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Autore: Nirvana_04    28/07/2016    8 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Il Tredicesimo Re
Agur, primo del suo nome

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Cassia e Brige erano il suo sogno da adolescente. Le guardava camminare insieme per le strade di Cahar e insieme sognava di trovarsele nel letto. Scrutava con sguardo attento le forme di due corpi acerbi di donne mostrarsi effimeri sotto gli strati delle vesti e desiderava slacciarne i lacci, per scoprire finalmente cosa ci fosse sotto; occhi da cacciatore, se la ridevano i suoi compari.
E Agur era un bravissimo cacciatore.
Il Figlio prediletto di Cahar aveva imparato a maneggiare l’arco all’età di otto anni, abbattuto la sua prima Alce Tricorno a undici, ucciso un Meticcio del Frotsz a soli tredici. Egli amava abbandonare le mura della città e immergersi nella fredda quiete delle conifere circostanti; la caccia era un piacere che solo nel silenzio della solitudine poteva essere goduta appieno. Per lui era una danza privata tra lui e la sua preda, che spesso finiva nell’infliggere il mortale fato. Agur era capace di perdersi tra le vie dell’inseguimento, dimenticarsi dei suoi doveri di principe e dissipare il suo io in quella primitiva corsa. A volte la caccia durava giorni e lo portava distante da casa, in territori di nessuno dove solo la legge della natura vigeva e solo ella ne era il giudice; la sua sentenza era inappellabile e veniva eseguita seduta stante. Era in quelle terre che egli smetteva di essere l’erede di Cahar e diveniva il sopravvissuto.
Il primo ad averlo chiamato a quel modo era stato Jhann, quello che nella sua combriccola riusciva a bere lo Stivale – era un vero stivale puzzolente riempito del peggior malto della zona – e a restare parzialmente sobrio; ed era stato con un boccale in mano che lo aveva accolto al suo ritorno, la testa del cinghiale che strisciava sul pavimento della taverna. Jhann aveva riso, si era rovesciato metà liquido addosso e il restante lo aveva innalzato in suo onore. “Il sopravvissuto” aveva sputato sulla testa delle puttane intorno a lui, “tua madre ti ha dato per morto almeno una mezza dozzina di volte negli ultimi due giorni. Non è che ti sei imbattuto nella squadriglia che ha mandato a cercarti, vero?” Aveva riso così tanto da ricadere sulla sedia e baciarne due in un colpo.
Agur si spostò alle spalle del grande fienile del castello, aspettando con una spiga in mano l’arrivo delle due sorelle. Le vide giungere, le braccia di una intrecciate nel braccio dell’altra; ridevano. Tirò fuori un sorriso spavaldo, di sbieco, pensando che si divertissero a vederlo rincorrerle, come ambite prede, per tutto il villaggio. Chissà, forse passavano sempre da lì per vederlo. Gli sembrò che la più piccola gli lanciasse un’occhiata famelica da sotto le nere ciglia. Fece per avvicinarsi, colto da un moto di coraggio.
“Sopravvissuto” lo incalzò la voce di Der.
Agur ruotò su se stesso con un balzo teatrale e salutò calorosamente l’arrivo degli amici. Quelli sghignazzarono. “Attento, in quelle sottane potresti perderti per sempre.”
“Bah” lanciò uno sguardo alle sue spalle e non le vide più. Gettò la spiga per terra e afferrò i gemelli, gettandoli le braccia al collo. “Ragazzi, ho trovato cosa ci serve.”
“Un bagno?” Risero. “Tua madre, la nostra signora, ci ha ordinato di riportarti all’ovile. Ti attendono i tuoi doveri…reali” si piegarono in un buffo inchino derisorio.
Agur tentò di afferrarli, ma la sua mano si chiuse sull’aria. “Quello che ci serve” continuò, con il suo tono istrionico, “è una caccia che farà la storia ed entrerà nella leggenda.”
“E cosa vorresti cacciare, mio principe?” gli balzò accanto Nor, camminando al suo fianco con le braccia snodate. “Un Cervo Corneo?”
“Oh, no fratello. Già fatto. La testa di quella bestia funge da cruccia per i suoi mantelli” gli fece il verso Der, affiancandolo all’altro lato.
“Una martora? Dicono che sono velocissime e pericolose, se provi ad acchiapparle” spalancò gli occhi.
“Ma dai!” Mise una mano sulla spalla del principe, che aveva rallentato il passo, e allungò la testa per guardare il suo gemello in faccia. “Ne ha già due ai piedi e se non sbaglio è stato il suo scudiero a catturarle. Non è selvaggina da principe.”
“Allora, cosa potrebbe mai voler acchiappare?” meditò Nor, una mano sotto il mento, mentre Der spalancava la porta della taverna e con un inchino li invitava ad entrare.
“Una puttana!” urlò Jhann, mentre tre gli saltavano festanti al collo.
“Una puttana!” esclamò trionfante Der, indicando con un dito l’amico, camminando all’indietro. “No, grazie, tesoro. Non dicevo a voi” congedò le due fanciulle che si erano avvicinate. Si sedettero al tavolo e ordinarono da bere. “Dovresti fare come il nostro amico qui” e indicò il felice, “sei un principe, perbacco. Il territorio di caccia più fertile per te è la corte. Sono sicuro che una dama disposta ad aprire le gambe la trovi. E sai qual è il momento migliore?” continuò, afferrando la caraffa sul tavolo. Acciuffò la cameriera. “La sontuosa festa organizzata per il tuo ventitreesimo compleanno. Al principe!” urlò.
“Al principe!” li fece coro l’intera sala.
Agur salutò gli uomini con un gesto della mano e poi si protese sul tavolo, con fare cospiratorio.
“Le dame seguono le regole. E le regole mi annoiano. Sai quale sarebbe invece un bottino degno di un principe?” sorrise sornione. “La testa del Caimhal” sillabò con le labbra. Gli tolse di mano la caraffa, bevve un lungo sorso, e poi si appoggiò contro lo schienale della sedia, godendosi le loro facce.
Jhann tirò fuori la testa dai capelli della rossa e abbaiò loro di andare altrove. “No, che non lo farai!” Gli levò dalle mani il malto e lo sbatté sulle assi di legno. “Andare dietro una leggenda è da stupidi. Ti sei ubriacato col solo odore di questo luogo. Usciamo.”
“Sono serio, Jhann. Le Pietre di Shaev sono state un limite per troppo tempo. Roba da creduloni. Se quell’animale esiste, io lo strapperò alla leggenda e lo appenderò sopra il mio letto. E allora, le sottane di Cassia e Brige saranno solo stoffa sul pavimento della mia camera.”
Der si puntò con i gomiti sul tavolo. “Agur,” lanciò uno sguardo attorno, un sorriso accondiscendente sulle labbra, “non mi sembra il caso di farci ammazzare poco prima della grande festa. Tua madre, la nostra signora, appenderà le nostre teste sopra il suo letto.”
“C’è abbastanza tempo.”
“Non che non ce n’è” sbraitò Jhann. “Ora alza il culo e muoviamoci. Avevo detto che ti avrei riportato al castello. E maledetto io se ascolto anche solo un’altra parola del tuo delirio.” Si scolò ciò che restava del malto e si asciugò il muso con il dorso della mano.
Gli altri lo seguirono.
Agur incrociò le braccia sul tavolo per alcuni secondi, ammirando le donne del taverniere pulire le caraffe dietro il bancone. Sorrise e poi si alzò. Raggiunse i suoi amici e annuì. “Sono pronto. Riportatemi da mia madre, la vostra signora.” E si gettò a peso morto tra di loro. Risero e le sue parole rimasero solo come echi nella taverna.

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N.d.A.
 
Dizionario a 6. CAPITOLO 5 - L'ultimo tra gli ultimi, de "Il Tredicesimo Re".

Ringrazio fin da ora chi leggerà, commenterà, metterà la storia tra le seguite, ricordate, preferite.
Per qualunque domanda o dubbio, mandate un MP, risponderò volentieri.
Non siate timidi e
 dateci sotto con tutto ciò che vi passa per la testa: ho le spalle larghe e non vedo l'ora di affrontare pane per i miei denti.
N.B. Picchio duro, ma non so ancora uccidere con una tastiera tra le mani.
   
 
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