la fredda roccia
dell’Abisso nel buffo quanto
efficace tentativo di raggiungere il fondo dove si trovavano i due
compagni di
bevute: non era Harmonia, non poteva
essere davvero lei, a meno che non si fosse fatta spuntare
improvvisamente
degli artigli d’acciaio con i suoi miracolosi poteri.
Quasi
d’istinto Phobos si era alzato di scatto ed
aveva gettato la bottiglia mezza piena a terra sostituendola con un
lampo
violaceo-nerastro che si era materializzato sulla sua mano, il tutto
nella
totale indifferenza della ragazza, che invece continuava a starsene
sdraiata
comodamente sul divano come se nulla fosse; e la cosa non gli andava
giù a
giudicare dalla netta sensazione che quella cosa si stesse avvicinando,
fatto
confermato dal continuo tremolio dei sassi e dei pezzi di pietra sparsi
a
terra:
«Comet
dammi una mano, abbiamo visite nell’Abisso»
asserì serio assumendo un’espressione degna di un
condottiero, ma lei non se lo
filò nemmeno di striscio:
«Eh?
Oh Phobos, datti una calmata, ho tutto sotto
controllo.» rispose lei con nonchalance, ma lui non era
proprio convinto:
«Comet
cazzo! Muovi il culo da quel fottuto
divano!» la incitò nuovamente alzando la voce,
ovviamente senza nessun effetto.
E
allora aveva perso la pazienza: si era girato,
aveva afferrato i lembi della coperta sulla quale era sdraiata la donna
e
niente, l’aveva tirata con forza facendola cadere
rovinosamente a terra con l’aspetto
di un fusillo rigato a strisce azzurre e gialle; quando lei si era
rialzata non
si era affatto lamentata, ma la forchetta con la quale stava mangiando
la
cheesecake che si stava sciogliendo male aveva parlato al posto suo, ed
anche
quel sorrisetto compiaciuto aveva fatto lo stesso.
Pessima
mossa.
Non
aveva ancora realizzato ciò che stava
accadendo quando si era sentito schiacciare a terra da qualcosa di
tremendamente grande, una figura nera che lo aveva sovrastato per poi
artigliargli il collo e scaraventarlo rovinosamente contro la parete
dell’Abisso; Phobos non aveva avuto il tempo di reagire che
quella figura,
grande su per giù una decina di metri abbondanti a vederla
da quella posizione,
si era girata di scatto ed aveva spalancato quelle che dovevano essere
grosse
ali membranose lanciandosi in una furiosa corsa verso il poveretto.
Che
si sarebbe anche spostato, se la tunica non si
fosse impigliata in un ramo.
Era
colpa di Harmonia anche quello, ovviamente.
Per
quanto di solito Phobos non temesse nulla
tranne quella giumenta troppo cresciuta, per quanto di solito
ostentasse
un’amara sicurezza e fiducia nelle proprie
capacità, quella volta proprio non
ce l’aveva fatta a guardare la scena in prima persona,
esattamente come non
aveva trovato il coraggio di alzare lo sguardo mentre Harmonia
innalzava la
propria bandiera sulla sua fortezza ormai decaduta: si era rassegnato,
aveva
ceduto allo spettro dell’insicurezza che sentiva aleggiare
nella propria anima
dal primo istante in cui era stato gettato a peso morto
nell’Abisso come si
getta via un giocattolo del quale ci si è stancati.
Ad
un certo punto, ad occhi chiusi e con il fiato
mozzato in gola, aveva avvertito una pressione insopportabile premergli
il
petto contro la roccia nuda mentre una lama fredda come
l’acciaio disegnava
percorsi sanguinolenti sulla propria fragile pelle, un rantolio sordo
accompagnato
da un sinistro quanto pungente odore di zolfo misto a carne bruciata ad
appena
qualche centimetro dal suo volto che andava sommandosi al violento
suono
dell’aria frustata con violenza.
Phobos
era ormai pallido per il terrore più puro,
uno di quelli sui quali Pitch Black un tempo ci avrebbe banchettato
volentieri,
nulla a che vedere con l’ombra dell’uomo che era
stato che andava
trascinandosi a
quel tempo.
Aveva
atteso qualsiasi cosa in quegli istanti di
paura cieca, morte o vita che lo attendesse, ma i rassicuranti passi di
Comet,
impossibili da non riconoscere per via dello scricchiolare delle foglie
bruciate che li accompagnavano, avevano fatto sì che un
barlume di speranza si
accendesse nella mente di quel povero disgraziato; anche se non poteva
vederla
aveva chiaramente avvertito il suo lento avvicinarsi ed il successivo
fermarsi
poco lontano dalla gabbia nella quale si era trovato costretto, poi
aveva
sentito una specie di grottesco gorgoglio fin troppo simile alle fusa
di un
gatto di qualche misteriosa dimensione a lui sconosciuta:
«Mi
ero dimenticata di avvisarti prima del mio
arrivo, Phobosuccio mio» disse fra una risatina di scherno e
l’altra mentre gli
afferrava il mento con una certa sensualità
«Fidati
di mamma Comet e apri quegli occhioni da
cerbiatto omicida, voglio presentarti il mio nuovo animaletto fresco
fresco di
giornata.» gli disse incitandolo ad aprire gli occhi dato che
la sua morte,
almeno sperava, era appena stata rimandata.
Ma
avrebbe preferito averli tenuti saldamente
chiusi, quegli occhi: all’inizio aveva sperato si trattasse
di qualche drago
trovato abbastanza a caso nei meandri della galassia, poi il pensiero
si era
spostato sul basilisco che viveva nei laghi poco lontano
dall’Abisso, ma
l’ultima cosa che avrebbe pensato di trovarsi davanti, e
della cui esistenza
sapeva poco o niente, ora s ela trovava davanti con le zanne sporche di
brandelli di carne snudate.
Il
ciciarampa.
Il
fottuto ciciarampa di Alice Castle Wonderwood.
La
principessa guerriera di Fairy Oak.
L’amichetta
di Harmonia.
E
quel coso si trovava davanti a lui.
Nell’Abisso.
Era
fottuto.
Lo
sgomento iniziale si era presto trasformato in
panico totale, un’ansia crescente che lo aveva portato a
dimenarsi gridando
come un cretino ricavandoci solo una costellazione di graffi e squarci
sui
vestiti che ci mancava poco lo lasciassero nudo come un verme, il tutto
fra
un’imprecazione di Comet ed un ringhio innervosito della
bestia; ora che lo
guardava bene in effetti non c’erano dubbi che si trattasse
del mostro che
Alice aveva messo a guardia delle porte della città, anche s
elo aveva visto
ben poco era ben difficile dimenticarselo: il corpo era
fondamentalmente quello
di un drago come tanti ne aveva visti di un malsano color
grigio-verdastro,
solcato qua e là da profonde cicatrici rosee di antichi
scontri contro chissà
cosa, la testa piuttosto appiattita era un misto fra quelle di un
serpente e di
un pesce di altri tempi, incassata in una sorta di corona membranosa
formata da
barbigli simili a quelli dei pesci gatto e dalla pelle sottile piena di
venature, gli arti sottili che si addicevano al corpo snello dal quale
si
diramavano due grossi ali da pipistrello consumate da buchi grandi
quanto il
palmo di una mano e da tagli sottili come foglie, decisamente
sproporzionate
rispetto al corpo esile, che andavano a terminare verso la coda, una
frusta
coperta da quelle che non si capivano essere squame, scaglie o
un’ispida
peluria nerastra.
E
poi gli occhi, due rubini intrisi di sangue
piantati sulla sommità del lungo collo dal quale pendeva
ciò che rimaneva delle
catene con le quali Alice si assicurava che quell’animale non
scappasse da
Fairy Oak o che, molto peggio, non uccidesse nessuno dei suoi abitanti.
Solo
che ora era libero, e Phobos lo aveva a mezzo
metro di distanza.
Tuttavia,
se lui aveva iniziato a tremare come un
ramoscello durante una tempesta, allora l’altra continuava ad
accarezzare la
testa di quello scherzo della natura con tutta l’indifferenza
che il mondo
potesse offrirle, e la cosa aveva iniziato a preoccuparlo
più del mostro
stesso:
«Hai
rubato il ciciarampa di Alice! Hai rubato il
ciciarampa cazzo! Il ciciarampa!» le sbraitò
contro liberandosi dalla presa di
quegli artigli, che si erano dischiusi con molto probabilità
solo perché che si
erano dischiusi solo perché avevano iniziato a grattarsi
l’orecchio, o
qualunque cosa fosse, nemmeno si trattasse di un coniglio godurioso, ma
la
donna aveva solo fatto spallucce:
«Non
l’ho proprio rubato nel
senso stretto del termine: lui era lì incatenato, mi
faceva anche un po’ pena quindi niente, ho pensato che ad
Alice non sarebbe
dispiaciuto se avessi preso il suo animale da compagnia, o comunque ne
avrebbe
trovato uno simil-»
«Simile?
Simile?
Il ciciarampa è uno solo Comet, uno
solo!» insistette con la rabbia a livelli
spaventosi, abbastanza perché
Comet avesse un sussulto di sorpresa:
«Oh
avanti, non essere così sever-»
«Quel
coso è stato creato all’alba dei tempi con
chissà quali sortilegi per custodire Fairy Oak, secondo te
ne trova un altro,
eh? Rispondim… smettila di volteggiare a testa in
giù cazzo! Non mi sto
divertendo, cretina che non sei altr-» non
fece in tempo a finire che sentì
la guancia sinistra bruciargli in modo a dir poco insopportabile per
l’improvviso schiaffo che aveva ricevuto:
«Nessuno
mi dice cosa devo e cosa non devo fare,
se volevo un capo che mi pagasse la pensione di vecchiaia iniziavo a
lavorare
come Guardiana per Manny, cosa credi?» gli disse non con
un’espressione
arrabbiata, ma con una alquanto inquietante:
«Un
tempo i nostri incontri erano più
trombaris e meno parlaris, erano più
le serate dove eravamo sbronzi da far schifo che quelle dove eravamo
anche minimamente
sobri: pensi troppo Phobos, pensi troppo a quella giumenta vogliosa e
poco al
vivere la tua misera quanto eterna esistenza in questo buco di fogna in
modo
non dico decente, ma almeno presentabile.» lo
rimproverò sistemandosi il
vestito e scostando i capelli dal volto scoprendo un’aria
severa:
«Non
mi serve un moralizzatore Phobos, ne abbiamo
già parlato abbastanza l’ultima volta che hai
avuto una crisi nervosa: io me ne
vado, e non intendo tornare se devo trovarmi davanti il Sandy della
situazione
o, ancora peggio, un Pitchone che vuole farsi compatire nella sua
miseria; richiamami
quando ti sarà passata la voglia di morale e ti
sarà tornata quella di
trombaris, fino ad allora ciaone proprio.» asserì
sorridendo e facendo per
svolazzarsene via come solito.
Phobos
era sconvolto, abbastanza perché le
afferrasse una caviglia trattenendola:
«Ed
io cosa me ne faccio di quello? Dove lo nascondo
un mostro di quindici metri! Dimmi dove lo nascondo se arriva
Alice!» le urlò
contro ricevendo di rimando una risata di scherno:
«Non
è un mostro, si chiama Necrohunger, per
chiarirci.» puntualizzò severa:
«Te
lo regalo, magari ti fa compagnia e ti passa
questa voglia di zoccolate regali sul culo da parte di Harmonia che
probabilmente trovi anche eccitanti dal punto di vista sessuale, amante
del
sadomaso come sei: ti lascio anche l’alcool, male che vada
troverò il tempo di fare
una visita alle cantine di Fairy Oak, ho scoperto che hanno una vasta
scelta di
birre là dentro, un salto veloce non può che
farmi del bene… e lo farebbe anche
a te.» concluse
sparendo in un lampo color magenta prima che l’altro potesse
controbattere.
Era
andata via.
Anche
lei.
Non
poteva permettersi di perdere anche Comet, non
ora che lo avevano sbattuto nell’Abisso: forse nella parte
della sua vita che
non ricordava aveva anche avuto degli alleati, forse addirittura degli
amici
dei quali si fidava, ma ora come ora Comet D. Halley era
l’unica che andasse a
trovarlo qualche volta, l’unica che gli faceva sentire un
po’ meno gli artigli
brucianti della solitudine che aveva preso a consumarlo con una ferocia
inaudita negli ultimi secoli, per non parlare del fatto che fosse una
delle
poche creature in grado di introdursi nell’Abisso senza che
le armate di
Harmonia si muovessero per una violazione simile.
E
poi gli pagava il wi-fi, soprattutto quello.
Eppure
niente, aveva perso anche lei.
Come
sempre, del resto.
Ecco
in cos’era davvero bravo, a perdere le
persone che aveva intorno, ad allontanarle fino a quando non erano loro
a
scappare a gambe levate: prima il suo passato del quale ricordava poco
o nulla,
poi i Guardiani che dicevano quanto lui fosse cambiato e diventato
quello che
era adesso, poi ancora Harmonia che lo aveva pregato in ginocchio di
tornare ad
essere il Phobos che lei aveva amato, ed ora Comet che gli dava buca a
causa
dei suoi disagi mentali e di tutte quelle questioni morali snervanti
che
portavano solo ad un amaro senso di inutilità e delusione.
Faceva
male perdere qualcuno, ma Phobos non
avrebbe mai ammesso a se stesso una cosa simile, non si sarebbe mai
ritirato in
un angolino a piangere per sfogare tutta la rabbia che si portava
dentro da
secoli.
Sarebbe
scoppiata, quella rabbia, lo avrebbe fatto
da un giorno all’altro, lui lo sapeva: c’era una
sensazione che lo tormentava
da qualche settimana, una sorta di istinto che gli ruggiva dentro per
farsi
sentire come se stesse dicendo “Lasciamo
andare, lasciami uscire da questo angolo buio della tua mente e lascia
fare a
me quello che tu non hai nemmeno il coraggio di immaginare
perché sei troppo
codardo per ricordare.”
In
secoli e secoli aveva aspettato il momento
buono per andarsene dall’Abisso, ma la verità era
che non aveva mai trovato la
spinta giusta per decidersi a farlo, e in realtà non aveva
nemmeno la forza per
una cosa simile: erano serviti gli sforzi congiunti dei Guardiani, di
Alice, di
Harmonia e di tutti i suoi generali per scavare l’Abisso, una
ferita profonda
chilometri e chilometri sul volto del pianeta, ma era stata Harmonia da
sola a
rinchiuderci dentro lui ed i suoi leoni perché non potessero
più nuocere a
nessuno come avevano fatto fino a quel momento.
Senza
contare che gli erano stati tolti quasi
completamente i propri poteri, quelli con i quali aveva raso al suolo
il regno
di Nord quando questo era stato scelto come il campo di battaglia fra
le forze
dei guardiani e le sue: con il tempo aveva acquistato nuovamente una
minima
percentuale della magia che possedeva inizialmente, ma era davvero
troppo
esigua per pensare di poterla sfruttare per scappare
dall’Abisso una volta per
tutte.
Ok,
in realtà l’Abisso se ne stava bellamente
aperto, ma la magia della regina della fantasia era abbastanza potente
da
impedire a chiunque di penetrare all’interno di quella
gigantesca fenditura, a
chiunque tranne a quelli come Comet, quelli che trascendevano le regole
di
Manny.
A
meno che Manny non fosse stato distratto, allora
in quel caso avrebbe potuto farsi gli affari suoi in santa pace senza
che lui
non si accorgesse di nulla.
Un’eclissi
lunare, una di quelle che coprivano il
satellite per mostrarne l’Altro Lato della Luna, ecco cosa
gli avrebbe fatto davvero comodo:
durante le eclissi
l’influenza di Manny sui guardiani si indeboliva di parecchio
rispetto alla
norma, quasi scompariva per quei pochi istanti, e se avesse potuto
approfittarne per… no, non c’erano eclissi, non ne
aveva mai viste in secoli di
attesa.
A
meno che non l’avesse provocata.
Comet
non era ancora arrivata fuori dall’Abisso,
ormai conosceva bene il tempo che impiegava per arrivare da lui e
successivamente andarsene, e da quelle considerazioni
scaturì la voglia malata
di azzardare anche quell’idea che gli frullava in testa da
tempo immemore:
«Comet!
Comet aspetta un attimo! Aspetta!» aveva
urlato con l’intima speranza che l’altra avesse
sentito quel gridolino
disperato, e in effetti la speranza l’aveva persa quando si
era trovato da solo
con il silenzio, interrotto qua e là dai rantoli del
ciciarampa visibilmente
irritata dalla mancanza della nuova padroncina; ma fortunatamente la
donna
l’aveva sentito, ed era tornata indietro in una cascata di
fiamme cremisi in
uno spettacolo alquanto egocentrico:
«Sì,
cosa vuoi ancora? Ti avviso che se non si
tratta di trombaris non ne voglio sapere nul-»
«Io
e te. Divano. Ora. Ma voglio qualcosa in
cambio, qualcosa che puoi fare solo tu.» rispose con una vaga
aria di sfida negli
occhi, un’espressione di riscatto che anche Comet, in tutti
quei secoli di
conoscenza, aveva faticato a vedergli addosso.
Phobos
sperava che il tirare in ballo il trombaris
potesse avere un qualche effetto sull’innata
curiosità sessualmente ambigua di
quella creatura sociale fatta d’altofuoco e menefreghismo e,
come aveva
previsto, la ragazza si era avvicinata toccando terra con una
leggerezza
innaturale:
«Di
cosa si tratta?» domandò incuriosita piegando
la testa su un lato con fare sospettoso, atteggiamento che poco dopo
era andato
svanendo quando l’altro le aveva accarezzato amorevolmente la
guancia: l’aveva in pugno, mancava
così poco.
A
quel punto aveva cercato di tirare fuori tutto
il suo charme, tutta l’esperienza che il passato gli aveva
concesso di
mantenere con le donne: tranne con centauresse e simili, ma quella era
un’altra
storia che sarebbe stato meglio tenere fuori da quella situazione;
Phobos prese
a scostarle i capelli incurante delle fiammelle scarlatte che vagavano
sulla
sua mano, se quel che aveva in mente fosse andato in porto un paio di
ustioni
sarebbero state decisamente trascurabili:
«Devi
oscurare la Luna, mi bastano pochi minuti ma
devi farlo, Manny non deve vedere.»
asserì
con uno sguardo cupo, tanto che Comet lo squadrò da capo a
piedi:
«Sei
sicuro di non essere ubriaco? Cosa accidenti
vai blaterando?» domandò confusa, ma se
c’era una cosa che Phobos sapeva fare
era convincere le persone:
«Avanti
tesoro, si tratta di una cosuccia da nulla
paragonata alle tue capacità: tu eviti che Manny mi veda per
una manciata di
minuti, ed io ti faccio fare tutto il trombaris che vuoi, possiamo
continuare
fino all’eternità se ti aggrada la cosa.»
E
Phobos sapeva che l’aggradava, oh se lo faceva.
Eppure
a Comet il dubbio era rimasto, tanto che
aveva allontanato la mano dell’uomo:
«Non
per farmi gli affari tuoi, Phobosuccio, ma
che cosa Manny non dovrebbe vedere, esattamente? Abbiamo sempre fatto
trombaris
senza tutti questi problemi, per caso l’andropausa ti ha
fatto salire la
vergogna di mostrare il tuo amichetto all’Uomo della
Luna?» chiese ridendo ed
indicando un punto fin troppo definito verso l’inguine
dell’altro:
«Abbiamo
già appurato che la regola della elle non
è valida, non penso che tu possa aver sviluppato una crisi
esistenziale su
quanto il tuo pene sia più grande rispetto a quel-
«Ci stai o
no?» domandò a bruciapelo
cogliendola abbastanza di sorpresa.
Non
seppe quale divinità lo assistette in quegli
istanti di tensione in cui gli occhi color magenta di Comet si
incontrarono con
i suoi che parevano oro liquido, non seppe nemmeno come Harmonia non lo
avesse
ancora fulminato per quel complotto attraverso i suoi mistici poteri da
big
queen, stava di fatto che ad un certo punto si trovo la mano stretta in
una
presa decisamente convinta da parte della donna, che lo osservava con
un
sorriso compiaciuto:
«Ci
sto Phobosuccio, per il trombaris questo ed
altro» confermò iniziando a volteggiare
visibilmente eccitata dall’idea che
avrebbe avuto la serata ubriaca che tanto agognava:
«Dammi
una decina di minuti e intanto preparati
per l’ennesima delle nostre avventure sessualmente perverse,
prendi anche il
ghiaccio che la tequila mi piace fredda: già arrivare fino a
Manny è
complicato, farlo senza che le guardie della tua amica e di tutti i
suoi
compagni guardianosi ci scoprano e tutt’altro lavoro, ed
è decisamente più
difficile.» spiegò assumendo quello che doveva
sembrare un atteggiamento serio
ma che era risultato essere l’ultimo di tanti atteggiamenti
ambigui tipici di
Comet, per poi subito sparire lasciando dietro di sé una
striscia di fiamme che
sembravano poter ghermire anche la nuda roccia fredda, le quali erano
andate
diradandosi poco dopo in una soffice nebbiolina rosata.
Era
fatta.
L’aveva
convinta.
Non
poteva nemmeno crederci.
L’attesa
era stata qualcosa di incredibilmente snervante,
soprattutto perché era incredibilmente complicato vedere
fuori dall’Abisso dal
fondo dove lui si trovava, e la tensione non era palpabile solo per
lui:
nonostante il Ciciarampa di Comet lo avesse preso ben poco in simpatia
fin dal
primo istante ora se ne stava accucciato in un angolo con le zanne
snudate in
un costante ringhio di paura ed intimidazione allo stesso tempo mentre
i suoi
leoni, fino a pochi minuti prima terrorizzati dall’improvvisa
apparizione del
sigillo imposto dalla magia di Harmonia secoli addietro, ruggivano come
non
facevano da tempo immemore, il rumore degli artigli che raschiavano la
pietra
come se volessero squarciare la terra per tornare dal loro padrone dopo
chissà
quanto tempo di prigionia.
Sarebbero
tornati, lo avrebbero fatto presto,
Phobos ne aveva l’assoluta certezza.
Ad
un certo punto, così preso e concentrato su se
stesso ed i propri progetti, quasi non aveva fatto caso al bagliore
rosato nel
cielo blu note appena percettibile da dove si trovava: dunque Comet era
arrivata dove doveva, ed evidentemente era pronta ad iniziare quel
piano che,
se mai fosse riuscito ad andare a buon fine, lo avrebbe tirato fuori da
quel
buco; forse quel lampo era stato il suo modo per dirgli “ed
ora stai a guardare, bellezza, mentre ti mostro di cosa sono capace
pur di avere il trombaris”, o più
probabilmente era solo l’inizio di uno
dei suoi soliti spettacoli decisamente ed immensamente egocentrici.
Poco
male, gli bastava che funzionasse.
O
almeno lo sperava, dato che Manny non era
l’unico occhio presente in quel cielo notturno:
c’era l’Altro, c’era quella
donna sulla costellazione di
Orione e c’erano i Pilastri della Creazione.
Manny
era ben circondato di alleati come di nemici,
su quello non poteva avere dubbi, ma ora anche lui avrebbe avuto la
fetta di
quella torta, quella che gli avevano rubato secoli prima.
Se
tutto fosse andato a buon fine, ovviamente.
Comunque
sarebbero andate le cose, per ora Phobos si
limitava ad osservare la scena dal fondo dell’Abisso con
tutta la calma che
poteva concedergli il Ciciarampa che aveva poggiato il proprio
fondoschiena
squamoso-peloso-pescioso sul divano:
«Penso
sia inutile chiederti di spostart-» gli
fece notare ricavandone solo un ringhio annoiato di disapprovazione,
così fece
spallucce ed afferrò i popcorn che Comet aveva portato per
la serata a tema
Game of Thrones, ma proprio mentre lo faceva l’altro aveva
infilato il proprio
muso nella ciotola coprendo di bava i pochi chicchi rimasti dentro:
«Mi
prendi per il culo? Non mi faccio sottomettere
da un pollo gigant-» disse senza finire la frase che
si trovò coperto di
saliva alquanto viscida fino alle punte dei lunghi capelli rosso rubino.
Almeno
non avrebbe dovuto metterci il gel, se
doveva vedere il lato positivo della cosa.
Fu
questione di secondi prima che avvertisse un
boato provenire dall’esterno, e allora aveva capito che lo
spettacolo era
iniziato, il suo spettacolo.
Ora
doveva solo aspettare che venisse calato il sipario.
Arrivata
nel vuoto dello spazio, ad appena qualche
chilometro dalla Luna, Comet si era fermata qualche istante a
contemplare
quello che gli umani consideravano un semplice satellite del loro
pianeta ma
che, allo sguardo di un Guardiano o di una creatura come lei, altro non
era che
la base di quel big boss che era Manny, noto anche come
l’Uomo della Luna, lo
Stronzone Astemio o il Caino di turno a seconda
dell’interlocutore.
E
del suo gemello sociopatico con manie di protagonismo,
ma quella era una questione ben più spinosa che a lei certo
non poteva
interessare, menefreghista com’era.
Era
bella, la Luna, quella specie di sfera bianca
che sembrava immobile nell’oscurità
dell’Universo quasi a sorvegliare dalla sua
postazione ciò che la circondava, e da alcuni punti di vista
era proprio così:
Manny non interveniva mai, quando non aveva interessi particolari, lui
si
limitava ad osservare, osservare ed ancora osservare, ritanato
com’era nella
sua base con fiumi d’aranciata e caramelle mou, ma allo
stesso tempo non si
lasciava sfuggire nulla in nessun luogo.
Ma
per sorvegliare bisogna vedere l’oggetto della
propria sorveglianza, ed era proprio per quello che Comet si trovava
lì:
l’influenza dell’Uomo della Luna sui guardiani, la
sua opera di osservazione
continua, la mancanza di poteri di Phobos, tutto dipendeva dalla
costane
presenza di Manny che si manifestava nel cielo ogni notte, in qualsiasi
condizione atmosferica.
Tranne
durante un’eclissi totale lunare: se
un’eclissi oscurava la vista della Luna da ogni luogo
conosciuto ai Guardiani e
viceversa, Manny non poteva vedere, e quindi non poteva nemmeno
intervenire.
E
lo scopo era proprio quello.
Comet
non ci aveva messo molto a richiamare a sé
tutta la forza che si portava dentro, una sorta di potere che si
portava dentro
da quando ne aveva memoria: qualche secondo ed il suo corpo era stato
avvolto
dalle stesse fiamme rosate mostrate poco prima a Phobos, talmente
intense e
luminose da farla sembrare del tutto simile ad un piccolo Sole in
miniatura che
nulla aveva da invidiare alle stelle più brillanti del
firmamento, le sottili
strisce color magenta che andavano a confondersi con i folti capelli
dello
stesso colore in quella che ricordava vagamente la danza che
l’altofuoco faceva
quando veniva scatenato contro chi si trovava sul proprio cammino.
E
adesso sul cammino di Comet E. Halley c’era la Luna.
Non
voleva distruggerla, ovviamente, ma sarebbe
ugualmente bastato, oltre a dare una mano a Phobos, anche a dimostrare
a Manny
fin dove riusciva a spingersi quando aveva qualcosa per cui impegnarsi,
il che
era decisamente raro data la sua natura incredibilmente dedita al
fottesega
generale che l’accompagnava fin dal primo giorno in cui si
era trovata in quel
misterioso luogo chiamato Universo, fra i complotti dei Guardiani e
quelli
della Costellazione di Orione con annessi e connessi.
Ancora
assopita nel suo dolce naufragare nel mare
stellato del firmamento non si era nemmeno accorta delle sue fiamme che
si
erano sparse qua e là iniziando a donare alla Luna un
malsano color magenta, a
dir poco accecante agli occhi di chi non fosse abituato alla
luminosità della
distruzione come lei: la superficie biancastra del satellite che andava
pian
piano sparendo in un sottile velo pietoso steso da una forza della
natura come
Comet E. Halley, i crateri ormai ridotti a chiazze rossastre dove
decine di
serpenti fiammeggianti combattevano fra loro innalzando colonne
d’altofuoco che
avrebbero continuato ad ardere fino alla fine delle stelle, la Luna che
sembrava sempre di più simile al Sole non troppo lontano per
intensità e luce
con la differenza che, se l’astro si sarebbe spento arrivato
alla sua fine, le
fiamme che bruciavano l’aria del satellite terrestre lo
avrebbero fatto solo
quando Comet lo avrebbe comandato.
E
cioè appena vide un lampo violaceo ruggire dalle
profondità del cosmo con una violenza tale da scatenare
un’onda d’urto che
aveva investito le sue fiamme dissolvendole in qualche istante ancora
prima che
fosse lei a comandarglielo: aveva percepito qualcosa, una sorta di
immensa
forza liberarsi dai meandri dell’Universo, un qualcosa che le
sembrava
tremendamente sbagliato ma che allo stesso tempo, a conti fatti, non
avrebbe
nemmeno dovuto interessarle.
I
poteri di Phobos, ecco cosa doveva essere ciò
che aveva percepito: nessuno sapeva dove Harmonia avesse seppellito
l’oscurità
che aveva corrotto la sua anima dopo la guerra nella quale, sempre a
suo dire,
l’aveva perso, nemmeno Comet nei suoi secoli di vagabondare
era riuscita a
scoprirlo con certezza, ma qualsiasi posto fosse ora non importava
più, dal
momento che era appena stato violato malissimo nemmeno fosse la linea
Maginot.
E
probabilmente lei non era stata l’unica ad avvertirlo.
Il
potere.
Il
suo
potere.
Lo
poteva sentire chiaramente adesso,
ogni singola cellula del suo corpo stava gridando come mai
aveva fatto negli ultimi secoli per riprendersi il nutrimento della
quale erano
state private, ogni atomo della sua coscienza sembrava essersi appena
risvegliato da un letargo durato quella che gli era sembrata
un’eternità: Phobos
non si aspettava una reazione così violenta da parte del
proprio corpo, era
qualcosa di totalmente inaspettato e stranamente piacevole, una fitta
lancinante, esattamente come quella che aveva provato mentre Harmonia
gli strappava
dal petti propri poteri.
Ma
questa volta avrebbe sopportato, avrebbe patito
anche le pene inflitte dai Chandrasekhar ai traditori pur di riavere
indietro gli
stessi poteri che gli avevano tolto per puro egoismo ed invidia verso
l’immensità delle cose che avrebbe potuto fare se
li avesse avuti.
Buone
o cattive non aveva importanze, ora
le avrebbe fatte, dalla prima
all’ultima: la prima era di evadere dall’Abisso
dopo qualche secolo, l’ultima
era di avere la corona di Harmonia, l’approvazione di Manny
e, chissà, forse
riusciva anche a farci scappare dentro un’improbabile
alleanza con gente del
calibro di Idhunn Orionis Chandrasekhar.
Ma
forse per ora era meglio limitare i progetti ai
regni vicini, il resto delle Costellazioni poteva anche aspettare.
Ancora
con la mente offuscata dalla temporanea
perdita di orientamento, Phobos aveva dovuto combattere con tutta la
volontà
che aveva in corpo per restare cosciente quando aveva iniziato a
bruciargli in
modo insopportabile il braccio destro che ricordava di aver
già provato, e
allora aveva abbassato lo sguardo: un marchio violaceo, il suo marchio, una sorta di segno in
rilievo sul dorso della mano
destra dalla vaga forma a stella dalla quale si diramava quello che
sembrava un
vero e proprio labirinto di linee viola che andavano dal gomito fino
alla punta
delle dita.
Se
lo portava dietro da quando ne aveva memoria, e
cioè da qualche secolo a quanto la sua mente gli permettesse
di ricordare, e
con il tempo aveva imparato che non era nulla di buono agli occhi dei
Guardiani: loro lo consideravano una sorta di segno indelebile di
chissà quale
maledizione ad opera di un certo individuo contro il quale anche Manny
aveva
combattuto, a lui dannatamente estraneo, Phobos invece lo vedeva come
la fonte
inesauribile di forza dalla quale traeva la maggioranza dei propri
poteri da
quando aveva preso parte “alla guerra che lo aveva reso il
mostro che era ora”.
Ed
ora quel marchio pulsava come non aveva mai
fatto, molto più intensamente di quanto facesse quando usava
quel briciolo di
potere che gli era rimasto: non sapeva come ma a quanto pareva Halley
c’era
riuscita, a distrarre quella palla di ciccia lunare di Manny,
c’era riuscita ed
ora non c’erano più le catene
dell’Abisso a fermarlo.
Come
per comprovare la ritrovata forza Phobos si
era affacciato ancora una volta verso la voragine dove i suoi leoni
ruggivano
furiosi, questa volta senza il terrore negli occhi di dover
fronteggiare il
sigillo di Harmonia un’altra volta, motivo per cui aveva
poggiato senza paura
la mano che recava il marchio sulla fitta rete di rampicanti fioriti
che lo
separavano dalle sue adorate bestiole:
«Non
puoi nemmeno immaginare cosa abbia dovuto
passare qui dentro…» disse fra sé e
sé mentre si chinava inginocchiandosi con
la mano tesa ed aperta, i capelli cremisi che ricadevano sul volto
nella parte
non legata da una lunga treccia portata penzoloni sulla schiena.
Che
tuttavia non riuscivano comunque a nascondere
quello sguardo dorato pieno di rabbia:
«Le
umiliazioni, il dolore, le notti passate a
biasimarmi… tu non lo sai Harmonia, non lo hai mai saputo,
anche se pretendevi
di sapere cosa stessi passando…»
continuò mentre i viticci avevano iniziato a
ricoprirsi di sottili fili violacei che lasciavano dietro di
sé solo dei
tralicci secchi, una sorta di danza dove i fiori iniziavano ad
appassire e le
rose a sfiorire, quasi fossero inevitabilmente consumate da una forza
più
grande:
Phobos
sentiva chiaramente una forza immane
montargli dentro l’anima, nelle profondità
più nascoste del suo essere, ed era
anche perfettamente consapevole del fatto che ne avrebbe perso il
controllo
molto presto:
«Mi
hai sconfitto due volte, quando hai preso il
mio regno e quando mi hai sbattuto qui dentro, ma oggi le cose
cambieranno, oh
se lo faranno…» asserì digrignando i
denti per l’odio che gli stava ribollendo
dentro, un odio senza freni, quasi viscerale, lo stesso che qualche
istante
dopo lo aveva travolto senza che se ne rendesse minimamente conto.
Era
stata questione di secondi perchè la rete di filamenti
si estendesse tutta intorno trasformandosi improvvisamente in vere e
proprie
fiamme del tutto simili alle stesse che utilizzava abitualmente, solo decisamente più distruttive,
un disegno
che richiamava quello che portava sul dorso della mano capace di
sprigionare un
calore talmente intenso che la rete di rampicanti era andata
dissolvendosi in
cenere in un rombo di tuono che aveva scosso l’intero Abisso
facendo cadere
qualche piccolo sasso dalle pareti.
E
allora i suoi leoni erano usciti dalla loro
gabbia secolare, per non dire millenaria: il loro aspetto, un tempo
quello di
maestose creature nere come la notte con due occhi color rubino, ora
era
ridotto a dei veri e propri scheletri con brandelli di pelo che
cadevano qua e
là, non avevano nulla a che fare con le creature possenti di
un tempo,
esattamente come lui.
Ma
bastò che uno di loro si avvicinasse, uno dei
più grandi ed imponenti nel branco, e poggiasse il muso
sulla mano del padrone
quasi a fargli le fusa perché il cambiamento fosse radicale:
le bestie si erano
trovate legate a terra da diafane funi viola intenso che brillavano
più della
luce del Sole, avevano iniziato a ruggire forse spaventati o forse
grati, ma
alla fine di tutto, alla fine di quella tortura, ciò che ne
era uscito era un
gruppo di mostri più grandi di un uomo, i
suoi mostri: le criniere che fiammeggiavano di un fuoco nero
come la pece,
gli artigli e di canini bianco avorio snudati della stessa dimensione
di un
palmo umano, il manto che pareva essere fatto
d’oscurità in netto contrasto con
i rubini rosso sangue che lampeggiavano minacciosi sotto il voluminoso
pelo.
Quanto
gli erano mancati, i suoi dolci felini ruggenti, quanto?
Troppo,
Phobos lo sapeva fin troppo bene, e sapeva anche
che era ora di lasciarsi andare una volta per tutte: non aveva
più senso darsi
un freno, non c’era più nessun motivo per cui
avrebbe dovuto interessarsi alla
vita altrui, e forse fu proprio che, inconsciamente o meno, che lo
volesse o
no, finì per evocare sotto di sé quello che
ricordava vagamente un cerchio
alchemico d’altri tempi che recava lo stesso disegno sulla
sua mano.
Poi
i bordi viola acceso di quell’anello si erano
sparsi un po’ ovunque nell’Abisso, si erano
irradiati fino alle pareti e, quasi
mossi da una forza troppo grande anche per Phobos, avevano preso una
volontà
tutta loro: ogni singola linea di quel tracciato si era illuminato di
un’intensa luce nerastra per poi trasformarsi in serpi
incandescenti che nel
giro di pochi istanti avevano finito per sopraffare Phobos in un
vortice di
fiamme del quale non aveva nessun controllo, ed era felice di non
averlo, per
convogliare infine in una colonna di fuoco talmente luminosa da aver
accecato
anche la povera Comet, decisamente abituata a piccoli Soli tascabili,
appena di
ritorno dal suo viaggio interstellare di qualche minuto.
Un
boato.
Un’esplosione.
Poi
l’Abisso era crollato.
Phobos
aveva faticato ad accorgersi dell’arrivo di
Comet, che era atterrata dopo qualche istante di indecisione sul luogo
dove
appoggiare i piedi per non finire arrosto anche lei:
«Phobos?
Cosa stai combinando? Io me ne vado dieci
minuti e tu distruggi l’Abisso?» chiese cautamente,
ma l’altro pareva
totalmente assente, non c’era nulla nel suo sguardo che le
potesse far
intendere che sì, l’aveva sentita, così
decise di avvicinarsi ancora:
«Phobos?
Phobos ci sei? Mi senti?» fece appena in
tempo a dire quando si trovò accerchiata dai leoni del
compagno, delle belve
fameliche che avevano iniziato a ringhiarle minacciosamente contro
costringendola ad indietreggiare ed allontanarsi dal padrone; Comet se
lo
sentiva dentro, che c’era qualcosa di dannatamente strano e
sbagliato in tutto
ciò che le si prospettava davanti, quasi la stessa
sensazione che aveva avuto
quando quel lampo aveva attraversato il suo campo visivo mentre si
trovava a
cazzeggiare qualche momento prima.
Non
seppe perchè sentì l’istinto, poi
rivelatosi
sbagliato, di toccargli la spalla, stava di fatto che appena la sua
mano
l’aveva sfiorato si era trovata con il polso bloccato in una
morsa dalla quale
si sarebbe difficilmente liberata:
«Cosa
cazzo stai facendo? Si parlava di trombaris,
non di uccidaris!» gli urlò contro cercando di
divincolarsi furiosamente, ma
l’altro non dava alcun segno di cedimento, anzi sembrava
sempre più convinto di
ciò che stesse facendo, e allora Comet decise di passare
alle maniere forti:
«Non
dire che non ti avevo avvisato!» asserì
mentre un luccichio rossastro cominciò a brillare sulla sua
mano, delle sottili
fiammelle rosate che andarono presto a ricoprirle
l’avambraccio quasi a
proteggerla da quello che doveva essere il suo alleato di vodka
preferito.
Non
avrebbe mai voluto colpire Phobos con
l’intento di fargli del male, sarebbe stato un vero peccato
se avesse rovinato
anche il suo amichetto di trombaris preferito, ma in quelle
circostanze, in
quella situazione, attaccarlo con il suo altofuoco era
l’unica opzione
possibile per tirarsi fuori da quella questione così
spiacevole.
Se
solo avesse sortito un qualsiasi effetto.
Non
aveva nemmeno fatto una piega che fosse una.
Non
si era mosso di un millimetro.
Niente
di niente.
Anzi,
una cosa l’aveva fatta: il suo marchio aveva
iniziato a brillare di un malsano alone viola acceso
mentre dei filamenti dello stesso colore
sembravano aver iniziato ad espandersi su tutta la lunghezza del
braccio fino
al petto, parzialmente visibile sotto i vestiti rimasti quasi
carbonizzati
durante l’esplosione, per poi prendere posto anche sul polso
di Halley
spegnendo ogni singola traccia di fuoco che incontravano come se lo
consumassero, per non parlare del fatto che lei, quella che si
ricopriva
d’altofuoco come se nulla fosse, ora provava
un’intensa sensazione di bruciore dove
quei filamenti arrivavano:
«Phobos!
Smettila dannato idiota! Lasciami
andare!» gli gridò mentre lo fissava negli occhi
ricavandone solo un brivido
lungo la schiena: erano vuoti,
completamente assenti, lo sguardo di qualcuno che non aveva
più nulla da
perdere perché nulla aveva mai avuto.
Ed
erano pericolosi, tremendamente pericolosi.
Non
c’era più tempo per pensare per Comet, adesso
era solo il momento di agire, se solo avesse saputo come farlo davanti
a quel
puttanaio: Phobos aveva dato di matto, quello era abbastanza ovvio e
visibile,
ed aveva il sospetto che fosse perché il suo corpo, provato
da secoli di
prigionia estenuante, fosse stato improvvisamente riempito con poteri
che
nemmeno lui ricordava più come utilizzare per non esserne
sopraffatto e ridursi
ad essere lui quello controllato dalla sua stessa forza.
Phobos
aveva sempre amato il potere, come tutti
probabilmente, ma se c’era una cosa che le centinaia
d’anni di compagnia a quel
povero disgraziato gli aveva insegnato era che c’era qualcosa che amava ancora di
più dello sconfiggere Harmonia.
E
cioè il trombaris.
Tutti
amavano il trombaris… tranne Manny, quale
sconsiderata l’avrebbe data a quella palla di lardo rotolante
che nemmeno
Sandy?
Manny
che scopava o meno, Sandy che si faceva le
sue bambole gonfiabili tutte sabbiose e sbrilluccicanti o no, alla fine
Comet
si era decisa a tentare il tutto per tutto, anche se prima
c’erano stati altri
tentativi di farlo ragionare:
«Non
vedi come accidenti ti sei ridotto? Per tutte
le stelle di Mother Galaxy, cerca di riprenderti almeno un secondo,
provac-»
non finì che venne zittita:
«Non
ho più bisogno di te, né degli altri, e
nemmeno del tuo pollo che sta correndo via
urlando“coccognè coccognè!”:
non ho
bisogno di nessuno, nessuno!» le disse avvicinandosi a meno
di un palmo da lei,
i loro sguardi che si erano incontrati un’altra volta, ma
Comet non dava alcun
segno di cedimento, anzi:
«Ora
come ora anche tu sei d’intralcio, lo sei
sempre stata: ho dovuto aspettare solo oggi per poter finalmente
riprenderm-»
«Senza
di me saresti ancora chiuso nell’Abisso.»
«Non
mi servivi tu! Potevo fare da solo!»
«Ah
sì, e come? Non mi risulta che tu sia mai riuscito
a combinare qualcosa, o mi sbaglio? Eh? Eh Phobos? Mi sbaglio? Eh?
Eh?»
«Io
non… no! Cioè in realtà
sì… no… oh avanti, smettila
di confondermi!
Mettiamola
così: ci sono cose dove si deve essere
in due, ok? E fra queste cose c’è
anch-» questa volta fu lui ad essere
zittito.
Con
un passionale bacio in cui era stato
trascinato dalla ragazza, tra l’altro.
Nessuno
dei due capì il perché, né tantomeno
Halley riuscì a capacitarsi del motivo per cui le sue labbra
avevano toccato
quelle dell’altro aveva sentito una stilettata che le era
scesa lungo tutto il
corpo mozzandole il respiro, stava di fatto che, anche questa volta,
era
riuscita nel suo intento di calmare la situazione: in modo
probabilmente
inconscio la telecinesi di Phobos era riuscita a frenare il crollo
delle pareti
dell’Abisso evitando il disastro per poi riparare ai danni
fatti riportandole
tutte al loro posto, l’incendio di fiamme nere che stava
addirittura
liquefacendo il terreno si era improvvisamente spento senza apparente
motivo e,
cosa più importante, il marchio sulla mano di Phobos aveva
smesso di brillare,
furtivamente coperto da Vomet con un lembo dle proprio vestito.
Ne
era seguito un silenzio a dir poco
imbarazzante, soprattutto quando Phobos le era crollato fra le braccia
stremato
con gli occhi, a quanto pare tornati alla loro consueta
vitalità, ridotti a due
fessure per lo sforzo; per lei, forse per pietà o forse
perché per qualche
istante si era davvero preoccupata,
cosa rara per una menefreghista come lei, era risultato naturale
stringerselo
al pettoin un abbraccio stranamente materno:
«Fra
le cose da far ein due c’è il trombaris,
soprattutto quello.» disse sorridendo come suo solito mentre
l’altro la
guardava stranito.
Phobos
aveva impiegato qualche secondo a
realizzare l’accaduto, con molta probabilità
perché era ancora mezzo intontito
da ciò che aveva fatto, ma alla fine aveva fissato la
compagna con lo sguardo
perso:
«Cosa
ho combinato… cosa accidenti ho
combinato…»
sospirò fra sé e sé:
«Comet?
Sei ancora intera? Porca merda pensavo di
averti ucciso m-male, io non… non so c-cosa… cosa
d-dire… io non… non volev-»
«Nah,
ci vuole di più per mettermi fuori gioco, se
non ci sono riusciti i Cavalcadraghi Incestuosi Distruggimondo,
piuttosto dimmi
un po’, come ti senti? Ancora rincoglionito?»
domandò senza ricevere
inizialmente risposta.
L’altro
si guardò addosso rendendosi conto di
essere rimasto praticamente mezzo nudo, ma il problema non era il
pudore dal
momento che quello lo aveva abbandonato da un pezzo, il problema era il
braccio
che, forse confuso o magari no, aveva fatto per toccarsi levando il
lembo del
vestito di Halley; lei però lo fermò prontamente:
«Hai
già perso il controllo una volta, fermati e
lascia fare a me» lo rimproverò poggiando la sua
mano su quella dell’altro per
fermarlo, poi si allontanò ed iniziò a frugare
nel borsone che si era portata
dietro tirandone fuori alcune bende, che iniziò prontamente
ad avvolgere
intorno alla zona del braccio di Phobos coperta dal marchio.
Lui
non si oppose a nulla, rimase solo a guardare
indifferente con la testa chinata verso il proprio polso mentre i segni
che lo
solcavano sparivano ad ogni giro della benda bianco latte:
«Non
intendevo dire quello che ho detto, davvero.»
cercò di scusarsi mentre l’altra faceva un nodo
all’altezza del gomito:
«Mh?
Ah sì, non devi preoccuparti: sai meglio di
me che l’opinione degli altri non mi fa né caldo
né freddo quindi stai
tranquillo e pensa a riprenderti, non puoi uscire dall’Abisso
in questo stat-»
stava dicendo quando si trovò le mani di Phobos appoggiarsi
con una delicatezza
innaturale sulle spalle per poi scendere sui fianchi ed infine
indugiare
qualche istante sul suo ventre, quasi stesse decidendo sul da farsi, i
brividi
gelati di prima che si trasformano in una calda scarica che le aveva
piacevolmente percorso il corpo facendole istintivamente inarcare la
schiena.
Quell’improvviso
cambiamento d’umore non la
disturbava affatto, soprattutto quando aveva chiuso gli occhi per
concentrarsi
al meglio sulla sensazione delle mani di Phobos che erano andate
esplorando
ogni centimetro che incontravano nella lenta ma inesorabile discesa
verso il
basso per trovare le curve che stava cercando, esplorandole come un
bambino desideroso
di succhiare il latte dal petto della madre e, sperando che quella
scena non si
ripetesse anche nell’Abisso, Comet si era abbandonata a quel
turbine di
emozioni lasciandogli fare.
Ad
un certo punto sentì il suo respiro contro il
suo collo, un suono profondo e regolare che riusciva sempre e comunque
a
rilassarla, poi si diede al morderle il collo nemmeno fosse un vampiro,
prima
delicatamente e poi con un ardore sempre crescente: le mani di Phobos
che si
tuffavano sotto il vestito facendosi strada verso ben altre curve, il
movimento
felino con il quale era passato dall’accarezzarle
delicatamente i lati dei seni
per poi concentrarsi all’esplorazione di tutta la loro
superficie era stato
qualcosa di dannatamente magico, tanto che non era riuscita a
trattenere un
gemito di piacere che si era promessa di risparmiarsi, il tutto
affondando il
viso nei morbidi capelli cremisi del suo scopamico.
Per
quanto però Halley si stesse divertendo, e per
quanto ormai si fosse praticamente accucciata sul petto
dell’altro ansimando,
c’era stato un momento durante il quale gli aveva afferrato
la mano bloccando
quel suo viaggio erotico nel quale si stava destreggiando ed era stata
lei a
cercare le sue labbra per cercare un bacio passionale, quasi famelico:
adorava
quei momenti, quelli durante i quali nemmeno i ricordi appannati che
tormentavano Phobos ogni istante potevano disturbare i loro rapporti,
erano
qualcosa di assolutamente magico.
Erano
andati avanti qualche istanti, poi lui le
aveva dato tregua sistemandole i capelli arruffati:
«Sei
già stanca, mia piccola stella solitaria?» le
domandò accarezzandole il volto intanto che premeva la
propria fronte contro quella
dell’altra:
«Oh
no, abbiamo appena iniziato, ma ho un’idea
geniale.» propose lei accennando un sorriso malizioso che
aveva inevitabilmente
incuriosito l’altro:
«Spiegati
meglio, avanti.» le chiese mentre l’altra
gli sfiorava le labbra con l’indice come a farlo tacere
qualche istante:
«Facciamo
trombaris lassù» spiegò
indicando la luce del Sole che filtrava
dall’entrata dell’Abisso:
«Abbiamo
già fottuto Manny, tanto vale fottere due
volte quelli che se ne stanno fuori da questo buco di posto scopando
allegramente nei roseti di Phantasia, non credi?»
domandò curiosa.
Era
un’idea geniale.
Assolutamente,
dannatamente, perfettamente geniale.
E
c’era voluto poco perché la mettessero in
pratica, ovviamente dopo essersi messi addosso alla bene e meglio
qualche
straccio preso qua e là dal leggendario borsone di Halley
che nemmeno Mary
Poppins poteva vantare.
L’uscita
ufficiale dall’Abisso Phobos l’aveva
sempre immaginata come qualcosa di terribilmente epico, una scena di
quelle che
sarebbero rimaste impresse nella mente dei suoi nemici per tutti i
secoli a
venire, e la loro non aveva nulla da invidiare ai film mentali che si
era
fatto: l’Abisso stesso era stato pervaso da un rombo
dirompente, un ruggito
ancestrale che l’aveva fatto tremare ancora una volta, poi
era scesa
un’inquietante calma talmente piatta che anche il vento
sembrava aver smesso di
soffiare.
E
alla fine niente, si era scatenato il caos.
Forse
l’Abisso era fuori pericolo dall’imminente
crollo che per poco Phobos aveva causato, ma l’improvviso
lampo di luce che era
seguito all’assoluto silenzio era stato così
intenso da aver illuminato tutto
intorno più intensamente di quanto potesse mai fare il Sole,
un bagliore
probabilmente visibile anche agli occhi di Manny da quanto era
penetrato a
fondo nella nebbia, poi nelle nubi ed infine attraverso
l’etere dello spazio.
Comet
era stata la prima a venirne fuori, e lo
aveva fatto in grande stile: le braccia aperte verso
l’immensità delle
superficie, circondate anche loro dall’alone di altofuoco
color magenta che si
dimenava come se fosse un serpente rabbioso, le donavano
l’insolito quanto
singolare aspetto di una stella nel pieno della sua
vitalità, un piccolo astro
che dietro tutta quella bellezza cosmica nascondeva una forza talmente
grande da
essere distruttiva sia per se stessa che per gli altri:
«Muovi
il culo signore dei gatti! Voglio vedere
cosa ti sei inventato!» lo incitò sedendosi
evidentemente nel nulla mentre
levitava con quel suo sguardo strafottente di chi se ne frega di tutto
e di
tutti.
Lei
gli aveva chiesto un’uscita memorabile, e
Phobos l’aveva accontentata: c’era stato un
brontolio sinistro nell’Abisso
quando Halley aveva voltato lo sguardo, ma era subito stato sopraffatto
da una
vampata di fiamme nere come la notte che erano andate attorcigliando
una
sull’altra fino quasi a toccare il cielo, un turbinio
disordinato che era
andato a ghermire l’aria fino a quando non si era rappreso in
un’enorme sfera
violacea ad una decina di metri da terra, forse qualcosa di
più.
Sembrava
fatta d’acqua, quella sfera, una sorta di
bolla viola percorsa un po’ ovunque da sottili filamenti
nerastri in continuo
movimento, in una perpetua danza plasmata dall’oscurita; poi,
quasi come se
fosse stata scoppiata da un ago, anche quella si ruppe
ricoprì di crepe su
tutta la sua superficie e si ruppe improvvisamente, mossa da
chissà quale
forza: la maggioranza dei resti del guscio di quella sorta di uovo
primordiale
si erano presto trasformati in piccole fiammelle incandescenti,
meteoriti che
andavano a schiantarsi a terra bruciando e distruggendo ciò
con il quale
venivano a contatto mentre altri, per un movimento frutto di
chissà quale
sortilegio, avevano preso ad ammassarsi assumendo le sembianze di un
qualcosa
di non meglio definito, ma che sicuramente era enorme.
Comet
aveva impiegato qualche secondo per mettere
a fuoco la situazione, anche perché non ci stava capendo
moltissimo, ma quando
c’era riuscita era rimasta dannatamente abbagliata da tanta
magnificenza: un
leone, un gigantesco leone completamente nero fatta eccezione per gli
occhi
dorati che scrutavano inquieti il terreno lì intorno, un
mostro fatto di magia
ed oscurità che aveva lanciato un ruggito udibile a centinai
e centinaia di
chilometri di distanza.
E
sulla sua testa, quasi a dominare tutta l’area
intorno come il maschio alpha di un branco, c’era Phobos con
le braccia rivolte
verso la bestia e gli occhi con la pupilla quasi resa invisibile dalla
coltre
di magia che lo stava inebriando: erano bastate poche parole
pronunciate in
chissà quale lingua perché quel mostro chinasse
il muso e facesse scendere il
padrone dissolvendosi in polvere nera poco dopo, un chissà
quale sortilegio che
per quanto fosse meraviglioso gli era costato parecchio in termine di
energie,
ma almeno l’applauso di Halley fu più che meritato.
Fu
solo allora che Phobos le si avvicinò
mettendole un braccio intorno al collo e tirandola verso sé:
«Trombaris
nei roseti di Phantasia, milady?»
domandò curioso mentre l’altra, proprio
come una nobildonna, faceva un breve inchino allungandogli una mano che
lui
prese doclemente:
«Trombaris
nei roseti di Phantasia, milord.»
Nord
aveva subito capito che c’era qualcosa che
non andava quel giorno, ma non capì il perché
subito: forse era il suo sesto
senso di Guardiano, forse erano i pregi dell’esperienza
lavorativa come tale,
forse la vodka che faceva effetto.
O
forse era semplicemente perché in uno dei suoi
mappamondi, esattamente uguale a quello con il quale sorvegliava la
Terra
tranne per il fatto che fosse in formato giga enorme, si era illuminato
un
insignificante quanto fastidioso puntino rosso lampeggiante.
Nord
allora si avvicinò lisciandosi la barba
inquieto, quasi sentisse nell’aria che qualcosa non andava, e
infatti rimase di
pietra quando osservò meglio la posizione della pallina
birbantella:
l’Abisso
di Phantasia, il Regno della Fantasia.
Il
Regno della Regina
della Fantasia.
Il
Regno di Harmonia.
Cazzo.
Buon
Manny.
Per
tutti i cavalca draghi incestuosi.
Accipigna.
Perdindirindina.
Porca
di quella merda.
Svegliatosi
dal temporaneo letargo post-trauamtico
il Guardiano si affrettò a chiamare a raccolta i suoi fidati
yeti impartendo
ordini a destra ed a manca:
«Andate
da altri Guardiani e avvisate loro, dite
che situazione grave abbiamo! Muovete culo pulcioso! Correte dannati
giganti
pelosi da piccolo cervello!» urlò contro ai
poveretti che, presi anche loro dal
panico senza saperlo, si era sbrigati ad aprire portali un
po’ ovunque per
raggiungere gli altri Guardiani.
Non
c’era più tempo da perdere.
__________________________________________
Angolino
dell’autrice
Salve
a tutti fandom!
Ok,
ingresso molto poco epico come quello di
Phobos, MA FA NIENTE :D
Comunque
sia, essendo nuova nel fandom delle
Cinque Leggende mi presento brevemente: sono Rising_Phoenix, di solito
scrivo nel
fandom di Kinnikuman, sono quella che ha millemila storie nella testa
che
prendono vita sulla tastiera a rilento perché è
troppo occupata con il primo
anno universitario, e sono alla mia prima long da queste parti (in
realtà qui
ho già scritto la one-shot “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi”, ma era una
cosa veloce xD).
Che
posso dire di questa fan fiction?
Innazitutto,
ci sono UNA MOLTITUDINE di personaggi
nuovi creati tutti dalla sottoscritta (ed io creo personaggi o quando
mi
vengono in mente a random o quando vedo immagini che mi affascinando
particolarmente, ma non è il caso di questa fan fiction), e
già in questo primo
capitolo ne avete conosciuti due, Halley e Phobos, sui quali vorrei
spendere
due parole: Phobos è un aitante (?) personaggio bipolare di
mia creazione,
mentre Comet E. Halley mi è stata gentilmente regalata dalla
mia dolce puledra
(non fatevi domande :D) letteraria che è _Dracarys_,
che si è anche occupata del suo background e della
definizione della sua
personalità, dovendo essere io a gestirla xD
Ecco,
ora mi soffermerei un attimo su questa bella
persona: credetemi se vi dico che senza di lei non avrei MAI pubblicato
questa
long (soprattutto perché ho cambiato storie dei vari oc ed
idee TROPPO spesso
xD), ero dannatamente insicura sul fare un esordio con una fan fiction
di tale
portata dopo il successo leggermente scarso della one shot, ma mi ha
supportato
e ripetuto di crederci fino a quando? Ieri sera?
Quindi
voglio dirle grazie, grazie tantissimo per
tutto quello che fai nel darmi la tua opinione sulle dubbie scelte di
trombaris
in questa long <3
Passata
la parte piena d’ammmore, cosa devo dirvi
d’altro?
Ah
sì, scusate per la lunghezza IMMENSA, ma non
volevo tranciare in due un capitolo importante come questo: se siete
arrivati a
leggere fino a questo punto vi ringrazio tantissimo, non potete
immaginare
quanto sia importante per me vedere che qualcuno apprezza (spero!)
quello che
scrivo, soprattutto perché è la prima long seria
qui!
Quindi
basta, ho detto tutto, solo una cosa: vi
lascio il disegno fatto da _Dracarys_
dell’uscita trionfale di Halley e Phobos
dall’Abisso, ci tiene a precisare che
è un disegno vecchio di almeno un anno perché
adesso è migliorata come non so
cosa :D
Niente
gente, arrivederci al prossimo capitolo e
buona permanenza in questa long dove si incroceranno Guardiani
dubbiosi,
giumente vogliose e complotti intergalattici (ma questa è
un’altra long, QUINDI
NON FATECI CASO) che nemmeno in Game of Thrones.
Al
prossimo capitolo!