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Autore: Lady Sunset    17/07/2016    2 recensioni
Tutto può succedere. Il male incombe su di noi. Ogni individuo è libero di crederci oppure no. Esiste un'altra dimensione, una dimensione fatta di dolore e sentimenti che ci attanagliano dall'interno, ci consumano fino a proporci la morte come unica via di fuga. L'altrove esiste, la comprensione no. Ciao, sono Kim Jongin, e vorrei raccontarvi la mia storia.
Genere: Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kai, Kai
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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"STUPID APPEARANCE"


Ci sono individui composti unicamente di facciata,
come case non finite per mancanza di quattrini.
Hanno l’ingresso degno d’un gran palazzo,
ma le stanze interne paragonabili a squallide capanne.”



“Jongin, è ora di cena!”
“Arrivo!”

Ecco uno dei pochi motivi per cui mia madre osava rivolgermi la parola. Ultimamente avevo notato un differente modo di fare nei miei confronti. E i suoi sguardi, poi. Dicevano tutto: “oh, guarda, la pecora nera della famiglia”, “perché devo sopportare tutto questo?”

In tutta sincerità, non mi sono mai sentito tanto sbagliato in vita mia. Quella donna non era mia madre – o meglio, avrebbe voluto esserla di qualcun altro. Di un figlio normale, magari, un figlio che le potesse dare quella tranquillità e quella soddisfazione che tanto si ricerca, fino allo sfinimento. Io, invece, ero disordine, un uragano pronto a spazzare via ogni segno di sanità mentale, quel tipo di ragazzo capace di affrontare a malapena il lunedì mattina, tra i banchi di scuola, dopo un'intera domenica trascorsa ad oziare bellamente, senza alcun tipo di pensiero o preoccupazione. Non posso negare che quella donna si sia sempre premurata di curare l'aspetto esteriore di quel cristallo consumato che si chiama famiglia. Persino dopo la morte di papà tratteneva le stesse lacrime velenose pronte ad incattivirla di volta in volta. Quel suo continuo silenzio e le pause interminabili tra i discorsi sempre più rari, tra di noi, tendevo ad interpretarli come una noncuranza dell'accaduto. E onestamente non avevo la benché minima idea di cosa dire. L'ho lasciata fare. Nient'altro.

“Avanti, Jongin, si raffredda tutto qui!”

Non riuscivo quasi mai a capirla. La sua mente, per me, non era affatto un libro aperto. Mi verrebbe quasi da paragonarla ad un oceano di notte: troppo buio e immenso, per poter essere conosciuto.
Sin da quando ero piccolo immaginavo che avrei avuto un rapporto assai differente con la donna che felicemente mi aveva desiderato così tanto da farmi venire al mondo. Mi sentivo come se la persona che ero in quel preciso istante non avesse niente a che vedere con il bambino che ero stato. Un abisso. Un barlume di speranza in contrasto con un ottimismo soffocato dagli uomini privi di personalità e capacità di riflessione. Io non ero più io. Ero la delusione, il pazzo, e chissà quanti altri soprannomi mi avevano affibbiato, mia madre e quel signor Chung. Talvolta mi chiedevo seriamente perché lasciassi tanto libero arbitrio a quell'uomo, così sicuro di sé e determinato a sconvolgere la mia vita con quella concretezza malata e monotona che, oramai, mi faceva venire la nausea.



Scesi le scale di corsa, raggiungendo in pochi istanti la sala da pranzo.

“Ci hai messo tanto.”
“Stavo studiando.”
“Ah ah, come no.”

Qualunque cosa dicessi, per lei era una bugia. Eccola seduta lì, tanto vicina fisicamente a suo figlio quanto maledettamente distante psicologicamente. Cominciavo a domandarmi se il suo fosse soltanto disagio o qualcosa di più. Forse disgusto, disprezzo. La cosa che più irritava il mio mutevole animo era la consapevolezza di non poter cambiare le cose. Se avessi saputo che persino il legame madre-figlio sarebbe stato modificato in quella situazione delicata ed enigmatica, probabilmente avrei trovato un altro modo per sfogare queste mie emozioni. Magari ci sarebbe stata anche la più piccola possibilità di affidarmi a un diario, uno di quelli in cui – solitamente, vengono raccontate tutte quelle avventure vietate ai genitori di strette vedute. Le avrei provate tutte, piuttosto che subire le occhiatacce dell'unica persona che davvero sarebbe dovuta rimanere al mio fianco, sempre e comunque. E invece no. Entrambi avevamo fatto due scelte, due scelte che in fin dei conti non erano neppure tanto differenti: io avevo deciso di essere sincero e raccontare le mie esperienze impossibili, lei di mostrare ciò che era realmente, ossia una donna codarda, che fugge dinanzi al primo ostacolo. Difatti, c'era un motivo se ogni mercoledì pomeriggio mi ritrovavo rinchiuso tra quelle quattro mura in compagnia del signor Chung; a prescindere dal fatto che fosse vera o meno la sua motivazione, mia madre mi obbligava a dialogare con quell'uomo affinché affrontassi l'unico lutto subito in ventidue anni di vita perché, in conclusione, lei non era in grado di aiutarmi.
E non lo sarebbe mai stata.

“Qualche novità? Con lo psicologo tutto bene?”
“Sì, mamma.”
“Okay.”
“Okay.”

   
 
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