La Fuga
A |
ffacciata alla
finestra, Sansa
osserva Petyr attraversare la strada, il passo leggermente ciondolante,
l’aria
furba che non lo abbandona mai.
Sospira, pensando a cosa ne sarebbe
stato di lei senza l’amico di sua madre, ora suo zio
acquisito, se non fosse
intervenuto lui un paio di giorni prima. È stata davvero una
stranissima
coincidenza: quante probabilità potevano esserci al mondo di
incontrare proprio
lui sulla strada di casa?
Sansa si morde l’unghia del pollice,
guarda le auto fermarsi davanti alle strisce pedonali, lui che si
allontana
verso il parcheggio.
Ha quasi voglia di chiamarlo.
Se non fosse che non può farlo… Il
cellulare è rimasto a casa di Joffrey, e lei non conosce
nemmeno il numero di
Petyr. E poi, cosa direbbe Lysa se sapesse che si sentono al telefono?
«Vieni,
cara» la voce di sua zia
sembra arrivare da lontano, quasi come se avesse udito i suoi pensieri.
«Vieni
di là con me, ci sono dei pasticcini al limone.»
Sansa la raggiunge a passo svelto,
con il sorriso di chi comincia a fidarsi.
In fondo, che male potrà mai farle
Lysa? È pur sempre sua zia.
«Li adoro» confessa, lisciandosi
l’abito verde preso in prestito dall’armadio.
Attraversano la
sala, sua zia le
prende la mano, Sansa lancia una veloce occhiata a Robin, impegnato con
qualche
videogioco, cuffie nelle orecchie e occhi fissi sullo schermo.
Sta facendo una strage di nemici, il
sangue virtuale vola ovunque, mentre lui grida da vincitore.
«Lasciamolo giocare» dice Lysa,
tirandola verso la cucina.
Non ha le mani morbide come sua madre,
ma di più… sono unte di crema, un po’
viscide, ed estremamente calde.
«Siedi
qui, vicino a me.»
Una sedia viene spostata per Sansa,
una sedia rivestita di paglia, su un pavimento azzurro cielo.
Ci sono diversi banconi intorno a
lei, tutti dello stesso colore, e un tavolo guarnito di fiori e frutta.
I
dolci, che lei tanto adora, fanno la loro figura al centro della
tovaglia,
sopra il disegno di un’aquila in volo.
«Anche tua madre li adorava» racconta
Lysa, vedendo Sansa prenderne uno. «Da piccola non faceva
altro che ingozzarsi
di dolci… Se non si fosse sposata con tuo padre di certo
sarebbe diventata una
balena.»
Sansa si lecca
il dito, posa il dolce
sul tavolo con aria colpevole.
Sua madre una balena? Impossibile.
Catelyn era come un giunco e lei non
l’ha mai vista mangiare un dolce.
«Davvero,
zia? Quando la mamma era
viva, lei…» le fa ancora male parlarne, ma in
fondo si tratta di sua zia, chi
potrebbe capirla meglio di Lysa? «Lei non ci lasciava
mangiare molti dolci,
giusto una volta a settimana, la domenica. Diceva che potevamo
integrare lo
zucchero con la frutta.»
Lysa alza gli occhi al cielo,
sorridendole.
«Le manie rigide e salutiste di tuo
padre!» critica la zia, sporgendosi in avanti, come per
invitarla a continuare.
Lei accavalla le gambe sotto il
tavolo, tamburella le dita come su una tastiera, è tentata
di riprendere in
mano il dolce al limone. Ma non lo fa, si limita a fissarlo.
«Sì» ammette Sansa, lanciando una
veloce occhiata a Lysa. «Papà era un po’
severo in queste cose… Ma non ci ha
fatto mancare mai niente, lui… mi manca. Mi manca tanto,
zia.»
Lysa posa la mano sopra la sua,
gliela stringe concedendole un sorriso colmo di tenerezza.
«Lo
so, mia cara… Lo so» sussurra con
fare materno e, per un momento, a Sansa sembra di riconoscere la voce
di sua
madre. Ma non è lei. «Anche a Robin manca suo
padre. È un ragazzo così dolce!
Meraviglioso.»
Lei risponde con un sorriso. Non sa
cosa dire, non conosce suo cugino, non sa come sia. Ma è in
casa sua, ora, non
può certo negare quanto sta dicendo sua zia.
«Sarà fortunata la donna che lo
prenderà» dice lei, sapendo che è
ciò che sua zia vuole sentire.
«Proprio così, Sansa. Molto
fortunata.»
Non sa perché, ma le è dispiaciuto
cambiare argomento, smettere di parlare dei suoi genitori. Sperava,
forse, che
Lysa le dicesse qualcosa di nuovo?
Che li facesse rivivere, seppur per
un solo istante?
«Puoi
prenderlo» continua la zia,
facendo un cenno verso il dolcetto. Le sta ancora accarezzando la mano,
ma
Sansa vorrebbe che smettesse. «Puoi mangiare tutti i dolci
che vuoi. Robin non
ama il limone.»
«Piacciono a te, zia?»
«Nemmeno.»
La voce di Lysa
si è fatta più dura,
come se avessero toccato un argomento scottante. Sansa si chiede perché abbiano comprato quei
dolci senza
l’intenzione di mangiarli.
Le dita di sua zia afferrano le sue,
la presa si stringe appena, ma Sansa avverte qualcosa che non va.
«Li ha comprati Petyr» spiega Lysa,
guardandola fisso negli occhi. Ha una voce stranamente dolce,
stranamente dura,
come se stridesse sull’acciaio. «Stamattina.
Apposta per te.»
È gelosa.
Non ci voleva un genio per capirlo,
eppure Sansa, per un momento, ha creduto che sua zia potesse volerle
bene, che
potesse voler trascorrere qualche minuto con lei, a parlare di sua
madre.
«Petyr è… molto gentile.»
Non sa cosa rispondere, sente la mano
di Lysa stringere forte la sua, come se non potesse sfuggirle.
«Sì, Sansa. Come mai?»
Muove leggermente il polso, cercando
di liberarsi, di farle capire che non le piace quel contatto, che vuole
essere lasciata
in pace, che non ha più intenzione di restare lì,
in cucina, sola con lei.
«Cosa?» chiede, facendo pressione
sulle dita per liberarsi.
«Come
mai Petyr è così gentile con
te?»
Ha paura, Sansa
ha paura. Non ha idea
del perché Petyr passasse da quelle parti, perché
le abbia offerto di salire in
macchina. Non sa come mai sia sceso di prima mattina a cercarle dei
dolci al
limone. Vuole solo essere lasciata in pace. Perché Lysa non
riesce a capirlo?
«Sono tua nipote» tenta infine, sentendo
la mano di sua zia uguale a un artiglio nella pelle. «Lo
avrà fatto per questo.
Per l’affetto che…»
«Tua
madre ha cercato di portarmelo
via» racconta Lysa, piantando le unghie nella carne.
«Mi stai facendo male… Zia, per
favore…»
«Eravamo solo ragazze, Petyr moriva
dietro a lei, ma Cat era troppo orgogliosa per volerlo. Credeva di
meritare di
più» Lysa le afferra il polso con
l’altra mano, si avvicina tanto, troppo, e
Sansa sente il cuore battere all’impazzata. «Ma
c’ero io a consolarlo, povero
Petyr… Io. Quando la tua cara madre si è accorta
di me e Petyr… beh, voleva
raccontare tutto a nostro padre. Ha parlato con lui, gli ha chiesto di
lasciarmi.»
Adesso, la
tensione che corre nel
braccio di Sansa le fa sentire dolore. Le gira la testa, non riesce a
capire
cosa sia successo, vorrebbe solo andarsene, abbandonare quella casa,
non vedere
mai più sua zia.
«Per favore…» tenta ancora,
ricordando il modo in cui Joffrey le stringeva i polsi per farle del
male. Del
modo in cui la teneva ferma per i suoi comodi, mentre le lacrime
scorrevano sul
suo viso udendo la risata crudele di lui.
«Capisci?! È stata lei! È stata Cat a
dividerci!»
Lysa ha preso a
gridare sul suo viso,
il terrore dilaga fuori dagli occhi di Sansa.
«Ti prego! Lasciami, zia!»
«E adesso arrivi tu, proprio ora che
possiamo finalmente stare insieme. Perché sei venuta qui,
perché? Lo vuoi per
te, vero? Sei la sua amante?»
Non sente più la mano, solo tanto
dolore, mentre con l’altra cerca di liberarsi. Fa per alzarsi
in piedi, la
sedia cade sul pavimento, ma Sansa nemmeno se ne accorge.
«No,
no!» grida, in lacrime. «Cosa
dici? No, zia! Non è così! Per lui sono solo una
stupida ragazzina! Ti prego,
basta! Lasciami! Dice sempre che sono stupida, che ama te, che ha
sempre voluto
te! Per favore…»
In un istante si ritrova stretta tra
le braccia di Lysa, non riesce a trattenere i singhiozzi, mentre la
mano di sua
zia le accarezza i capelli. Sansa vorrebbe non sentirla, non saperla
vicina, ha
solo paura.
Ω
La casa di
Joffrey è in una zona
residenziale.
Bei giardini, case grandi, e l’enorme
palazzo dove Sansa divideva l’appartamento con lui.
Petyr si
appresta ad avvicinarsi al
portone, quando lo vede: il Mastino.
Fa la guardia, proprio come un cane.
Ha il volto sfregiato, i capelli lunghi che tentano in qualche modo di
coprire
quella cicatrice, il corpo alto e muscoloso di un buttafuori. Le
braccia
incrociate sul petto, un lieve accenno di barba, sicuramente mirato a
coprire i
segni sul viso.
Anche uno stupido capirebbe che è
partito tutto da un’idea di Cersei: lei ha sempre creduto di
poter comandare
gli altri a bacchetta, Petyr lo ricorda bene, anche lui ha lavorato per
quella
donna.
Bellissima e spietata, sempre attenta
a tutto ciò che succedeva.
Lascia la
macchina parcheggiata per
strada, segue il marciapiede rosso, raggiunge l’entrata del
palazzo.
«Clegane!» esordisce Petyr con un
sorriso, allargando le braccia. «Sempre di guardia?»
«Baelish…» La voce del Mastino
stride, i denti si digrignano quando lo vede. «Che ci fai
qui?»
Bambini che gridano correndo alle sue
spalle gli lasciano il tempo di pensare a cosa rispondere. Si gratta la
tempia,
facendo un passo avanti.
«C’è
Joffrey? Dovrei parlargli.»
Sandor solleva
una mano per fermarlo,
ha il volto di un cane rabbioso. Sposta il peso da un piede
all’altro con fare
nervoso.
Non è mai stato un tipo paziente,
Petyr lo ha sempre saputo.
«Dovremmo farci una bevuta, io e te…»
mormora lui, come a dirgli che sa benissimo di quanto spesso si
ubriachi. «Che
ne dici?»
Altro silenzio, il Mastino sembra
pronto ad afferrarlo con i denti pur di farlo girare indietro.
Petyr capisce che non c’è modo di
farlo spostare da lì, non può portare Sansa a
casa, farglielo incontrare. Sa
che Sandor la porterebbe dritta da Joffrey, che gliela consegnerebbe
come un
cane che riporta l’osso al padrone.
Fa per voltarsi
indietro, pronto a
tornare a casa, quando la voce raschiante del Mastino lo ferma.
«Magari telefona la prossima volta.»
È una battuta, e il sorriso orrendo
di Sandor è la più chiara delle minacce.
Il sole mette in risalto le
cicatrici, i capelli scuri che cadono a ciuffi per coprirli…
Petyr sorride e se
ne va.
È
tentato di chiamare Varys, di
chiedergli come fare per “comprare” il Mastino, ma
si risponde da solo: non è
in vendita.
Quel poco di dignità che poteva avere
è andata a Cersei Lannister, secoli prima.
È troppo tardi per conquistare la
fedeltà di un cane. Può solo tornare a casa,
sperare che Sansa capisca, che
decida di richiedere nuovi documenti, che accetti di farsi comprare un
nuovo
cellulare.
Raggiunge l’auto con passo sicuro,
svelto, apre la portiera senza guardarla nemmeno, i pensieri rivolti
altrove.
A una donna che non vedrà più, se non
negli occhi di sua figlia.
Mette in moto,
guida per un terzo
della città prima di raggiungere casa. Spera che Lysa gli
lasci un minimo di
privacy con Sansa, che non si ingelosisca ancora, che non minacci di
nuovo di
buttarla fuori dal loro appartamento.
Dopotutto, il piccolo attico è anche
suo, ora.
La divisione dei beni è stata
sufficiente a fargliene acquisire la proprietà.
Sistema la giacca di pelle scendendo
dall’auto, cammina per un breve tratto prima di ritrovarsi
davanti alla porta
di casa. Ha usato l’ascensore, come sempre, e ora
è pronto a infilare la chiave
nella serratura.
Ma non ce n’è bisogno…
La trova aperta,
socchiusa di due
dita appena.
«Lysa?» chiama, chiedendosi cosa
possa essere successo durante la sua assenza.
«Robin?»
Attraversa l’ingresso: un’unica,
enorme, vetrata che si affaccia sulla città. Nel salotto, il
suo figlioccio sta
giocando a un videogame, Lysa è sdraiata sul divano dietro
di lui, intenta a
ricoprire di smalto rosso le unghie dei piedi.
«Ho trovato la porta aperta.»
Lei non solleva nemmeno gli occhi,
alza le spalle, come se non le importasse, come se non fosse affar suo.
«Dov’è
Sansa?»
Quando Lysa lo
fulmina con lo
sguardo, Petyr capisce che è successo qualcosa in sua
assenza.
Corre in corridoio, trova la camera
aperta, vuota, la finestra spalancata e le tende che si muovono come
onde del
mare. Ma lei non c’è.
Petyr controlla in ogni stanza, bussa
anche in bagno, prima di aprire per vedere se è
lì.
Non c’è traccia.
«Dov’è
Sansa?»
Stavolta lo chiede con voce dura,
stringendo la mano a pugno.
Lysa è capace di tutto, anche di
averla buttata giù dalla finestra. È pazza,
malata, e questo, Petyr lo ha
sempre saputo. Ma aveva bisogno di lei… Aveva bisogno delle
sue terre, dei suoi
soldi, dell’influenza che ha Lysa su certi uomini di potere.
«Perché
la vuoi tanto?» squittisce
sua moglie. Ha le lacrime agli occhi, il pennellino ancora in mano che
cola
smalto sul divano. «È solo una ragazzina,
Petyr!»
C’è
corrente, ora.
La finestra della camera di Sansa e
quella del bagno, con le porte aperte, hanno fatto entrare troppa aria,
e Petyr
deve sistemarsi i ricci prima di parlare.
Si avvicina, si inginocchia sul
tappeto davanti a Lysa, le sfiora la spalla.
«Ho sposato te, non lei.»
«A volte sembri dimenticartene.»
«Un
amico mi ha chiesto di
prendermene cura… Non mi importa nulla di Sansa.»
Lysa gli sorride, docile.
Sembra pronta a baciarlo, così Petyr
si tira in piedi, aspettando che gli dica quanto vuole sentire.
Cos’ha fatto a Sansa?
«Non
lo sapevo… Non mi dici mai
niente.»
Petyr trattiene
il disprezzo per sé:
è sempre stato bravo in questo.
Muove una mano per chiederle di
continuare, girando attorno al divano, ma Lysa non sembra intenzionata
a
sbottonarsi tanto facilmente…
Teme il peggio, eppure rimane
impassibile, grattandosi la tempia e aspettando che sua moglie si
decida a
dirgli la verità.
«Abbiamo
parlato» confessa Lysa,
evitando i suoi occhi. «Lei ha detto qualcosa e…
è andata via.»
«Di cosa avete parlato?»
Lysa muove la testa da una parte
all’altra, come se non riuscisse a ricordare.
«Cos’ha detto? Dov’è
andata?»
Petyr conosce già la risposta, eppure
è da sua moglie che vuole sentirla.
Non sembra
intenzionata a dirglielo.
Robin non si è accorto di nulla, con
le cuffie nelle orecchie e il volto piantato nel televisore. Indossa
ancora il
pigiama e ha il mento sporco di latte.
Le gambe di Petyr lo conducono alla
porta. Esce senza dire una parola.
È
bastato dire a Lysa di volersene
andare per ricevere dei soldi per il taxi.
Sansa non ha dovuto nemmeno
chiamarlo… Nel momento stesso in cui ha raggiunto il
marciapiede, ecco un’auto
gialla arrivare nella sua direzione.
Non si sente più coraggiosa, solo…
non le importa.
Ora come ora non le importa di cosa
dirà Joffrey, non le importa di cosa le farà. Le
basta andarsene, recuperare i
documenti, il telefono e i soldi sufficienti per raggiungere Robb a
Londra.
Ha pensato di andare da Jon, a nord,
ma è bastato un minuto per capire che era un’idea
stupida.
Sansa odia il freddo, ha seguito il
suo fidanzato nel caldo sud apposta…
Mentre il taxi
prosegue la sua corsa,
lei ripensa a Petyr: cosa dirà di lei?
Ormai non manca molto. Riconosce gli
ultimi isolati prima del palazzo, le case con giardino, i bambini che
corrono
gridando per strada. Il verde degli alberi che, per un momento, la
riporta al
bosco dove è stata con Petyr, dove lui l’ha
baciata…
Dove l’ha consolata per il suo
futuro, dove le ha promesso di occuparsi di lei. Sempre.
«Arrivati.»
Il tassista si volta per prendere i
soldi, la guarda uscire dall’auto, ma non dice nulla sul
livido giallastro che
ha sul viso: ha fatto presto a cambiare colore…
Ma è ancora in bella vista. Sansa lo
sa.
Quando scende
dal taxi sente le gambe
tremare: c’è il Mastino davanti al portone.
L’uomo orrendo dal volto sfigurato,
che non sorride mai, la cui sola voce basta per metterla a disagio.
È vestito
di nero, appoggiato con la schiena al muro rosso, le braccia incrociate
sul
petto.
Anche lui la vede.
Ed è qualcosa che la uccide dentro.
Improvvisamente, Sansa non ha più voglia di proseguire,
vorrebbe solo voltarsi
e fuggire, ma non riesce a muoversi, ha i piedi inchiodati a terra, le
braccia
ancorate al corpo.
Potrebbe mettersi a gridare, agitare
le mani e attirare l’attenzione.
Ma non ci riesce.
È come se qualcuno avesse tolto il
volume dalla sua bocca, come se le avesse tolto ogni energia.
E quando vede
Sandor fare alcuni passi
verso di lei, si sente perduta.
«Uccelletto» dice lui, sovrastandola
con la sua altezza. «Non dovevi tornare.»
Sansa sente la
mano possente di lui
accompagnarla verso il portone, ma le è tutto
così estraneo adesso… Come se non
lo stesse vivendo davvero, come se qualcun altro stesse per subire
quanto
toccherà a lei.
«Ti prego» mormora con voce
supplichevole. «Non portarmi da lui…»
Sta per
piangere, ma qualcosa la
trattiene: la speranza che il Mastino non sia il mostro che ha sempre
creduto.
Sì, forse ha capito il motivo per cui
è tornata… Forse la sta solo scortando dentro
l’appartamento, così che possa
riprendere quanto le serve e fuggire via.
Forse, pensa ancora Sansa, Joffrey
non è in casa.
Sandor sa cosa le ha fatto… Non può
voler vedere altri segni sul suo viso, non può voler sentire
altre grida, altre
suppliche. Non sarebbe umano.
«Non
dovevi tornare» ripete il
Mastino con voce dura.
Sembra arrabbiato, la tira per il
braccio, la sua presa è salda, eppure non la sta stringendo,
non le sta facendo
male. E con il fisico che ha, basterebbe davvero poco per distruggerla.
«Cosa ti è saltato in mente?»
Sansa non riesce
a rispondere… Si
chiede come abbia potuto essere così stupida, cosa le sia
passato per la testa
quando ha abbandonato il rifugio sicuro che era Petyr.
Lui non le avrebbe fatto del male.
Non l’avrebbe riconsegnata a Joffrey…
Lui voleva solo aiutarla.
«Per
favore…» sussurra ancora lei,
spingendo la mano di Sandor con la sua.
È ruvida e fredda come il ghiaccio,
eppure, nello sguardo di lui, Sansa riconosce qualcosa che è
abituata a vedere
da tutta una vita.
Qualcosa che ha spinto Joffrey a
essere geloso, qualcosa che la fa sentire indifesa davanti a un uomo.
Qualcosa
che ha letto anche negli occhi di Petyr.
Desiderio.
Note
dell’autrice:
Grazie
per aver letto anche questo capitolo!
E
vorrei ringraziare un paio di persone per avermi aiutata a cercare la
musica
per un altro video su Sansa e Petyr (stavolta non moderno): Rita e
Fabio.
Grazie di cuore! Rita mi ha fatto un elenco completo di musiche
perfette per un
video… fino a trovare quella giusta!
Spero
di leggere presto le vostre impressioni.
Celtica