1. Itaewon blues
Girare
con Yoongi per le strette vie di Itaewon, senza una
precisa meta, era diventata la mia principale attività dei
sabati sera. Camminavo sempre qualche metro a distanza e lo
distinguevo tra la folla solo grazie a quel colore quasi trasparente
dei suoi capelli. Le luci fosforescenti dei bar risplendevano
illuminando la strada ed il loro colore si schiantava sul suo capo
cambiandone la tonalità; ora rosa, ora blu, ora verde.
Il
suo passo era sempre sostenuto, sembrava quasi stesse fuggendo da
qualcosa, forse fuggiva da me, chi lo sa. “Yoongi-ssi”
chiamavo il suo nome, ma le voci della gente attorno a noi fungevano
quasi da muro “Yoongi-ssi!” alzavo la mia voce
fino a quando non si fermava e si girava.
Il suo sguardo vuoto
incontrava il mio, e quelli erano i momenti più fugaci e
intensi che i nostri sabati sera incontravano.
“Cosa
farai questo sabato?” Namjoon si aggirava per la
cucina, era un venerdì freddo, fuori diluviava e la luce che
filtrava dalle grande finestre dell'appartamento rendevano tutto
piatto, senza ombre. “Lo sai già” Presi un
sorso di caffè dalla mia tazza e la poggiai sul freddo tavolo
di metallo “quello che farò” conclusi
mentre mi sedevo. Namjoon se ne stava ricurvo, qualche passo più
in là, a guardare la magia della macchina di caffè. Era
intensamente concentrato, osservava le gocce cadere sulla caraffa di
vetro e con le labbra semi aperte ogni tanto esalava un sospiro.
“Non ti stanchi di seguire qualcuno che a malapena
conosci” un altra goccia
cadette si aggiunse al composto liquido “per tutta la
sera?”. L'odore del caffè appena fatto si diffuse
nell'aria mentre lo serviva in una alta tazza bianca. Si avvicinò
al tavolo, prese una sedia e si sedette davanti a me, sguardo fisso
al di fuori delle finestre. Non penso che in realtà volesse
una risposta, quasi tutti i venerdì mattina si presentava con
quella domanda e anche se la risposta non arrivava, lui non obiettava
e non insisteva.
“Vai
a lavoro?” gli chiesi mentre uscivo dal bagno e lo guardavo
vestirsi in camera. “Sì, ma forse ritorno presto”
stava infilando il suo montgomery preferito, color caffè. Una
volta caricatosi la macchina fotografica e preso dei documenti, si
avvicinò alla porta del bagno e mi disse “forse
dovresti andarci anche tu” smisi di sfregarmi i capelli
bagnati e non risposi “al lavoro” aggiunse con
tono flebile e quasi deluso. “Forse” gli risposi.
La pioggia continuava a scendere incessantemente ed il tempo
passava senza che me ne rendessi conto. Il mio corpo giaceva sul
divano ma la mia mente passeggiava sulle strade di Itaewon,
inseguiva quel capo bianco ed aspettava il momento nel quale i nostri
occhi si sarebbero incontrati. Nell'ultimo periodo, niente riusciva a
darmi vita come quegli attimi.
Il mio cellulare squillò
per l'ennesima volta in quella grigia mattina. Raccolsi le poche
forze che avevo in corpo mi alzai dal divano per cercarlo. Era in un
angolo della cucina, coperto da uno straccio sporco di marmellata. 1
nuovo messaggio da: ufficio “Jongkook-ah, dov...”.
Nella
lunga lista di messaggi che si erano accodati sulla mia schermata, il
mittente era quasi sempre lo stesso: il mondo che esigeva una mia
reazione. Se scorrevo la lista di e mail non trovavo altro che
sollecitazioni ed informazioni per attività alle quali non
avrei partecipato e tra le chiamate perse, le uniche alle quali avevo
risposto erano segnate sotto “Namjoon”.
Sul
mio schermo, la foto di un paesaggio notturno scattata con il flash e
la forma sfocata di Yoongi che camminava, come sempre, di spalle e
qualche metro più in là.
“Non hai
ancora mangiato niente?” Namjoon appoggiò le chiavi
di casa sul tavolo e si spogliò dai vestiti fradici. “No”
ero ancora sul divano che guardavo i vetri sporcarsi di gocce che si
schiantavano violentemente sulla superficie e per contrasto,
scivolavano dolcemente verso terra. “Che ore sono?”
gli chiesi, “Sono le sette di sera”. Le nuvole che
coprivano il cielo si erano colorate di un leggero tono di rosa “Vuoi
venire a fare un bagno caldo con me?” mi chiese mentre
beveva dell'acqua. “Sì”.
Il vapore
che si alzava dalla vasca appannava vetri e piastrelle, una dolce
essenza si diffondeva nell'aria insieme a della musica che non
riuscivo a distinguere a pieno.
Fui il primo ad entrare nella
vasca; il contatto della mia pelle con il tepore dell'acqua mi fece
rabbrividire ed approfittando della momentanea solitudine, mi immersi
per completo.
I rumori che faceva Namjoon alla ricerca di chissà
quale cosa, penetravano attraverso il liquido ma sembravano molto
distanti, quasi appartenessero ad un altro mondo. Quando riemersi, la
sua figura si presentò nella stretta stanza, aveva due
paperelle gialle di gomma tra le mani.
Lo guardai spogliarsi,
disfarsi della larga maglietta bianca che indossava e dei boxer blu
di cotone. Si specchiò ed aggrottò la fronte alla
presenza di qualche piccolo foruncolo, aggiunse qualche lamentela e
con calma si avvicinò alla vasca, “fammi spazio”
mi sussurrò poggiando con dolcezza i due animali di
plastica.
“Girati, ti lavo la schiena” gli
dissi mentre allontanavo il mio corpo dal suo creando un solco tra la
bianca schiuma che ci circondava. L'abitudine di rimanere abbracciati
nel tepore di quella stanza, all'interno della vasca dove non c'erano
barriere tra di noi, era l'unica a non essere cambiata nel tempo, ad
essersi preservata nonostante tutto.
“Andrai davvero
questo fine settimana?” La vasca era stretta, le sue
ginocchia spuntavano fuori dall'acqua. “Sì, andrò”,
lasciai cadere la spugna che avevo in mano e lo strinsi appoggiando
la mia fronte sulla sua schiena, sapevo di fargli del
male.
“Yoongi-ssi!” L'insegna della
metropolitana si rifletteva sulla sua pallida pelle, i suoi piccoli
occhi scuri erano persi nel nulla, come sempre. “Yoongi-ssi”
mi avvicinai lentamente, le mani in tasca ed un vago sorriso dipinto
sulle labbra. Potevo sentire la mia pelle tirarsi in una smorfia,
come non lo faceva dallo scorso sabato o forse da ancora di più.
I
piccoli stagni di acqua che si erano formati dall'incessante pioggia
dei giorni precedenti, ricoprivano buona parte delle strade ed i
passi della gente risuonavano al loro interno. L'aria umida di quella
notte era fredda, appesantiva i tessuti e tutte le fibre del mio
corpo.
I miei piedi raggiunsero i suoi e si rifletterono su uno
di quei tanti piccoli specchi d'acqua. Mi diede la schiena e cominciò
a camminare.
Il ritmo di quella sera sembrava stranamente lento
e potevo seguirlo da più vicino. Osservavo le sue spalle
strette, la sua statura contenuta ed il suo modo di camminare
affaticato. Ogni tanto le sue spalle si scontravano con quelle di
qualcun altro e solo allora potevo percepire il filo di voce che
usava per lamentarsi o per chiedere scusa “Ah, mi scusi”
la sua voce era profonda, un po' rocca.
“Yoongi-ssi”
mi avvicinai a passo svelto quando smise di camminare. Eravamo
davanti al Rabbit Hole. L'insegna isterica e rosa lampeggiava.
“Sono stanco, voglio andare a casa” disse.
“Vuoi
qualcosa da bere?” la mia giacca volò sul divano
mentre mi addentravo nel buio dell'appartamento. Le luci della strada
illuminavano leggermente l'ambiente riempendolo di ombre rigide e
spigolose. Yoongi se ne stava fermo sull'atrio, a testa bassa. “Forse
dovrei accendere le luci”. Ero abituato a tornare la notte
e non accendere le luci per non svegliare Namjoon, ma Yoongi non era
mai entrato in questo appartamento e non conosceva la sua struttura,
i suoi vicoli e scalini. Accesi la luce della cucina “adesso
dovrebbe andare meglio, scusami”. Yoongi alzò
lo sguardo e cominciò a spostarlo da una parte all'altra della
stanza, si fermò solo quando incontrò la sagoma del
divano. Si tolse le scarpe, la giacca ed il cardigan. Portava una
maglia grigia, dalle maniche lunghe, larga, che lo copriva fin quasi
alle ginocchia, i pantaloni neri con dei tagli sparsi qua e là
e dei calzini spaiati umidi.
“Puoi andare via quando
vuoi” parlavo a voce bassa mentre raccoglievo qualche
lattina di birra da terra. Non sono sicuro di quanto tempo avessimo
speso seduti per terra a bere in silenzio. La sola presenza del suo
corpo all'interno di quella vuota notte mi era stata sufficiente, non
sentivo bisogno di altro. Il mio corpo non aveva cercato il suo che
giaceva così vicino, i miei occhi guardavano il nulla e tutto
nella mia mente era sfuocato, colpa dell'alcol o colpa di quella
strana sensazione di essere in presenza di qualcosa di quasi
immacolato che al solo sguardo, al minimo tocco, si sarebbe potuto
sporcare, distruggere, scomparire.
I rumori che provenivano
da fuori le finestre si espandevano nell'aria e rimbalzavano sulle
alte pareti. Yoongi era ancora seduto dove lo avevo lasciato, testa
appoggiata al divano, gambe distese ed una strana espressione sul suo
viso. Non era tranquillità e nemmeno beatitudine, i suoi occhi
chiusi mantenevano un certo cruccio e le sue labbra erano arricciate
in una smorfia. Non ero sicuro se stesse dormendo o stesse solo
riposando ma a guardarlo non potevo lasciarlo nella posizione in cui
era. Mi avvicinai con una coperta leggera in mano e gli sfiorai
appena la spalla; le mie dita entrarono in contatto con la soffice
stoffa della sua maglia grigia e per un solo secondo potei sentire il
tepore del suo corpo. Min Yoongi era vivo. Per la prima volta
da quando lo avevo incontrato, pensai che lo fosse: non era una
presenza immacolata e non sarebbe sparito. Il suo aspetto parlava e
mi contraddiceva, ma avevo appena avuto la conferma che Min Yoongi
era vivo e cosa che mi scosse da capo a piedi: Min Yoongi era
reale.
“Dove vai?” dopo averlo
convinto a spostarsi sul divano, mi apprestavo in camera, volevo
cambiarmi. Le sue dita sottili si strinsero con inconsueta forza
attorno ad un lembo dei miei jeans e non lo lasciò andare. Mi
girai lentamente e per un momento esitai nel toccare le sue dita che
nel buio di quella stanza e alle luci neon della strada, sembravano
fatte di porcellana. Lo guardai, aveva un braccio sugli occhi, come
non volesse vedere ciò che stava facendo, quasi non volesse
essere partecipe a quello che il suo corpo decideva. “Voglio
cambiarmi” gli risposi “ho i vestiti ancora umidi”
la mia vaga spiegazione sembrò essere sufficiente. Yoongi non
faceva mai domande, l'unica cosa che faceva era camminare.
Andai
in bagno e mi tolsi i vestiti, li poggiai sul cesto dei panni sporchi
e sempre da là, presi alla cieca una maglietta ed un paio di
pantaloni che al tatto, sembrava fossero di felpa. Nonostante la
porta della camera di Namjoon fosse chiusa, non accesi nessuna luce e
quando uscì sul corridoio, mi trovai di fronte ad un Yoongi
traballante. Non disse nulla, ma fece un visibile sforzo e concentrò
il suo sguardo sui miei abiti appena cambiati “ne vuoi un
paio asciutti anche tu?”, il suo capo si chinò in
avanti e prima che riuscisse a risollevarlo, il suo esile corpo si
sbilanciò e quasi cadette rischiando di schiantare la schiena
contro il muro. Lo presi per il polso e lo tirai velocemente verso di
me, nel tentativo di evitare che cadesse ma soprattutto, nel fallito
tentativo di non fare rumore.
La figura di Namjoon era
immersa per metà nel buio, ma potevo distinguere i suoi occhi,
piazzati come due frecce su Yoongi che giaceva riverso a terra, metà
del corpo sul suolo, metà sui miei pantaloni. Non disse niente
ma si limitò a tirare su il peso morto di quel pallido e
fragile corpo per trascinarlo in salotto. Accese le luci, una ad una.
Il silenzio della notte si fece improvvisamente vivace: il
rumore inconfondibile della macchina del caffè riempiva ogni
spazio, interrotta solo ogni tanto da qualche lamento vago.
Ero
seduto sul divano, con le mie gambe facevo da cuscino alla pesante
testa di Yoongi. Tenevo gli occhi fissi sulla figura di Namjoon che
si spostava con andare vago da una parte all'altra della cucina, ora
spostando lattine di birra, ora controllando il caffè. Il
rumore dei suoi passi strisciati lasciava in me uno strano
sentimento, una pesantezza quasi insopportabile, uno strano senso di
colpa.
“Ho lasciato dei vestiti puliti in bagno, puoi
prenderli” Namjoon aveva lo sguardo perso, le occhiaie
marcate ed i capelli azzurri arruffati. Prese la sua bianca ed alta
tazza di caffè e si inoltrò nella camera da letto senza
aggiungere nient'altro. Il suo atteggiamento sembrava voler esprimere
una certa indifferenza all'accaduto, ma i suoi occhi riflettevano una
reale, immensa, tristezza.
Lo avevo fatto di nuovo, lo avevo fatto
soffrire.