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Autore: SherlokidAddicted    31/07/2016    3 recensioni
[ Wholock | Johnlock ]
- Voglio sapere chi è lei e che ci fa qui. –
- Sono il Dottore! – Dice porgendomi la mano ed aspettandosi che io la stringa, cosa che però non succede. Assottiglio lo sguardo e lo scruto con attenzione mentre, deluso dalla mia mancata stretta, abbassa il braccio e lo riporta lungo il fianco.
– Il suo vero nome. –
- Beh, è questo il mio nom… -
- Non il nome con cui si fa chiamare, ma il suo vero nome, quello che nasconde a tutti da sempre, forse perché ha fatto qualcosa. Oh, allora è così! Ha fatto qualcosa di brutto, qualcosa di inaccettabile di cui si pente, talmente tanto che si vergogna ad utilizzare il suo vero nome e si nasconde dietro un titolo che la fa sentire meno in colpa di quanto vorrebbe, non è così… Dottore? – Gli occhi del mio nuovo conoscente si strabuzzano non appena mi sente pronunciare quelle parole con quel tono indagatore che mette la maggior parte delle persone che mi stanno attorno in soggezione, lui compreso.
- Oh, è proprio bravo come dicono… –
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The side of the Angels'
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Un brusco risveglio



Quando arriviamo sul posto, Lestrade è già in giardino che mi attende, pronto a mostrarmi le prove e le foto scattate sulla scena.
- Volevo chiamarti io, ma la signorina Jefferson mi ha preceduto. – Mi dice non appena mi vede arrivare col mio fedele amico John a fianco.

- Sapevo lo avresti fatto. – Nel frattempo mi guardo intorno. Il giardino non è molto grande, ma i due alberi di quercia occupano la maggior parte dello spazio. John accanto a me sospira, non è ancora del tutto abituato a stare in mezzo alla gente, soprattutto dopo il brutto periodo che ha passato. Lo innervosisce e posso intuirlo da come fa vagare lo sguardo sulle persone presenti. Devo intervenire, prima che possa decidere di andarsene di punto in bianco.

Con una finta tosse sollevo un braccio e poggio la mano sopra la sua spalla. Lui sussulta e per un attimo mi sembra di vederlo confuso al mio improvviso ed inusuale gesto, ma io gli indico una delle foto che Lestrade mi sta porgendo e subito sembra interessarsi all’immagine che vede: raffigura le impronte del padre di Tracy.

- Cosa ne dici, John? – Gli chiedo mentre pian piano ci avviciniamo al punto esatto del terreno in cui è stata scattata quella foto.

- Dico che ad un certo punto le impronte spariscono, quasi come se avesse smesso di camminare. –

- Ma? – Chiedo nel tentativo di farlo arrivare al punto, cercando di fargli seguire il mio preciso ragionamento sul significato di quelle impronte.

- Ma… - Nel frattempo incrocia le braccia al petto e si avvicina maggiormente all’immagine con la testa, come a studiarla meticolosamente. In un istante aggrotta le sopracciglia ed indica un punto ben preciso del terreno. – Non ci sono impronte che tornano indietro… a parte questo segno di trascinamento qui. –

- Esatto, e il trascinamento non proviene affatto dalla casa, e anch’esso si ferma in un punto ben preciso del giardino. – Dico mostrandogli la foto successiva.

- Quindi a meno che il signor Jefferson non si sia fatto sbucare le ali e non sia volato via… direi che la cosa è inspiegabile. – Annuisco alla sua deduzione, fiero come nessuno dei suoi progressi anche in questo campo. Lestrade, nel frattempo, rimane dietro di noi ad ascoltare le nostre delucidazioni, storcendo le labbra e aspettando che dicessi qualcosa che potesse accendergli la lampadina, sicuramente fulminata, che ha in testa.

- Però osserva bene il terreno. – Dico porgendo nuovamente le foto all’ispettore. Mi avvicino al punto esatto in cui ci sarebbero dovute essere l’impronta delle scarpe del padre di Tracy. – Il signor Jefferson si era fermato proprio dove sei tu John, proprio accanto alla quercia più piccola. – Dico puntando un dito sull’albero a cui mi stavo riferendo. – Portava un paio di mocassini, con la punta quadrata. Ha camminato fino a lì lentamente, fermandosi ogni tanto per controllare attorno a sé. Si è aggirato circospetto, finché proprio in questo esatto punto è stato catturato da qualcosa.

- Che lo ha trascinato? – Chiede Lestrade riferendosi ai segni che solcano il terreno.

- No, queste altre impronte non appartengono a lui. Come potete vedere le impronte dell’uomo sono quasi del tutto sparite col tempo, mentre queste che indicano il trascinamento sono ancora qui, vivide ed impregnate sulla terra. Questo sta ad indicare che l’altro individuo presente era molto ma molto più pesante, più di un normale peso di un essere umano. – Mentre esprimo le mie ipotesi, Lestrade mi si avvicina e mi porge una busta contenente una prova, una strana prova da cui non riesco a capire la provenienza.

- Era sulle impronte di trascinamento, forse non vuol dire nulla, ma ha una forma particolare per essere un semplice sasso, non ti sembra? – Il pezzo di roccia che mi ritrovo tra le mani ha in effetti una forma singolare, ma mi accorgo che appartiene ad un qualcosa di più grande, perché la roccia accuratamente scolpita sembra essere stata staccata, dato il segno di rottura su uno dei lati.

- Una roccia che cammina da sola? – John ridacchia alla propria domanda ironica e porta le mani sui fianchi, osservando attentamente i segni sul terreno per poi posare lo sguardo su di me. Io non sembro tanto divertito… anzi, per la verità, non lo sono affatto. Direi che questa è la prima volta che mi ritrovo a dubitare e a non capire quello che sta succedendo a primo impatto. È vero, ho affrontato casi estremamente difficili da cui sono uscito dopo mesi e mesi, ma di solito avevo qualche piccola idea. Questa volta il mio cervello non sembra in grado di collaborare e non riesco a capire cosa sia successo qualche giorno fa in questa maledetta abitazione.

Cerco, comunque, di nascondere la mia confusione a Lestrade e soprattutto a John. Sì, a John, perché lui adora le mie deduzioni, ama sentirmi risolvere cose impossibili, idolatra quasi il modo in cui arrivo a certe conclusioni. Posso deluderlo adesso? Proprio nel momento in cui ha più bisogno di stare meglio? No, non posso.

- Quindi? –

- Quindi, Graham, darò un’occhiata qui in giro e analizzerò con calma le prove in laboratorio. –

- Mi chiamo Greg! –

- Fa lo stesso. – Detto ciò, comincio ad aggirarmi per il giardino dei Jefferson con la mia inseparabile lente d’ingrandimento, per poter scovare qualcosa che probabilmente la polizia ha tralasciato. Anche John si mette al lavoro, io ispeziono una parte, lui l’altra.

Mi soffermo ad osservare le impronte sulla terra fresca di pioggia, ma non vedo nulla di strano o di nuovo, nemmeno nelle tracce lasciate dal padre di Tracy, o in qualunque altro angolo del giardino.

- Sherlock! – Quando sollevo lo sguardo noto che John è in piedi vicino ad uno dei cespugli. Fra le mani tiene qualcosa di molto piccolo, che prontamente mi fa vedere. – Guarda un po’ qua! Credi sia un elemento importante? – Mi avvicino e mi accorgo che quello che ha trovato, altro non è che un bullone arrugginito.

- Questo è proprio il punto in cui Tracy ha visto quello strano uomo con gli occhiali, quindi questo dovrebbe appartenere all’aggeggio che aveva con sé – Dico mentre sistemo quel piccolo bullone dentro una busta.

- Il famoso “ding”? –

- Il famoso “ding” – Confermo mentre mi allontano insieme al mio blogger. Nel frattempo mi sembra di notare del movimento proprio nel punto in cui John aveva trovato la prova. Mi volto di scatto e l’unica cosa visibile è l’agitarsi delle foglie e il suo conseguente fruscio.

- Tutto ok? – Mi chiede John che si è accorto della mia improvvisa reazione. Per un attimo rimango in silenzio a scrutare fra le foglie e il tronco dei due alberi, poi indietreggio lentamente, rassicurando il mio amico con un’alzata di spalle.

- Mi era sembrato di vedere qualcosa… –

- Ovvero? – Scuoto deciso la testa e mi volto verso di lui.

- Nulla, andiamo via. -

In poco tempo abbandoniamo la casa dei Jefferson, dopo aver lasciato la nostra prova all’ispettore e aver parlato con Tracy e la sorella Amber.

Non sembrava esserci un qualche nuovo particolare, per il momento, ma nella mia mente tutto era offuscato, non riuscivo a capire perché non riuscissi a farmi venire in mente qualcosa, e continuavo a chiedermelo anche mentre ritornavamo al 221B. Durante il tragitto in taxi, John mi fa qualche domanda sul caso, e le mie risposte vaghe lo insospettiscono, ma mi conosce e quindi è convinto che il mio comportamento sia normale e non aggiunge altro. Che cosa direbbe se sapesse che non ho la più pallida idea di cosa stia accadendo? L’unica mia speranza sono quel pezzo di roccia e il bullone arrugginito che potrebbe dirmi qualcosa sullo strano tizio che Tracy aveva visto.

- Ordiniamo una pizza? Non ho tanta voglia di cucinare. – John afferra il cordless e mi guarda mentre mi siedo alla scrivania per consultare le mie mail, tra le quali c’era quella di Lestrade che mi aveva gentilmente inviato le foto delle impronte, così da studiarle meglio.

- Non ho fame. – Mormoro continuando a guardare lo schermo del computer, senza mai mutare l’espressione seria, fredda e calcolatrice del mio viso.

- Ci risiamo! – Il suo sospiro esasperato mi arriva alle orecchie, facendomi roteare gli occhi. Di solito la discussione finiva lì, John si scocciava dei miei continui rifiuti e tornava a sbrigare le sue faccende. Oggi ha deciso diversamente: dovevo mangiare a tutti i costi. Mentre i miei occhi studiano ed elaborano teorie su quelle foto, John si piazza irremovibilmente di fianco a me, sovrastandomi con il suo sguardo fulminante e di rimprovero.

- Che c’è? –

- Lo sai che c’è. –

- Infatti, speravo cambiassi idea all’ultimo momento per non sentirmi mentre “lagno”. – Lo sento sospirare per l’ennesima volta e in poco tempo ha chiamato la pizzeria e ha ordinato una pizza grande abbastanza per entrambi.

- Come devo spiegartelo che mangiare mi rallenta? – Gli chiedo dopo che si è seduto davanti a me, poggiando il cordless sul ripiano in legno.

- Non hai bisogno di spiegarmelo. Tu mangerai questa sera, che ti piaccia o no. – Faccio finta di non ascoltarlo mentre avverto le sue braccia incrociate sul petto, nell’attesa che il fattorino suoni la nostra porta e gli consegni la pizza che ha ordinato.

Ogni tanto, quando gira il capo e si allunga per vedere fuori dalla finestra, mi soffermo ad osservarlo. Ammetto che non è la prima volta che lo guardo con occhi diversi. Di solito quando lo guardavo l’unico mio scopo era quello di capirlo, dedurre ogni sua mossa passata e futura… ora il mio scopo sembra un altro. Le persone normali la chiamano preoccupazione. A quanto pare adesso il suo stato d’animo, i suoi comportamenti suscitano in me preoccupazione e l’unica cosa che sento di voler fare e di prendermi cura di lui, anche se so che da solo è capace di fare qualunque cosa. Ma sento che oltre ad essere preoccupato ed oltre a volerlo “proteggere” da qualunque cosa, c’è altro che provo quando lo guardo. Non so che cosa sia, non so perché lo sento, ma quando mi soffermo sui suoi occhi, percepisco mancarmi il terreno sotto i piedi. Riesce con un solo sguardo a mandarmi in confusione e non so perché. E devo ammettere che le sue attenzioni e il modo in cui lui speri che io mangi mi fa sentire… stranamente appagato. Fino a pochi mesi fa ero io a pregarlo di mettere qualcosa sotto ai denti.

Nel giro di pochi minuti, il fattorino ha già consegnato la pizza e John la fa passare sotto al mio naso, forse per farmi venire l’acquolina in bocca, cosa che non funziona. Quando lo capisce, si avvicina bruscamente e con un colpo secco richiude il portatile e lo sposta dalla mia vista, al suo posto mi vedo piazzato un piatto di plastica con una grossa fetta di pizza dal profumino invitante.

Il mio sguardo si posa sul suo viso serio e che non ammette obiezioni, poi lo rivolgo a fissare il vuoto di fronte a me e congiungo le dita davanti alle labbra, immerso completamente nel mio palazzo mentale, dove ho avuto modo di immagazzinare ogni foto che poco prima stavo studiando. Ma proprio mentre la mia mente elabora ogni possibile prova, sulla mia spalla sento posarsi la mano di John. La mia concentrazione pian piano si affievolisce per quel singolo tocco. Sbatto le palpebre per un po’ prima di alzare lo sguardo verso di lui. Non è arrabbiato, mi guarda come se fossi un bambino capriccioso, ma allo stesso tempo i suoi occhi tramettono sicurezza e tenerezza.

- Per favore, Sherlock. – Dice con voce ferma e decisa, mentre le mie mani si poggiano automaticamente sul ripiano del tavolo.

- Non sono un bambino, John. – Sul suo viso si allarga un sorriso divertito, mentre il pollice della mano che ha messo sopra la mia spalla comincia a muoversi in delle piccole e dolci carezze.

- Lo so – Mormora a bassa voce - Ma è un caso strano, e mangiare potrebbe aiutarti a concentrarti, e no! Non dirmi che ti rallenta, perché io sono un dottore e so come funziona il metabolismo umano. Ti voglio in forze. – Non aggiunge altro, si limita a spostare la mano dalla mia spalla, e la mia tensione viene allentata all’improvviso, come se avesse tagliato le corde che mi tenevano dritto come un burattino.

Riesce a convincermi, non so come ma due minuti dopo mi ritrovo a divorare anche un secondo pezzo della pizza, scoprendomi più affamato di quanto pensassi. John mi guarda soddisfatto, quel sorrisetto sulle labbra mentre mangia indica quanto lo sia, facendo nascere in me un certo senso di fastidio. Non era mai riuscito a convincermi e né io mi ero mai abbassato ai suoi ordini, assomigliando tanto ad un bambino indifeso, capriccioso e viziato, termini che la maggior parte della gente mi affibbia già dal primo momento che mi sente fare una conversazione che però io ritengo seria.

Oh, John… la tua continua ricerca del pericolo ti fa restare ancorato a me, ma è solo questo che ti porta a sopportarmi per tutto questo tempo?

Rimane in salotto con me a leggere un libro, poi mi comunica la sua stanchezza e si avvia sbadigliando nella sua camera al piano di sopra. Si addormenta alle 23.05, mentre io rimango sveglio fino alle 2 del mattino per cercare di capire lo strano caso dei Jefferson, poi, notando che il cibo ha indotto in me una strana sonnolenza e stanchezza (maledetto sia il momento in cui ho deciso di dare retta a John), mi stendo sul divano, raggiungendolo con dei movimenti meccanici, e crollo in un profondo sonno.

Non so quanto tempo passa, ma ad un certo punto uno strano rumore mi fa rigirare nel sonno. All’inizio credo che quel suono sia nella mia testa, ma poi mi rendo conto che non è così ed apro gli occhi. Fuori è l’alba e mi ci vuole un bel po’ prima che miei occhi si abituino alla luce che passa dalla finestra. Mi rigiro dalla parte opposta e sobbalzo a sedere quando vedo che alla scrivania a curiosare il mio portatile c’è un uomo che non ho mai visto prima. Nonostante ciò, lo riconosco e lo metto a confronto con la descrizione di Tracy Jefferson.

- Lei! – Dico con un vocione rabbioso, mettendomi in piedi e puntandogli un dito contro.

- Oh, è sveglio! – Esulta, sollevando lo sguardo verso di me e incurvando le labbra in un sorriso entusiasta.

- Che ci fa lei qui? – Chiedo, mantenendo un tono minaccioso. Come risposta solleva un portadocumenti, come ad indicarmi le sue referenze. Con uno sguardo scioccato e confuso, mi avvicino barcollando leggermente per il risveglio brusco. - Quel foglio è bianco! Mi dica cosa ci fa qui. – Lo vedo stupirsi alle mie parole e ripone nuovamente il portadocumenti nella tasca della giacca, poi si alza e con un dito sistema meglio gli occhiali sul naso.

- A questo punto, se la carta psichica non funziona su di lei, direi che è meglio essere sinceri. – Lo guardo come se stessi ascoltando un pazzo appena uscito dal manicomio, e a quella mia espressione sorride divertito. – Sono qui per aiutarla. –



Note autrice:

Buonsalve gente, eccomi con un nuovo capitolo. Ho notato che questa storia è piaciuta, quindi ho deciso di aggiornare, e lo farò ogni due giorni (salvo qualche volta in cui sarò impegnata).
Ringrazio chi ha recensito e vi mando un grosso bacio, sperando che anche questo capitolo vi piaccia, a mercoledì (si spera).
  
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