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Autore: innominetuo    25/05/2016    11 recensioni
Joe Yabuki ritorna sui suoi passi, dopo un anno di dolore e di rimpianto. La morte di Tooru Rikishi lo ha segnato profondamente. Ma il ring lo sta aspettando ormai da tempo.
E non solo il ring.
…Se le cose fossero andate in un modo un po’ diverso, rispetto alla versione ufficiale?
Storia di pugilato, di amore, di onore: può essere letta e compresa anche se non si conosce il fandom e quindi considerata alla stregua di un'originale.
°°°°§*§°°°°
Questi personaggi non mi appartengono: dichiaro di aver redatto la seguente long fic nel rispetto dei diritti di autore e della proprietà intellettuale, senza scopo di lucro alcuno, in onore ad Asao Takamori ed a Tetsuya Chiba.
Si dichiara che tutte le immagini quivi presenti sono mero frutto di ricerca su Google e che quindi non debba intendersi il compimento di nessuna violazione del copyright.
Si dichiara, altresì, che qualsivoglia riferimento a nomi/cognomi, fatti e luoghi, laddove corrispondenti a realtà, sono puro frutto del Caso.
LCS innominetuo
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Bianche Ceneri'
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Davvero, c’era qualcosa che proprio non quadrava.

Da quando Tange gli aveva fatto notare che solo per un puro caso Joe non era uscito quella maledetta sera insieme a Leonard Smiley, Nakamura non aveva smesso di pensarci. Come non aveva mai smesso di ripensare all’agguato che era stato teso al suo ragazzo giusto alcuni mesi prima. Era evidente che esistesse qualcuno, laggiù, nella massa indistinta dei cittadini di Tokyo, che odiasse a morte suo figlio.

Occorreva investigare.

Occorreva scavare… scavare a fondo, per arrivare alla verità.

°°°°°°°

C’erano stati giorni migliori e giorni peggiori… non era stato sempre tutto monocorde.

Alcune volte, e solo per qualche secondo, Carlos gli aveva scoccato un’occhiata cosciente e lucida, come se lo stesse riconoscendo, chiamandolo per nome non per mero riflesso, come fanno i pappagalli ammaestrati, ma come se ricordasse ogni singolo istante del suo passato. In quei brevissimi sprazzi in cui la malattia mentale pareva volersi prendere una pausa, Joe aveva osato sperare che il suo amico non volesse arrendersi e che volesse lottare per riappropriarsi della propria identità.

Ma la speranza, come una timida e fioca luce, si spegneva, inesorabilmente.

Tutte le volte.

Joe parlava per ore con Carlos, giocava con lui a nascondino e ad acchiapperella, gli portava orsacchiotti di peluche e libri illustrati, gli imboccava la merenda, quasi sempre un budino alla vaniglia che Carlos ingollava tra mille smorfie. Una volta Joe provò pure a raccontargli una bella favola che gli aveva suggerito Yoko. Quest’ultima cercava di interferire il meno possibile nel rapporto di Joe con Carlos: non voleva intromettersi tra i due amici e si limitava a starsene sempre un po’ in disparte, seduta su una panchina del parco un poco distante da loro.

Joe trattava Carlos con pazienza e tenerezza infinite, come se si trattasse di un bimbo di pochi anni. A più riprese, ricacciava le lacrime a forza, mostrando sempre all’amico un volto disteso e sorridente, mentre dentro si sentiva morire…

Alla fine, però, dovettero risolversi a ritornare a casa.

Il soggiorno a Los Angeles era durato quasi tre settimane e, pur soffrendo moltissimo per il distacco dal malato, Joe e Yoko, dopo aver promesso ad Harry Robert che avrebbero fatto un’altra visita a lui e a Carlos il prima possibile, furono costretti a prestar fede ai loro numerosi impegni in patria. Joe doveva intensificare gli allenamenti, dato che la fine dell’anno con la disputa del titolo mondiale si stava avvicinando sempre più, mentre Yoko non poteva trascurare i suoi affari ancora per molto: nonostante le deleghe conferite ai suoi legali di fiducia, alcune questioni dello SBC attendevano urgentemente la sua personale supervisione. Per loro e, per Joe soprattutto, fu difficile e doloroso lasciare Carlos: pur sapendolo amorevolmente assistito e curato, salirono sull’aereo per Narita con il cuore gonfio di tristezza e di rimpianto.

°°°°°°°°

“Dove stai andando?”

La ragazza si stiracchiò sul letto, rimanendosene a contemplare la schiena tonica e dai muscoli guizzanti del suo compagno che le dava le spalle, intento ad infilarsi i calzoni.

“Fatti i cavoli tuoi.”

“Poco fa non mi parlavi con questo tono.” mormorò lei, con voce tremante.

“Poco fa mi scaldavi il letto.”

Dudley si abbottonò la camicia, lasciando slacciati solo i primi due bottoni del colletto, in modo che si vedesse ben bene la catena d’oro di cui andava tanto orgoglioso. Si concesse il tempo di percorrere con lo sguardo il corpo burroso e ben fatto della giovane venere nera, malcelato dal sottile lenzuolo.

“Quando ritorno, vedi di non farti trovare qui.” le intimò, con studiata freddezza.

Non osò, però, interpellare il suo stesso coach con lo stesso tono sprezzante. Quando arrivò in palestra, infatti, Dudley Walker si beccò da Mr. Lewis l’ennesima ramanzina per l’ultimo pestaggio del quartiere del giorno prima, da cui aveva riportato un occhio pesto ed il labbro spaccato. Non fiatò, sebbene gli prudessero le mani: non fece nulla di rimando alle rampogne dell’allenatore per il semplice motivo che Morgan Lewis gli serviva per combinargli il prossimo incontro. Ora come ora la cosa che più gli premeva era andare a spaccare quel maledetto muso giallo che aveva jellato Leon.

Voleva volare a Tokyo e fare più danni possibili in quella fottuta città per avergli ridato i resti combusti del suo povero amico chiusi in una bara.

°°°°°°°°

Joe versò l’acqua ed il tè, per poi accendere l’incenso.

Contemplò la lapide chiara, su cui la luce del sole tracciava dei lievi giochi di chiaroscuro.

Era da un po’ che non andava a trovarlo… le ultime sfide che aveva affrontato, come uomo e come pugile, gli avevano lasciato ben poco tempo libero.

Ma sapeva di poter sempre ritornare da lui, di ritrovarsi a quel punto: il passato riaffiora sempre, alla fine.

Ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono venuto qui, da te.

Scusami.

Ma tu lo sai che sto lavorando sodo: lo faccio per tutti e due…


Sono sempre un peso medio: sono ancora nella nostra categoria, ricordi? Te lo dovevo.

Fra qualche mese mi incontrerò con Mendoza ed avrò bisogno anche del tuo, di aiuto, per resistere.

Per resistere fino alla fine.


°°°°°°°°

Un tardo pomeriggio, al Tange Boxing Club.

Tutti e sette i giovani pugili si allenavano coscienziosamente, attendendo il ritorno di Tange: proprio quel pomeriggio, questi si era recato alla Federazione, essendo stato convocato dal Presidente in persona.

Joe, sorridendo, stava aiutando a rialzarsi Chomei, che di solito gli faceva da sparring partner, e questo per l’ennesima volta. Il ragazzo sorrideva, ringraziando Joe per i consigli che gli andava elargendo.

“La guardia bassa, per ora, lasciala a me. Non sei ancora pronto. Serra bene i guantoni davanti agli zigomi, piuttosto… o finirai per terra di nuovo!”

“S-sì, va bene…”

“Non ti distrarre o vedi cosa ti faccio?”

Dopo esserselo lavorato ai fianchi, sì da fargli scendere i pugni per meglio puntellare i gomiti al dorso, Joe gli sferrò un gancio sinistro alla gota di discreta potenza, pur senza infierire troppo e misurando il carico del pugno. Chomei stramazzò lo stesso a terra.

“Umpf, a che punto siete voi due?” tuonò in palestra il vocione di Danpei, giunto allora allora. Sette paia d’occhi lo fissarono, incuriositi: i ragazzi interruppero gli esercizi simultaneamente… per poi riprenderli alla velocità della luce, non appena il coach abbaiò loro di non distrarsi! “Joe, scendi un secondo dal ring: ti devo parlare. Chomei, continua ad allenarti in sparring con Nobuo, non ti fermare.” ordinò, interpellando il terzo peso medio del club.

“Cosa ci sarebbe di così urgente da farmi interrompere l’allenamento?” brontolò Joe, levandosi caschetto e guantoni per potersi spruzzare in faccia un po’ acqua tiepida, stropicciandosi la zazzera scura con fare nervoso.

“Senti… in Federazione mi hanno parlato del tuo prossimo sfidante.”

“Mendoza? Se ne parla tra qualche mese, me lo ha già confermato Yoko più volte. Il campione non può bypassare alcuni incontri, prima di vedersi con me. Quindi prima di novembre o anche di dicembre non se ne parla proprio.” brontolò, bevendo un paio di sorsi e sedendosi sulla panca.

“Non si tratta di Mendoza. Altrimenti la Federazione Pugilistica non si sarebbe scomodata a mandarmi a chiamare, dato che gli accordi con il campione li abbiamo presi con Shiraki-sama e con la Tele Kappa. No, Joe… si tratta di un altro pugile, con cui dovrai incontrarti prossimamente.” Danpei sospirò, dispiegando alcuni fogli che aveva piegato per cacciarseli in tasca. Li porse a Joe. “Si tratta di un altro atleta di Mr. Lewis… sì, non guardarmi con quella faccia… proprio lui, il procuratore di Smiley, povero ragazzo. Questo qui si chiama Dudley Walker, e pure lui è di New York. Pare che sia un osso duro.”

“Chissene. Non mi interessa.” Joe replicò, secco.

Si alzò dalla panca, dopo aver fatto volare tutti i fogli per aria. Stava per ritornarsene sui suoi passi, mani in tasca, ma le parole di Danpei lo fecero arrestare.

“Joe, il Presidente mi ha consegnato una lettera di Dudley Walker in persona, che ha spedito alla Federazione, non conoscendo il nostro indirizzo: è una lettera per te… è scritta in inglese, dovresti riuscire a leggerla: so che mastichi abbastanza quella lingua stramba.”

“Dammi qua.” Joe la sfilò a Danpei con gesto febbrile.

Lesse con lentezza, dato che l’inglese riusciva a parlarlo benino, ma nella lettura non era molto ferrato. Man mano che i suoi occhi scorrevano le righe – che fatica leggere da sinistra a destra, ed in orizzontale! - Joe impallidiva sempre più, assumendo un colorito verdognolo, da olivastro qual era.

“Che razza di stronzo…” sibilò tra i denti.

“Cosa dice?” chiese Danpei, tra il curioso ed il preoccupato, avvicinandosi a lui per spiare nello scritto.

“Bazzecole… mi chiama bastardo, mi augura di morire, afferma che ho portato jella al suo amico Leon e che per questo vuole spaccarmi il culo… carinerie così. Eh, che te ne pare?” bofonchiò Joe, sorridendo beffardo.

Tange conosceva bene quel sorriso: lo aveva visto tante volte sul viso di Joe, soprattutto ai loro vecchi tempi. Se sorrideva così, non era per gioia o per soddisfazione: quello era un sorriso di sfida, di competizione. Era il sorriso di chi non vuole arrendersi alle avversità della vita. Neppure sul ring, con il viso gonfio e tumefatto per i colpi ricevuti, Joe aveva mai smesso di sorridere in quel modo al suo avversario, all’arbitro, ai giudici… al mondo intero. Il coach capì subito che, ancora una volta, il suo ragazzo non si sarebbe tirato indietro. La lettera aveva sortito il risultato sperato dal suo mittente.

Joe aveva però tralasciato di riferire a Tange la frase di Walker che più delle altre lo avesse colpito e turbato. Per tutto il resto della giornata, che fosse la prosecuzione dell’allenamento o la consumazione della cena insieme a Tange ed agli altri ragazzi nella sala da pranzo su al primo piano, ecco che alcune parole continuavano a ronzargli nel cervello, come un disco incantato o anche un’eco fastidiosa.

Io sono la tua morte e tu sei la mia*.

°°°°°°°°

“E così, Joe si appresta ad incontrarsi con un altro americano, Dudley Walker.”

Quella di Jun Kiyoshi era più una constatazione, che una domanda. Aveva seguito, con il suo solito passo tranquillo ed elastico, Yoko Shiraki, una volta vistala uscire dalla sede della Federazione Pugilistica per varcare la soglia di una elegante sala da tè in stile inglese, a quell’ora frequentata da turiste occidentali e da anziane signore della media borghesia giapponese. Yoko sospirò leggermente, indicando la sedia di fronte a lei, per invitare il reporter al suo tavolo. L’aveva seguita, a quanto pareva: a questo punto, tanto valeva sentire cosa volesse!

“Grazie.”

Jun le si accomodò di fronte osservandola a lungo. Il viso di Yoko appariva un po’ stanco e tirato, nonostante il velo di blush steso sugli zigomi delicati per simularne la bonne mine**.

“È da un po’ che non ci si vede.”

“Verissimo. E tutte le volte Lei compare dal nulla, come un folletto.” sorrise Yoko, quietamente. “Quanto alle sue parole di poco fa, sì: Le confermo che Joe disputerà un incontro contro Mr. Walker. Però La prego, almeno per il momento, di non scrivere nulla al riguardo: la cosa non è ancora ufficiale. Conto sulla Sua discrezione.”

“Certo. Ma ad una condizione.”

“Ovvero?” domandò Yoko, inarcando le sopracciglia, con chiaro disappunto.

“Una cena. Con me.”

Yoko rimase interdetta per qualche secondo. Bevve un sorso di acqua tonica, per darsi un contegno.

“Non mi pare il caso.” replicò, asciutta.

“Beh, se verrà a cena con me, Le racconterò un bel po’ di cosette sul conto di Walker… Qualche tempo fa ho assistito ad alcuni suoi incontri, di cui ho preso appunti. Sono un bravo ragazzo che studia la sua lezione,” le sorrise, allegro “… e poi suvvia, cosa c’è di male a mangiare un boccone con un suo vecchio amico ed alleato? Una donna emancipata come Lei, una donna d’affari, non deve rendere conto a nessuno delle sue azioni!”

Yoko sospirò, di nuovo. In fondo, non c’era nulla di male a cenare con un amico giornalista. Se poi quest’ultimo le avesse dato davvero delle informazioni preziose sul conto del prossimo sfidante di Joe, un paio d’ore trascorse al ristorante con Kiyoshi a parlare di boxe avrebbe assunto il valore di una cena di lavoro.

Né più e né meno.

“Va bene, Kiyoshi. Però il ristorante lo scelgo io.” sorrise.

Arrivò la sera dell’appuntamento: Yoko aveva scelto un grazioso ristorantino francese, non troppo lontano dallo Shiraki Boxing Club, che raggiunse comodamente a piedi, rifiutando così il passaggio in auto dal reporter. Per l’occasione, come per sottolineare l’intento puramente professionale dell’incontro, era rimasta con la medesima mise della mattina: un sobrio tailleur blu scuro, appena rischiarato dalla camicia in chiffon color crema.

“Bene. Possiamo accomodarci.”

“… un calice di buon rosso, per iniziare?” suggerì l’uomo, che non le staccava gli occhi di dosso. Non avrebbe mai smesso di guardarla.

“Perché no. Volentieri, grazie."

Chiacchierarono del più e del meno, mentre l’esperto sommelier rabboccava loro i calici di un Pommard*** d’ottima annata.

“Bene… che ne diresti di cominciare ad ordinare?” suggerì Jun.

“Possiamo aspettare ancora qualche minuto?”

“Sì, certamente, ma…”

Jun non finì la frase, dato che vide avvicinarsi al loro tavolo una figura ben nota. Il sorriso gli morì sulle labbra.

“Scusate se vi ho fatto attendere. Il Consiglio di Amministrazione non si decideva a deliberare.”

“Nonno, non ti preoccupare: noi ti abbiamo atteso bevendo del buon vino.”

Yoko si alzò per fare meglio accomodare Mikinosuke Shiraki, chiamando un cameriere per fargli servire un terzo coperto. Potè così offrire al nonno un calice di vino: “È assolutamente divino, questo vino borgognone: mi ricorda un nostro viaggio in Francia di qualche tempo fa. Ricordi?” gli disse, dolcissima.

Jun assistette, livido in viso, all’affettuoso scambio di battute tra nonno e nipote.

“Me l’hai fatta, Yoko, accidenti…”

“Bene: adesso che ci siamo tutti,” disse Yoko, con un sorriso innocente “possiamo ordinare la cena ed ascoltare il tuo resoconto su Dudley Walker.”

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Spigolature dell’Autrice:


*curiosità storica: questa frase venne pronunciata nientemeno che da Anna Bolena, riferendosi alla moglie ed alla figlia di Enrico VIII, alias Caterina d’Aragona e Mary Tudor, dato che il divorzio di Enrico pareva allontanarsi sempre più e quindi la possibilità per lei di sposarsi con il Re. Per la precisione, Anna disse, in un momento di rabbia e di sconforto: “Loro sono la mia morte, ed io la loro”.

**bonne mine: bell’aspetto, dal francese, lingua che adoro ^_^

***Pommard: un pregiato vino rosso della Borgogna, dal gusto ricco e sontuoso, con sentori di frutta e di cioccolato (credits: http://www.vins-bourgogne.fr)

  
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