nomi dei personaggi: Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade). Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco). Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi). Artemide è Diana (Nome romano della dea). Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste). Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios"). Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli). Era è Eva (Per assonanza e per ruolo). Menezio è Ezio. |
Titolo: La tempesta in cucina
Prompt: Io voglio un cuore,
perché il cervello non
basta a farti felice, e la felicità è la cosa
piú bella che esista al mondo.
La quiete prima
della tempesta si trascina per lunghi giorni di lampi nello sguardo e
bronci
come un brontolio di tuoni in lontanza. Sembrano riuscire a vedersi
solo
all'ora dei pasti, e quando siedono l'una di fronte all'altra, il
sapore del
cibo invariabilmente diventa cenere sulla lingua, l'unico rumore il
ticchettio
dell'orologio, le posate sui piatti, i loro respiri cauti.
Evitano
accuratamente di guardarsi mentre ingoiano un boccone alla volta, il
tavolo di
plastica l'unica barriera fisica che trattiene sua madre dal saltarle
addoso e
scrollarla, Cora lo sa.
D'altra parte,
l'aria di tensione elettrica che tira in casa la tocca relativamente,
come se
quella che è stata la sua priorità,
chissà come, chissà perché, sia scesa
di un
gradino per far posto a un tarlo che le scava dentro, sguazza nell'orlo
del
nuovo cratere che le si è aperto nel petto, proprio accanto
al dolore per
Bianca.
Un dolore nuovo,
che pulsa come un nervo infiammato, come un mal di testa al cuore. Non
la
lascia vivere in pace, sempre presente mentre si costringe ad uscire di
casa, a
vedere gli amici, a seguire le lezioni, a riprendere la sua vita come
l'aveva
lasciata prima che la notizia di Bianca le crollasse addosso.
Non si concede di
pensare, ma il pensiero la scavalca con prepotenza, costringendola a
rifletterci sdraiata a letto e il sonno tarda ad arrivare.
Ha fatto la cosa
giusta, da qualunque angolazione la si guardi. E Ade ha fatto la cosa
giusta.
Entrambi.
Ci pensa e ci
riprensa, a quel momento, tormentandosi una ciocca di capelli, lo
sguardo che
evita accuratamente di scivolare sul casco che la fissa da un lato
della stanza
con occhi invisibili e cerca di vedere la verità corrosiva
sotto l'involucro
della finzione che ci ha avvolto attorno per andare avanti.
Potrebbe
giustificarsi con se stessa, dirsi che sua madre ha scelto un giorno
particolarmente difficile per detonare la sua rabbia, ma Cora
è fin troppo
consapevole di quanto un giorno valga l'altro.
La cucina gialla e
arancio si stringe attorno a loro come una scarpa troppo stretta,
nonostante le
finestre spalancate. L'autunno è ancora lontano e l'afa
incolla i vestiti
addosso come la pelle lucida di un serpente dopo la muta.
Non sa bene
neanche lei come abbia inizio: un momentole le sta passando in piatto;
quello
seguente, le urla di sua madre fanno quasi esplodere il cucinino,
appesantendo
l'aria greve di caldo e di frittura. Le parole volano più
grosse degli
arancini, e Cora posa il piatto che ha in mano per non farsi tentare
dal
tirarli sul pavimento e mutilare irrimediabilmente il servizio buono.
“Saresti
potuta morire!
Cosa ti ha detto la testa, sciocca bambina?! Arrampicarti fin
lassù da sola, ti
saresti potuta rompere il collo come un ossicino di pollo! Se Ade non
ti avesse
ripescata chissà da dove, avrei potuto ritornare tu
a casa in una bara!”
“Sono
tornata sana
e salva, eppure,” ribatte Cora, restia a concordare con lei,
le guance
arrossate di caldo, vergogna, rabbia. “Se solo mi permettessi
di uscire di casa
per conto mio senza chiamare le forze armate, capiresti che ormai ho
raggiunto
l'età della ragione. E di poter andare in giro senza una
scorta.”
Lo sdegno di
Demetra sembra pari solo alla sua sorpresa di sentirsi rispondere a
quel modo.
Da dove venga tutta questa intraprendenza, non lo sa neppure lei;
può solo
constatare che una volta saltato il tappo che le frenava la lingua, non
c'è
modo di rimetterlo al suo posto.
“Forse
perché hai
dimostrato che non posso fare affidamento su di te e i tuoi colpi di
testa!”
“Mamma, ti
prego,
non prendiamoci in giro: sono sempre stata la figlia più
affidabilmente noiosa
che abbia messo piede sul suolo siciliano nell'ultimo secolo.”
“E per
questo ti è
stato concesso di studiare lontano da casa, ma ora guarda come ripaghi
la mia
fiducia!”
Il litigio va
avanti, le parole si infrangono sulla superficie bianca del lavello,
contro le
credenze sovraffollate di piatti. Divo viene nominato, e Bianca, e alla
fine,
quando tanto Cora quanto sua madre hanno gli occhi lucidi di stanchezza
e di
pianto, le ostilità sembrano avviarsi al termine, crollano
entrambe sulle sedie
di plastica, afferrandosi al tavolino per non cadere.
Sua madre scuote
piano il capo, i ricci biondi che ondeggiano sfiorandole il viso
sudato.
Deglutiste lentamente prima di parlare, e la sua voce è
rauca per le grida di
prima. “Cora, tesoro mio. Se non vuoi evitare di dare una
preoccupazione a me,
pensa almeno con la testa. Andare là sola, di pomeriggio
inoltrato... sarebbe
potuto capitarti qualunque cosa. Non farmi sapere dove davvero fossi
per tutto
quel tempo, poi, è una follia.”
La
fragilità nella
sua voce spinge Cora ad allungare una mano, strisciando il palmo sul
piano del
tavolo per raggiungere la sua. Sua madre le sembra così
stanca, in questo
momento, e anche lei è esausta, neanche l'energia stesse
colando via da lei a
ogni goccia di sudore.
Intrecciano le
dita e Cora piega l'altro braccio per posarci la guancia, il busto
premuto
contro la plastica alla ricerca di refrigerio – e un briciolo
di stabilità.
“Mi mancava
così
tanto,” sussurra, “che non mi importava
più di niente.”
Non vede sua
madre, ma la sente strofinare i polpastrelli alle sue dita umide.
“Posso
capirti, tesoro mio, ma ora stai un poco meglio, no?” Stringe
lieve la presa, e
Cora ricorda improvvisamente che Bianca ha fatto lo stesso, in quello
strano,
vivido sogno di qualche tempo prima. “Promettimi che penserai
con la testa,
d'ora in poi.”
Cora schiude le
labbra per replicare, ma è come se un dito invisibile si
posasse su di esse,
sigillando le parole in gola. Le sfugge un singhiozzo senza che se ne
accorga
neppure, che le fa tremare le spalle sotto la maglietta leggera. Un
secondo
segue il primo. E ancora. E ancora.
Vorrebbe dire che
sta usando il cervello, e che le fa male. Quando dita sottili si
immergono tra
i suoi capelli sudati, chiude gli occhi strettamente, immaginando di
essere
altrove, musica classica e i guaiti di Cerbero in sottofondo.
Non basta il
cervello a farti felice.
Dietro le
palpebre, Ade le sfiora una guancia, sollevandole il viso per asciugare
le
lacrime.
Al diavolo
tutto. Io voglio un cuore, gli
direbbe se ce lo avesse davanti, perché il
cervello non basta a farti
felice, e la felicità è la cosa più
bella che esista al mondo.