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Autore: Edgewig    28/05/2016    2 recensioni
PRESENTE: Samir è muto, un'ombra che appare solo quando necessario e che caccia tutti coloro che secondo lui hanno perso il diritto di essere trattati da uomini. Estremamente abile, non riesce a provare pietà, spinto dall'insaziabile e distorto desiderio di rettitudine che guida le sue mosse, lungo un cammino che lo porterà a indagare fino in fondo l'essere umano e le sue atrocità. PASSATO: Samir è un bambino di tredici anni, denutrito, ingenuo, sottomesso ai colpi di una giovane orfana quando Adam Selvig e Lianor Sitwell, due rinomate cappe nere, vanno a prelevare entrambi nella casa famiglia di Riverdook. Ciò che attende il ragazzo è un percorso tortuoso, fitto di disciplina, rigidità, una filosofia di vita che gli entrerà fin nelle ossa e lo porterà a mutare radicalmente le sue idee e capacità. Divenendo una delle più temute cappe nere in circolazione.
Genere: Azione, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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CAPITOLO 14 – REMINISCENZE
 
Presente
«Hai fatto un pasticcio infernale.» sussurrò l’uomo chino sul fianco destro di Samir, steso su un divanetto scuro e piuttosto scomodo, illuminato dalla luce del sole mattutino che traspariva dalla finestrella della stanza. Quest’ultima sembrava quasi lo studio di un filosofo: vi era una libreria lungo ogni parete, una scrivania colma di scartoffie al centro, un banchetto con degli attrezzi da lavoro, quali pinze, aghi, fili di lino, bende. «E’ una tovaglia da pranzo?» domandò quasi sbigottito l’uomo, dai folti capelli canuti, l’aria un po’ stanca, occhi piccoli, attenti ma sin da subito accondiscendenti nei riguardi della cappa nera. Questa se ne stava a pancia all’aria, a petto nudo, con lo sguardo perso nel soffitto, impassibile, mentre le sue vesti un po’ logore e sgualcite erano state riposte su una sedia lì accanto. Gli unici indumenti che al contrario erano stati piegati ordinatamente e deposti l’uno sull’altro erano le due cappe nere: identiche in tutto e per tutto se una non avesse riportato evidenti segni di bruciatura lungo i bordi. «Vediamo l’entità del danno. Ci occupiamo prima del fianco. Poi vediamo…» Il medico storse le labbra e si passò una mano tra i capelli, sollevando lo sguardo e adocchiando il braccio sinistro di Samir. «di dare un occhio a quell’altra ferita.» Sollevò le sopracciglia, visto il silenzio del paziente, e prendendo questo per un muto assenso avvicinò a sé una benda precedentemente inumidita, passandola con delicatezza intorno alla ferita più profonda del giovane. Il taglio era lungo dodici centimetri, e l’infuriare del combattimento consumatosi la notte prima aveva esteso la larghezza tra i due bordi. «Potrebbe bruciare. Non agitarti.» sussurrò l’uomo, come se lo dicesse più per abitudine che per altro, mentre avvicinava con una pinza un’altra benda, umida di un unguento rossastro. Andò a porla con cura sulla ferita, spandendo quel liquido oleoso lungo tutta l’estensione del taglio e insozzandolo come se volesse soffocarlo. Un fremito scosse appena il fianco di Samir, ma quando il medico adocchiò il viso di questi non notò altro se non freddezza e insensibilità. «Guarda che puoi anche ringhiare, non lo dirò in giro.» sorrise appena l’uomo. «Molti lo trovano utile.» aggiunse, affievolendo sempre più il tono della sua voce e mettendo via benda e pinza, in favore di ago e filo. «Non parli eh?» Continuò il medico, cominciando a far penetrare l’ago nella carne del paziente e sentendo questi respirare più profondamente. Samir aveva chiuso gli occhi, non gesticolava da quando era entrato nella casa del dottore e sembrava come avvolto da una cappa di pensieri che vorticavano minacciosi intorno a lui. «Però ti ricordi di me, è ovvio. Non saresti qui altrimenti.» continuò il dottore, sorridendo appena e continuando a suturare con perizia la ferita.
Solo a quel punto Samir aprì gli occhi, accogliendo l’affermazione dell’anziano chirurgo come una verità sepolta non troppo a fondo nella sua memoria.
«Una volta eri più chiacchierone. Che è accaduto?» chiese incuriosito il dottore, serrando con più vigore un punto e facendo fremere un po’ la cappa nera. «Scusa. Capita.» si schermì lui, tornando al suo lavoro. «Sei venuto qui insieme a quell’uomo, Selvig. Me lo ricordo bene.» affermò con decisione. «Mi ricordo i nomi di tutti quelli con cui ho a che fare e se è per questo anche il tuo. Sam…» aggrottò le sopracciglia. «Samir. Lui ti chiamava sempre con appellativi un po’ più rudi ma è questo il tuo nome, l’ho sentito.» Il vecchio proseguiva con l’operazione mentre il suo viso cominciava ad accendersi. Le rughe si distendevano appena, come se dei ricordi avessero risvegliato in lui piacevoli emozioni e come se, tra l’altro, l’aver ricordato il nome di quell’individuo lo facesse sentire bene, gratificato, in pace con sé stesso. «Non sono così vecchio come sembro, me lo ricordo.» ci tenne a sottolineare, arrivato a metà della cucitura e pronto a proseguire. «E tu te lo ricordi?» domandò più secco, interrompendo un attimo il lavoro e guardando le palpebre di Samir calare lentamente, forse in cenno di assenso. «Sai, dicono spesso che rivangare il passato, specie i brutti ricordi, faccia male alle persone ma sono totalmente contrario a ciò. Sono dell’idea che faccia bene, invece, perché guardare alla bruttezza del proprio passato può ricordarti la tranquillità del tuo presente. E la tranquillità è un privilegio, da qualche anno.» A quel punto Samir sollevò appena il capo, spiegò gli occhi e mirò un ritratto appeso al muro, accanto a una libreria. Raffigurava una giovane donna, seduta su una sedia a dondolo, che stringeva tra le braccia un neonato in fasce. «Oh, Isabel.» annuì il dottore. «Certo, non puoi esserti scordato di lei.» sorrise bonario, continuando a cucire quella ferita. «Puoi stare tranquillo, sta benissimo. E ha anche avuto un bel maschio, il mio nipotino. Lui si chiama Jorge, è molto sveglio e forte come il suo papà. Perché sai, mia figlia si è sposata poco tempo dopo quella storia…» non proseguì, agitando la mano libera per aria, come a sottolineare Samir conoscesse il seguito. «E’ una domanda che non ti avrei fatto quand’eri quel piccoletto di cui mi ricordo ma…» Il dottore chiuse la mano a pugno e stirò fuori l’indice. «mi domando cosa si prova a fare quel che fai.» una breve pausa. «o facevi, visto che…» agitò nuovamente la mano, nel medesimo modo di prima. «Per carità, non farei mai qualcosa del genere, non ce l’ho davvero nel sangue. Anzi, l’opposto come avrai notato. Ma è in ogni caso una domanda che penso sia lecito porsi.» scosse il capo, innalzando le spalle quasi sopra la linea del collo. «Salvare una vita ti fa sentire speciale, gratificato nella maggior parte dei casi. Ti riempie il cuore. Ma toglierla?» domandò, non ricevendo altro che silenzio. «In molti uomini si saranno inginocchiati a te chiedendo pietà, immagino. Tu ne hai provata?» chiese, adocchiando Samir e notando le sue labbra totalmente immote non emettere il minimo suono. «No eh?» affermò il medico, schioccando la lingua tra le labbra. «Ti dico come la penso io. Così, tanto per chiacchierare, sai. Ne ho bisogno, di tanto in tanto.» disse lui, agitando un altro po’ la mano, come il suo fosse un tic, uno sfogo. «Conosco un uomo, dopo il nostro ultimo incontro. Si chiama Donald Beckett, è una brava persona, fa l’avvocato e si impegna costantemente per tutelare i diritti dei suoi clienti. Non un omuncolo da strapazzo che difende maniaci e assassini, sia ben chiaro, ma un uomo giusto che si schiera solo in difesa di chi crede realmente innocente. Ora capita questo: gli affidano un caso. Una prostituta viene uccisa in un bordello, un uomo viene trovato steso nel suo letto, accanto a lei, con l’arma del delitto in mano e una sbronza monumentale. Sembra qualcosa di fin troppo semplice, è una scena vista molte volte e Beckett ne sente parlare nel quartiere. Vuol vedere l’uomo, e caso è che quel giorno sono presente anch’io, in tribunale. Noto che le dita del presunto colpevole sono scosse da tremiti e che la sua pelle è pallida come il latte. Può essere dovuto ai tre giorni passati in una cella, è certo, ma qualcosa mi convince che la storia non quadra, e ho ragione. Spasmi, pallore, a volte secchezza delle labbra, occhi rossi, sono dei chiari sintomi di un veleno dei tempi: la cadularia. E’ molto usata e le sue proprietà soporifere sono un’opera d’arte naturale ancora oggi.» Si grattò la fronte, dando un’occhiata allo sguardo di Samir, di nuovo perso verso l’alto, proseguendo poi spedito come al suo solito, talvolta accavallando fonemi senza far caso a scandirli perbene. «Per me il tipo è stato drogato e usato come capro espiatorio e non ho troppe remore a condividere le mie opinioni con Donald. E’ un amico, dopotutto. Non l’avessi mai fatto!» Il suo tono di voce si incupì, arrivato all’ultimo punto di sutura. Allontanò ago e filo dal corpo del giovane e si sollevò in piedi, avvicinandosi al banchetto coi suoi attrezzi. «Ai tempi… non poteva indagare da solo, non aveva i mezzi di cui c’era bisogno ma una solida volontà, quella si. Gli consigliai io di farsi aiutare e di raggiungere Erinhal per reclutare uno di voi. Una cappa nera.» sottolineò, sorridendo divertito. «Dai un compito a una cappa nera e quella lo porterà a termine. E’ la verità.» affermò convinto, annuendo alla sua stessa affermazione e mordendosi un po’ il labbro, riflettendo tra sé e sé. «Reclutò uno di voi, si. Il suo nome era Digget. Un brav’uomo, capace, sapeva fare il suo lavoro, è fuor di dubbio. Lui indagò nel bordello, poi per strada, seguendo una traccia dopo l’altra, tenendo aggiornato Donald, e alla fine ecco la verità.» Samir spostò lo sguardo e lo posò sul vecchio, in attesa della conclusione di quella storia. «Era là fuori. Doveva solo essere cercata. La prostituta era stata uccisa per conto di qualcuno, un altro uomo, un bastardello che di regola bazzicava nei paraggi ma che non era stato visto la sera dell’omicidio. Aveva assunto un manigoldo per entrare di nascosto nella camera della donna, drogare il cliente dopo che aveva finito con lei e poi concludere il lavoro. Chiunque avrebbe pensato fosse stato quel povero disgraziato a compiere il delitto.» sbuffò. «E invece no. Il cliente di Donald fu rilasciato, il bastardello e il suo sicario vennero invece portati in cella la sera stessa. Lieto fine no?» chiese retoricamente il vecchio, allargando le braccia  e voltandosi verso Samir. «Ovvio che no.» aggiunse, stendendo nuovamente l’indice di una mano verso l’alto e ruotando sul posto per cominciare ad armeggiare con gli attrezzi sul banchetto. «No, dal momento che due mesi dopo, sottolineo due mesi e ripeto… due mesi.» rimarcò con un filo di nervosismo il medico, tornando tranquillo l’istante successivo, come stesse raccontando una favoletta. «i due bricconcelli vennero liberati. Alchè ti chiederai, o forse no viste le tue mansioni, come mai codesti gentiluomini vennero liberati tanto presto. Beh Donald mi fece un elenco, la sua parlantina da avvocato mi risuona ancora in testa la notte ma puoi immaginare. Erano incensurati, quindi pena ridotta. Il giudice venne lautamente pagato per chiudere gli occhi davanti a determinate prove quindi pena ridotta. Non dimentichiamoci la buona condotta, quindi pena ridotta. E una serie di altre cose legali che danno solo l’idea che questo sia un paese civilizzato, quando invece è solo un vortice di grottesche menzogne e fesserie. Pronto per quel braccio?» Cambiò discorso repentinamente, voltandosi con benda e unguento rossastro. Samir lo guardò per un istante. Poi alzò il busto e si mise seduto sul divano distendendo un po’ l’arto sinistro, su cui si vedeva chiaramente il secondo taglio riportato quella notte. Era solo uno dei molti dettagli che potevano collegare il ragazzo a una rissa furibonda. «Disinfetto quel taglio.» lo informò l’uomo, sbuffando e sistemandosi alla sinistra del paziente, cominciando a passare dolcemente la benda sulla pelle squarciata. «Ferite, lividi dappertutto, escoriazioni, e hai anche una palpebra un po’ gonfia. Ci vedi bene?» domandò con un filo di serietà l’uomo. La cappa nera si limitò a guardarlo, in tutta risposta, e il medico capì. «Se lo dici tu.» rispose lui, finendo di disinfettare il taglio e iniziando a fare va e vieni da lì al banchetto, per posare le bende, l’unguento e recuperare ago e filo. Sembrava stanco, spiegava spesso gli occhi, massaggiandosi successivamente le spesse e grigie sopracciglia. «Come stavo dicendo, comunque.» riprese, mentre Samir sentiva distintamente l’ago penetrargli nella carne. «Questi balordi, come quasi tutti quelli della loro risma che venivano sbattuti in cella, erano a piede libero in breve. Riesci a immaginare cosa potevo pensare nel momento in cui vidi il mio amico Donald sul mio tavolo? Esanime?» Disse con un fil di voce, come se quella parola non avesse voluto abbandonare del tutto la sua gola. Il solo pronunciarla, il solo riportare alla mente quel ricordo gli dava l’impressione di non avere più aria nei polmoni. «Non ricordo neanch’io cos’ho pensato in quel momento. Ho alzato il lenzuolo e sotto c’era lui. Non nego di aver visto qualcosa del genere in cinquant’anni di lavoro ma quando vedi certe cose sul corpo di un tuo amico, qualcuno che fino alla sera prima era vivo e vegeto, rideva e scherzava in casa tua… qualcosa si rompe. Dentro di te.» Ammise, massaggiandosi un po’ il petto. «Gli avevano mozzato le orecchie. La bocca era cucita. Gli occhi…» strinse le labbra e sospirò. Il suo volto era più cupo di prima e lo sguardo di Samir perso nel pavimento. Il medico lasciava scorrere i suoi occhi azzurri tra la ferita su cui stava lavorando e il viso del ragazzo, e nonostante quest’ultimo sembrava poter mostrare disinteresse l’anziano lo guardava con la pena negli occhi. «Aveva sentito, parlato e visto troppo, il mio amico. E ho passato giorni, settimane, mesi e si, forse anche anni, seduto su questo divano a guardare il vuoto come fai tu adesso. Si, nello stesso modo.» A questo punto gli occhi di Samir si scossero appena, ma si limitarono a guardare un altro punto del pavimento, un po’ più vicino alle gambe del medico. Come in qualche modo volesse sottintendere stava ascoltando quanto diceva e che quella sua ultima affermazione aveva un fondamento di verità. «Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se non avessi detto a Donald che il suo cliente poteva essere stato drogato. A quest’ora lui sarebbe vivo, io mi sarei risparmiato anni di tormenti e il suo disgraziato cliente sarebbe tornato a piede libero in qualche mese. Qualunque cosa avesse o non avesse fatto. E’ così che funziona qui.» sollevò le spalle, rendendosi conto che sarebbe stato tutto più semplice se le cose fossero andate in modo diverso. «E’ questo il messaggio che la legge vuole mandarci.» assunse, immobilizzando l’ago a un pelo dalla ferita di Samir e guardando per un attimo il soffitto. «”Disonesti bastardi. Uccidete, violentate, rubate, andate in cella e tornate in strada dopo qualche mese con la coscienza pulita e il cuore colmo d’amore e prospettive. Quanto agli onesti cittadini, muti e sordi o ce n’è anche per voi.”» concluse, assumendo il tono tipico dei banditori ambulanti che si trovavano a ogni angolo di Norn. «E’ questo il messaggio, e non c’è che rassegnarsi. Questo vale per la gente comune ovviamente.» sottolineò, tornando a cucire la ferita. «Voi cappe nere limitavate i danni, ecco. La vostra inflessibilità, sia che lo facevate per un compenso o perché lo ritenevate semplicemente giusto, aiutava a scoraggiare molti delinquenti. Ci mancava poco e venivate citati nelle storie dell’orrore. Qualcosa del tipo “Se non fai il bravo bambino la cappa viene e ti porta via”.» Sorrise il vecchio. «Adesso le cose sono un po’ cambiate. Tu probabilmente sai più cose di me a riguardo. Fino a stamattina non sapevo neanche che ci fossero cappe in circolazione. Davo per morto te, Selvig e chiunque altro.» disse, tagliando il filo di sutura e scostandosi un po’ da Samir, osservando il suo lavoro. «Bene. Non c’è bisogno delle solite raccomandazioni, suppongo.» affermò tranquillo, inarcando il sopracciglio e chiedendo implicitamente conferma. Samir annuì appena, provando a ruotare il busto e sentendo i punti del fianco tirare un po’. «Senti. Quella lì?» Il vecchio si fece un po’ più discreto nei toni, indicando con la mano la lunga fasciatura nera che copriva per intero il braccio del paziente. Dalla mano alla spalla. «E’ molto consunta, sporca, lacera. Se ti ferissi potresti infettarti rapidamente.» lo informò, raggiungendo lesto, anche se un po’ goffamente vista la stazza corpulenta, un mobiletto all’altro capo della stanza, mentre Samir osservava incupito il braccio destro, a labbra serrate, come stesse riflettendoci su. «Posso rifarti la fasciatura. Salda, pulita, ci metterò un attimo.» riprese il medico, dopo essere tornato nei pressi del divano con una fascia arrotolata. A un cenno del ragazzo il medico colse il suo assenso e una volta avvicinatosi poggiò le mani sulla spalla destra del paziente. Fu complicato srotolare quella fascia nera, sulle prime, essendo lì da così tanto tempo che quasi si sarebbe detto fosse parte integrante dell’arto. «Uh…» il dottore aveva srotolato la benda solo all’altezza della spalla quando si interruppe, allontanando un po’ il capo e guardando Samir continuare a fissare il pavimento. «Accidenti.» sussurrò l’uomo, mentre altre parole gli morivano in gola e altresì mentre le sue mani continuavano a srotolare quella fasciatura nera. Gradualmente la spalla, il bicipite, il gomito, l’avambraccio vennero dati alla luce, e dopo aver rimosso il guanto dalle nocche d’oro anche le dita vennero lasciate respirare. «Ha ripreso del tutto la sua mobilità, dopo che è successo?» domandò il dottore, guardando prima il braccio e poi Samir. Questi sollevò il capo, guardò il medico ma non il suo arto, evitandone spudoratamente la visione. Si limitò ad annuire, rassicurando il vecchio e sollevando un po’ la spalla destra per incitarlo a coprire quell’orrenda parte del suo corpo. Dalla punta delle dita fino all’attaccatura della spalla il braccio riportava evidenti segni di gravi ustioni. La pelle era pallida, lucida, sembrava quasi gomma, come si fosse sciolta e poi consolidata. «Mi rammarico dei tuoi guai, ragazzo.» sussurrò il medico, cominciando a sciogliere la nuova benda e ad applicarla, giro dopo giro, lungo tutto il braccio dell’altro. «Nera non l’avevo.» cercò di sdrammatizzare.
Quando ebbe terminato serrò la fascia con dei fermagli di ferro, e successivamente si allontanò di due passi da Samir, per vedere completato il suo lavoro. «Ho finito.» sentenziò, sbuffando rumorosamente. «Adesso…» gesticolò con la man destra, chiedendosi tra sé e sé cosa sarebbe accaduto e vedendo subito Samir sollevarsi dal divano. «Te ne vai? Immaginavo.» Aggiunse, ondeggiando il capo a destra e a sinistra, osservando il ragazzo infilarsi il guanto destro, come prima cosa. «Ti aiuto, aspetta.» lo rassicurò il medico, vedendolo afferrare una canotta nera, smanicata, dalla sedia ove erano stati riposti i suoi vestiti. Samir sollevò d’impulso il palmo d’una mano, allontanando senza cattiveria o ingratitudine il dottore, che lo lasciò fare. Egli osservò Samir stringere un po’ i denti, più d’una volta, ma a canotta infilata ecco che si mise addosso un gilet bianco, in apparenza poco usato: indumenti che evidentemente pensò non sarebbero più tornati utili in casa di Lianor. Fu il turno delle cappe. Presa la prima la sciolse e tramite appositi lacci di cuoio che passò intorno al collo del gilet la sistemò in modo tale discendesse, come al solito, lungo il suo braccio sinistro, occultandone una buona parte. Fece la medesima cosa con la seconda cappa, quella bruciata ai bordi, che specularmente andò a coprire per intero il braccio destro, completamente fasciato dal bianco pallore della benda applicata dal dottore. «Beh, posso fare qualcosa per te?» Domandò il medico per ricordare di essere ancora nella stanza. Samir lo guardò, gli fece cenno di avvicinarsi e i due si accostarono alla scrivania al centro della stanza, su cui il giovane poggiò il suo piccolo diario, colmo di scritte che il medico vide molto di sfuggita. La cappa pose il dito solo su una di esse, presente sull’ultima pagina in cui aveva appuntato qualcosa. «Harlam & Donald? La camiceria?» si stranì il medico, avvicinando un po’ il capo, come se pensasse di aver letto male. Samir puntò il dito più volte su quella scritta, sottolineando fosse segnato tutto correttamente. «Vuoi sapere dove trovarla. Non è poi così lontana.» lo rassicurò. «Uscito di qui percorri la via principale, seguendo il sole. Arriverai in una piazza, vedrai una fontana. Da lì svolta a sinistra, entra nelle via commerciale e vedrai molte botteghe aprirsi a te. Tra queste c’è la Harlam.» spiegò l’uomo.
Il diario venne richiuso in un lampo, prima che gli occhi attenti e anche un po’ curiosi del padrone di casa riuscissero a scorgere per intero tutte le scritte che erano sparpagliate disordinatamente lungo le due pagine date alla luce da Samir. La sua scrittura era piuttosto piccola,  ogni riga era poco distanziata da quella sotto e quella sopra, ogni lettera era delineata con velocità. Ciò dava l’idea di una vibrazione continua, spasmodica, per certi versi anche aggressiva, che tuttavia non inficiava eccessivamente sulla leggibilità dello scritto. Molti tratti erano decisamente spigolosi, sembravano quasi lame poste sul bianco del foglio con l’unico intento di ferirlo, mentre altri, anche se in numero ridotto, erano molto più sinuosi e tondeggianti. Quando il proprietario del diario ripose al sicuro quest’ultimo e cominciò a muoversi lentamente verso una libreria accanto la porta d’uscita il medico si mise a osservarlo e cercò con fatica di immaginare qualcosa. Qualcosa che non sapeva bene come immaginare e che si trovò costretto a chiedere al diretto interessato.
«Sai quante volte ho immaginato di uccidere qualcuno?» si dichiarò l’uomo, grattandosi le sopracciglia e notando qualche frammento di quella che forse era forfora o pelle secca ricadere ai suoi piedi. Sorrise amaramente, pentito anche solo di averlo pensato. Poi distanziò una sedia dalla scrivania e si sedette con estrema pesantezza, guardando il pavimento. «E’ una cosa normale, è così che ragiona la maggior parte della gente.» continuò a parlare, accogliendo senza fastidio il silenzio di Samir. Il vecchio sembrava solito farsi molte domande in solitudine, interrogarsi su quanto accadeva giorno per giorno intorno a lui, e avere indi una compagnia cui poter essere completamente sincero su dati argomenti pareva spronarlo ulteriormente ad aprir anima e bocca. «Noi, e con “noi” alludo a noi esseri umani, siamo fatti così. Siamo spinti dal desiderio di fare del bene, vogliamo vedere i risultati del nostro lavoro, ci gratifica il benessere altrui e siamo disposti al sacrificio pur di vedere tale desiderio esaudito. Pensare a cose come omicidio, tortura, ci fa tremare, ci disgusta, perché non fa parte di noi. E difatti è indubbio che a molte persone tu, come qualunque altra cappa nera, non piaccia. Anzi. Molti potrebbero definirti repellente, nonostante tu sia diverso da quelli che uccidi.» Samir rimase immobile, i suoi occhi dedicati ai tomi disposti con ordine maniacale sulle scaffe, le sue orecchie completamente votate all’ascolto dell’uomo lì vicino. «Chiedo venia.» si scusò l’altro alzando una mano, forse credendo di aver offeso la cappa. «Però sai. Siamo tutti buoni a dire “non è giusto questo, non è giusto quello.” O “Questo va contro la dignità umana”, “Questo non è umano” quando le cose vanno bene. Non credo sia ipocrisia, ma… semplice ignoranza. Bisogna provare obbligatoriamente certe cose, in prima persona, per poter esprimere un’opinione in modo completo. Che sia giusto o sbagliato ciò che pensi, il risultato di quell’esperienza, sarebbe egoista e presuntuoso stabilirlo da soli.» deglutì, digrignando poi i denti e intrecciando le dita al di sopra della pancia. «Forse sono presuntuoso, o troppo buono con me stesso, ma mi ritengo una brava persona. Io aiuto chi posso, sono contento quando gli altri stanno bene, non invidio nessuno, non desidero nulla più di quanto già ho. E mi vergogno un po’ quando, col senno di poi, mi rendo conto di aver pensato “Quell’uomo dovrebbe morire”, in certe occasioni. Ma è qui che mi pongo la domanda.» disse, alzando in modo lieve la voce e guardando la cappa nera lì vicina. «E’ giusto restare a guardare, tenersi la coscienza sporca e limitarsi a sperare che certe cose non capitino anche a te? Perché è questo che accade, a chiunque: condanniamo i misfatti, ce ne teniamo fuori predicando ciò che è più umano fare ma in cuor nostro sappiamo cambieremmo idea se certe cose accadessero a noi. Pensa a Donald.» Il dottore chinò il capo, gli occhi si chiusero. «Non riesco a immaginare un uomo che perdoni lo stupratore della propria figlia o l’assassino della propria moglie, di un proprio amico. Ma posso immaginare cosa possa pensare, perché lo pensiamo tutti, scossi dagli eventi che ci vedono semplicemente… inermi. Noi persone comuni tiriamo a campare nel miglior modo possibile, giorno dopo giorno, ma è inutile nascondere che siamo letteralmente in balia di qualunque pazzo decida di ammazzarci, rapirci, violentarci, torturarci,  eccetera. La cosa migliore che possiamo sperare è che non accada oggi, domani, e così via discorrendo, ma è atroce pensare che un solo, singolo, uomo possa sconvolgere la tua vita in un attimo. Gli basta quella vocina nella testa che gli dice di fare certe cose. Se la legge ci tutelasse davvero e tenesse le strade pulite forse è vero, avrei un’altra opinione di te. Ma la legge non aiuta me, non aiuta la signora della casa accanto, e se noti non c’è una guardia, a Norn, che faccia bene il suo lavoro. A parte un giovane capitano che conosco, già, ma quello è uomo raro.» aggiunse, indicando la porta col mento e invitando implicitamente il muto a dare un’occhiata di fuori. «Non so se lo fai per giustizia, denaro, o per qualche altro motivo, ma sta di fatto che l’unica cosa che aiuta, e il cielo mi perdoni se lo dico, è quello che fai tu, e tutti gli altri come te. L’ho detto.» disse, alzando le mani, come chiedendo nuovamente venia. «A tutti quelli che ti guardano con odio o si infervorano davanti alla violenza, all’omicidio da te perpetrato, sono tentato di dire “Immagina quel cadavere come l’assassino di un tuo caro”. E guarda come cambieranno subito idea.» sorrise. Anche se non c’era divertimento in quel sorriso, ma una verità estremamente aspra. «Che razza di schifo che siamo diventati.» scosse il capo, sottolineando a cosa si debba arrivare pur di dormire più tranquilli la notte. «E’ deplorevole approvare ciò che fai ma… quando la casa è infestata dai ratti il primo che chiami è l’acchiappatopi. E io lo chiamerei eccome, avessi ratti in casa. Magari così capiscono che rodere le mie lenzuola non gli porterà che morte. Un topo lo capirebbe, spero lo capiscano anche quelli con cui hai a che fare, anche se so già che se desiderassi ciò davanti una stella cadente avrei solo sprecato un’occasione.» Concluso il monologo sospirò, e come avesse aspettato questo momento per voltarsi Samir abbandonò la perlustrazione della libreria, portando lo sguardo sul medico. «Si. Sono questi i pensieri di un vecchio uomo che ha visto più cadaveri di quanti avrebbe voluto. E fidati, solo una bassa percentuale era morte naturale. Sono combattuto, come ogni essere umano, ma dalla mia ho… solo pensieri, un po’ di volontà e nulla più. Non faccio mica la differenza. Quel giorno io e Donald abbiamo fatto la cosa giusta, e per questo mi vergogno di rivelarti che sarei rimasto in silenzio… se avessi saputo.» Era un po’ contrito, si evinceva dai suoi piccoli occhi infossati nelle rughe: erano un po’ spenti, covavano sentimenti repressi che solo in parte l’uomo sfogò quella mattina. Per qualche secondo fu silenzio. Poi parole. «Ma si, ti ho fiaccato abbastanza. Ti chiedo di perdonarmi!» annuì alla volta di Samir, che in qualche modo sembrava voler evitare sguardi compassionevoli, amichevoli o simili alla volta del dottore, mantenendo il più possibile le distanze e isolandosi in sé stesso nonostante in compagnia. Lo sguardo andò lentamente a posarsi sulla porta e ciò valeva più di qualsiasi parola. Era tempo di andare, ciò che la voce del medico aveva da dire era stata detta e ciò che Samir aveva forse bisogno di ascoltare era stato ascoltato.
Il silenzio raggelò il cuore dell'uomo, che socchiuse un po’ gli occhi e non seppe più cosa dire. Biascicò solo qualche parola. «Buona fortuna.» gli augurò, guardandolo più intensamente, rimanendo seduto, come non avesse forze. «Fa ciò che devi Samir.» lo incitò, nonostante appariva spontanea sul viso dell’anziano un’espressione che sembrava pregarlo di non dispensare più rigidità del necessario.
La cappa nera  annuì impercettibilmente, senza guardarlo. Il vecchio lo vide andar via, volle giustificare i suoi modi, pur non conoscendolo un granchè, e solo il pomeriggio notò nella camera adiacente quattro monete d’argento, evidentemente lasciate da un uomo che dal denaro, dopotutto, non aveva mai ricevuto sussurri ammalianti o promesse convincenti. Il medico non ebbe difficoltà a percepire il desiderio di fare quanto giusto nei suoi confronti, da parte di Samir, oltre al fatto questi non volesse lasciarsi coinvolgere troppo da lui, né probabilmente dare motivo di affezionarsi o provare pena per il suo futuro. Era come un’ombra in una giornata calda: arrivava quando era necessario, dava in qualche modo sollievo, era intangibile, non emetteva alcun rumore. E come giungeva, svaniva.
   
 
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