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Autore: Roscoe24    16/06/2016    1 recensioni
Questa è la storia di Natalie Duvall (nipote di Bobby, figlia di una sua presunta sorella venuta a mancare in un incidente d'auto insieme al marito. Bobby l'ha presa con se e cresciuta) che è una presenza costante della vita dei Winchester. Si conoscono fin da piccoli, sono cresciuti insieme e cacciano insieme. Presumibilmente, Natalie ha vissuto tutte le esperienze che hanno vissuto i fratelli nel corso delle cinque stagioni che riguardano l'Apocalisse.
Nella storia sono presenti dialoghi che risulteranno familiari, quindi sappiate che sono volutamente ripresi, anche se non sono proprio precisissimi.
La trama della sesta stagione non verrà seguita in maniera perfetta, potrebbero esserci degli avvenimenti nominati che accadono prima o dopo e che, invece, in questa storia sono posizionati in modo diverso, o riferiti a personaggi diversi da quelli originali.
Non so cos'altro aggiungere, quindi credo che mi fermerò qui xD
Buona lettura! (Spero) :)
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sesta stagione
Capitoli:
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Dicono che le persone si fanno sempre un’idea specifica delle altre persone, e quando vengono delusi dalla persona che avevano idealizzato, e se ne escono con un “da te questo non me l’aspettavo”, in realtà non ce l’hanno effettivamente con quella persona, ma stanno parlando dell’idea  che si erano fatti di quella persona. Può capitare. Anzi, capita più spesso di quanto crediamo. Non è colpa di chi viene idealizzato, in realtà. È colpa di chi idealizza, di chi non si prende la briga di imparare a conoscere meglio chi ha davanti perché idealizzare quel determinato individuo è molto più facile. Bisogna andare molto oltre la superficie per poter dire di conoscere qualcuno e grattare, scavare (forse è più appropriato) diventa sempre più faticoso e sempre più difficile. E a nessuno piace faticare. Molto meglio cogliere qualche sprazzo della personalità qua e là e costruire un’identità a proprio piacimento. È così che funziona, quando si tratta degli altri.
Ma quando si tratta di noi stessi?
Quando siamo noi che rivolgiamo la fatidica frase “da te questo non me lo aspettavo” e guardiamo dentro ad uno specchio? La cosa allora si complica. Perché tecnicamente, nessuno ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi stessi.
Ci conosciamo bene e lo sappiamo. Ognuno di noi conosce le proprie paure, le proprie debolezze, i propri timori, le proprie ossessioni, i sogni, le speranze, le proprie capacità. Anche Sam.
Anche Sam si conosce bene. Anche Sam sa di cosa è capace il mostro quando viene fuori.
Ed è venuto fuori in grande stile. Porca vacca, se si è impegnato a fare in modo che le persone intorno a lui dicessero “da te questo non me l’aspettavo”. Ma Sam forse si. Sam si conosce e sa benissimo che le cose che ha sentito può aspettarsele dal mostro che vive in lui. E questo è ciò che lo spaventa di più. È sempre stato terrorizzato da quello che sarebbe potuto diventare e che poi è effettivamente diventato. Una macchina esorcizza demoni che per funzionare doveva bere litri di sangue demoniaco, un drogato, un mostro assetato di sangue che di sangue si nutriva. Una sanguisuga soprannaturale che ha commesso cose oscene solo perché amava sentire quella sensazione di potere che gli davano le sue capacità. Porca miseria, esorcizzava demoni con la mente. Con la mente!!
Ma a cosa ha portato, tutto questo potere? Alla distruzione. Solo ed esclusivamente distruzione.
Il potere può provocare danni immensi. Adesso lo capisce. Adesso capisce quanto sia stato presuntuoso credere che le sue capacità non l’avrebbero mai corrotto. Si è fatto sopraffare dalle sue doti ed è finito con l’esserne consumato, con il fidarsi di un demone, con il preferire il suddetto demone a suo fratello.
Una scarica di potere gli ha fritto il cervello e lui ha scelto una creatura infernale anzi che il sangue del suo sangue.
E la storia si è ripetuta. È stato trascinato all’inferno ed è riemerso il mostro, che era ben contento che l’anima non fosse più tra i piedi a ricordargli che esiste una cosa chiamata “etica” e un’altra chiamata “morale” e che spesso e volentieri si fondono insieme per creare concetti “moralmente etici” che, in quanto tali, vanno rispettati.
Ma se non hai l’anima e sei destinato ad avere una bestia scalpitante dentro di te che altro non aspetta che i cancelli della sua gabbia vengano abbattuti per essere nuovamente libera, allora te ne sbatti altamente dei concetti moralmente etici e arrivi addirittura a sacrificare tuo fratello per risolvere un caso, perché devi trovare l’alfa, e lasciare che il sangue del tuo sangue venga trasformato in una vampiro va più che bene, se serve per trovare Papà Vampiro.
Dean ha mantenuto la sua promessa. Gli ha raccontato tutto. Tutto per filo e per segno. È partito dal salto nella Gabbia e, passando per la sua fuga da Lisa, la storia tra Nat e Sam (ora si spiega il ricordo avuto in cucina), la caccia ai mostri, le minacce di Crowley, il tradimento di Samuel Campbell, è arrivato al patto con Morte e al risveglio di Sam mentre loro erano in Louisiana.
Un colpo di spugna.
Quelle parole lo ossessionano. Perché non può passare tutto così in fretta. Non si può cancellare il comportamento spregevole che ha avuto. Mettere in pericolo la sua famiglia per cosa? Per risolvere dei casi?
Non può credere di aver quasi ucciso Bobby solo perché non voleva l’anima indietro. Avrebbe dovuto parlane con Dean, invece non l’ha fatto. Ha mentito, raggirato e manipolato la situazione a suo piacimento per trarre tutti in inganno. Si sente uno schifo.
E Natalie.
Natalie…
Se guardarle il culo l’aveva fatto sentire in colpa, adesso si sente un verme. Una specie di traditore. Dean non si è mai legato a nessuna, non come ha fatto con Natalie, e lui che ha fatto? È stato con lei. Una cosa del genere tra di loro non è mai successa, non hanno mai avuto a che fare con la stessa donna perché dal momento che uno dei due capiva l’interesse dell’altro nei confronti di una ragazza, l’altro lasciava automaticamente perdere.
“Non mi odi per quello che ho fatto?” lo sguardo basso, fisso sulle mani incrociate sulle gambe, i pollici che premono con così tanta forza uno contro l’altro da diventare bianchi.
“No. Non eri tu.”
“Ti ho dato in pasto ad un vampiro.”
“Sapevi che c’era una cura.”
“Che non avevo mai visto.”
“Ma sapevi che c’era.” Dean continua a guardare la strada davanti a se, concentrato su quella lunga distesa grigia scura.
Grigia come gli occhi di Natalie – si trova a pensare Sam. 
“Sono stato con Natalie, l’amore della tua vita.”
“Ti ho già dato un pugno, per questo. Non te lo ricordi? Una bella azzuffata in stile Winchester. E poi, ripeto, non eri tu. Sinceramente, non provo rancore nei tuoi confronti e nemmeno nei suoi. Sai, non hai mancato di informarmi, quando eri senz’anima, che lei era più che felice di venire a letto con te, ma... ma se io non me ne fossi andato tutta la storia tra di voi non sarebbe avvenuta. Almeno credo... io e Nat dobbiamo ancora chiarire.”
“Ho tentato di uccidere Bobby.”
A questo punto, Dean ferma la macchina, inchioda con un impeto tale che le ruote stridono sull’asfalto lanciando un grido acuto e perforante. Sam è sicuro che le gomme abbiano lasciato il segno sul catrame.
“Perché vuoi essere odiato, Sam?” il tono di Dean esce duro, quasi brusco, come se fosse irritato, gli occhi severi fissi su di lui e la mascella contratta.
“Perché me lo merito, Dean.”
Dean stringe le labbra facendole sparire all’interno della bocca: “No. No, non è vero. Non ti meriti di essere odiato. Non eri tu, intesi? Avevi l’accendino in mano, ma non ne eri consapevole. C’era qualcun altro che muoveva i fili dentro di te e ti ha fatto fare cose che non avresti mai fatto, se fossi stato te stesso.”
Il mostro. Era lui che mi manovrava.
“Ragiona, Sam. Sei stato all’inferno, sei stato posseduto da Lucifero e sei sopravvissuto. Sei stato grandioso, ma non potevi certo pretendere di venire a contatto con una potenza simile ed uscirne indenne. Chiunque avrebbe fatto la tua fine, se non peggio. Quindi, ti prego, smettila di incolparti.”
Per lui è stato diverso, pensa Sam. Dean, una volta fuori dall’inferno, non ha fatto cose orribili. Si sentiva in colpa per quelle fatte all’inferno, è vero, ma chi mai potrebbe comportarsi secondo i principi moralmente etici, in quel luogo di perdizione, peccato, crudeltà e malvagità? Nessuno. L’inferno corrompe. Tutti. Anche gli uomini giusti. La differenza si nota una volta usciti. Ma forse, Dean ha ragione. Quello non era lui, quello era il mostro. E adesso, lui è tornato e la bestia sta di nuovo scalpitando dentro alla cella, chiusa e imprigionata per sempre, almeno spera. Adesso, ha l’occasione per redimersi. Per fare del bene. Per tornare ad essere solo Sam Winchester. Niente Occhi Gialli, niente ragazzo prodigio, niente “the chosen one”, niente esercito demoniaco, niente sangue di demone. Niente di niente. Solo e soltanto Sam.
“Voglio parlare con Nat e con Bobby.”
“Certo, lo capisco. Ma ti diranno cose che hai già sentito da me.”
E forse Dean ha ragione, ma lui ha comunque bisogno di parlare con loro.


                                                                                                        ***

Dean imbocca il vialetto polveroso, passando sotto l’insegna “Singer Auto”, verso le sette di sera. Il sole inizia ad abbassarsi e lo scintillio dei suoi raggi sulle macchine è più debole, quasi come se le facesse luccicare ad intermittenza. Il cielo inizia a colorarsi di arancione, macchiato dal rosso, abbandonando sempre di più il celeste. Quando si inoltra nella proprietà di Bobby per andare a parcheggiare la macchina davanti a casa Singer, nota Nat seduta su un pick-up. Forse questa è l’occasione buona per parlarle.
Parcheggia l’auto e dopo aver lanciato un’occhiata a Sam, si avvia da lei. Cammina per un po’, inoltrandosi in mezzo ai rottami, fino a quando non raggiunge il pick-up. Natalie è seduta sopra al cofano del veicolo con la schiena appoggiata al parabrezza, la vernice verde militare dell’auto è stata mangiata dalla ruggine e l’odore ferroso che emana quel rottame gli entra nelle narici e gli pizzica in naso. Natalie ha lo sguardo fisso davanti a se, come se stesse studiando quel mare di veicoli accatastati uno sull’altro che sono stati dichiarati morti da anni; le gambe, fasciate dentro ad un paio di pantaloni neri, sono distese lungo il cofano; tiene il braccio sinistro al ventre e il braccio destro sollevato: Natalie sta fumando una sigaretta. Tiene quella sottile asticella bianca piena di tabacco tra il medio e l’indice e disegna dei cerchi di fumo con la bocca che si disperdono in aria.
“Pensavo avessi smesso.”
Lei non lo guarda nemmeno.
“Ognuno ha i suoi vizi. Tu l’alcol, io la nicotina. Non te ne liberi mai del tutto.”
I raggi del sole che le accarezzano il viso modificano il colore dei suoi occhi a tal punto che sembra che al posto della tempesta grigia pre-armageddon ci sia acciaio liquido. Porta di nuovo la sigaretta alle labbra.
“Allora,” inizia, espirando fumo “avete parlato?” incrocia le gambe e si aggiusta la maglietta, facendo in modo che entrambe le spalle siano coperte. È una delle sue preferite, nota Dean. Quella porpora, con lo scollo a barca, che spesso e volentieri scivolava scoprendole una spalla.
“Si, ma non sono qui per parlare di questo.” Comincia, iniziando anche a sentire il nervosismo che cresce dentro di se. Quel tipo di nervosismo che ti fa sudare le mani e balbettare in preda al panico, non quel nervosismo che ti fa dare pugni al muro e digrignare i denti. Si sta agitando. Sente le pulsazioni del cuore accelerare, lo stomaco si chiude e gli formicolano le mani.
Finalmente Natalie lo degna di uno sguardo. I suoi occhi, non più nella traiettoria dei raggi del sole, tornano colore della tempesta.
“Ah si, e di cosa vuoi parlare?”
“Non giocare con me, Nat. Ti prego.”
Una pausa. Una lunghissima pausa.
“Sei andato via perché non potevo darti quello che desideravi?.” Dà un altro tiro alla sigaretta, finendola del tutto. Spegne il mozzicone contro il cofano del pick-up e lo getta a terra.
C’è rabbia, nella voce di Natalie, ma anche tristezza. Quella domanda esce con la stessa potenza di un’esplosione. Non gli lascia il tempo di trovare un modo per iniziare nella maniera giusta il suo discorso – la sua confessione – ma, al contrario, lo mette davanti ad una situazione fin troppo confusa: nonostante Dean sappia benissimo a cosa si riferisca Natalie, la cosa che lo confonde, o meglio lo disorienta, è il modo in cui questa domanda è venuta fuori – fin troppo schietta, fin troppo precisa. Una freccia lanciata alla perfezione che si va a conficcare nella carne di Dean sempre di più ad ogni minuto passato in silenzio. Natalie ha scoccato la freccia con determinazione, come se quella fosse una cosa di vitale importanza, per lei. E allora, Dean si domanda quante volte, durante la sua assenza, Natalie si sia posta quell’interrogativo spietato, e quante volte la risposta sia stata affermativa: Si, se n’è andato proprio per quello.
Questo pensiero, che lo colpisce come un’epifania, fa si che si detesti ancora di più per quello che ha fatto. Per quello che le ha fatto.
“Rispondimi. Volevi un modello nuovo? Qualcuna che non fosse danneggiata?” le trema la voce e poi quel brivido si disperde per tutto il corpo, facendola fremere. Sembra una bomba. Una pentola a pressione pronta ad esplodere, a lasciare che il coperchio venga lanciato in aria con violenza per riversare tutto il suo contenuto nel perimetro circostante.
Natalie si tocca la pancia e a Dean non serve chiedere a cosa si riferisce, lo sa benissimo. L’ha saputo non appena gli ha fatto quella domanda: l’incidente.
Quel dannato incidente con Zaccaria. Il taglio era andato abbastanza in profondità da colpire l’utero, rendendo Natalie sterile. Zaccaria le ha portato via la possibilità di avere un figlio.
Era una cosa a cui pensavano, a volte. Ma erano abbastanza intelligenti da capire che un bambino non sarebbe mai stato al sicuro, con due genitori cacciatori. E per di più del loro calibro, con nemici ovunque e mostri che pretendevano la loro testa infilata in una picca. Il piccolo avrebbe corso dei rischi tremendi e loro non avrebbero mai permesso che venisse usato come esca, come strumento di vendetta nei loro confronti. Ma scegliere di non avere figli è un conto, sapere di non poterne avere è un altro. Sapere che qualcuno ti ha tolto la possibilità di averli solo per tentare di vincere una guerra, solo perché aveva deciso di torturarti, per usarti come uno strumento di persuasione, è un altro conto ancora.
Quando si era risvegliata in ospedale, il medico le aveva dato l’orrenda notizia e Nat aveva iniziato a piangere. Non gridava, non urlava, non aveva avuto una crisi isterica. Si era rannicchiata su se stessa e aveva iniziato a versare lacrime silenziose. Quelle lacrime stavano portando via anche la minima speranza di avere un bambino, un giorno. Il loro sapore salato era il sapore della consapevolezza che nessuna creaturina sarebbe cresciuta dentro di lei, un giorno.
E Dean in quel momento si era odiato più di quanto non avesse fatto in tutta la sua vita. Era colpa sua, se Zaccaria l’aveva catturata. Era colpa sua, se Natalie stava versando tutte le sue lacrime in quel letto d’ospedale. Era colpa sua, se l’aveva privata della possibilità di diventare mamma, un giorno.
È sempre stata un’ipotesi, una fantasia, un sogno, ma nessuno aveva il diritto di portarglielo via. Stava a Natalie scegliere. Non a qualcun altro.
Le settimane successive, che erano diventati mesi, per Nat erano state dure. Lei non lo diceva apertamente, ma lui lo sapeva. Se n’era accorto. Era come se si fosse guastata, era come guardare lo spettro delle sue recondite speranze, quelle che non sai di avere fino a quando non le vedi ridotte in frantumi. L’episodio l’aveva segnata così in profondità che non ne ha più parlato. È stato rinchiuso dentro a quel cassetto della memoria che solo lei può toccare e fa molta attenzione a fare in modo che ciò non avvenga: non lo vuole nemmeno sfiorare, non vuole nemmeno spolverarlo, quel cassetto, per paura che si apra senza il suo permesso e le riversi addosso tutto il dolore di quel periodo. Quel dolore che l’ha segnata profondamente. Quel dolore che con il tempo è diventato perlaceo e oblungo e che la segna da parte a parte, ricordandole cosa ha perso e come l’ha perso.
Quello era stato il suo inferno. Per lei Alastair altro non era che quel taglio sulla pancia che le ricordava ogni giorno che vita avesse scelto e con che moneta veniva ripagata per la sua scelta. Fare del bene, salvare vite, uccidere il male ti porta a sacrificare te stesso. E non c’è nemmeno un po’ di gloria per i cacciatori. Soldati dimenticati da quel Dio che li ha voluti mettere al corrente di ciò che vive nel buio. Non ci sono medaglie al valore, per chi combatte le loro guerre. Ci sono cicatrici. Perdite. Vuoti incolmabili. Dolori insanabili. Incubi incancellabili.
“È un colpo basso, Nat. Sai quanto sia stato devastante per me vederti in quello stato.”
“Anche la tua fuga è stata un colpo basso.”
“E non potrei essere più dispiaciuto per come mi sono comportato, Nat, davvero. Ma..” fa una pausa. Si avvicina al pick-up con l’intento di salirci sopra, ma Nat lo precede e scende, posizionandosi di fronte a lui; la schiena appoggiata al veicolo, le braccia incrociate al petto e gli occhi puntati su di lui. Il suo sguardo è duro, ma Nat non dice niente, rimane solo ad aspettare, in silenzio, che lui prosegua.
Ed è quello che fa: “Ma c’è una ragione per cui l’ho fatto.” Si passa una mano sulla bocca, come se quel gesto avesse la capacità di riordinargli le idee. Da dove cominciare? Come cominciare? Forse sarebbe bene cominciare dall'inizio.
“Quando ho visto Sam saltare dentro alla Gabbia, ogni parte di me desiderava morire. Ho pensato al suicidio non so quante volte, davvero. Mio fratello, il mio fratellino, era rinchiuso dentro ad un fottuto buco infernale con Michele e Lucifero e io camminavo su questa terra. Che diritto avevo di farlo? Che diritto avevo di continuare a vivere mentre lui marciva all'Inferno? Nessuno. Ma gli avevo promesso che non avrei fatto niente di stupido o di avventato, così ho deciso di resistere...”
“Scappare è stato avventato. E stupido.” lo interrompe glaciale.
Dean incassa senza dire niente. Un po’ se lo merita.
“Lo so. Ed è qui che arriva la spiegazione. Il mio desiderio di morte avrebbe trascinato a fondo anche te, Nat. Voglio che tu lo capisca, anche se adesso vedo che ciò che ho fatto è stato sbagliato. E voglio che tu sappia che le conseguenze dell’incidente non c’entrano assolutamente nulla. All’inizio pensavo che ti avrei salvata. Pensavo che con quel desiderio di autodistruzione che albergava in me, ti avrei trascinata a fondo. Saremmo finiti a raschiare da un buco nero ciò che eravamo e avrei rovinato tutta la nostra vita. Tu ti saresti occupata di un ubriacone con tendenze suicide, perché so che l’avresti fatto, mi sei sempre stata vicina e l’avresti fatto anche quella volta, ma cosa ne sarebbe stato di te? Saresti finita in un baratro oscuro che avrebbe ucciso tutta la luce che vive in te. E non potevo permetterlo. Sapevo che andandomene, quella parte oscura che viveva in me non si sarebbe manifestata, perché sarebbe stata tenuta a bada dalla consapevolezza che nessuno avrebbe capito, che Lisa non avrebbe capito...”
“E quindi hai deciso di andare da lei per pararti il culo. Come se fosse la tua isola felice e fantasiosa. Hai evitato il problema costruendoti un’altra realtà. Sei scappato non solo da me, ma anche dai tuoi problemi.”
“Lo so, non vado fiero di quello che ho fatto.”
“Fai bene. Almeno capisci di esserti comportato da vigliacco. Non lo sei mai stato, dovevi iniziare a farlo adesso?”
“Nat..” comincia, ma lei lo interrompe. Si stacca dal pick-up e si avvicina a lui; le braccia, adesso, distese lungo i fianchi, gli occhi ancora puntati su di lui. Lo sguardo che gli rivolge, gli fa un male cane. Sembra stia guardando la personificazione della delusione più grande che Nat avesse mai potuto provare. E lui non è mai stato guardato così, non da lei. Lei l’ha sempre guardato come un uomo degno. Degno di essere amato, degno di vivere, degno di essere felice (almeno in qualche occasione, almeno con lei).
“Vuoi sapere come l’ha presa Bobby?”
A proposito di colpi bassi. Ma Dean non dice niente e la lascia parlare.
“Ha visto Sam gettarsi nella Gabbia, proprio come hai fatto tu. Proprio come ho fatto io. Hai perso un fratello, ma lui ha perso un figlio. Pochi istanti dopo, ti guarda montare in macchina senza dire una parola e andartene. Ed ecco che rimane a fissare un altro dei suoi figli che se ne va senza dire niente. Senza dargli nemmeno una fottuta spiegazione. Siamo tornati a casa, in silenzio. Vivevamo in silenzio aspettando che tu tornassi, ma niente, non tornavi. Sam non c’era, tu non c’eri. Ha iniziato a bere. Finiva non so quante bottiglie di whiskey al giorno, dopo la prima settimana ho perso il conto. Lo trovavo ogni mattina svenuto sulla scrivania. Puzzava di alcol e tutto ciò che usciva dalla sua bocca erano grugniti burberi, soprattutto quando lo supplicavo di smettere di bere così tanto. Mangiava poco, beveva troppo. Non so per quanto tempo è andata avanti. Non so per quanto tempo l’ho guardato distruggersi, cercando di intervenire, e ogni volta ricevevo una porta in faccia. So solo che ad un certo punto l’ho messo davanti ad una scelta: o l’alcol, o me. Come vedi, è stata dura. Sia per lui che per me. Mi ha trascinata in fondali oscuri di cui nessuno dei due sapeva l’esistenza, ho dovuto convivere con il mio dolore e occuparmi del suo, che era piuttosto distruttivo. Ma quando ha dovuto scegliere, ha scelto me. Si è reso conto di quello che si – e mi – stava facendo e ha avuto le forze per tirarsi su. Si è appoggiato a me perché volevo che si appoggiasse a me, e allo stesso tempo io mi appoggiavo a lui. Quando siamo tornati non abbiamo parlato dell'accaduto perché faceva troppo male ad entrambi. Ma il silenzio ha portato solo distruzione. Quando, invece, dopo aver toccato il fondo, ci siamo impegnati per risolvere la cosa, siamo riusciti a risalire e a trovare un po’ di pace. Lui ha salvato me, io ho salvato lui. Si sforzava di non dare retta a quella vocina che lo supplicava di annegare i suoi tormenti nell’alcol perché sapeva che avevo bisogno di lui tanto quanto lui aveva bisogno di me. Anche la sua parte oscura stava venendo fuori, ma è riuscito a combatterla.”
“Credi che non sappia che ho sbagliato? Cristo, lo so. Ho combinato un casino, come faccio sempre..”
“Non fare la vittima, adesso.”
“Sarebbe più facile chiederti scusa se la smettessi di essere così fredda. Ti ho spiegato le mie ragioni, potresti almeno provare a capirle??”
“Io le capisco, Dean. Ma capisco anche che scappare è stata una tua scelta. La scelta più facile, ad essere onesti. Potevi rimanere con noi e affrontare tutte le conseguenze che ciò che avevamo appena vissuto comportava, e potevi fuggire creando una realtà alternativa in cui tutti i tuoi problemi non esistevano. Hai scelto la seconda. Hai scelto la più facile.”
“Ho scelto pensando di fare il tuo bene.”
“Il mio bene era averti al mio fianco, indipendentemente da tutto.” gli occhi le diventano lucidi, uno specchio di lacrime che iniziano a formarsi destinate a scappare e scivolare lungo il suo viso. Ma Nat le trattiene. È diventata parecchio brava a farlo, nell’ultimo periodo.
“M-mi dispiace, Nat.” allunga una mano per toccarla, ma lei si ritrae. Se gli avessero dato un pugno allo stomaco sarebbe stato meglio. Non vuole essere toccata da lui. Non è mai successo.
“Anche a me, Dean.”
Lo guarda con sincero dispiacere. Non lo dice tanto per dire, lo prova davvero. E le dispiace anche essersi ritratta al contatto, ma se si fosse lasciata anche solo sfiorare da lui, sa come sarebbe finita: si sarebbero nuovamente rifugiati l’uno nell’altra, accantonando i loro problemi come hanno fatto fino ad ora. E non è quello che vuole.
“Potrai mai perdonarmi?” Dean le rivolge uno sguardo carico di dolore, la sua voce trema leggermente, ma quel tremolio si nota appena. La sua mascella è contratta: è teso, preoccupato per la risposta che Natalie potrebbe dargli.
Nat accenna una sorriso triste, tirato; un tentativo di rassicurarlo: “Ho bisogno di tempo, Dean.”
“Certo, lo capisco.”
Rimangono in silenzio uno di fronte all’altra senza dirsi una parola. Si guardano senza parlare. Guardano ciò che sono diventati: lo spettro di una felicità che sembra lontana; il fantasma di una complicità rara da trovare, tra due esseri umani; il poltergeist di tutto ciò che erano grida dentro di loro e scalcia prepotente, violento come solo uno spirito irrequieto riesce ad essere, e vorrebbe gridare ad entrambi che lui è ancora lì, sepolto sotto alle macerie delle loro decisioni. È lì che aspetta che si corrano incontro capendo che, nonostante gli errori, sono destinati a perdonarsi, a tornare insieme, a vivere insieme tutti i giorni che rimangono delle loro vite perché loro sono stati creati appositamente per stare insieme. Dean e Natalie sono la metà di quella mela perfetta che gli dei hanno invidiato a tal punto da spezzare in due e mandare le parti in direzioni opposte per fare in modo che non si incontrino mai. Ma loro sono più forti. Il loro amore è così forte e radicato che anche se spezzato a metà, troverà sempre un modo per ricomporsi, per aggiustarsi. Perché loro si appartengono. Si appartengono in modo viscerale, in una maniera estranea alla maggior parte degli esseri umani: sono anime gemelle, anime complementari.
Ma sono ancora troppo sordi per riuscire a capire cosa stia gridando il poltergeist, troppo concentrati a non ascoltarlo come si deve per accorgersi di cosa sta urlando nelle loro orecchie.
“Devo andare. Ho un caso.”
E per via della loro sordità, è così che Nat spezza il silenzio e pone fine alla loro discussione.
“S-si, certo, d’accordo.”  
Natalie si volta e si incammina verso casa Singer. Dean rimane a guardarla. La osserva con il sole alle spalle che le illumina i capelli legati in una treccia tenuta di lato, gli anfibi che alzano piccole nuvole di polvere. La maglietta è ricaduta di lato, lasciando scoperta la spalla e lasciando intravedere il tatuaggio che Natalie ha alla base del collo: la fenice. Non si vede tutta, solo la testa e una parte dell'ala, ma Dean lo conosce bene.
La fenice con le ali aperte, le zampe rannicchiate al corpo, la coda formata da lingue di fuoco che si arricciano all'estremità. Natalie l’ha scelta perché pensava che la fenice avesse un significato profondo: se qualcuno ha così tanta forza da riuscire a riemergere dalle sue ceneri dopo essere morto, gli esseri umani sono in grado di percorrere e sconfiggere le avversità che la vita gli pone davanti.
Natalie è così. Natalie riemerge sempre dalle proprie ceneri. Natalie è andata a fuoco chissà quante volte ed è sempre riemersa, con le sue cicatrici, con i suoi tatuaggi che scrivono sul suo corpo la sua storia. Una guerriera segnata dal tempo e dalla vita, dalle battaglie e dalle perdite.
Nat che è riemersa anche quando tutto stava affondando.
Nat che sarebbe riuscita a salvarlo anche quando lui pensava non ci fosse più niente da salvare.
Natalie che ha bisogno di tempo. Glielo deve. Deve lasciarle tempo. Deve solo sperare che scelga di stare ancora con lui, dopo tutto questo. Vuole sperare che riesca a superare questo ostacolo e che lo perdoni. Dio solo sa quanto sente la sua mancanza, ma deve fare ciò che è meglio per lei: aspettare.

                                                                                                           ***

Una spiegazione l’ha avuta.
A quanto pare, l’impossibilità di avere figli non c’entra niente. La cosa un po’ la solleva. Mentirebbe se negasse che durante l’assenza di Dean quel pensiero la tormentava. Pensava che magari, visto che andare a salvare Sam era escluso (Morte era stato tremendamente chiaro), Dean avrebbe potuto vivere la vita normale che tanto bramava. Vivere con una bellissima donna, il suo adorabile bambino e, perché no, procrearne altri insieme. Invece no, non l’ha abbandonata perché voleva stare con qualcuno in grado di dargli un figlio; se n’è andato per salvarla. Per evitare che lui toccasse il fondo e che trascinasse anche lei, con lui. Ma se lei avesse voluto toccarlo, il fondo? Se avesse preferito vivere cento, mille, giorni al buio piuttosto che passarne uno soltanto a lasciare che il pensiero di non essere abbastanza la tormentasse?
Dean ha preso la decisione per entrambi. Come fa sempre. Come ha fatto con Sam quando ha venduto l’anima. Come ha fatto con lei quando l’ha esonerata dal piano di morte momentanea. Dean pensa sempre che le persone che ama stiano meglio senza di lui. Deve ancora imparare che non è affatto così, che chi lo ama lo vuole avere intorno, con i suoi pregi e con i suoi difetti, con la sua luce e la sua profonda oscurità. Nessuno è solo bianco o nero, nessuno è solo luminoso o oscuro. C’è sempre una via di mezzo. Sempre.
Scuote la testa.
In camera sua, Natalie sistema dei vestiti dentro ad un borsone aperto sul suo letto.
Guarda il completo da agente dell’FBI accuratamente piegato all’interno della borsa e tira un profondo sospiro. Forse non dovrebbe andarsene. Non dovrebbe scappare. Anche lei, adesso, sta scegliendo la strada più facile: fuggire a risolvere un caso anzi che rimanere per risolvere fino in fondo la cosa, ora che Dean sembra così disposto a farlo. Ma ha dei doveri. Della gente è morta e lei deve sbarazzarsi del mostro, un mannaro, tanto per cambiare.
Sospira.
Porta la mani sul ventre, le infila sotto la maglietta e passa il dito su quella parte di cicatrice che sta sopra all’utero. Sente la riga spessa e indurita dal tempo e lascia che una lacrima fugga, incapace di trattenersi ancora per molto. Senza che se ne accorga, ha iniziato a piangere. Lascia che le lacrime le bagnino il viso e che il dolore rimasto chiuso in un cassetto per troppo tempo venga lasciato libero. Ogni tanto ha bisogno di lasciarlo uscire per evitare che la sua presenza le avveleni l’esistenza piano piano, come una goccia costante di cianuro dentro al cibo. In questi momenti, nei quali lascia che le lacrime sgorghino libere e che la consapevolezza della perdita – di quella perdita –  le trafigga il cuore e le comprima lo stomaco, asseconda il dolore; si fa sopraffare da esso lasciando che esca completamente. Lo fa per sfogarsi, come una sorta di purificazione. E ogni volta, quando si asciuga il viso bagnato da lacrime amare, sente che quel fantasma che si porta dietro da anni, un po’ si alleggerisce e torna, un po’ più docile, dentro al cassetto. Non si illude che si placherà del tutto, un giorno. Sinceramente, trova impossibile che una ferita del genere si rimarginerà mai, ma fino a quando il dolore è chiuso dentro a quel cassetto della sua mente e del suo cuore, sente che può gestirlo e che può evitare di farsi sopraffare. Almeno, fino a che non torna nuovamente insopportabile. Allora si rinchiude in camera sua e piange. È una sorta di rito. Sa bene come gestirlo, ormai.
E lo fa anche questa volta. Toglie le mani da sotto la maglietta e si asciuga le guance. Tira su con il naso e si dirige verso il piccolo bagno per sciacquarsi il viso. L’acqua fredda a contatto con la pelle la rinvigorisce. Si da un’occhiata allo specchio: il suo viso è tirato, la pelle bianca, eccezion fatta per le lentiggini, gli occhi sono stanchi, arrossati per il pianto – così come la punta del suo naso – e circondati da occhiaie bluastre. Nemmeno se la ricorda la volta in cui ha dormito per più di qualche ora. Anzi, può dire, essendo convinta di non esagerare, che quando è riuscita a dormire per quattro ore in una notte è stata fortunata. Quando ha iniziato a cacciare, credeva che ciò che stava facendo fosse la cosa più emozionante del mondo: combattere, salvare vite, essere un’eroina. Con il tempo, si è resa conto che cacciare ti toglie la vita. Non esiste “vita” dal momento in cui diventi un “cacciatore”. E tutto ciò lascia l’amaro in bocca. Vivere per non lasciare niente su questa terra che ricordi anche solo lontanamente il suo passaggio. Non ci saranno figli che racconteranno storie che hanno sentito da lei, non ci saranno nipoti che la chiameranno “nonna”, non ci sarà un bel niente. Quando Morte la prenderà con se, lei non lascerà un bel niente su questo mondo. Un fantasma che cammina, ecco cos’è. Una presenza assente. Qualcuno che esiste, ma che non vive.
Qualche anno fa non avrebbe mai pensato una cosa del genere. Qualche anno fa, l’entusiasmo per la vita che conduceva le usciva da ogni poro. Era sicura della sua scelta, soddisfatta anche, ma è bastata la prima battaglia a far vacillare ogni sua sicurezza. È bastato conoscere a cosa tecnicamente era destinato Sam per capire che inoltrarsi in questa vita porta solo ad una montagna di guai, dolori, sacrifici e perdite. Aveva visto questo cambiamento anche in Dean, a pensarci bene. Dean, che qualche anno fa venerava suo padre e lo vedeva come un eroe invincibile, un uomo che aveva sempre ragione, la cui parola era legge e la cui esperienza era oro colato sotto forma di parole e insegnamenti. Dean, che con il tempo ha imparato a vedere nelle parole di suo padre solo ordini e pretese, spesso troppo esagerate per l’età che aveva quando gliele imponeva. Occuparsi di un bambino quando anche Dean era ancora solo un bambino, per dirne una. Insegnargli a sparare ancora prima che potesse effettivamente conoscere la potenza di un’arma e arrivare effettivamente a comprendere che danni può comportare, per dirne un’altra. Trattarlo come un soldato e non come un figlio, per dirne un’altra ancora. Portargli via l’infanzia per inseguire un desiderio di vendetta, per aggiungere un altro punto ad una lista che potrebbe vantarne molti altri. Dean non è mai stato un bambino, mai. Questo è ciò che comporta essere cacciatori, avere dei genitori cacciatori e vivere nel loro mondo. Le età si sfasano: un giorno ti trovi sulle ginocchia della mamma che ti canta una canzone per aiutarti a conciliare il sonno, il giorno dopo la mamma non c’è più, un mostro cattivo l’ha portata via e papà – distrutto dal dolore – decide che bisogna dare la caccia alla creatura malvagia che ha fatto bruciare mamma al soffitto. Ed ecco che ti trovi a passare dall’essere un innocente bambino di quattro anni a diventare un soldatino in miniatura, pronto ad occuparsi di Sammy perché papà è troppo impegnato a inseguire i fantasmi per occuparsi dei suoi figli, che nel giro di pochissimo tempo hanno perso sia la mamma che il papà. Perché è inutile negarlo, con la morte di Mary, Dean e Sam hanno perso anche John che altro non viveva se non per la vendetta.
Non si trova mai un cacciatore che ha avuto una vita tranquilla. Non si trova mai un cacciatore che ha avuto molte gioie, durante il suo percorso.
Lei qualche gioia l’ha avuta, però.
E tutte riguardano Dean. C’erano anche Sam e Bobby, ovviamente. E May. E Jo ed Ellen. E Cas. Tutto sommato, può dire che anche se la vita le ha tolto tanto, ha ricevuto lo stesso qualcosa per cui vale la pena vivere. E, tutto sommato, anche se non lascerà un’impronta ai posteri, una specie di eredità, può dire di aver lasciato qualcosa nei presenti, o almeno lo spera. Di sicuro le persone che ama – e che ha amato e poi, purtroppo, perso – hanno lasciato qualcosa in lei.
Non c’è gloria per i cacciatori. Ma può esserci amore, speranza, voglia di lottare, combattere con le unghie e con i denti per salvaguardare quelle gioie che la vita ogni tanto concede loro. Non c’è nulla di sbagliato, in questo. Dopotutto, ha scelto questa vita e continuerà a viverla, cercando di salvaguardare ciò che le ha donato. Cercando di continuare a combattere i momenti di tristezza e di non farsi sopraffare da loro. May l’ha definita una guerriera, e forse, se lo dice May, un po’ è vero. E i guerrieri lottano con tutte le loro forze. Sempre.


Esce dal bagno emotivamente più stabile di quando ci è entrata, con meno tristezza addosso e meno pensieri tristi nella testa. Si avvicina al letto con l’intenzione di finire di sistemare il suo borsone con l’occorrente per il viaggio: nel Connecticut, a New Haven, sono stati trovati dieci cadaveri solo nelle ultime due settimane. Le vittime erano senza cuore e ridotte a brandelli, o almeno questo è quello che diceva il giornale locale. Solo un mannaro può comportarsi in questo modo e, anche se la fase lunare non coincide, non esclude che possa effettivamente essere un lupo mannaro, visto che con la presenza della Madre ogni regola che riguarda i mostri non viene rispettata. Così, se ai vecchi tempi per fronteggiare un licantropo era necessario trovarsi in quella fase lunare dove il satellite della Terra mostrava tutta la sua faccia bianca, splendente e completamente tonda, adesso basta che al lupo venga voglia di trasformarsi per dare via ad un massacro. Devono assolutamente trovarla, questa Madre, altrimenti con tutti i mostri che girano per il mondo senza controllo alcuno, rischiano di impazzire.
Un passo alla volta.
Quando avrà sistemato la bestia e sarà tornata dal Connecticut riprenderà le ricerche sulla Madre.
Si massaggia le palpebre, stanca. Inizia a farle male la testa, sente quel pulsare subdolo tipico di un’emicrania in piena regola, di quelle talmente forti che il pulsare del cuore arriva a rimbombare fino al cervello e persino respirare diventa un rumore fastidioso. Prenderà un antinfiammatorio prima di partire.
Chiude il borsone dopo aver inserito al suo interno gli ultimi vestiti. Si preoccupa di prendere la borsa del portatile, controlla che dentro ci siano sia il computer che il carica batterie – non si sa mai – e quando ha appurato che tutto il necessario è pronto, rimane ad osservare momentaneamente le due borse sul letto. Quella con le armi è già in macchina, pensa, ma ci ridarà comunque una controllata prima di partire.
Ok, tutto sembra pronto, adesso può andare a mettere qualcosa sotto i denti – visto che il suo stomaco inizia a reclamare cibo. Si dirige verso la porta per aprirla e scendere. Quando la apre, ciò che vede la lascia perplessa: sulla soglia della sua stanza trova Sam con il pugno alzato in aria – probabilmente aveva l’intenzione di bussare – e un’espressione imbarazzata sul viso; i capelli tirati dietro le orecchie.
“Ciao.” La saluta, a disagio, abbassando la mano. 
“Ciao, cosa.. cosa stavi facendo, Sam?”
“Aspettavo il momento giusto per bussare, ma poi hai aperto senza che fosse necessario lo facessi.”
Nat alza un sopracciglio, studiandolo: “Ok, d’accordo… hai bisogno di qualcosa?”
“Di parlarti. Posso?” indica la stanza alle spalle di Natalie.
“Certo, entra pure.” Si mette da una parte per farlo entrare.
Non appena mette piede nella stanza, Sam nota i bagagli sul letto: “Parti?” chiede, indicandoli.
Nat fa un cenno d’assenso con la testa: “Parto dopo aver mangiato qualcosa. C’è un mannaro a New Haven.”
“Capisco.. vuoi che veniamo con te?”
Natalie sorride: “No, Sam, tranquillo. So gestire un lupo mannaro.”
“Certo, si, lo so..” la guarda di sottecchi, lanciandole occhiate nervose per poi riabbassare lo sguardo su i suoi piedi. Si strofina le mani e le passa sui pantaloni con fare agitato. Nat non si stupirebbe se l’uomo davanti a lei iniziasse a balbettare da un momento all’altro.
“Sam, ti prego, smettila. So perché sei qui e dal tuo comportamento sembra tu ti sia arrovellando il cervello per cercare di iniziare il discorso. Ti evito la cosa e comincio io: non eri tu, intesi? Non devi sentirti in colpa di niente.”
Sam sbuffa dal naso, lasciandosi sfuggire un sorriso amaro: “Anche Dean l’ha detto, anche Bobby l’ha detto quando mi sono andato a scusare per averlo quasi ucciso, ma rimane il fatto che quelle azioni sono state fatte da me, che fossi cosciente o meno.”
Natalie si avvicina e gli afferra le mani per impedire che continui a strofinarle una contro l’altra. Se continuasse a farlo, potrebbe consumarsi i palmi.
“La differenza sta proprio lì, invece. Se tu fossi stato cosciente non avresti mai fatto quello che hai fatto. Noi lo sappiamo. Tutti noi. Lo so io, lo sa Dean e lo sa anche Bobby.”
“Rimane il fatto che voglio chiederti scusa per quello che ho fatto. Non avrei dovuto.”
“Eravamo in due, Sam. Non sentire la colpa solo sulle tue spalle. Tu, almeno, puoi dire che non eri in te. Io ero in me.” Abbassa gli occhi, distogliendo lo sguardo da quello di Sam, sentendosi profondamente in imbarazzo. È vero quello che ha detto, lei era in se e quello che ha fatto, l’ha fatto perché in quel momento voleva farlo. Quando era a pezzi e voleva cercare un attimo di pace, desiderava Sam tanto quanto lui desiderava lei. E di questo si vergogna. Si sono usati a vicenda per soddisfare i loro istinti. La differenza, era che Sam non aveva altro se non gli istinti, in quel periodo; lei, invece, ha scelto di farli uscire al posto della ragione.
“Io credo che nemmeno tu fossi in te, in realtà.”
Natalie riporta lo sguardo su di lui, incrociando i suoi occhi. Sono così diversi da quelli di Dean, si trova a pensare. Più piccoli, ma ugualmente belli, di quel colore indefinito tra il verde e l’azzurro, con qualche pagliuzza gialla. Ha sempre trovato conforto, in quegli occhi, anche quando tutto sembrava andare in pezzi. Erano gli occhi che aveva bisogno di incrociare subito dopo quelli di Dean, quando voleva assicurarsi che tutto andasse bene, che loro stessero bene. Fino a quando incrociava i loro occhi, sapeva che c’erano, che erano vivi e che erano ancora al suo fianco. Non sopporta l’idea di perderli. Nessun paio di quegli occhi. Ha bisogno, nella sua vita, di guardarsi intorno e incrociare sia lo sguardo brillante di Dean, sia quello morbido di Sam. Ha bisogno di percepirli, entrambi. E Sam ha ragione. Con la loro assenza, in quel periodo lei non era in se.
“Nel giro di pochissimo tempo avevi perso sia me che Dean. Eri scossa, a pezzi..”
“..E quando sei tornato, non ho minimamente pensato a cosa potesse essere la vera causa della tua… diversità. Pensavo fosse una conseguenza dell’Inferno e lo trovavo possibile, sai? Pensavo che anche Dean era cambiato, non vedevo perché la cosa non potesse valere anche per te.” Le trema la voce. È la prima volta che si trova a parlare ad alta voce delle ragioni per cui ha fatto ciò che ha fatto, e se deve essere sincera, pensava che davanti a lei ci sarebbe stato un altro Winchester.
“Non devo cercare scuse per quello che ho fatto. So solo che ero davvero a pezzi, mi sentivo ridotta in rovine, spezzata a tal punto da non riconoscermi nemmeno. E quando tu sei tornato, ho visto un appoggio. Certo, c’era anche Bobby e mi sono appoggiata tanto a lui, quando ha smesso di bere, ma tu… tu mi sembravi così forte. Eri tornato dall’Inferno, cacchio, e apparentemente senza nessuna conseguenza. Capisci che ai miei occhi eri la roccia più solida che esistesse e io avevo così bisogno di un appiglio a cui aggrapparmi che l’ho fatto. Nel modo sbagliato, ma l’ho fatto. Non mi perdonerò mai per come mi sono comportata, per quello che ho fatto a te e quello che ho fatto a Dean. È come se avessi inquinato il rapporto con entrambi. Ho rovinato la storia con Dean e ho rovinato la nostra amicizia. Non avrei mai voluto questo.”
Sam, d’istinto, la tira a se, abbracciandola. Nat ricambia la stretta.
“Non hai rovinato la nostra amicizia, Nat. Abbiamo fatto entrambi uno sbaglio, è vero, ma tra tutti gli sbagli che potevamo fare, questo è quello meno irrimediabile che esista. Stai parlando con me, ricorda cos’ho fatto io quando ero senz’anima.”
“Smettila di incolparti.”
“Smettila anche tu. Non hai rovinato niente. E sono sicuro che anche Dean abbia la sua buona dose di colpa, in questa situazione. Ma la risolverete. Lo so che lo farete perché voi lo fate sempre.” Le bacia la testa e Nat lo stringe più forte.
“Grazie, Sam.”
“Non ringraziarmi.”
Sciolgono l’abbraccio e rimangono in silenzio per un po’, lasciando che le loro parole volino nell’aria libere, lasciando che questa loro chiacchierata vada a ripristinare il loro rapporto, quello che c’era prima di ciò che c’è stato tra loro nell’ultimo anno, cancellando, così, effettivamente e categoricamente tutto ciò che hanno fatto insieme quando Sam era senz’anima e Nat ce l’aveva fatta a pezzi, l’anima. Perché entrambi hanno bisogno di percepire la presenza l’uno dell’altra nella propria vita, esattamente come fanno da quando erano bambini. Sam cerca Natalie intorno a se, esattamente come Natalie cerca Sam intorno a se. Senza altro coinvolgimento se non il bene puro che un fratello può provare verso una sorella e viceversa.

“Ti voglio bene, Sam.”
Il ragazzo si allarga in un sorriso sincero: “Te ne voglio anche io.”

                                                                                                  ***


New Haven, Connecticut.
Natalie entra nella camera di motel che ha affittato per qualche giorno. È arrivata dopo ventiquattro ore di viaggio. Un giorno intero chiusa in macchina inizia a farsi sentire. Quando varca la soglia, infatti, la prima cosa che fa è buttarsi sul letto – che non è per niente comodo, anzi, sembra che abbiano riempito il materasso con dei sassi e il cuscino con della ghiaia, ma per riposare qualche istante va più che bene. Rimane a guardare il soffitto, pensierosa.
E senza grande sorpresa, il suo cervello viaggia fino a Rhode Island, dove sa che i ragazzi si sono recati dopo che Sam ha ricevuto sul cellulare delle coordinate anonime. Nat si trova a sperare che non sia una strana trappola architettata per catturarli.
Chissà se sono arrivati, si domanda.
Chissà cosa stanno facendo.
Perché ti interessa? Sei qui per risolvere un caso, non per pensare a cosa stanno facendo Dean e Sam Winchester.

La voce della sua ragione sa essere estremamente brutale, quando ci si mette, ma Nat sa che deve darle ascolto. Dean e Sam se la caveranno, come sempre. Saranno perfettamente in grado di affrontare qualsiasi cosa ci sia nel Rhode Island e torneranno nel South Dakota sani e salvi ancora prima di riuscire a dire Son of a bitch – è sicura al cento per cento che questa frase uscirà dalla bocca di Dean mentre lui e Sam sono impegnati a combattere la creatura.
Non deve preoccuparsi per loro.
Forse deve preoccuparsi per come ha lasciato Dean. Si sono solo guardati senza dire una parola, lui le ha fatto un cenno con la testa che dovrebbe essere una specie di incoraggiamento, un muto e silenzioso: mi raccomando, fai attenzione.
Avrebbe di sicuro preferito un saluto come ai vecchi tempi, quando, se lei partiva per andare a risolvere un caso da sola, lui la baciava stringendola forte a se e, dopo averla lasciata senza fiato, le sorrideva e le diceva di tornare sana e salva.
Fai il culo a qualsiasi cosa ci sia laggiù e torna da me, intesi?
Era sicuramente un saluto migliore di quello che si sono scambiati prima che lei partisse.
Sospira.
Si mette a sedere sul letto, si passa una mano sulla faccia e afferra la borsa con il computer che ha lasciato ai piedi del letto appena entrata in quella stanza puzzolente e cigolante – la porta è così malandata che entrano spifferi da ogni parte e i vetri delle finestre sono così sporchi che sembrano oscurati e ogni volta che  lei cammina in quella stanza, tremano come se stesse per arrivare un terremoto.
Non poteva scegliere posto più malandato di quello in cui si trova adesso, ma poco le importa: è il primo che ha trovato e se lo farà andare bene. Prima uccide il lupo, prima torna nel South Dakota ad occuparsi della Madre.
Accende il portatile e lo tiene sulle gambe incrociate.
Osserva lo schermo invadersi di luce e poi mostrarle lo sfondo. In questo modo, si trova a guardare una foto risalente a quattro anni fa, Bobby l’aveva fatta di nascosto: aveva fotografato lei, Sam e Dean sul divano. Dean l’aveva agguantata a aveva fatto in modo che si sedesse sopra di lui, il braccio destro era intorno alla sua vita, la mano sinistra stringeva una bottiglia di birra; Sam era seduto al loro fianco, intento a raccontare qualcosa, una storia riguardante quella volta in cui lui e Nat avevano deciso di fare una scommessa contro Dean: se fosse riuscito a mangiarsi cinque hot dog di fila senza dare di stomaco, avrebbe ricevuto venti dollari. Dean, nonostante fosse riuscito a mangiarseli tutti uno dietro l’altro, non era riuscito a non vomitare, perdendo la scommessa.
Nat, ti ricordi com’era verde?
Era sudatissimo e cercava di tenere a bada i conati!

Erano scoppiati a ridere sotto lo sguardo truce di Dean, che ricordava benissimo quanto lo stomaco gli dolesse, dopo quella bravata.
Sono stato male per due giorni e voi ridete??
Dai Dean, non te la prendere! Ci siamo divertiti.
Voi vi siete divertiti, Sam.
Non fare lo scorfano brontolone,
gli aveva detto Nat, stringendogli le guance con una mano; la bocca di Dean era diventata tonda come il bocciolo di una rosa e lei gli aveva stampato un bacio sonoro, non riuscendo a resistere.
Non te la cavi con così poco.
Invece si, e lo sai.
Si è vero, lo so.

E non si sa come, non si sa perché, ma avevano cominciato a ridere tutti e tre, in preda ad un’ilarità che sarebbe stata rara nella loro vita a seguire. Ed è quel momento che Bobby ha immortalato. Quel momento di normale felicità in cui si sono trovati a ridere fino  a sentire male alle guance e alla mandibola.
È diventata una delle sue foto preferite, questa.
Si lascia sfuggire un sorriso. Le mancano così tanto. Non fisicamente, perché sotto quel punto di vista li ha lasciati solo da un giorno, ma le mancano spiritualmente. Le manca guardarli e sentirsi a casa; le manca guardare Dean e sentire quella sensazione di calore intorno al cuore; le manca guardare Sam e sapere di trovare un complice per realizzare idee stupide quali far mangiare a Dean cinque hot dog. Le manca dormire con Dean, sentire il suo corpo contro il proprio mentre l’abbraccia; le mancano le loro chiacchierate notturne dove si sentiva a suo agio anche a dirgli la cosa più stupida che le passasse per la testa, perché tanto Dean non l’avrebbe giudicata.  
Le mancano perché le manca ciò che avevano prima.
Le mancano e vorrebbe riaverli con se, come una volta.
Scaccia possibili pensieri che potrebbero trasformarsi in idee ben poco rassicuranti e clicca sull’icona di Google per cercare informazioni sul caso, ma purtroppo, al di là di ciò che ha già trovato su vecchi articoli non c’è molto altro. Probabilmente la cosa migliore che può fare adesso è cercare di riposare un po’ per riprendere energie e svegliarsi presto domani mattina, andare all’obitorio, osservare le vittime e cercare informazioni su di loro. Magari chiedere in giro informazioni anche sulla comunità, sui nuovi arrivati – di solito quando si ha a che fare con un lupo mannaro è sempre un nuovo abitante della cittadina, quello strano e introverso.
Deve sperare solo di essere così fortunata e che il caso sia effettivamente così semplice.


La mattina seguente, dopo essersi vestita con il suo completo da agente dell’FBI, essersi munita del suo distintivo e della sua pistola preferita – quella che le ha regalato Bobby a diciott’anni, con il manico nero e dei disegni astratti bianchi – Natalie sale in macchina diretta all’obitorio della città. Arriva intorno alle nove e dopo aver mostrato il suo distintivo al dottor Patrick, le viene concesso di dare un’occhiata ai cadaveri.
Sono sia uomini che donne, hanno tutti la pelle che inizia a ingrigirsi, privata dalla linfa vitale. Le loro labbra violacee sono chiuse, serrate per sempre, e i loro occhi, con le palpebre abbassate, sono circondati da aloni bluastri. Scende a guardare il petto di ogni vittima, da cui, senza che si sorprenda, il cuore è stato asportato. La cosa che le sembra strana è che l’operazione non sembra opera della furia omicida di un lupo. Al contrario, sembra un’operazione effettuata con precisione e minuzia, come se chi stesse eseguendo l’asportazione sapesse esattamente dove tagliare per estrarre il cuore al meglio, senza danneggiarlo. Non si è mai visto un lupo mannaro che esporta cuori con così tanta attenzione. Loro strappano l’organo dal petto con la furia animalesca che caratterizza la loro indole, quell’istinto lunatico che scorre nelle loro vene e fa uscire la bestia. Bestia che necessita di essere nutrita, che è così affamata che non ha il tempo di calcolare come estrarre il cuore per tirarlo fuori al meglio, l’importante è che esca dal petto e finisca nelle loro fauci – in quali condizioni, non è un problema che si pongono.
Quindi, a chi va attribuita questa carneficina?
Deve cercare indizi.
Natalie inizia a camminare tra i cadaveri, sistemati sopra ai lettini. La stanza in cui si trova è così fredda che riesce a vedere il suo respiro che esce condensato dalla sua bocca e c’è così tanto silenzio che, se non fosse per il rumore dei suoi passi, potrebbe sentire le rotelle del suo cervello che ingranano.
Osserva l’uomo alla sua destra: ha i capelli scuri, dovrebbe avere più o meno cinquant’anni, la sua corporatura è robusta. Osserva la ferita al petto: uguale a tutte quelle viste fino ad ora. C’è un modus operandi specifico nell’estrazione che fa si che essa sia uguale ogni volta che si compie l’operazione. Continua a osservare la vittima, percorre ogni parte del corpo scoperta, sposta leggermente le braccia per avere una migliore visuale del busto e non appena alza le braccia, nota ulteriori segni: ci sono dei semicerchi su entrambe le parti del busto. Sulle costole di ogni vittima ci sono due simboli che si guardano, come se fossero due c rivolte una verso l’altra che rimangono divise dallo spazio occupato dalla pancia.
Questo non è certo il comportamento di un lupo mannaro.
Fotografa le sue nuove scoperte e si incammina verso l’uscita dell’obitorio: deve fare un salto in biblioteca.



Non ha trovato un bel niente. Nada, nisba. Zero come la farina.
Ha cercato in ogni dannatissimo libro esistente nella biblioteca locale e nessuno di questi ha saputo dirle niente su quegli strani simboli. È sicura che si tratti di un rito, come se fosse una specie di rito sacrificale. Ma per chi? E perché adesso? Che schema segue? Come sceglie le sue vittime??
Nella sua testa vorticano un milione di domande a cui non sa dare risposta, e il suo istinto di cacciatrice inizia a scalpitare frustrato. Odia quando non ha la situazione sotto controllo.
Mentre si avvia alla macchina compone il numero di Bobby sul cellulare e fa partire la chiamata. Nemmeno due squilli e la voce del cacciatore le invade l’orecchio.
“Bimba.”
“Non è un lupo mannaro.”
“Come no?”
“No. Ci sono dei segni sulle costole e il cuore è stato esportato con troppa calma. È un’operazione minuziosa e scrupolosa, estranea alla natura dei lupi.”
Bobby rimane un attimo in silenzio ad elaborare le informazioni ricevute: “E quindi cosa pensi che sia?” chiede, pochi istanti dopo.
“Non ne ho idea. Ho cercato quei simboli in ogni libro esistente nella biblioteca locale, ma non ho trovato un fico secco. Potresti darmi una mano?”
“Certo, descrivimi i simboli, magari nei miei libri trovo qualcosa.”
“Ho fatto delle foto, ti mando quelle. Accendi il tuo catorcio.”
“Non parlare in questo modo del mio computer, signorinella!”
Nat ridacchia: “Dobbiamo metterci in mente di andare a comprarti un computer più tecnologico. Un portatile, magari.”
“Non se ne parla! Mi trovo benissimo con questo!”
“D’accordo, d’accordo. Non ti scaldare. È acceso?”
“Si, mandami tutto.”
Nat mette in pausa la chiamata per aprire la galleria della foto sul cellulare e quando arriva a quelle che le interessano le invia a Bobby tramite email.
“Inviate.”
“D’accordo. Ci lavoro su. Ti chiamo appena trovo qualcosa.”
“Grazie Bobby.”
“Fai attenzione, intesi?”
Fai il culo a qualsiasi cosa ci sia laggiù e torna da me, intesi?
Bobby e Dean sono più simili di quanto si possa ammettere. Si dice che ogni ragazza si innamora di un uomo molto simile al padre, per via del fatto che il papà è il primo uomo con cui hanno a che fare, una sorta di modello che plasma nella testa delle ragazze un’idea ben specifica di come devono essere gli uomini. E con lei, beh, con lei è andata così. Si è innamorata di uomo che assomiglia tremendamente alla sua figura paterna.
“Intesi.”
Bobby chiude la chiamata e lei sale in macchina, diretta verso il suo motel.


Natalie parcheggia l’auto che ormai è sera. Il suo motel è molto fuori città e quindi per raggiungerlo ci vuole un’ora buona, quindi dopo aver finito le sue ricerche, ha deciso che era meglio mangiare, prima di tornare nella sua stanza.
Si era fermata in un pub pieno di gente che trasmetteva musica rock anni ’80, profumava di legno e nell’aria iniziava ad aleggiare l’odore di fritto e carne alla griglia. Il suo stomaco aveva reagito a quell’odore brontolando sonoramente. Natalie aveva una fame terribile.
Si era seduta in un tavolo a parte, aveva ordinato hamburger e patatine fritte. Aveva mangiato tutto con calma, guardandosi intorno, per studiare l’ambiente. Quando aveva notato che dietro al bancone del bar erano appese le foto delle vittime, si era avvicinata e, con la scusa di ordinare una birra, aveva fatto domande su di loro.
La barista, una ragazza assai avvenente, alta, bionda e con due strepitosi occhi azzurri – e un altro tipo di occhi altrettanto evidenti, quelli che, se ci fosse stato, avrebbero spinto Dean a fare il cascamorto – l’aveva accolta con un sorriso ed era stata più che felice di darle una mano.
Erano nostri clienti, sai? Tutti loro. Mi sono affezionata tantissimo e perderli è stato come perdere un po’ di questa comunità.
Posso immaginare. Mi dispiace davvero tanto. Sai se avevano dei nemici, o dei conti in sospeso con qualcuno?

Le domande erano state parecchie, ma a quanto pare, nessuna delle vittime aveva dei nemici che avrebbero potuto spingerli ad ucciderli e non avevano nulla in comune, se si toglie il fatto che vivevano nella stessa città e frequentavano lo stesso bar. Che non è nemmeno una cosa così strana, visto che quel pub è l’unico presente nel centro città.
Natalie sbuffa, frustrata, scendendo dalla macchina e avviandosi alla sua stanza. Intorno a lei l’oscurità è calata, il sole se n’è andato e con lui sembra anche tutti i rumori: Nat è circondata da un silenzio tombale.
I suoi pensieri le arrovellano il cervello e si maledice mentalmente per aver sottovalutato il caso: se l’è tirata, ecco cos’ha fatto. Si è portata sfiga da sola. Ha pensato che sarebbe stato un caso semplice da risolvere e invece, nonostante sia qui da quasi un giorno intero, non ha la minima idea di che cosa potrebbe essere la cosa che uccide le persone. Per di più Bobby non ha ancora chiamato.
Tira un lungo sospiro.
Continua a camminare – perché il parcheggio le sembra infinito? – quando alle sue spalle sente dei rumori. Inizialmente non ci fa caso, pensando che molto probabilmente è normale che in un parcheggio di un motel ci siano altre persone, oltre a lei. La preoccupazione inizia a farsi strada quando si rende conto che quei rumori sono dei passi e che quei passi sono proprio dietro di lei: qualcuno la sta seguendo.
Accelera il passo cercando di entrare il prima possibile nella sua stanza, ma una voce la chiama.
“Aspetta! Ti prego, aspetta!”
Nat si ferma e si volta verso la voce. È un uomo. Avrà più o meno trent’anni, è alto, ben piazzato, con un fisico atletico. Si avvicina a lei a passo svelto per raggiungerla. Natalie lo osserva e nota che i suoi occhi sono neri come la pece e sul sopracciglio sinistro ha una cicatrice che si allunga fino alla guancia, evitando l’estremità dell’occhio per un soffio.
“Ferita di guerra. Combattimento corpo a corpo. Sono stato fortunato.” Dice l’estraneo, notando l’interesse della cacciatrice per quella ferita ormai rimarginata.
“Scusi, io non volevo.. m-mi dispiace.”
“Non preoccuparti. Dammi del tu, ti prego.”
“D’accordo, come devo chiamarti? E perché mi stavi seguendo in un parcheggio?”
“Sono Liam. Ero al pub e ho sentito che parlavi con Mandy delle vittime. Sei un’agente, non è vero? Avrei delle informazioni da darti.”
“Si, sono un’agente federale. Ottimo, più informazioni ho più riesco a capirci qualcosa.” Natalie estrae dalla tasca della sua giacca una penna e un taccuino con i fogli gialli.
“Avanti, dimmi pure.”
Liam inizia a guardarsi intorno con fare circospetto, come se fosse nervoso riguardo a qualcosa, come se ci fosse qualcosa che non va.
“Va tutto bene?”
Rimane in silenzio per qualche istante e ciò fa si che in Natalie si svegli il suo istinto di cacciatrice. Improvvisamente si sente una preda. Improvvisamente ha l’impressione che questo ragazzo non sia qui per darle delle informazioni, ma per trarla in inganno. Deve fuggire immediatamente.
Non fa in tempo ad indietreggiare, però, che lo sconosciuto le sferra un pugno. Nat riesce ad evitarlo, abbassandosi velocemente, ma Liam è addestrato – probabilmente l’unica cosa vera che le ha raccontato è come si è fatto quella cicatrice – e le sta già sferrando un altro pugno che la colpisce in pieno viso facendola barcollare.
“Chi sei??” gli grida contro, mentre tenta di ripristinare il suo equilibrio.
“Qualcuno che non apprezza la tua presenza qui, cacciatrice.” L’uomo si apre in un sorriso famelico che le fa venire i brividi. Nat scaccia via quella sensazione di inquietudine e corre incontro all’uomo che, vedendola arrivare nella sua direzione, l’afferra al volo e la fa ruotare sopra la sua testa lanciandola nella direzione opposta a quella in cui la cacciatrice proveniva. La botta alla schiena è così forte che le mozza il respiro. La vista le si annebbia e per un attimo rimane sorda.
“Non ci piacciono quelli come te, cacciatrice.” Dice l’uomo, piegandosi sulle ginocchia e guardandola dall’alto con fare derisorio.
“E a me non piacciono quelli come voi!” ringhia Nat in preda alla frustrazione e alla rabbia. Stava barcollando nel buio, non sapeva contro chi stava combattendo, non sapeva niente riguardo a chi stesse cacciando e adesso, il figlio di puttana si è materializzato alla sua porta e la prende pure per il culo. No, non ci sta.
Con uno scatto veloce, afferra la testa del suo avversario e gli piazza una testata ben assestata sul naso. Liam – sempre se quello sia il suo effettivo nome – preso alla sprovvista, si porta le mani al naso e cade all’indietro. A quel punto Nat, con uno scatto felino, lo raggiunge e si mette a cavalcioni su di lui, tenendo la gola dell’uomo fra le sue cosce.
“Dimmi chi sei e cosa sei.”
Osserva il viso dell’uomo che tiene stretto fra le sue gambe diventare sempre più viola mano a mano che lei stringe la presa. Le viene da pensare che così facendo morirà soffocato ancora prima che sappia tutta la verità sulla carneficina, ma poi, un pensiero razionale si fa strada in lei: è una creatura, l’ha ammesso lui stesso, e non esiste al mondo che sia così facile farlo fuori.
“Parla!!!” grida, piena d’ira.
Ma Liam anzi che proferire parola comincia a ridere, facendosi ancora più beffe di lei.
“È troppo tardi, cacciatrice. Ormai sei sua.”
Natalie non fa in tempo a chiedere nulla riguardo a quell’ultima frase perché un colpo secco dietro alla nuca le fa perdere i sensi e nel giro di poco tempo, il mondo diventa buio.



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Salve gente! Sono in un ritardo pauroso, lo so e per questo chiedo venia! Sono stata senza computer e quando l'ho riavuto l'ispirazione mi aveva abbandonata e tutto ciò che scrivevo non mi piaceva un granché, quindi anche se avevo la storia in testa non mi piaceva come veniva fuori! 
Comunque, venendo al capitolo.. è molto incentrato su Nat, e spero che questo non vi dispiaccia o vi abbia deluso (soprattutto in cui la parte lei e Dean parlano - fatemi sapere cosa ne pensate!)
In teoria, questo doveva essere l'ultimo - quando ho iniziato a scrivere la storia, avevo in mente di svilupparla in quattro capitoli, ma poi mi sono allungata senza che me ne rendessi effettivamente conto, quindi ho pensato di estenderla a sei, ma.. a quanto pare mi sono allungata di nuovo un po' troppo e quindi ho pensato di dividere l'ultimo capitolo in due parti, quindi ce ne sarà un settimo che non ho idea se sarà lungo come i precedenti o un pochino più corto,vedrò mentre lo scriverò! 
Mi sono dilungata tantissimo e spero di non avervi annoiati! 
RIngrazio chi legge, chi recensisce, chi segue e chi mette la storia tra i preferiti. Significa molto sapere che c'è qualcuno che apprezza questa storia! 
A presto (spero), <3 

Ps: "Non fare lo scorfano brontolone" va attribuita a Dory, di "Alla ricerca di Nemo" :) 

 
   
 
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