Persa nel vuoto
Il
freddo dell'acqua penetra nella mia pelle e m'intorpidisce i sensi, ma non
cerco di sottrarmi a quella stretta soffocante. In questo momento non
m'interessa, non più.
I miei piedi tuttavia si dibattono mossi da quella che forse è l'ultima parte
viva di me, una fiamma di speranza che bruciando con veemenza scalda il mio
corpo scosso dai brividi. Eppure non arriva a graffiarmi il cuore, ormai
annoiato dal frenetico battere.
Non ha senso vivere nel modo in cui ho vissuto io, se la mia esistenza si può
considerare tale. Esistere e vivere, due termini che spesso le persone
confondono.
Esistere è semplice, può farlo chiunque: si tratta solo di un susseguirsi di
azioni disposte disordinatamente sulla linea del tempo. La frazione tra il nostro
primo e ultimo contributo al mondo è denominato esistenza.
Vivere è diverso, è di più.
Vivi quando riesci a godere del soffio del vento sulla pelle.
Vivi quando semplicemente alzandoti al mattino rendi felice qualcuno.
Vivi quando accetti di essere mantenuta in vita e ciò ti basta.
Se potessi esprimere un ultimo desiderio, chiederei di vivere anche solo per un
secondo. Provare per un istante quell' ebrezza di cui io non sono lontanamente
degna.
Questo è il mio ultimo pensiero, prima che il vuoto gelido mi trascini nel suo
mondo, forse non così diverso dal mio.
Mi
risveglio in una stanza bianca. Non potrei descriverla in altro modo. Armadio
bianco, scrivania bianca, lenzuolo bianco. Quel candore accecante pare voler
sottolineare il mio animo sporco. Il mio animo da assassina.
Avevo rincorso la morte per anni senza mai afferrarla e, proprio quando meno me
lo aspettavo, mi era stata offerta l'occasione. Un lavoro sottopagato in una nave
da crociera, qualche ore con quello scomodissimo grembiule e l'equilibrio donatomi
dalla danza classica tanto tempo fa. In fondo sono passati appena cinque anni,
non di più; quella parte spensierata del mio passato però è così distaccata dal
resto da risultarmi estranea.
Mio padre allora era Mr. Marlowe Quickle, ricco imprenditore dell'impero delle
automobili Quickle. Poi arrivò la concorrenza, la sua rovina. Le vendite
iniziarono pericolosamente a calare e mio padre iniziò a passare le notti
insonni, divorato dalla pressione cui era sottomesso. Lo vedevo ripetere
febbrile al telefono sempre la stessa frase "Andrà tutto bene, tutto
bene."
Io gli credevo ma riuscivo a percepire l'incertezza nella voce nonostante la
mia ingenua età.
Poi un giorno crollò e, quello che sui giornali definirono l'epico finale di
una delle industrie più potenti del mondo, segnò la nostra fine. Mio padre
smise di lavorare e cadde in un vortice da cui non si riprese mai più.
Rimembro poco della sua trasformazione, preferisco distanziare il prima dal
dopo.
Molti preferiscono pensare che tra il bene e il male ci sia una via di mezzo,
semplicemente per giustificare innocui atti maligni. Invece tra il nero e il
bianco non c'è il grigio, il grigio è un altro colore. Se si mescolano tra loro
si ottiene ma non vuol dire che esso sia un intermediario tra i due. Significa
solo che quei due colori opposti possono essere racchiusi in un'unica cosa.
Eppure quando si ferisce qualcuno volontariamente, si è neri; quando si cede il
posto in autobus a una vecchietta, si è bianchi. Sono due momenti differenti,
non si può giustificare l'uno con l'altro.
Io ieri, se davvero è passato soltanto un giorno, ho ucciso una persona. La
concorrenza che ha aperto il rapporto di mio padre con l'alcol. La concorrenza
che ha distrutto le mie sicurezze.
E questa portava il nome di Ector Scream.
Sono certa di averlo avvelenato, di aver visto la vita scivolargli tra le dita
sottile come granelli di sabbia. Sono certa di essermi fermata a guardare
soddisfatta il suo corpo agonizzante.
Sono certa di essere stata nera e di non poter più cambiare l'inevitabile
realtà.
Rido amaramente di me stessa, con molte probabilità non esisto più nel mondo
che conosco. Questo posto non si trova lì, lo percepisco.
"Roxanne Quickle, sapevo che un giorno ti avrei finalmente vista."
Mi volto e vedo un ventenne dagli occhi neri come la pece. Sussulto, come ho
fatto a non udirlo arrivare?
Forse sente i miei pensieri perché immediatamente dice: "Tanto tempo
rinchiuso nella parte più recondita della tua mente senza poter mai avere il
piacere di guardare il tuo viso. Stressante, non credi?"
"Chi sei?" ribatto ignorando l'ultima parte del suo monologo.
"Lo capirai." Un sorriso ironico gli incurva le labbra.
Mi siedo sul letto e lui si mette accanto a me. Dovrei sentirmi a disagio ma
non è così anzi, mi sembra di conoscerlo da tutta la vita.
"Dove mi trovo?" sussurro.
"Nella Sala del Pentimento."
"Le coordinate geografiche?" domando sarcastica.
Lui scrolla le spalle del tutto indifferente e risponde: "Un punto
indefinito tra il paradiso e l'inferno."
Non riesco a controbbattere perché lui cambia argomento spiazzandomi: "Ce
l'hai fatta dopo tanto tempo, lui è morto."
La sua voce atona mi mette i brividi e paralizza la mia bocca.
"Hai donato pace a un uomo oberato di lavoro, l'hai sollevato da un
incarico gravoso. Ti dovrebbe solo ringraziare."
No, non è solamente il tono a mettermi i brividi. È cosa dice, come lo dice.
"Tuo padre sarebbe fiero di te, l'hai vendicato d'altronde."
Mi fissa enigmatico e scoppia in una risata di scherno spingendomi a prendere
parola.
"Non sono felice."
"Invece sì, ti ha rallegrato essere l'artefice della sua morte. Non puoi
mentirmi!" cantilena giocoso lui provocandomi.
Scuoto con forza la testa:"Ti sbagli, ti sbagli!"
Continuo ad esclamare disperata e le lacrime cominciano a rigarmi il volto. Lui
non smette di prendermi in giro, di infastidirmi e sento la mia testa
scoppiare. Affondo il capo tra le mie mani bagnando la mia maglietta ma a lui
non basta vedermi in questo stato penoso e non cessa di ripetere quella che è
diventata una frase di sottofondo.
D'un tratto però una voce sottile, meno potente della sua ma ugualmente
familiare s'infila nella mia mente:"Roxanne... reagisci...
reagisci..."
Mi alzo con energia dal letto asciugandomi con un palmo il viso, non gli avrei
permesso di godere ancora del mio pianto. Sfido con lo sguardo quelle iridi
ebano e lui tace di colpo senza scomporsi.
Restiamo per ore a scandagliarci con gli occhi, incapaci di abbassare lo
sguardo per il nostro orgoglio.
"Vedere Ector morire non mi ha reso felice." scandisco ogni parola con
convinzione.
Lui annuisce inaspettatamente: "Io lo so." Fa un mezzo sorriso e pone
una domanda ovvia: "Adesso hai capito chi sono?"
Noto che i contorni del mobilio iniziano a sfumare, le uniche figure nitide siamo
io e lui.
"Sei quello che io vorrei sentire." sussurro, prima che anche i
tratti del suo viso si confondano e si uniscano al bianco gorgo che m'inghiotte.
Ho la fronte madida di sudore e tremo sotto le coperte pesanti fornitemi in
quanto personale della nave. Cerco di placare i brividi ma non ci riesco, ho
ancora vivido in mente il mio incubo. O forse era un sogno?
Guardo l'ora della sveglia digitale sul mio comodino e sospiro di sollievo, non
è ancora ora di cena. Realizzo di essere ancora in tempo per fermare tutto, per
non diventare quello che non avrei mai voluto essere.
M'infilo per la prima volta il mio grembiule senza malavoglia, è tutto
estremamente bello. Mentre cammino sul ponte passo davanti a coppie di
piccioncini innamorati, davanti a un paio di amici che in compagnia di un
boccale di birra trascorrono la serata, un padre con una bimba sulle spalle. Mi
blocco ammirando quest'ultima scena, a mio parere la più magica di tutte.
La piccola ride gioiosamente, accarezza i capelli del padre e nel frattempo questi la
porta su e giù instancabile.
Entro nel ristorante sorridendo a tutti e ricevendo piccoli abbozzi sorpresi. Non posso dar loro torto.
Una delle co-cameriere si avvicina timidamente a me e fa appena un
cenno: "Buonasera Roxanne." Mi saluta sempre e io replico altrettante volte
sgarbatamente. Mi sorprende che non abbia ancora smesso.
Si sta già voltando per andarsene, le gote infiammate dall'imbarazzo, ma io la
fermo: "Buonasera Tracy."
Lei schiude la bocca per dire qualcosa, ma sembra non trovare le parole.
Io ignoro la sua espressione e aggiungo divertita: "Oh, chiamami Roxy. Roxanne
è un po' antiquato."
Le faccio l'occhiolino e con un sorriso smagliante mi dirigo dal mio primo
cliente, lasciandola in mezzo alla cucina sbalordita.
"Piacere, sono Roxy." lo ripeto a tutte le persone che servo con
naturalezza.
Quando però arrivo al tavolo di Ector un nodo mi blocca la gola e sono solo in
grado di dire con voce strozzata:"Cosa desidera?"
Lui vedendomi impallidisce, sono anni che lo inseguo, più o meno dalla morte di
mio padre. Conosce il mio fine ma non mi ha mai denunciato per mancanza di
prove attendibili, o almeno così credo.
Tossisco lievemente per richiamare la sua attenzione e lui tremante ordina un
piatto di spaghetti alla marinara e una bottiglia di vino bianco. Io annoto
diligente sul taccuino e distrattamente chiedo:"Altro?"
Ha i brividi, m'inorridisce sapere di esserne la causa. Agrotto le sopracciglia
e mi sento in dovere di domandare: "È tranquillo?"
"Ho motivi per non esserlo?"
Rifletto per qualche minuto e inclino leggermente il capo. "No" rispondo, dopo qualche attimo di esitazione.
"Bene, allora la prego di farla ben cotta." Fingo di scrivere
qualcos'altro sui foglietti, so che non scorderò mai quello che mi ha detto.
"Ah! Piacere, il mio nome è Roxy."
Senza vedere la sua reazione mi volto e mentre corro verso la cucina vedo il
mare attraverso un oblò. La superficie, resa cupa dalla notte, è piatta, calma. Mi ritrovo a
confrontarla con quella del mio sogno. Può essere una cosa tanto bella così
feroce? Lo specchio in cui vanitosa si guarda la luna è lo stesso che turbinava
intorno a me schiumoso e violento?
Anche l'acqua è bianca e nera allora.
Non grigia, sia ben chiaro.
Alcune volte bianca, alcune volte nera: proprio come me.