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Autore: Impossible Prince    13/06/2016    1 recensioni
«Se dovessero mai scrivere una biografia su di me dovrebbero intitolarla "La Bibbia", o meglio, "La Bibbia del Potere". Perché nessuno meglio di me sa cosa sia il vero potere».
Giovanni Silviosi nasce nel 1955, a Smeraldopoli, in una Kanto povera, sconvolta dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle dure sanzioni che i Paesi Alleati le hanno imposto a seguito della sua capitolazione. La povertà dilaga, il disagio è una pentola a pressione pronta ad esplodere e il vuoto, lasciato dalla politica, è ricoperto da un’inquietante organizzazione che si fa chiamare Team Rocket.
Per alcuni un criminale la cui potenza va oltre le solite inchieste giornalistiche, per altri un imprenditore brillante. La Bibbia del Potere è la storia dell’uomo che è riuscito a piegare un’intera nazione al suo cospetto.
Storia INCOMPLETA
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giovanni, N, Nuovo personaggio, Team Rocket
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Nei precedenti capitoli de La Bibbia del Potere: Nonostante il successo dell’attacco al camion incaricato nel prelievo dei pokémon della Riforma Agraria, il Team Pewter, organizzazione criminale con sede a Plumbeopoli, scopre l’invasione di campo e decide di vendicarsi. La mattina del 6 maggio, James Foster e Giovanni vengono rapiti e portati a casa dei Peters, dove gli viene imposto le condizioni per evitare la guerra e l’annessa distruzione del Team Rocket. E’ proprio qui che Foster e il Campione vengono colti di sorpresa dalla notizia che il Team Saffron ha consigliato alla banda di Plumbeopoli di aumentare le proprie richieste. Dopo una riunione il Team Rocket decide all’unanimità di non sottostare alle condizioni e di iniziare una guerra, ma prima, James, dovrà recarsi a Zafferanopoli per un colloquio con Jimmy Flotelli, il capo del Team Saffron.

 
Numeri 2.6 – Larghe intese
«“Ti benedica il Popolo e ti elegga, faccia risplendere le croci sul simbolo elettorale e ti conceda il seggio. Rivolga il Presidente a te le sue attenzioni e ti dia il dicastero”.
E se le cose non vanno come desideravi, non rammaricarti: puoi sempre sperare nell’infarto del primo degli eletti».


 
Fare stime è sempre complesso. Per fare una stima, come per ogni ­operazione statistica, bisogna seguire delle procedure standardizzate rigide e precise che possono richiedere anche molto tempo per essere messe in pratica.
Per prima cosa, chi vuole fare un’indagine di questo tipo deve individuare la popolazione di interesse. Ad esempio si vogliono studiare i bambini che frequentano le scuole medie. Poi bisogna decidere su cosa interrogare questa popolazione, quali sono gli elementi – chiamati nel gergo statistico “fenomeni” – da rilevare e quali da eliminare. Tipo come passano la ricreazione questi bambini. A questo punto bisogna scegliere in che modo questo fenomeno si può presentare, ovvero quali sono le sue modalità. Dev’essere una lista che presenta modalità esaustive e incompatibili: “Da solo o in compagnia?”.
A questo punto c’è la rilevazione, l’indagine sul terreno che può essere totale o campionaria. In genere si preferisce quest’ultima, per contenere i costi, ma quando sei il Ministero dell’Istruzione e devi vantare i tuoi successi puoi non badare a spese e addentrarti in un’indagine totale, prendendo in esame tutti coloro che frequentano la scuola media. Si applicano poi complesse operazioni matematiche che permettono una comprensione immediata di quei dati, tanto da dover risultare chiara anche alla casalinga di Celestopoli.
Fatta l’analisi si viene a scoprire che nessun bambino che frequenta le scuole medie, proprio nessuno, passa l’intervallo da solo. E di primo acchito ecco che le famiglie sono contente, le maestre esultano, i presidi si sfregano le mani, pregustando l’aumento dopo questo buon andamento del loro istituto e gli psicologi si ritroveranno a piangere perché se va tutto bene loro vanno in crisi. Però le maestre potranno pure esultare, i presidi potranno pregustare l’aumento per il buon andamento ma i genitori, passato l’entusiasmo iniziale, saranno comunque poco contenti e gli psicologi si ritroveranno con file di famiglie fuori dalla porta. Il perché non è poi così scontato o difficile da capire.
Nelle intenzioni di voto delle precedenti elezioni politiche, nel 1965, il Partito Socialista aveva il cinque percento dei voti. Due settimane dopo, all’apertura delle schede il dieci percento dei voti confluivano sul simbolo del Partito Socialista Kantese. Certo, qualcuno avrà cambiato opinione nel corso di quelle due settimane. Ma è ragionevole pensare che la maggior parte degli elettori abbia semplicemente mentito. Un po’ come avveniva puntualmente ai comunisti, che si trovavano con una posizione di supremazia secondo i sondaggi elettorali e poi si classificavano secondi, eterni secondi. Bugie ancora. Certo, “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”, ma è il proprio volto che il sondaggista vede, indugiando prima sugli occhi e poi su qualche possibile difetto del viso e concentrarsi in un immediato secondo tempo, sulla scelta. Lì avviene il giudizio, quel guardare nell’intimo e pensare le peggiori nefandezze sul nostro conto. Ed è un giudizio che fa male, che ferisce, come un coltello che affonda in un cartone da aprire, come un bisturi che taglia la pelle da operare. Ma i giudizi non nascono dal nulla come il coniglio nel cappello del mago, il giudizio non è solo la conseguenza lineare di quello che si dice o si fa, ma è la conseguenza di come la si dice e di come la si fa. E possiamo tentare di fuggirne, modificando il nostro modo di dire quel qualcosa, di fare quel qualcosa, ma ci sarà sempre un giudizio sferzante sul nostro operato. Fuggire dal giudizio è come fuggire dal potere, troverai sempre qualcuno che lo esercita su di te. Possiamo solo tentare di far sì che il potere sia più indulgente, meno cattivo e questo è possibile nascondendosi dietro ad una bugia, dietro ad un segreto da mantenere nelle profondità del nostro essere, da celare agli occhi di chi non sa.
«Com’è andata oggi a scuola?» chiede il genitore al ritorno dalle lezioni.
«Molto bene, grazie» si risponde, con un sorriso che si tende ad essere il più genuino possibile. Si cerca di stringere gli occhi, di alzare le sopracciglia, di spingere verso l’alto gli zigomi e di mostrare i denti. Se non si stringono gli occhi, se le sopracciglia non si alzano, se gli zigomi non vengono spinti verso l’alto, ecco che il sorriso non è un vero sorriso, è una semplice smorfia, un indicatore che qualcosa non va come dovrebbe.
E mentre i genitori se ne accorgono, mentre un pochino si allarmano ma alcuni non fanno comunque nulla, troppo spaventati dallo scoprire un possibile mostro, il bambino che ha mentito continua a passare l’intervallo da solo.
Come Riccardo.
Come Riccardo che ciondolava isolato nel lungo corridoio con le mura marroni chiaro, con il pavimento che presentava all’interno di quelle mattonelle rosse delle piccole striature nere.
Ogni tanto qualcuno lo osservava, lo guardava spinto da una qualche curiosità. Come si indugia nel vedere una persona che ha problemi fisici, magari seduta su una sedia rotelle, con gravi menomazioni e guardarlo ci provoca una sensazione di curiosità mista a della vergogna, quella vergogna che sorge nel momento in cui proviamo curiosità. Le due cose sono indissolubilmente legate. Eppure dentro di sé Riccardo si arrabbiava, si indignava, voleva gridare: «Cos’avete da guardare?!», dare sfogo a quel temperamento sempre più irascibile che da un mese a quella parte aveva preso piede nel proprio corpo. Eppure indignarsi, arrabbiarsi non serviva a niente, a nulla. Da quando Giovanni aveva stretto l’accordo con James Foster e Mark dovette smettere di rivolgergli la parola, Riccardo era tornato nel fondo di quel baratro da cui pensava di esser uscito. Quel baratro fatto di sospiri, di parole pronunciate nelle orecchie, di sguardi e sorrisi maliziosi, di atti di bullismo che dal semplice bisbiglio si tramutavano poi nella violenza fisica.
Se le scuole medie inizialmente apparivano come il paradiso rispetto alle scuole elementari, dovette presto ricredersi e accorgersi che tutto era uguale a prima. E provò odio nei confronti di suo fratello Giovanni, che forse suo fratello non era, dato che lo chiamavano bastardo. Così lo aveva chiesto a chi così lo insultava candidamente e il bullo gli aveva risposto: «Perché tua mamma e tuo papà non sono i tuoi veri mamma e papà, bastardo!». Aveva riso. Un pugno lo aveva colpito dentro lo stomaco, la mano del bullo aveva aderito completamente alla maglia che indossava, provocandogli un dolore che tolse il respiro a Riccardo. Ma lui, riacquistato il respiro, aveva ripreso a ridere.
Così Riccardo cominciò a rispondere. Correggeva i suoi assalitori mentre nel bagno gli infilavano un altro pugno nello stomaco. Correggeva i suoi assalitori mentre gli lanciavano addosso il contenuto dello zaino.
«Sei solo un bastardo!» dicevano loro.
«Sono stato adottato, mica sono illegittimo!».
Poi c’era la pratica della testa nel water. Le prime volte la ingeriva anche l’acqua. Poi divenne una consuetudine e diventò pratico. La prima volta pensava di soffocare, di annegare. L’acqua lo copriva, voleva entrare dalle narici, dalla bocca. E sapeva che doveva serrare le labbra per non ingerirla.
Ma l’acqua quel giorno si interruppe di colpo. Non c’era più nessuna mano che lo opprimeva, poté finalmente alzarsi. L’acqua gocciolava dai capelli bagnando la maglietta, i pantaloni. Si girò e notò che il suo aguzzino, William Bensy, era contro il muro, con il braccio di Mark che gli pressava il collo. Gli amici di Bensy si erano completamente volatilizzati, scappati non appena Mark e il suo gruppo avevano messo piede lì dentro. Uno gli diede una mano ad alzarsi, un altro un po’ di carta per asciugarsi alla bene e meglio.
Il respiro di Mark era sul viso di William, si guardavano in cagnesco.
«Ti piace prendertela con i più piccoli?».
«È un bastardo del cazzo, deve andare alla scuola dei bastardi, non qui tra noi persone normali».
«Interessante, Willy, interessante. E c’è anche una scuola per i figli partoriti dal culo come te?».
«Mark…» ma il braccio del ragazzo si fece ancora più opprimente, impedendogli di respirare. Aprì la bocca tentando di ingerire ulteriore aria.
«Che c’è, Willy? Non lo sai, forse? Sei stato un incidente. Tua madre si è seduta sul cesso e invece di cagare ha fatto nascere te, stronzo».
«Mark…».
«Cosa? Non ti sento… Non riesci forse a parlare? Beh, certo. Gli stronzi stanno nel cesso, mica contro la parete».
Lo prese per un ciuffo dei capelli neri e lo trascinò davanti al water in cui poco prima era inginocchiato Riccardo.
«Coraggio Andrea, aiutami a metterlo in ginocchio».
Il ragazzo che aveva aiutato Riccardo ad alzarsi, si mise ora alle spalle di William e gli tirò un calcio alle ginocchia che lo fecero cadere. Un istante dopo, William era con la testa all’interno del sanitario, con l’acqua che scorreva sul suo capo, che gli entrava nelle orecchie, nel naso, nella bocca. Non aveva tutta la pratica che invece Riccardo aveva fatto, non conosceva tutte i segreti che ormai erano propri di un ragazzo che subiva quelle angherie almeno una volta a settimana. Bastarono pochi minuti, poi lo lasciarono a sé stesso, mentre uscivano dal bagno.
«Andate avanti voi – Disse Mark ai suoi amici. Aspettò che tutti fossero a debita distanza per poi guardare Riccardo – Da quanto va avanti questa storia?».
«Quella del bagno?».
«Qualsiasi storia, da quanto vanno avanti?».
«Ormai è un mese. Ma anche alle elementari facevano così».
«E perché non me lo hai detto?».
«Mi hai detto tu che l’accordo con mio fratello prevedeva che tu non mi rivolgessi la parola».
Mark si morse le labbra per poi pronunciare, sottovoce: «Dio maledica quel coglione…».
«Fallo saltare».
Suonò la campanella.
«Cosa?».
«L’accordo, fallo saltare».
Riccardo cominciò ad allontanarsi, dirigendosi verso la sua classe.
«E come?».
«Beh, ha detto suo fratello. Non suo fratello adottivo».
 
«Zafferanopoli, stazione di Zafferanopoli».
James scese dal treno e cominciò a raggiungere l’uscita della stazione. Venti binari costruiti in maniera parallela, l’uno accanto all’altro, protetti in alto da tre arcate di ferro battuto coperte da lastre di vetro posizionate l’una accanto all’altra.
I suoi occhi erano fissi sulla scritta, incisa nel muro di marmo bianco, che recava il vecchio nome della stazione, “Stazione Principe di Zafferanopoli Capitale del Regno di Kanto” e l’anno in cui questa fu costruita con i numeri romani, “MCMXX”.
Sotto la scritta, erano stati implementati di recente i tabelloni per le partenze e per gli arrivi. Era impossibile avvicinarsi e leggere in che binario sostava il treno per tornare a casa, in che binario stava arrivando il proprio caro, qual era il marciapiede da imboccare per intraprendere una nuova vita. Le persone erano tutte lì, accalcate, ferme ed immobili per mancanza di spazio, con il naso all’insù e un torcicollo che si faceva sempre più sentire. Poi finalmente tutte le lettere di quel tabellone ruotavano con un effetto a cascata che dalla prima riga si riversava sull’ultima, il tutto accompagnato da un rumore simile ad una penna con il tappo a scatto che viene premuta in continuazione. Solo quando la cascata di lettere si fermava e le persone finalmente leggevano l’aggiornamento sul loro treno, solo in questo momento la folla si disperdeva, come se fosse colpita da un’onda di eccezionale dimensioni. E allontanati quegli individui, ecco che se ne presentavano altri alla ricerca del binario su cui sostava il treno per tornare a casa, in che binario stava arrivando il proprio caro, qual era il marciapiede da imboccare per intraprendere una nuova vita. E la folla rapidamente si costituiva attorno a quello scoglio, rassomigliando a dei granchi che lasciano la loro roccia nel momento in cui solo la marea li porta a largo, forse per sempre.
Gli unici modi per attraversare i granchi era aspettare che la cascata preannunciasse l’ondata in modo da percorrere quei sette metri senza intralci, oppure avvicinarsi prepotentemente, e scostarli, uno ad uno, per riuscire finalmente a imboccare la via che portava all’uscita dell’edificio.
Ma James non aveva tempo da perdere e così prese di petto la situazione e si addentrò tra la folla, riuscendo con discreta fatica, a muoversi tra persone di ogni genere e ogni età. Bambini, anziani, adolescenti e adulti. Persino di ogni estrazione sociale, da quelli appartenenti al ceto medio a quelle persone che d’inverno vanno a fare le vacanze di Natale sugli impianti montani vicino alla Conferenza Argento mentre d’estate raggiungono Aranciopoli per spingersi verso l’Arcipelago Orange a bordo di una crociera.
Arrivare l’entrata principale del polo ferroviario era poi facile, scese le scale di marmo marrone larghe una decina di metri e poi si incamminò verso l’esterno. La visuale si apriva su una piazza pedonale di forma quadrata, composta da mattoni chiari, una zona tanto grande che stando al centro, non si riusciva a riconoscere i lineamenti del volto delle persone. Ai lati dell’isola, i taxisti avevano parcheggiato le loro automobili color verde e parlavano tra di loro appoggiati alle proprie vetture, discutendo del tempo, delle fibrillazioni politiche, consigliandosi strade da evitare e strade da percorrere a causa del traffico o di lavori di rifacimento del manto stradale.
Si avviò alla sua destra, acciuffando un taxista dai capelli rossi e ricci. Indossava una polo bianca e una catenella d’oro che brillava accarezzata dai raggi solari. Il suo viso era tondo, uno sguardo bonario, un naso a patata, occhi castani.
«È libero?» disse James, piegandosi leggermente in avanti per parlare al conducente utilizzando il finestrino del passeggero, abbassato.
«Certamente».
James aprì la porta posteriore dell’automobile, infilandosi dentro.
«Dove la posso portare?».
«Via… Via… - Prese un bigliettino dalla tasca del pantalone, su cui aveva appuntato con una grafia imprecisa l’indirizzo – Via Soldati Eroi, numero 75».
La macchina cominciò a muoversi raggiungendo in breve tempo il centro della città, infilandosi in stradine strette e tra palazzi costruiti in epoche ormai finite, passate. Riconobbe chiaramente la Chiesa San Cristoforo, tirata su nel 1234, studiata a scuola decine di anni prima. Poi, alcuni isolati dopo, riconobbe il Palazzo dei Zifferesi, i Signori di Zafferanopoli seguito da altri palazzi storici di cui non ricordava più assolutamente nulla. Aveva passato interi pomeriggi nel maggio che precedeva l’esame della maturità per studiare l’architettura e la struttura di edifici storici sparsi in tutta Kanto. Ma il tempo era passato, le nozioni accantonate e la forma delle colonne, delle finestre, e il posizionamento delle camere era finito nell’oblio.
Poi il centro storico terminò e senza che se ne accorgesse, la macchina passò dal scivolare senza problemi lungo le strade fatte di porfido ad essere in coda ad altre automobili sull’asfalto grigio, in attesa della luce verde proveniente dal semaforo. E da vie strette, circondate da palazzi alti al massimo tre piani, James si trovò in strade grosse, con tre corsie per direzione. In una di quelle vide il “Palazzo Silph SPA”, l’edificio più alto della Comunità Economica Pokémon. Il grattacielo, alto trentatré piani era stato progettato in quello che veniva chiamato “Stile moderno”, ovvero utilizzando architetture semplici come dei grossi parallelepipedi messi in verticale che ridisegnano il profilo delle città. Dalla metà degli anni ’50 erano tanti i grattacieli che erano stati tirati su a Zafferanopoli e Azzurropoli e tanti altri erano in continua costruzione, come quello all’incrocio tra Viale Roma e Viale Shanghai. Una struttura composta esclusivamente da piloni d’acciaio che lo rendevano simile ad uno scheletro, come quelli disponibili nelle aule di scienze e anatomia presenti nelle scuole e nelle università. Vedendolo, l’unica sensazione che si poteva provare era quella di sentirsi un nulla al suo cospetto. Sulle sue ossa si muovevano, come artisti circensi, operai vestiti con canottiere marroni, pantaloni marroni, marsupi marroni che contenevano a fatica gli strumenti di lavoro e infine degli elmetti di plastica arancioni. All’idea della visuale che queste persone potessero avere da quell’altezza, ci sentiva comunque un nulla, perché dall’alto la propria figura veniva ridotta ad essere un puntino di un unico colore, spogliato di qualsiasi caratteristica propria degli esseri umani. Il naso aquilino, greco, francese, gli occhi marroni, azzurri, verdi o le labbra grosse o sottili non esistevano, non contavano nulla. Si era dei semplici puntini e il colore di questi puntini era semplicemente dettato dal colore più scuro dell’abito indossato. E attorno agli artisti circensi e allo scheletro, ecco che spuntavano delle gru che sovrastavano l’intero cantiere e ancora la sensazione di essere un nulla si faceva più forte e allora meglio allontanare lo sguardo, meglio tornare sulla targa della macchina di fronte e ricominciare a pensare che la propria esistenza, alla fine, potesse contare qualcosa in quel mondo, in quella città, in quella precisa giornata. Alla fine, se non si contasse qualcosa, Jimmy Flotelli non avrebbe accettato quell’incontro.
La casa di Flotelli era nella zona orientale della città, in un limbo in cui si è ancora nel territorio comunale ma le abitazioni sono pressoché inesistenti e gli alberi che caratterizzano il Percorso 8 crescono senza il minimo intervento dell’uomo. La villa era circondata da più di duecentocinquanta ettari di parco attentamente osservati da vedette e uomini armati oltre ad alcuni Dragonite costantemente in volo sopra la tenuta alla ricerca di intrusi.
James scese dal taxi dopo averlo pagato e cominciò ad avvicinarsi al cancello, con le mani in tasca e non togliendo lo sguardo di dosso dalla guardia che sostava alla sinistra del cancello. Questa dapprima si scambiò un’occhiata d’intesa con il collega, che era sul lato destro del cancello, poi tornò a guardare James: «Non pòi sta’ qua, te ne devi anna’» disse l’uomo a sinistra.
«Ho un appuntamento con Flotelli. Sono Foster».
«Ahò er sorcio è uscito fòri da Sorciopoli – L’uomo posò con forza la sua mano destra sulla spalla sinistra di James – ‘A sorcio, che ce fai da ‘ste parti?».
«Devo parlare con il tuo capo».
«Che me stai a percula’? Da quanto te so cresciute ‘e palle per uscì fuori da ‘a tana tua?».
«Vedo che la mia fama mi precede, è una cosa che abbiamo in comune» pronunciò James, facendo seguire un sorriso.
«Ah sì? E che se dice di me? So’ tanto curioso...» e strinse gli occhi.
«Più che fama, si parla della tua fortuna... La tua fortuna, dicono, mica io, è che Flotelli si faccia quotidianamente il bidet».
«Ma vedi sto gran fijo da ‘na mignotta... Ma che cazzo voi?!».
«Te l’ho detto, ho un appuntamento con il tuo capo».
«A Pa’, accompagnalo dentro a sto sorcione che se no rischio de farli male».
Paolo aprì il cancello e James si mise dietro di lui, seguendolo lungo il viale fatto da pietre bianche da giardino, ruvide a sufficienza per non permettere alle persone o alle macchine che vi camminavano di scivolarci sopra.
La residenza si trovava al centro di quel parco: era una villa di tre piani che apparve minuscola non appena il cancello si aprì davanti agli occhi dei due uomini e che passo dopo passo, diventava sempre meno interessante a livello visivo. Non sembrava certamente la casa del capo della banda criminale più potente di Kanto. Le mura erano di un giallino spento, quasi sporco. L’ingresso era costituito da una porta blindata, senza nessuna decorazione come quelle dei Peters. Le finestre erano fatte di un legno bianco con vetri molto fini. L’intonaco, su una delle finestre del terzo piano, era venuto via, lasciando una sorta di voragine bianca in quel mare di giallo.
Paolo aprì la porta, proseguendo sulla destra, dove entrarono in una cucina ad isola, interamente bianca, molto simile a quella che Foster aveva a casa sua.
«Jimmy, è venuto James Foster»
Jimmy Floteli si voltò con un sorriso beffardo sul volto. Era stempiato, i capelli grigi erano disordinati, con ciuffi che si dirigevano in alto, a destra e sinistra. Due grosse rughe solcavano la fronte. Le sopracciglia erano grigie. Gli occhi verdi erano circondati da delle rughe sui lati degli occhi e sulle palpebre inferiori. I baffi non coprivano semplicemente la parte tra le labbra superiori e il naso, ma si spingevano fino ai lati della bocca, arrivando al mento. Tra l’indice e il pollice della mano destra teneva una sigaretta che batteva contro il palmo della mano sinistra.
«Ahò er sorcio è uscito fuori da Sorciopoli».
«Ma che bello – fece simulando un sorriso – dite tutti le stesse cose. Gli... perdonami, je fai un copione ai tuoi sottoposti?».
«No, je insegno semplicemente le buone maniere. E i sorci vanno chiamati per quello che sono, sorci. A Pa’ vai, va».
Paolo abbandonò la stanza e poco dopo si sentì la porta dell’ingresso chiudersi.
«Cosa posso fare per il re dei sorci di Sorciolandia? Posso offrirti qualcosa?». Aprì il primo cassetto che aveva sulla sinistra, tirò fuori una scatola di fiammiferi e ne prese uno. Lo passò sulla striscia ruvida accendendolo e lo avvicinò alla sigaretta, messa in bocca, che cominciò a fumare.
«No, grazie».
«Una sigaretta? Neanche un caffè?».
«No...».
«E allora perché sei venuto qua?».
«Lo sai perché sono qua, Jimmy».
«Uh, già al dunque. Hai il dente avvelenato». Allontanò di qualche centimetro la sigaretta dalla bocca, posò i gomiti sul piano della cucina e cominciò ad osservare James attraverso il fumo: «Devo ammettere, in nome della trasparenza di un tempo, che questa cosa mi diverte un pochino».
«Menomale che a te questa cosa fa ridere»
«Beh, mi pare il minimo, James, non sono io che mi sono svegliato con la merda in casa».
«Si dia il caso che qualcuno il letame in casa mia ce lo abbia versato e so che non sono io il responsabile. Potevi star fermo».
Fece una risata breve, emettendo dalla bocca il fumo, schernendo James.
«Ma davvero fai? Siamo seri: non siamo mai andati d’accordo. Ti sei opposto alla Commissione dal primo giorno in cui ci siamo insediati e sei riuscito a farla fallire. Se ho l’occasione di fartela pagare, facendoti fuori, è ovvio che la prendo al volo, che cazzo!».
«Jimmy sono passati dieci anni».
«La vendetta è un piatto che va servito freddo».
«È marcito» pronunciò James seccato.
«Mica lo devo mangiare io...».
«Io invece credo che te lo faranno mangiare».
Flotelli lanciò indietro la testa ed emise una risata sguaiata, gridata, ostentata: «E chi? Tu?».
«No».
Tornò con la testa rivolta verso Foster, con il volto ancora segnato dal divertimento provocato da quella frase: «I tuoi scagnozzi? È vero che hai il Campione della Lega?».
«No, neanche loro».
«E chi allora?».
«I Peters».
«Ma non dire cazzate».
Prese un bicchiere dalla credenza, lo portò sotto il rubinetto e lo riempì d’acqua.
«Non riuscirai a controllarli».
«È curioso considerando che l’ho sempre fatto»
«Erano deboli, Jimmy. E non se ne sono mai accorti».
Flotelli aprì una finestra e vi gettò la sigaretta fuori con un gesto distratto, non distogliendo lo sguardo da Foster: «Se ne sono accorti, lo sanno e gli va bene così».
«Vuoi renderli forti?».
«E che cosa pensi che cambierà in futuro?».
«Con noi fuori di torno diventeranno la seconda organizzazione più potente di Kanto».
«E sticazzi, noi rimaniamo la prima».
«Come puoi non vedere le loro mire di dominazione? Anzi, tu non è che non le vedi, tu le conosci ma pensi che non ti possano toccare minimamente. Ma Peters lo hai visto, è un cazzo di cocainomane, incontrollabile. Hai visto i suoi sicari? Quando lui ride, ridono anche loro. Quando lui smette di ridere, smettono di farlo anche loro di colpo».
«E quindi? Evidentemente hanno paura, tanto di cappello se riesce a farsi rispettare in questa maniera. Magari potessi io...».
«È incontrollabile, è questo quello che ti sto dicendo. Quello che ti sto dicendo è che dopo di noi ci sarete voi».
«E quindi cosa proponi? Di fare l’alleanza con te? E poi? Diventiamo compagni di merende?».
«No, è la nostra guerra. Ti vogliamo neutro. Vi vogliamo neutri perché solo con la vostra neutralità e con la nostra vittoria ci sarà una stabilità della nazione».
«Sembri un venditore porta a porta, quanto sei caduto in basso... Ma ammettiamo per un secondo, solo per un secondo, che io vi dia la neutralità. Ok? Che cosa ci guadagno?».
«Avrei potuto farti una proposta seria nel momento in cui fossi a conoscenza del mercato in cui si concentrano il Team Pewter, ma come ben sai questo non è possibile».
«E se lo vieni a scoprire? Cosa faresti? Riapriresti la Commissione?».
«Non ti dico che lo farò sicuramente, ma potrei pensarci».
«Non è abbastanza».
«Non ti posso neanche dire che proporrei una condivisione del mercato, una sua riorganizzazione, perché staremmo parlando del nulla».
«Ma lo faresti?».
«Mai dire mai».
«Lo hai appena fatto... due volte» e rimase ad osservarlo, appoggiando entrambi i gomiti sul piano di marmo della cucina.
Stettero in silenzio a guardarsi. Jimmy cominciò a battere le dita sul piano quasi per rompere quel silenzio imbarazzante che si era creato.
«A Sorcio, annamo a farci un giro fuori».
Si rialzò in piedi, aprì la porta sul retro e poi fece cenno con la testa di farsi seguire. I due uscirono e apparvero sotto ad un gazebo dove erano presenti un tavolino tondo di ferro bianco con due sedie, anch’esse in ferro bianco, sui cui sedili erano presenti delle fessure circolari, mentre lo schienale era formato da fori che ricordavano un motivo floreale. Il tutto recintato da un muro alto circa un metro, dietro cui si intravedeva una piscina olimpionica.
«Che ce l’hai la piscina?».
«No, Jimmy».
«Sei a capo dei Rocket e non hai una piscina?».
«Smeraldopoli non è come Zafferanopoli, Jimmy. Non apprezziamo certe... pacchianate».
Si fermarono davanti al bordo della piscina, osservando le piccole onde dell’acqua, smosse da una leggera brezza, appena percettibile.
«Mark come sta?».
«Sta bene, sta bene».
«Va ancora a scuola?».
«Sì, è all’ultimo anno delle scuole medie».
«Andrà alle superiori?».
«Non credo, penso piuttosto che lo manderò a lavorare in città. La vita scolastica non fa per lui».
«È un peccato. Per quelli come noi, una persona con un livello di istruzione alto è sempre comodo, James».
«Dovrei ripensarci?».
«Assolutamente».
Jimmy ricominciò a camminare in maniera lenta come se volesse godersi ogni passo su quel tappeto di pietre che circondavano la piscina. James, lo seguì, infilandosi le mani in tasca.
«E il Campione? Che tipo di persona è?».
«Impulsiva, molto impulsiva. Il colpo a Plumbeopoli lo ha portato a termine lui, fosse per gli altri staremmo tutti in carcere da un pezzo»
«Addirittura? E che cos’ha fatto?».
«Ha fatto volare in alto gli autisti del camion con il suo Alakazam e poi li ha fatti precipitare a terra, fermandoli poco prima che toccassero terra».
«Li avrà fatti cagare addosso».
«Probabile, assolutamente probabile. Ma è anche una persona molto sensibile. Ha un senso di protezione della famiglia ammirevole. E per proteggerla è venuto a parlarmi, non voleva che facessimo le riunioni in casa sua. E dovevi vedere come mi parlava!» disse, sorridendo.
«E come?».
«Era terrorizzato, ma era determinato».
«Come te, insomma».
«Non ho paura di te, Jimmy».
«No, certo, ora no. Ma quando ti hanno annunciato il fatto che avessi dato l’assenso alla tua distruzione ti sei cagato sotto, lo so questo».
Rimase in silenzio.
«E sai cos’altro sapevo?».
James scosse la testa.
«Che saresti venuto qua. Ed è per questo che ho dato l’assenso».
«Una trappola?».
«Te l’ho detto che sei un sorcio...».
«E cosa vorresti da me?».
«La Commissione, James. Il Team Pewter è un ostacolo alla formazione della Commissione. Mi hanno rotto le palle. Li ho protetti per troppo tempo e non hanno mai fatto qualcosa per meritarselo. Ho provato a tentare di fare una Commissione escludendoti, so che non ti sarebbe dispiaciuto. Ho preso i Poixta, i Volcano, ma ancora il Team Pewter non voleva collaborare come dovevano e i Poixta e i Volcano facevano rovesciare il tavolo, giustamente. Ma mi sono stancato... Adesso basta. Se non collaboriamo, la mafia americana ci fa il culo, l’unica nostra chance di essere presi sul serio è quella di unirci».
«Se mi distruggeranno non cambierà nulla».
Jimmy sorrise. Mise una mano in tasca e tirò fuori un fischietto d’ottone. Lo portò alla bocca e poi vi soffiò dentro, facendo un rumore acuto. Poi lo rimise in tasca.
«Il 25 aprile, a Smeraldopoli, c’è stata una manifestazione contro la riforma del Governo, non so se l’hai saputo o se sei andato a sentirla. Tra le varie persone che hanno partecipato, c’era anche il Campione della Lega Pokémon, Giovanni Silviosi. ‘Sto Campione, piace tanto alle persone, sebbene sia scomparso nel nulla dopo la sua vittoria. E nun se capisce perché. Allora ho chiesto in giro, ho fatto un po’ di consultazioni, e quello che mi rispondono è che c’ha fegato. E perché c’ha fegato? Perché quando doveva battere il Campione reggente se n’è uscito fuori con una filastrocca, bellino vero?
E allora, quando hanno saputo che c’era sto Giovanni, tante persone di Kanto sono andate a Smeraldopoli, solo per sentire ‘sto pischello fare il discorso che poi, io l’ho sentito e nun ce crederai ma era pure bello, e la gente allora ha cominciato ad indignarse contro il governo che è annato nel panico. E al Presidente del Consiglio ha davvero tremato la seggiola.
Ebbene, sorcio. Sei stato in grado di far quasi cadere il governo, se non sei in grado di distruggere il Team Pewter non meriti considerazione alcuna. Fatte accompagna’ alla stazione da Dragonite e da Enrico. Ci sentiamo per riaprire la Commissione».
Un Dragonite con a bordo un ragazzo di forse diciott’anni apparve davanti ai due. Jimmy si girò di spalle, tornando verso casa, James vi saltò a bordo e cominciò a volare verso la Stazione di Zafferanopoli, atterrando proprio davanti all’ingresso.
Il viaggio di ritorno sembrò meno lungo di quello che era sembrato all’andata. L’ansia per l’incontro di Flotelli era ovviamente scomparsa e anzi, dentro di sé covava una sorta di rassicurazione per averlo quasi dalla sua parte. Chi se lo sarebbe mai aspettato in fin dei conti. Quella che era parsa come una guerra che si sarebbe tramutata in una caporetto per la banda di Smeraldopoli, sarebbe potuta diventare un’importantissima vittoria. Si trattava di redigere il piano di azione e di metterlo in pratica.
 
La porta si aprì.
Giovanni si voltò guardando chi era entrato, per poi tornare a guardare la televisione.
«Ciao, eh» fece Riccardo.
«Ciao».
Era seduto sul divano, con le gambe piegate a novanta gradi accanto a lui.
«Mamma?».
«Al lavoro».
«Cucina lei?».
«No, mi ha lasciato un bigliettino dicendo che devo preparare io per entrambi».
«Puoi cominciare a farlo che ho fame?».
Giovanni si alzò, si avvicinò alla televisione e la spense. Poi si mosse verso la cucina, mentre Riccardo raggiunse camera sua per lasciare lo zaino. Pochi minuti dopo erano entrambi in cucina.
Giovanni riempì la pentola d’acqua calda e la mise sui fornelli, gettandoci il sale. Aprì la mensola vicino al frigorifero e tirò fuori una busta piena di pasta e ne versò un po’ sulla bilancia.
«Cosa c’è da mangiare?» fece Riccardo seduto al tavolo.
«Pasta in bianco».
«Oppure?»
«Il digiuno».
«Questi soldi? Di chi sono?» fece avvicinando la banconota con le monetine a sé, osservandola attentamente.
«Della casa. Li ho guadagnati oggi. Sono venuti due allenatori per sfidarmi. Li ho sfidati per strada e ho vinto. Tu che mi racconti?».
«Mi hanno infilato la testa nel water».
«Chi?» fece Giovanni voltandosi. La sua mascella era ora serrata, si avvicinò al tavolo e vi posò le mani, fissandolo in maniera severa e guardandolo negli occhi.
«È inutile, non lo conosci».
«Potrei conoscerlo presto».
«Te l’ho detto, è inutile. Ci ha pensato Mark».
Le mani ora si alzarono in aria per poi abbattersi sul piano: «Ti ho detto di stargli alla larga».
«Non l’ho cercato io. È stato lui ad avvicinarsi a me. Che ci posso fare?».
«Gli parlerò. Anzi, parlerò con suo padre direttamente».
«Ma che fastidio ti dà se ci parlo o se ci esco assieme?».
«Te l’ho detto non so quante volte, Riccardo. Ti sto proteggendo e continuerò a farlo, non importa se tu sia d’accordo o no. Devo farlo e lo farò».
«Non sei papà».
«Questo non significa che non debba difenderti».
«Appunto, fallo!».
«Lo sto facendo, dannazione, sei tu che non lo vuoi capire!».
Una goccia d’acqua fuoriuscì dalla pentola, scorse lungo la sua superficie esterna e raggiunse poi la fiamma, che divenne più grande e più rossa.
«Non lo stai facendo, Giovanni. Non lo stai facendo affatto» gridò con tutto se stesso Riccardo, balzando in piedi e posando le mani sul tavolo anche lui, sporgendosi in avanti e guardando Giovanni dritto negli occhi.
«E allora spiegami, cosa dovrei fare. Perché proprio non lo capisco. Voglio parlare con quel tizio e non me lo fai fare perché ci ha già pensato Mark. Voglio che tu stia alla larga dalla criminalità di questa città e non me lo fai fare perché però vuoi stare vicino a Mark. E io devo capire quando vuoi essere protetto e quando invece vuoi essere lasciato libero, Riccardo? Mi spiace, ma non puoi avere entrambe le cose, devi decidere».
«Proprio non capisci allora».
«Allora spiegati».
«A scuola tutti hanno paura di Mark. E quando la gente mi vedeva assieme a lui nessuno mi torceva un capello. Sembrava finalmente che fosse passata quella fase che è durata per tutte le elementari. E poi sei tornato tu a fare accordi manco fossi un politico. E sono tornati a tormentarmi».
«Quindi adesso la colpa sarebbe mia? Questa è bella, questa è divertente!».
Altre gocce ancora fuggirono dalla fessura tra il coperchio e la pentola e tutte insieme, lentamente ma costantemente, scivolarono lungo quel muro di alluminio, giungendo alla fiamma.
«Senti, fa quello che credi. Tanto a te non importa un cazzo di niente se non di te stesso, giusto per la soddisfazione personale».
Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Le mani si chiusero a pugno. Cominciò a contare fino a dieci per tentare di calmarsi e non parlare, non dire quelle parole.
«Uno...»
Perché poi arriva il giudizio. E non puoi sfuggire dal giudizio.
«...Due...»
Puoi forse renderlo meno duro, meno crudele con una bugia.
«...Tre...»
Ma meno crudele non significa che non ferisca comunque.
«...Quattro...»
Il coltello affonderà comunque nel cartone da aprire, solo con più fatica.
«...Cinque...»
Il bisturi affonderà sempre nella carne da operare, solo con più fatica.
«...Sei...»
Il giudizio arriverà comunque e ferirà comunque.
«...Sette...»
Arriverà perché arriva a prescindere da quello che dici, a prescindere da quello che fai e come lo fai.
«...Otto...»
Sfuggire è pressoché impossibile, pressoché inutile.
«...Nove...»
È come sfuggire al potere. Troverai sempre qualcuno che lo esercita su di te. Tanto vale essere onesti e affrontare le cose fino in fondo. Sin da subito.
«...Dieci».
«Riccardo – abbassò la voce di colpo – Lo sai che ho partecipato al furto di quei pokémon di cui parlava il giornale?».
«Cosa?».
«Sì... Sono stato io».              
«Non è vero».
«Chiedi a Christopher. Chiedi a Mark. C’erano anche loro».
«Ma... Sei impazzito? Rischi la galera! Sei un criminale».
«E lo sono anche loro. Ecco da cosa voglio proteggerti, Riccardo».
«Tutto questo è...».
«Tremendo».
«Mi fai paura».
Tre parole. Semplici, pronunciate tutte d’un soffio che ebbero lo stesso effetto di un centinaio di coltellate dritte sul cuore e la cosa che faceva più male di quelle ferite era la mano che muoveva quel coltello, che veniva utilizzato con la stessa leggiadria di un pennello su una tela. La mano di suo fratello, la mano di quella persona con cui aveva giocato tante volte, la mano di una persona che lui voleva proteggere a tutti i costi.
L’acqua fuoriuscì dalla pentola e uno sfrigolio provenne dalla fiamma del gas, prima di spegnersi. Giovanni si girò, alzando la pentola e spostandola verso un altro fornello. Prese in mano uno straccio e si preoccupò di asciugare alla ben e meglio il piano cottura, per poi riaccendere il fornello e rimetterci sopra la pentola, abbassando questa volta la fiamma e infilandoci la pasta.
«Non puoi fare tutto da solo» disse Riccardo, tornando seduto.
«Mi sono solo distratto».
«Non sto parlando della pasta. Non puoi aiutare a casa, proseguire con la tua carriera da allenatore e proteggermi. Devi farti aiutare».
«Riccardo per piacere...».
«Ora che so del colpo, sono un criminale anche io come lo siete tu e Mark. In misura minore, ma lo sono anche io. Smettila con questo blocco».
«Ci penserò».
«Lo farai davvero?».
«Non mi pare che io abbia altra scelta, Riccardo. Prendi i piatti e i bicchieri, io vado un attimo in bagno».
Lasciò la stanza, voltando a destra quando qualcuno suonò il campanello. Fermò la camminata girando sul posto: «Chi è?».
«Sono io».
Era una voce riconoscibile. Si rimise in marcia, questa volta verso l’ingresso, girò il chiavistello e poi aprì la porta, cui dietro c’era James Foster.
«Hey, com’è andata?».
«Ne parliamo dopo – disse sventolando in maniera veloce e confusionaria le mani – ci vediamo questa sera alle nove».
Giovanni annuì e poi fece un cenno di saluto, chiudendo la porta.
 
Erano tutti seduti ai loro soliti posti, nella solita casa, ascoltando il resoconto con il solito silenzio religioso. L’unico rumore ammesso era quello del respiro.
«Quindi la situazione è questa – concluse James – I Saffron si dicono sostanzialmente neutri. Quindi abbiamo carta bianca con i Pewter».
Giovanni inclinò in basso la faccia mentre un sorriso si formò sul suo viso. Inquietante. Una smorfia sadica che coinvolgeva in particolare l’angolo destro della bocca.
«Tirate fuori le idee. Cosa consigliate?» continuò James, unendo e mani e posandole sulle gambe.
«Potremmo occupare le loro zone» propose Aaron.
«Cioè? Che intendi?» chiese Christopher, guardandolo perplesso.
«Ci mettiamo dove loro fanno i loro commerci. Se si ribellano, giù di mazzate finché non capiscono che comandiamo noi a Plumbeopoli e non loro».
«Sono armati, hanno rapito Giovanni e James, ieri» puntualizzò Christopher.
«Compriamo le armi da qualche Team che se ne occupa. Chi sono? I Saffron?».
«E cosa ce ne facciamo?».
«Ce le portiamo sempre dietro... Se si presentano e vogliono farci del male, la tiriamo fuori e bang!».
«Altre proposte?» chiese James, scuotendo il capo.
«Ucciderli uno ad uno?» fece Andrew.
«Non sappiamo quanti sono... Oltretutto devi ucciderli tutti assieme contemporaneamente. Perché altrimenti esponi il fianco a rappresaglie nei nostri confronti».
«Oppure uccidiamo i loro boss in maniera tanto scenica e spettacolare che l’unica cosa che potranno fare è impaurirsi e deporre le armi» disse Giovanni. Le sopracciglia erano sollevate, il ghigno scomparso. L’intera espressione era quella dei bambini buoni, dei ragazzini che stanno chiedendo una sorta di regalo.
«Che intendi, Giovanni?» fece James.
«Una bomba a casa dei Peters. Tanto potente che non ne deve rimanere in piedi nulla. Lo scoppio deve sentirsi in tutta la città e il Team Pewter deve sapere che siamo stati noi».
«E dove lo recuperiamo un esplosivo così potente? Oltretutto dovremo anche contattare dei venditori sufficientemente affidabili, in modo che non ci vendano. Altrimenti siamo punto e a capo» fece notare Aaron.
«Avete mai sentito parlare della mossa “Autodistruzione”?».
«Sì, ma questo che c’entra?» chiese Christopher, alzando le spalle e guardando anche gli altri compagni.
«“Autodistruzione” permette al pokémon di implodere causando danno anche all’avversario. Applichiamo questo ragionamento fuori dalla lotta. Si prende un numero sufficientemente elevato di pokémon puntando ovviamente su quelli più potenti».
«Tipo?».
«Tipo dei Golem. Avete mai visto un Golem esplodere per Autodistruzione?».
«Insegnare, anzi, comandare “Autodistruzione” a dei Golem? Lo sai che è praticamente impossibile per un qualsiasi allenatore?» disse Mark, chinandosi in avanti e guardando Giovanni.
«Ma io ho studiato presso l’accademia di Violapoli, Mark. Io sono in grado di catturare dei Golem e io sono in grado di impartirgli quella mossa».
«Impossibile» disse Mark a voce quasi soffocata.
«Affatto» rispose Giovanni.
«Non so, c’è qualcun altro che ha proposte? Mi sembra di difficile attuazione questa qui di Giovanni».
«È l’unica realizzabile, Don Foster. L’unico modo per piegare il Team Pewter è tagliare la sua testa e mostrare al resto del corpo che sappiamo difenderci e soprattutto attaccare. Devono essere tutti coscienti che nel momento in cui volessero farlo non avrebbero alcuna chance di vittoria.
Non possiamo ucciderli tutti, è stato detto bene: dovremmo ucciderli tutti contemporaneamente e senza lasciare superstiti. Dove le troviamo tutte quelle armi? Dove li troviamo i soldi per comprarle?
Il mio piano, invece è a costo pressoché zero. Bastano una manciata di pokéball, posso metterle io addirittura. E richiede solo due morti. Uccidendo Hugo e Otto capiranno con chi hanno davvero a che fare. E lo capirà anche Saffron, che comprenderà definitivamente che siamo una forza che va tanto rispettata quanto temuta».
Cadde il silenzio.
«Altre proposte?» fece James dopo qualche istante, affondando nella poltrona.
Nessuno rispose.
«Allora votiamo...».
Molti si astennero, ma la proposta di Giovanni passò. Si propose per andare il giorno dopo sul Monteluna, dopotutto non poteva essere diversamente, per catturare i Golem. Mark si propose come accompagnatore volontario, solo per vedere il suo fallimento e raccontare a tutti di che mistificatore si trattasse Giovanni. James stabilì che solo una volta ottenuti i pokémon si sarebbe studiato il piano, decidendo di rivedersi due giorni dopo.
Giovanni, come di consueto, fu l’ultima persona a lasciare la casa. Passò una leggera brezza fresca che agito i capelli dei due. Giovanni inserì la chiave, diede tutte le mandate necessarie e poi guardò la persona che era rimasta lì, ad osservare l’asfalto della strada in maniera pensierosa. Il silenzio di quella notte era interrotto dal canto dei grilli e delle cicale che tormentavano le estati di Smeraldopoli con il loro chiasso costante, privo di una reale interruzione.
«Hai proposto un duplice omicidio» disse Christopher.
Era vero. Non se n’era reso conto ma aveva ragione. Aveva proposto un duplice omicidio e per di più mediante un sistema agghiacciante, come se già pianificare la morte di due esseri umani non lo fosse a sufficienza.
Si infilò le mani in tasca e si strinse nelle spalle. Sì, accidenti, era proprio vero. Eppure non provava alcun rimorso, alcuna vergogna. Neanche un po’ di pudore. Eppure le parole di Christopher erano suonate come una sorta di rimprovero, come se non doveva spingersi fino a quel punto, come se dovevano essere gli altri a macchiarsi di certe idee, di certe parole, come se lui dovesse semplicemente eseguirle nel momento in cui fosse stato incaricato di qualcosa.
«Di’ la verità: ci avevi già pensato, ai Golem. Nessuno parla così spedito, così convinto di quello che sta dicendo. Soltanto un politico può riuscirci. Tu quel discorso te lo sei preparato, tutto il piano te lo sei preparato».
«No, mi è venuto naturale».
«È la prima volta che mi menti da quando siamo diventati... amici».
«Parli come se fossimo alla materna, Chris. No, niente preparazione».
«L’hai detto tu che volevi distruggerli letteralmente, l’altra volta. Non io».
«Beh, e quindi? Cosa cambia?».
«Dovresti essere semplicemente più onesto con le persone. Fai bene a non volerti fidare di tutti, ma non puoi tenerti tutto dentro, perché poi esplodi, come i tuoi Golem. Dovresti fidarti di qualcuno. E forse dovresti essere più onesto anche con te stesso e renderti conto della strada che hai intrapreso. Dovresti chiederti chi vuoi diventare e se la strada che hai intrapreso risponde a quel desiderio» si mosse, scese i quattro scalini raggiungendo così il marciapiede, «Buona fortuna domani» pronunciò incamminandosi verso casa.
Note dell’autore.
E’ con mio enorme rammarico che pubblico solo oggi questo capitolo. Un periodo lungo e inaspettato che ha portato ad un ritardo nella pubblicazione di cui mi scuso fortemente con tutti i miei lettori.
Esami piazzati all’improvviso e voti al di sotto delle aspettative – con annessi rifiuti – hanno provocato tutto questo, unito anche alla consulenza da esterno per un progetto teatrale e alla mia piccola partecipazione alla campagna elettorale in quel di Milano.
L’obiettivo ora è di pubblicare il Numeri 2.7 entro il 22 giugno e poi fermarmi fino a metà settembre, circa il 14 settembre e da quel momento riprendere con le pubblicazioni ogni due settimane.
I primi di agosto dovrei pubblicare un capitolo extra, di cui non ho intenzione di anticiparvi nulla.
Ne approfitto nuovamente anche per scusarmi con tutte le persone che mi hanno lasciato una recensione e si sono visti ricevere una risposta con settimane di ritardo. Spero vivamente che questo non accada più.
   
 
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