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Autore: Kerri    05/08/2016    11 recensioni
[CaptainSwan: AU] [Accenni Rumbelle, Snowing, OutlawQueen]
Emma Swan si è trasferita a New York a 17 anni, accettando una borsa di studio che le avrebbe cambiato la vita, lasciandosi alle spalle un'infanzia difficile, Storybrooke e il suo migliore amico. Ma ha dovuto vedere tutti i suoi sogni frantumarsi, schiacciati dalla consapevolezza di aspettare un figlio.
Adesso la sua vita si è stabilizzata, ha Henry, gestisce un negozio di antiquariato e non sa che la sua vita sta per cambiare drasticamente, riportando a galla i più nascosti fantasmi del suo passato.
Killian Jones ha un'unica regola nella sua nuova vita: basta impegnarsi. È uno degli architetti più promettenti di New York e un giorno, riceverà una proposta che potrebbe dare una svolta alla sua carriera. Ma per farlo, dovrà collaborare con una sua vecchia conoscenza, riaprendo ferite mai rimarginate.
Il destino, continuerà a prendersi gioco di loro e dei loro amici, tra incontri, scontri e colpi di scena. Ma riusciranno Emma e Killian a perdonarsi e a ricominciare? Riusciranno, insieme, a riscrivere il loro destino? E se questo non fosse stato ancora scritto?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Regina Mills, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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20. My faults, my darkness, my past, my beginning

 
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Time has passed, hope it's been good to you,
Our names were meant to have arrows drawn through
We'd do it all again, do it all again
Do it all again, do it all again…
 
Emma era lì, impalata sulla porta.
Non riusciva a crederci, non poteva essere, doveva star sognando.
Quante volte, negli ultimi mesi, aveva temuto di riceve quella telefonata? Ogni qual volta squillava il telefono ed era lei, la gola le si seccava.
Ormai aveva imparato a non pensarci più e adesso, adesso non poteva davvero credere che quel momento fosse arrivato.
Si mosse, camminò, forse corse, non lo sapeva, ma la raggiunse.
«Mi dispiace…» mormorò, mettendole una mano sulla spalla.
Ogni cosa era svanita o forse aveva semplicemente perso importanza.
Cosa può essere più importante difronte alla morte?
Regina non riusciva a smettere di piangere e si stava odiando, si stava odiando perché si stava dimostrando debole ma lei era Emma, ed era lì e conosceva lati di sé che neanche lei sapeva di avere.
Si alzò da quella sedia che era diventata ormai troppo scomoda. Anzi, forse comoda non lo era mai stata. Lanciò ancora uno sguardo a sua madre e al suo corpo privo di vita eppure così sereno.
Come poteva sorridere così, in faccia alla morte? Forse non era poi così spaventosa come dicevano, forse sua madre l’aveva persino accolta con uno dei suo sguardi, forse l’aveva persino messa a disagio.
Sì, perché Cora Mills riusciva a mettere a disagio anche il più sicuro degli uomini, con quelle labbra rosse e carnose e quegli occhi indagatori.
Regina l’aveva odiata per gran parte della sua vita, credendo che la sua reputazione e la sua fama non le permettessero di avere un vero rapporto con il resto del mondo.
Regina l’aveva odiata anche dopo la scuola, per quella sua sicurezza che alle volte si trasformava in sfacciataggine, quel suo pretendere di sapere in continuazione cosa fosse meglio per lei.
Regina l’aveva odiata dopo la morte di Daniel perché non aveva avuto neanche il tempo di partecipare al suo funerale, di consolare il cuore infranto di sua figlia.
L’aveva odiata eppure le aveva voluto sempre bene e forse se ne era resa conto soltanto quando il dottore le comunicò la sua malattia.
Si asciugò un po’ le lacrime, sperò che fosse ancora più o meno presentabile, vide Robin fuori dalla stanza e un altro singhiozzo le salì alla gola.
«Che ci fai qui?» chiese, cercando di dare al suo tono di voce, la solita sicurezza.
«Ho incontrato Robin e mi ha detto di tua madre e volevo mandarti un messaggio ma lui ha detto che stava venendo quindi ho pensato di… oh al diavolo! Mi sei mancata!» mormorò, buttandosi su di lei e stringendola in un abbraccio che forse non si erano mai date.
Dopo un attimo di esitazione, anche la giovane donna dai capelli corvini ricambiò la stretta e altre gocce salate arrivarono a pungerle gli occhi.
«Non sei più arrabbiata con me?» chiese, cercando di non farle versare.
«Certo che lo sono! Ma hai bisogno di me e io sono qui… perché anche se sei un’idiota, sei mia amica, la mia migliore amica e ti voglio bene…»
«Mi sei mancata anche tu, Swan… Tu e le tue orribili scarpe!»
 

Il funerale si svolse il giorno dopo. Emma aiutò Regina ad organizzare il tutto. La donna non voleva che la morte di sua madre diventasse di dominio pubblico, così tutto si svolse in modo molto discreto.
Magari non era ciò che Cora Mills avrebbe desiderato ma andava bene così, lei non era brava a mostrare agli altri le sue debolezze.
Henry ritornò in tempo per la funzione.
Non fu poi così sorpreso quando vide Killian avanzare verso di lui, alla fermata del pullman. Non parlarono, lui forse gli disse “Mi dispiace”, non lo ricordava. Lo accompagnò alla grande casa di Regina e lì vi trovò sua madre, Robin e Roland.
Non fu sorpreso neanche di questo.
Non aveva mai conosciuto la morte così da vicino e sebbene non conoscesse Cora così bene, vedere Regina soffrire, lo rendeva triste.
Alla fine, quando le ultime persone se ne furono andate, Emma chiese a Killian di accompagnarla a casa di Regina.
L’uomo annuì, cingendole la vita.
Lei non aveva ancora avuto il modo di dirgli della lettera e del Rabbit Hole, di come aveva aperto gli occhi grazie a lui e sì, forse aveva un po’ paura, paura della sua reazione, paura che avesse potuto darle della “Spiona”, di quella che non riusciva a non ficcare il naso negli affari degli altri, paura che non la guardasse più con quello sguardo con cui la stava guardando ora.
Poggiò il viso sulla sua spalla e si diede della stupida.
Si ripromise di parlargli il prima possibile.
Adesso qualcun altro aveva più bisogno di lei.
«Mi dispiace per quello che è successo a Cora ma sono felice che vi siate riavvicinate…» mormorò l’uomo, entrando in macchina.
Henry li salutò da lontano, indicando Roland, Robin e Regina. Emma capì che aveva intenzione di tornare con loro e annuì, poi seguì Killian.
«Anche a me dispiace… Ma sai come sono… ho bisogno di veri e propri shock per riaprire gli occhi e mettere da parte l’orgoglio…»
Sì, Killian lo sapeva.
Eppure credeva che in dodici anni, di shock e imprevisti del genere ne avesse avuti parecchi, a cominciare dalla sua gravidanza ma, a quanto pare, non erano mai stati così importanti da farla tornare sui suoi passi, a farla tornare da lui, non era mai tornata e basta.
Scacciò via questi pensieri e continuò a guidare.
«Ti chiamo dopo…» mormorò la donna, prima di dargli un bacio sulla guancia e scendere dall’auto.
Annuì. La guardò uscire dall’auto e percorrere il vialetto. Si girò e gli sorrise. Era bella anche con gli occhi rossi e i capelli scompigliati.
Mise in moto e partì.
 

Henry dormiva sul divano. Sembrava sereno e per un istante, Regina lo invidiò.
«Dorme?» chiese sua madre, appollaiandosi sull’altra poltrona, accanto a lei. Teneva un vasetto di gelato in una mano e il cellulare nell’altra.
Regina annuì.
«Probabilmente quel gelato è scaduto…» sussurrò.
Sì, decise che il gelato fosse un pensiero molto più importante rispetto al gran caos che le affollava il cervello.
«Fa niente… Correremo il rischio…» mormorò la giovane, porgendole un cucchiaino.
Restarono lì, a mangiare gelato e a pensare a ciò che era appena accaduto, alla vita e alla morte e a quanto potesse essere labile il confine tra le due.
«Ti devo aggiornare su un po’ di cose Regina…» mormorò ad un tratto la donna dai capelli biondi, ingurgitando un altro cucchiaio di gelato.
«Sai cosa mi ha detto?»
«Chi?» chiese Emma, colta alla sprovvista.
«Sì, sai cosa mi ha detto?! – continuò, ignorando lo sguardo verde dell’altra – che sarei stata abbastanza… ti rendi conto?! Dopo una vita passata a torturarmi…»
Qualcosa le risalì in gola. Un malloppo di cose non dette e lacrime mai versate che continuava a torturarla da giorni.
Sentì il braccio di Emma sulla spalla.
Chiedeva compassione? No di certo.
Ciò che voleva erano soltanto delle risposte, risposte che purtroppo non riusciva a trovare.
«Ti voleva bene Reg… E anche tu gliene volevi…»
Regina non replicò, in fondo lo sapeva anche lei.
Forse era solo arrabbiata.
Arrabbiata con Cora per essersi ricordata troppo tardi di essere una madre.
Arrabbiata con quegli idioti dei medici che non avevano neanche avuto l’accortezza di chiamarla.
Arrabbiata con Emma perché lei, a differenza sua, poteva ricominciare, poteva essere felice con l’uomo che amava e chissà, forse avrebbe persino potuto incontrare la sua vera madre, il suo vero padre.
Ma soprattutto era arrabbiata con sé stessa, perché era arrivata tardi, perché non aveva mai avuto il coraggio di mettere da parte l’orgoglio e ammettere di aver torto, ammettere che anche lei amava e voleva essere amata, ammettere che anche lei fosse un essere umano come tutti gli altri.
«Mi dispiace Emma… Avrei dovuto dirtelo… I-io… Pensavo che fosse la cosa migliore per te, pensavo che lui ti avrebbe fatto soffrire…»
«Lo so Regina… Ma non pensarci adesso, ne parleremo domani…»
«No! È importante Emma! Perché ho sbagliato e sono pronta ad ammetterlo, perché lui è venuto da me capisci?! Mi ha detto che ti ama e che è cambiato e che forse avrebbe fatto lo stesso… che razza di idiota! Come se avessi bisogno di una spiegazione… come se io fossi qualcuno, qualcuno che può decidere chi tu sia o chi sia lui! Ho sbagliato…»
Ormai continuava a blaterare ed Emma aveva smesso persino di ascoltarla. Era sconvolta, glielo leggeva in faccia e sì, voleva e pretendeva delle scuse da parte sua ma aveva bisogno anche di una spiegazione, forse di un racconto più dettagliato.
La trascinò in cucina, temendo che Henry potesse svegliarsi.
«Regina!» disse, mettendole entrambe le mani sulle spalle e cercando di sembrare il più convincente possibile.
«Smettila! Smettila! Non è così che si affronta il lutto, non è incolpandoti di tutti i peccati di questo mondo che tua madre ritornerà indietro!»
«Emma che diavolo dici?! Mia madre non c’entra in questa storia! È stata colpa mia!» continuò l’altra, ignorando ciò che la donna davanti a sé aveva appena detto. Erano entrambe testarde e sicuramente quella era una qualità (o un difetto) che condividevano da sempre.
«Davvero?! Regina sei sconvolta! E adesso ti stai appigliando a ciò che è successo tra noi due per non pensare a tua madre e ti capisco, davvero! Hai un sacco di colpe da farti perdonare, ma la morte di tua madre… Regina, quella non è stata colpa tua…»
La donna annuì. Le lacrime ripresero a pizzicarle gli occhi.
«Ti voglio bene…»
«Sei forse ubriaca?» rise Emma, cercando a sua volta di non permettere alle lacrime di scendere. Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui Regina Mills le aveva aperto davvero il suo cuore e, a quanto pareva, quella sera sarebbe stata una di quelle da aggiungere a quella breve lista.
Inutile dire quanto tutto quello le fosse mancato, persino le sue battute taglienti e i suoi modi di fare un po’ bruschi.
«No, ma fingi che lo sia…»
Risero.
«Mi sono licenziata dal “Rabbit Hole”…» disse Emma dopo qualche minuto di silenzio. Non sapeva quanto tempo fosse passato, lo aveva detto come se non fosse importante e in realtà, in quel momento non lo era, ma aveva bisogno di dirlo a qualcuno, qualcuno che avesse vissuto tutto assieme a lei, qualcuno che avrebbe capito veramente.
Spalancò gli occhi.
Cercò di asciugarsi le piccole gocce salate che le si erano seccate sul viso.
«Davvero?!»
Annuì.
Silenzio.
«Quante volte lo hai fatto negli ultimi anni, Swan?!»
La donna abbassò lo sguardo e poi lo rialzò.
Una nuova luce negli occhi.
«È diverso questa volta… Non ci metterò mai più piede!»
Regina non rispose. Si lasciò del tempo per ispezionarla, per capire se fosse davvero convinta di ciò che la sua voce aveva appena pronunciato, oppure fosse solamente un altro autoinganno. Negli ultimi anni, lei stessa aveva provato diverse volte a farle aprire gli occhi e a convincerla ma non ci era mai riuscita veramente.
«Ok, forse qui sei tu quella ubriaca!» sentenziò.
Emma si concesse di stirare le labbra in un piccolo sorriso. Un po’ si aspettava quella reazione da parte sua. Sapeva che Regina sarebbe stata la più restia a credere nelle sue buone intenzioni e aveva davvero voglia di dimostrarle che questa volta ce l’avrebbe fatta, ce l’avrebbe fatta sul serio.
Si sentiva una sorta di drogata alle prese con la disintossicazione e per certi versi, lo era.
«Fammi indovinare… Anche questa è opera sua?!»
Abbassò lo sguardo.
Arrossì.
«Forse… indirettamente...»
«Che significa?!»
Così Emma cominciò a raccontarle della lettera e di come lui avesse avuto bisogno di sapere che tutto ciò che lei avesse fatto nella sua vita fosse servito a qualcosa. Le raccontò di come si fosse sentita quel giorno a casa sua, di come avesse aperto gli occhi sulla realtà e soprattutto della sua voglia di essere migliore, per lui, per Henry e per sé e una volta terminato, le raccontò di Ingrid, di ciò che lei e Killian avevano scoperto.
L’emozione di Emma quando parlava della sua famiglia era ancora percepibile, seppur il solito scetticismo aveva ricominciato ad avvelenare le sue parole.
Regina ascoltava e per qualche istante, dimenticò il gran casino che era successo, dimenticò il dolore pulsante all’altezza del cuore che la morte di sua madre le aveva provocato e dimenticò anche quell’altro dolore, quella sorda rassegnazione mischiata al senso di colpa dopo aver capito che Robin Hood non sarebbe stata un’altra conquista.
«Mi dispiace…»
«Woh, Regina Mills che dice “Mi dispiace” due volte nella stessa sera… questo sì che è un evento da segnare sul calendario!» mormorò, aprendo il frigorifero e tirando fuori una lattina di birra.
«Che c’è?!» chiese, di fronte all’occhiataccia che la donna le riservò.
«Sul serio Emma…»
La donna annuì.
Accettava le sue scuse.
Era questo ciò che facevano le amiche, no? Non aveva una grande esperienza in merito, questo era vero, però sapeva che Regina sarebbe sempre stata sua amica, la sua migliore amica e non poteva perderla per colpa del suo stupido orgoglio. Anzi, del loro stupido orgoglio.
«Dispiace anche a me… Avevi ragione… Avrei fatto anche io la stessa cosa per te…»
Regina sorrise un po’, abbassando lo sguardo.
Il silenzio cadde di nuovo su di loro e per alcuni istanti, la casa sembrò ritornare tranquilla, Emma riusciva persino a percepire il respiro di Henry nel salotto.
Poi una di loro lo ruppe.
«Visto che stasera siamo in vena di confessioni, anche io ho qualcosa da dirti…»
Abbassò lo sguardo.
Sembrava imbarazzata.
Emma non aveva mai visto Regina Mills imbarazzata.
Con uno sguardo la incoraggiò a parlare.
«Sono stata con Robin…»
La donna per poco non si strozzò con la birra che stava bevendo.
«Cosa?! E quando?!»
«Qualche sera fa… Inutile dirti che mi sento una merda…»
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Ci risiamo! Sai, tu e Killian andreste davvero d’accordo! Tutti e due occupati a portare il peso del mondo sulle spalle…»
«Sta parlando "Miss-è-tutta-colpa-mia-Killian-perdonami”…»
La donna le fece una linguaccia.  
«Ok, ok, forse anche io tendo ad essere leggermente critica con me stessa…»
Regina alzò un sopracciglio alla parola “leggermente”.
Sì, certo, come no!
«…Ma penso che ciò che è successo sia stata colpa tua quanto sua… Certe cose si fanno in due, Regina!» mormorò Emma, beccandosi un’altra occhiataccia.
«Pensi che non lo sappia?! È solo che…»
Lasciò la frase in sospeso ed Emma la colse al volo.
«Hai paura…» continuò l’altra per lei.
Non rispose.
Aveva paura?
Non aveva avuto neanche il tempo di soffermarsi a pensarci veramente.
Gli eventi degli ultimi giorni l’avevano travolta come un fiume in piena.
Aveva paura?
No, andiamo, di cosa avrebbe dovuto aver paura?
Del fatto che lui la facesse ridere? Del sobbalzo che il suo cuore faceva ogni qual volta lui era nei dintorni? Delle sorprese, del suo sorriso, del loro rapporto?
Cazzo, sì.
Aveva paura.
Paura che tutto quello fosse stato solo un grande sbaglio, paura della piega che quell’insolita relazione avrebbe potuto prendere, paura del modo in cui sarebbe potuta terminare. Ci era dentro fino al collo e se ne rendeva conto solo adesso, nel buio della sua cucina, con gli occhi della sua amica puntati addosso.
Quando aveva permesso al suo cuore di ricominciare a battere?
«Ti capisco… Anche io ne avevo e mentirei se ti dicessi che non ne ho ancora… suppongo sia nella nostra natura di donne costantemente sole e deluse dalla vita…»
«Che bella concezione hai di noi Swan!» mormorò sarcastica, agguantando la lattina di birra perché bere era sicuramente meglio che pensare ancora.
«Ma è la verità… Siamo state sole per troppo tempo e adesso che qualcuno è riuscito a smuovere qualcosa dentro di noi, abbiamo paura che tutte quelle certezze a cui siamo state legate per tutta la vita, verranno distrutte e…»
«Non hai capito il punto, Swan! – la interruppe Regina - sua moglie è in coma, è malata, lui è… è sposato!»
«E con questo?! Killian mi ha odiato per buona parte della sua vita e io credevo che non l’avrei mai più rivisto e che non mi avrebbe mai perdonato… Ci sono degli ostacoli e ce ne saranno sempre e tu lo sai meglio di me, ma se lui è entrato nella tua vita, sicuramente un motivo ci sarà… devi solo scoprire quale…»
Regina ascoltava e sì, era toccata dalle parole di Emma ma era più facile ritirarsi dietro il suo grigio cinismo che ammettere quanto la sua amica avesse ragione.
Era la sua natura e non avrebbe potuto cambiarla neanche in quella notte.
«Da quando sei diventata tipa da frasi dei biscotti della fortuna?!» chiese, ingoiando un altro sorso di birra.
Costatò con disappunto che la lattina fosse quasi vuota.
«Suppongo sia merito di Killian…»
Regina roteò gli occhi. Non aveva mai visto Emma così felice come quel periodo e nonostante i fantasmi del passato ancora la perseguitassero, stava davvero cercando di fare del suo meglio per scacciarli.
E, doveva ammettere, che Jones la stava aiutando molto.
«Penso che mi andrò a stendere sul divano assieme ad Henry… Ho un po’ di sonno!» mormorò soffocando uno sbadiglio.
«Non dire sciocchezze! Vi ho preparato la camera degli ospiti, è già pronta…»
Emma le sorrise, poi si incamminò verso il salotto, prese Henry in braccio e si diresse verso la camera che da tempo, considerava quasi sua.
Pensò che non sarebbe riuscita ancora per molto a trasportare Henry in quel modo perché il tempo passa e il suo bambino stava crescendo.
Il cuore le si strinse.
Sentì Regina seguire i suoi passi.
Le aprì la porta ed Emma adagiò piano Henry sul letto a due piazze della grande camera degli ospiti.
«Buonanotte Swan!»
«’Notte Regina…»
Chiuse la porta.
Adesso il cuore di Regina era ancora vuoto.
Ma i pezzi stavano pian piano ritornando al loro posto.
 

Il giorno dopo, l’umore di Emma non era dei migliori.
Parlare non era esattamente il suo forte, però era giunta l’ora, avrebbe dovuto farlo.
Si sarebbe arrabbiato?
Sperò di no, ma non lo sapeva con certezza.
Svegliò Henry e scesero di sotto, trovando la padrona di casa già in piedi e vestita di tutto punto, pronta ad andare a lavoro.
«Vai già a scuola?» chiese Emma, piuttosto sorpresa. Pensava che Regina si sarebbe presa qualche giorno per stare a casa, per affrontare il lutto e pensare. Anche se, riflettendoci bene, neanche lei, al suo posto, avrebbe voluto chiudersi in casa ad autocommiserarsi.
«Sì, lo spettacolo sarà tra qualche settimana e devo assistere alle prove…»
Sapeva fosse una bugia ma non commentò.
Annuì. Si versò un po’ di caffè e vide Henry mangiucchiare un po’ della famosa torta di mele di Regina, ancora leggermente assonnato.
«Henry se ti sbrighi, ti accompagno io a scuola, così non prendi il pullman…» mormorò la donna, versandosi a sua volta un altro po’ di caffè.
Gli occhi del bambino si illuminarono. Primo perché odiava prendere il bus perché, a suo dire, non riusciva mai a trovare un posto decente e per di più arrivava sempre troppo presto a scuola; secondo perché, quasi sicuramente, la donna lo avrebbe accompagnato con la sua fiammeggiante macchina rossa e lui la adorava.
In dieci secondi (Emma li contò), Henry finì il suo latte e corse di sopra a darsi una sistemata.
I libri erano al loro posto nell’armadietto e non avrebbe dovuto neanche passare da casa per prendere i quaderni perché, appena tornato dalla gita, non aveva avuto molti compiti.
«Che farai oggi?» chiese Regina, sorseggiando il suo caffè.
Quel giorno indossava un bellissimo tubino nero, che le fasciava il corpo mettendo in risalto le sue curve perfette. Emma avrebbe tanto voluto sentirsi a proprio agio in un abito del genere, corto e stretto, ma proprio non ci riusciva.
Non perché il suo corpo non le piacesse, anzi. Semplicemente non amava lasciare troppa pelle scoperta.
Quando ballava al “Rabbit Hole” invece…
No, Emma, dannazione! Non devi pensarci!
Scosse la testa per scacciare via quei pensieri.
«Niente di che… io e Killian dobbiamo finire i progetti di casa Gold! Il matrimonio si avvicina…»
Regina annuì.
«Glielo dirai oggi?» chiese ed Emma sapeva benissimo a cosa la donna si stava riferendo.
Annuì.
«Non ti preoccupare, non si arrabbierà… è totalmente cotto che potresti anche dirgli di andarsi a buttare dall’Empire e lui lo farebbe senza batter ciglio!»
«REGINA!» la apostrofò la donna, dandole una leggera pacca sulla spalla.
«Che c’è?! Non dirmi che non è la verità!»
Emma rimase in silenzio.
Sì, lui la amava, lo sapeva, sentiva ancora la sua calda voce sulla pelle mentre glielo diceva, come se fosse la cosa più ovvia e giusta del mondo.
Lo amava anche lei, così tanto da star male.
Eppure…
Eppure Regina non aveva visto la sua espressione, quel primo giorno a Storybrooke. Non aveva visto i suoi occhi incupirsi ed abbassarsi, al solo accenno di ciò che lei gli aveva fatto passare. Non aveva visto come si era ridotto, quella sera stessa, per cercare di dimenticare ciò che quel posto gli ricordava.
Non ne avevano più parlato perché Emma aveva deciso di dargli tutto il tempo che voleva, ma sapeva che c’era dell’altro, che quella calma apparente fosse soltanto una copertura e che anche Killian Jones soffriva.
«Mamma?! Ci sei?!»
La voce di Henry la riscosse da quei pensieri.
Il suo bambino (doveva smetterla di chiamarlo così, aveva quasi undici anni ormai!) era lì davanti a lei, pronto e sorridente.
«Ci vediamo dopo!» mormorò scoccandole un bacio sulla guancia.
Emma ricambiò.
«A casa! Oppure passa dal negozio!»
Il ragazzino annuì e la salutò ancora una volta con la mano, prima di varcare la grande porta bianca.
«A dopo Swan! Fammi sapere…»
Regina lo seguì, stringendo in una mano un bicchiere di caffè e nell’altra le chiavi della macchina.
Emma annuì.
Lanciò una breve occhiata all’orologio appeso in cucina e decise di muoversi.
Prese tutta la sua roba e quella di Henry e poi chiamò un taxi. Andò a casa, si fece una doccia e si vestì.
Mandò un messaggio a Killian ma non ottenne nessuna risposta. Molto probabilmente dormiva ancora oppure, conoscendolo, era già a lavoro.
Decise di raggiungerlo.
Si infilò le scarpe, prese la borsa e uscì.
Guidare la rilassava e si era ormai abituata ai ritmi di New York. Il traffico la infastidiva ancora un po’ però, soprattutto se era di fretta.
Raggiunse casa di Killian in molto più tempo di quanto si fosse prefissata. Si fermò al piccolo chiosco sotto casa sua, per comprare due caffè e poi suonò il campanello.
«Swan! Mattiniera oggi?» mormorò Killian, aprendole la porta.
Emma pensò che fosse bello e poi pensò che avrebbe dovuto darsi una calmata, perché, andiamo, non era mica un’adolescente alla sua prima cotta.
Si chiuse la porta alle spalle e gli porse il caffè che lui afferrò senza troppe cerimonie.
«Ti ho svegliato?!» chiese, assaggiando un po’ di liquido bollente e andandosi a sedere in cucina facendosi spazio tra la miriade di fogli e foglietti sparsi sul bancone.
«Tu puoi svegliarmi quando vuoi, tesoro!» mormorò Killian, facendole l’occhiolino.
Che idiota!
Alzò gli occhi al cielo, reprimendo un sorriso.
Perché era lì?
Ah, sì, giusto, la lettera.
Si toccò la tasca posteriore dei jeans, quasi a volersi assicurare che quel foglietto ripiegato fosse ancora lì.
«Devo dirti una cosa…» mormorò, fissando le mani intrecciate attorno al bicchiere di carta.
«Sì, beh anche io! Ieri dopo averti accompagnato da Regina non avevo un granché da fare, così mi sono messo a lavorare e ho abbozzato un piccolo progetto per tutte le altre camere che ci restano…»
«Tutte?!» chiese, stupita.
L’uomo annuì, poi continuò a parlare.
«Niente di speciale, Swan! Non guardarmi come un alieno! Ho semplicemente fatto il mio lavoro…» mormorò abbozzando un sorriso imbarazzato.
Emma sorrise. Da quando era diventato così modesto?!
«Mi piacerebbe vederli… Ho ricevuto un messaggio qualche giorno fa, non ricordo se te l’ho detto, ma una signora ha intenzione di portarmi tredici scatoloni in negozio…»
«Tredici?! Probabilmente ne butteremo la metà!» rise Killian, finendo di bere il suo caffè e dirigendosi verso il divano dove, quasi sicuramente, aveva abbandonato il suo laptop.
Emma sorrise ancora, perché Killian si era auto-incluso nella maggior parte della sua vita e anche in quell’operazione semi-noiosa che la aspettava una volta ricevuti i tredici scatoloni.
La lettera restò lì, nella tasca destra dei suoi jeans, dimenticata.
 

Regina doveva ammettere che quell’anno, lo spettacolo di Natale sarebbe stato un vero e proprio disastro. Non perché i suoi allievi non fossero all’altezza delle sue aspettative, anzi.
Probabilmente era il tema che gli insegnanti avevano scelto, che non la convinceva del tutto.
“Lo schiaccianoci” era fin troppo banale, per i suoi gusti.
Probabilmente le ricordava quando, qualche anno prima, lei stessa cercava di farsi largo in quel mare di piragna, per ottenere il ruolo della protagonista.
Sì, forse…
In realtà, non sapeva bene neanche lei cosa ci fosse di così poco convincente in tutta quella storia, se fossero le coreografie, gli insegnanti o i ballerini.
Sospirò, congedandosi e ritornando nel suo ufficio, seguita a ruota dalla sua segretaria.
Aprì la porta, massaggiandosi le tempie.
«Ehi…»
Per poco non urlò dallo spavento. Fortunatamente lei era Regina Mills e sapeva autocontrollarsi.
«Robin! Che ci fai qui?» chiese, cercando di reprimere anche l’altro miscuglio di sentimenti che si liberava quando l’uomo era nei paraggi.
«Ormai conosco la strada…» mormorò lui, alzando le spalle.
Era seduto su una piccola poltroncina di fronte alla scrivania di Regina, la stessa di qualche settimana prima, ricordò la donna. Scosse la testa, come se il posto dove fosse seduto, significasse qualcosa.
Regina andò a sedersi al suo posto, dietro di lei tanti piccoli grattacieli le facevano da sfondo.
«È successo qualcosa? Roland come sta?»
«Sta bene e non deve essere successo per forza qualcosa se vengo a trovarti…» mormorò lui, con ovvietà.
La donna non rispose.
Mosse il mouse (così come le aveva insegnato Henry) e aspettò che il grande schermo del computer si illuminasse.
«Tu come stai?»
Eccola.
Stava cominciando a chiedersi quando quella stupida domanda sarebbe arrivata.
Come stava…
Come voleva che stesse?!
«Sto bene Robin, non devi preoccuparti…»
L’uomo alzò gli occhi al cielo.
«Sei una pessima bugiarda!»
«Robin, ho molto lavoro da sbrigare…»
Di nuovo il muro, di nuovo le barriere.
«Perché non ti sfoghi Regina? Per una buona volta perché non mi dici cosa diavolo ti passa per la testa?!» sbottò l’uomo.
Forse stava oltrepassando il limite ma non poteva più continuare così.
La morte di Cora Mills gli aveva ricordato quanto poco tempo avessero a disposizione e no, non era pessimismo, era pura realtà.
Non aveva più intenzione di sprecare un singolo istante della sua esistenza e voleva che anche Regina facesse lo stesso.
«Chi ti credi di essere Robin? Ci conosciamo da neanche due mesi e vieni qui, ti metti comodo e pretendi sapere ogni cosa che mi passa per la testa?! Tu non mi conosci! Credi di farlo, ma non è così! Vuoi sapere come sto?! Beh, mi sento una merda! Perché ho perso mia madre, lo spettacolo sarà un buco nell’acqua e per giunta, mi sono innamorata di uno stupido uomo sposato!» urlò.
Cosa?
Entrambi spalancarono gli occhi.
Cosa?
«Regina…»
«Esci di qui Robin, ti prego…» mormorò la donna, cercando di mantenere, ancora per un po’, la sua grigia maschera di indifferenza.
Si sarebbe presa a pugni dopo, da sola.
L’uomo si alzò, lentamente, ancora intontito.
Aveva capito bene?
Aveva davvero detto quello che aveva sentito?
Certo che aveva capito bene, non era mica stupido.
Si diresse verso la porta e prima di aprirla, si voltò.
«Non puoi pretendere che io adesso dimentichi tutto…» disse, guardandola negli occhi e sperando che lo fermasse, che gli chiedesse di restare.
Non accadde.
Aprì la porta e uscì e poté giurare che, dall’altra parte, l’avesse sentita sussurrare qualcosa, qualcosa che assomigliava tanto ad un “mi dispiace”.
 
 
«Come siamo finiti qui?» chiese la donna, stropicciandosi gli occhi.
«Be’, tu hai detto che mi avresti cucinato la pasta e poi…»
Emma alzò gli occhi al cielo. Non capiva se fosse una malattia o meno ma, da quando aveva ricominciato a frequentare Killian Jones, la bambina impulsiva che era in lei, aveva cominciato a riemergere.
«Sì, però lasciami un po’ di coperte… Si gela!» si lamentò.
«Sai cosa?! Vado a farmi una doccia e poi ordino il pranzo… il sugo verde me lo farai un’altra volta!»
Emma rise, ancora stupita che non avesse mai assaggiato il pesto nel corso della sua lunga vita.
Killian si alzò e, senza alcuna inibizione, si diresse in bagno.
«Swan, se vuoi ti do qualche foto autografata…»
Di tutta risposta, si beccò un cuscino in faccia.
Rise e dopo aver preso un paio di boxer dal tiretto sotto l’armadio, si incamminò in bagno.
Mentre l’acqua gli scivolava addosso, pensò che la sua vita, adesso, gli piaceva.
Sì, pensò proprio questo.
Mi piace questa vita.
Mi piace svegliarmi la mattina e aspettare che Emma arrivi e mi porti il caffè.
Mi piace anche raggiungerla da qualche parte e lavorare assieme a lei.
Mi piace prenderla in giro, mi piace baciarla e mi piace passare del tempo con lei.
Pensò che non aveva mai formulato un pensiero del genere, dacché ne avesse memoria.
Tutta la sua vita era stata un susseguirsi di abbandoni, di difficoltà e per una volta, per una volta quell’ansia, quella rassegnazione e quella mancanza perenne che sentiva all’altezza del cuore, erano svaniti. Tutto era svanito.
Si rivestì velocemente e afferrò il telefono, chiamando il primo ristorante che trovò sulla rubrica.
«Ho ordinato il sushi… lo mangi vero?!» chiese, rientrando in camera.
Quando alzò lo sguardo, si sorprese un po’.
Emma aveva rifatto il letto, si era rivestita ed era seduta in un angolino, quasi temesse di sgualcire le coperte.
Aveva lo sguardo basso e Killian notò che fissava un piccolo foglietto che continuava a rigirarsi tra le mani.
Si andò a sedere accanto a lei e il materasso sprofondò sotto il suo peso.
Gli sembrò che il buonumore di prima fosse stato spazzato via e non sapeva ancora bene perché.
«È successo qualcosa? Cos’è quello?» chiese e si vergognò ad ammettere che un po’ aveva paura della risposta.
La donna puntò i suoi grandi occhi verdi su di lui e, senza dire nulla, gli porse il bigliettino.
Lo afferrò e cominciò a spiegare il foglio.
Riconobbe la sua scrittura, riconobbe la data e non ci mise molto a riconoscere ciò che c’era scritto.
Le parole gli ritornarono in mente quasi fossero state il testo di un’antica canzone che non cantava da tempo.
Probabilmente sbarrò gli occhi, non se ne accorse.
Strinse la presa su quel vecchio pezzo di carta.
Si passò una mano sugli occhi, di colpo incredibilmente stanchi.
Gli sembrò di ritornare nel suo vecchio appartamento, quello che condivideva con Liam dall’arresto di suo padre, quello che aveva conosciuto Emma e anche Milah, gli sembrò di tornare nella sua camera, gli sembrò di essere seduto sulla sua scrivania e gli sembrò di stringere in mano quella penna nera e di incidere quel foglio per la prima volta.
Gli sembrò perfino di riprovare gli stessi sentimenti, odio, amore, nostalgia, rassegnazione, ribellione e forse ancora odio.
«Dove l’hai trovata?» chiese e nessuno dei due riuscì a capire dopo quanto tempo.
«In un libro, in salone…»
Passarono altri secondi, interminabili.
Gli occhi di Killian continuavano a scorrere quelle parole.
«Inutile chiederti se l’hai letta, vero?»
Il suo tono sembrava sarcastico, forse un po’ troppo. Emma rialzò lo sguardo e lo puntò di nuovo su di lui.
Voleva spiegargli, voleva dirgli ciò che quella lettera le aveva fatto fare, voleva dirgli che lo capiva e che andava bene così, sapeva che si meritava tutto l’odio che lui le aveva indirizzato e voleva dirgli che, per lei, non sarebbe cambiato proprio niente e che avrebbe continuato ad aspettarlo, sempre.
«Killian, io…»
«No, Emma… Ho bisogno di… Ho bisogno di stare da solo… A-adesso, ho bisogno di stare da solo…»
La donna annuì.
Era giusto.
Lo capiva.
Ma doveva dirglielo.
«Ascolta, so che ci sono cose del tuo passato che non vuoi dirmi e va bene così, davvero… Sono la prima ad avere problemi con me stessa e le parole e, insomma, lo sai… Ma ciò che c’è scritto in quella lettera non cambierà niente tra di noi, almeno non per me… So quello che ti ho fatto Killian e so che per buona parte della mia vita mi hai odiato e non riuscirò mai a perdonare me stessa per questo… Non devi fartene una colpa se quell’odio che provavi ti ha spinto ad andare avanti, a diventare la bellissima persona che sei adesso… Non mi importa cosa tu abbia fatto o con chi sia stato, mi importi tu e…»
Faticava a trovare le parole adatte ed entrambi se ne accorsero.
«Emma io… n-non l’hai capito? Questa lettera è molto altro…» mormorò prendendo il foglietto tra l’indice e il medio.
«Ti ho odiato, ho cercato di odiarti con tutto me stesso, perché non riuscivo a capire, non riuscivo a spiegarmi perché…» disse e, probabilmente, lo ammise ad alta voce per la prima volta.
Le parole svolazzarono in aria per un po’ e lui le lasciò lì, in attesa che svanissero. Poi, dopo qualche secondo, continuò.
«Ma ti ho anche amato, sempre… e questa lettera, come tutte le altre, ne è la conferma…»
Entrambi avevano gli occhi lucidi.
«Lo so…» sussurrò, lasciandogli una carezza.
Lui chiuse gli occhi e si lasciò andare a quel tocco gentile che durò troppo poco.
Quando riaprì le palpebre, di Emma non c’era più traccia.
Sentì la porta di ingresso sbattere.
 
 
Il passato.
Cos’era in fondo?
Poteva davvero determinare una persona?
In quel momento, non lo sapeva neanche lui.
Era da un po’ che non si ritrovava a pensare a ciò che era successo, che gli era successo.
Per qualche tempo, aveva persino pensato che sarebbe riuscito a dimenticare, a superare tutto.
Aveva scelto il tipo di uomo che voleva diventare e lottava ogni giorno per continuare ad esserlo. Era inutile ripensare ai momenti di debolezza, perché aveva scelto di andare avanti, continuare la vita come se niente fosse.
Tuttavia quella lettera aveva lacerato quel sottile cielo di carta sopra di lui.
Come un automa, aprì le ante dell’armadio, frugò sotto dei vecchi vestiti e vecchie cianfrusaglie e prese una scatola.
Signori e signore tenetevi forte, il viaggio nel passato sta per cominciare
Un’insegna rossa continuava a lampeggiare nella sua testa e lui chiuse gli occhia per qualche istante, in modo da scacciarla via.
Aveva mentito, i suoi ricordi, le sue parole non erano sparse per l’appartamento, erano tutte lì, in quella scatola che strabordava di lettere, fotografie, libri e profumi e non riusciva a spiegarsi come quella lettera fosse finita in quel libro.
Suppose fosse tutto un altro scherzo del destino.
La aprì e raccolse tutti i fogli sparsi, ignorò le foto.
Ne aprì qualcuno e fu catapultato anni addietro, dodici, undici, non lo sapeva neanche lui, fu come se niente fosse cambiato e lui era ancora un adolescente ribelle alla disperata ricerca del suo posto nel mondo.
 
Credo di aver trovato l’unica persona in grado di guarirmi.
 
Oggi ho provato a cucinare. Non so perché, non so cosa mi abbia davvero spinto a mettermi davanti ai fornelli. Forse mia madre, da lassù, mi ha ricordato che non posso vivere di tonno in scatola per sempre.
 
Ho litigato con Liam. Sembra che voglia partire anche lui. Sai, forse sono io a non essere alla vostra altezza…
L’università è ciò che mi permette di restare a galla.
 
Erano ordinate, dalle più recenti alle più lontane.
Le mani cominciarono a tremargli quando arrivò ai mesi in cui lei se n’era andata.
Voleva rileggere quelle parole?
No.
Eppure non si fermò, spiegò quei fogli e li distese ordinatamente sul letto.
Era pronto a rivivere tutto quello? Era pronto a rispolverare i suoi scheletri?
No.
Ma lesse tutto comunque.
Storybrooke, 22 Ottobre 2003
 
Domani è il tuo compleanno.
Ti amo.
Non lo saprai mai ma ti amo.
  
C’era scritto solo quello sul quel pezzo di carta.
C’era scritto solo quello ma, su quel foglio, Killian riuscì a leggere molte altre cose, cose a cui non pensava da molto molto tempo.
Lesse di una notte più buia del solito, di un bagno sconosciuto e di labbra rosse. Lesse di un ragazzo senza più niente da perdere e pronto a tutto pur di dimenticare.
Lesse della sua eccitazione e della voglia di provare.
Lesse di un ago, infilato proprio nel suo braccio.
E poi lesse di stelle cadenti, fiamme e capelli biondi e luci bianche e letti d’ospedale.
Scorse la paura in un paio di occhi azzurri, così simili ai suoi eppure così lontani.
Lesse tutto quello su quel foglio o forse lo ricordò solamente.
Un ragazzo abbandonato dal mondo che aveva provato a vivere e non ce l’aveva fatta.
Nessuna Emma, nessuna Milah.
Solo lui, lui e le sue colpe, lui e i suoi scheletri.
Era questo che tanto lo spaventava?
Sì.
Sì, dannazione!
Aveva paura di ricascarci?
No, in realtà, no.
Aveva paura di ammetterlo, di ricordarlo, di raccontarlo.
All’epoca non sapeva perché lo avesse fatto. Non voleva mettere fine alla sua vita, non era davvero quella la sua intenzione. Avrebbe trovato qualcosa di più immediato, in quel caso, non era certo stupido.
Eppure quel giorno, quando si risvegliò in un letto d’ospedale, con la gola secca e qualcos’altro ficcato nel braccio, suo fratello lo accusò di quello.
Ma non era quella la sua intenzione, non lo era mai stata.
E allora perché lo hai fatto Killian? Continuava a ripetergli Liam e lui non lo sapeva, scuoteva la testa che gli pulsava e voleva solo farlo smettere di urlare, così alla fine, aveva ammesso ciò che lui voleva fargli ammettere.
Dopo non avevano più parlato di quell’episodio, non davvero, mai veramente.
Eppure, all’epoca, si rese conto che suo fratello divenne una presenza più insistente nella sua vita. Lo controllava da lontano, si preoccupava per lui e lui, da adolescente ribelle quale era, gli diede un bel po’ di filo da torcere. Per un po’ Liam aveva voluto persino rifilargli uno strizzacervelli ma lui non ci era mai andato.
Finì tutto la vigilia di Natale, in quel bagno grigio.
Quella sera si liberò dell’odio e del rancore, si liberò dell’alcool che aveva in circolo e si liberò di quei mesi di sregolatezze.
Liam se ne accorse non appena lo guardò in faccia, ma non disse nulla, preferì aspettare.
La paura di finire di nuovo in ospedale, la paura di perdere anche lui fu forte in quei mesi, ma non disse niente.
Gli lasciò i suoi spazi e i suoi tempi e piano piano, Killian ritornò ad essere sé stesso o, forse, la brutta copia di ciò che era stato.
Anche lui aveva odiato Emma e Killian lo sapeva.
L’aveva odiata perché era più facile incolpare lei che sé stesso, rinfacciarle il suo abbandono in modo tale da dimenticare la sua assenza e anche Killian cercò di farlo per la maggior parte della sua vita.
Entrambi preferivano non fare i conti con la realtà.
Una parte di Liam sapeva che se fosse stato più presente nella vita di suo fratello, se quel maledetto desiderio di abbandonare quella casa degli orrori non si fosse presentato, probabilmente quell’inferno non si sarebbe mai scatenato e Killian avrebbe sofferto per la perdita di Emma, sì, ma sarebbe andato avanti, come tutti si aspettavano che facesse, come lui si aspettava che facesse.
Non aveva fatto i conti però con il passato, un passato dal quale entrambi non poteva scappare, un passato che aveva segnato lui quanto Killian, spezzandolo.
Forse fu per questo che lo fece.
Ma lui preferiva non pensarci.
La colpa era di Emma, solo sua, e piano piano anche Killian cominciò a crederci.
La lettera che aveva trovato, ne era un esempio lampante.
Se lei non se ne fosse andata così, di punto in bianco, forse sarei stato intero, normale, si diceva.
Era la verità, la pura e semplice verità.
Tuttavia non poteva cancellare tutto quello che aveva condiviso con Emma, non poteva premere nessun bottone o prendere nessuna pozione. Si sforzava di odiarla ma in cuor suo, sapeva che non sarebbe mai riuscita a dimenticarla.
Nei mesi successivi, quando le parole dei libri cominciavano a sbiadire e il caffè non riusciva più a fargli tenere gli occhi aperti, si ripeteva quelle parole e si abbandonava ad un sonno profondo, senza sogni, pesante e ristoratore.
Il tentato suicidio, non fu mai più nominato.
Non lo sapeva neanche Milah.
L’aveva relegato in un luogo oscuro della sua mente, catalogandolo come un brutto sogno, qualcosa che non era davvero successa, qualcosa che non era mai successa.
Ma ormai aveva imparato che sì, il passato non sempre ci determina, ma che da lui non puoi sfuggire.
La voce di Emma ritornò a rimbombargli nelle orecchie.
Non le importa.
Non le importa.
Aveva tentato il suicidio?
No, non lo sapeva.
Adesso?
Una vocina, dentro la testa, continuava a ripetergli qualcosa, qualcosa di fastidioso e forse vero.
Non voleva morire quel giorno.
Ma se fosse successo, non ne sarebbe stato triste.
No, non perché lei non c’era più.
O meglio, sì, lei aveva una parte importante nella sua vita, ma non era tutto.
Le botte, i vetri rotti, i cocci di bottiglia, gli schiaffi, suo padre erano ancora un ricordo troppo vivido da poter essere definito tale.
Liam era al college, sua madre sotto terra, i suoi amici non erano davvero le persone su cui poter contare. All’epoca, gli avrebbe fatto comodo conoscere una persona come David perché lui, lui sicuramente lo avrebbe riportato a galla.
Era perso, perso e solo e sì, quella siringa forse gli avrebbe fatto vedere le stelle, forse lo avrebbe aiutato a guarire, a dimenticare, almeno per un po’, tutto quello che era successo.
Non lo sapeva nessuno, né Milah, né David, né nessun altro.
Emma.
Emma sarebbe stata la prima.
Lo era sempre e lo sarebbe rimasta.

 
«Sei diventato un incubo ormai…» mormorò la donna, quando, dopo essere rientrata a casa e aver trovato le luci accese, si era ritrovata i suoi occhi ad un palmo dal naso.
Si scostò velocemente, quasi potesse scottarsi da un momento all’altro. Posò il grande ombrello che aveva afferrato per proteggersi vicino all'ingresso e poi si diresse verso il salotto. 
«Faccio finta di non aver sentito…» decise lui, seguendo i movimenti della donna, attento.
«Sai mi aspettavo più fantasia da parte tua… Le chiavi sotto il vaso sono così fuori moda!»
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Sono talmente fuori moda che nessuno ha mai pensato di vedere lì sotto da quando vivo qui!» constatò, incamminandosi verso il divano.
L’uomo la seguì, rapito dai suoi movimenti leggeri e aggraziati. A volte gli sembrava un felino, elegante e letale.
Era vero. Neanche lui era riuscito a trovarle al primo colpo.
Fortunatamente poi, aveva chiamato Emma e l’aveva pregata di venire in suo soccorso.
Adesso che ci pensava, sembrava abbastanza sconvolta. Forse avrebbe dovuto chiederle cosa fosse successo, invece di assillarla con i suoi problemi.
Forse avrebbe dovuto rifiutare quando la stessa donna, si era offerta di portare Roland a casa sua, per lasciare a lui e Regina il tempo e lo spazio per parlare.
Gli dispiacque. Quella donna gli ispirava fiducia e voleva esserle amico, considerando che lei e Killian sembravano davvero fare sul serio e considerando anche che anche lui voleva fare sul serio con Regina.
Aspetta, cosa?
Scacciò via quei pensieri dalla testa. Per quanto fossero importanti, aveva questioni ben più urgenti da sbrigare.
«È successo qualcosa?!»
La voce di Regina lo riportò alla realtà. Ci risiamo!
«Questo devi dirmelo tu Regina…» mormorò l’uomo, sedendosi accanto a lei.
«Chiederti di dimenticare ciò che hai sentito stamattina sarebbe troppo, vero?» chiese lei, con lo sguardo basso.
Sì, era vero si era innamorata di lui.
Ma questo non rendeva di certo le cose più facili, anzi!
«Sì, direi di sì! Anche perché anche io mi sono innamorato di te…»
La sua voce fu calma e naturale, come sempre, come se le stesse elencando la lista della spesa o le stesse chiedendo con cosa volesse la pasta. Per lui era tutto così facile! Avrebbe voluto vedere il mondo con i suoi occhi, anche se per qualche istante.
«Non possiamo Robin…» mormorò, abbassando di nuovo lo sguardo e scansandosi al suo tocco gentile. Lui non si arrese. Le prese la mano e ne carezzò il dorso.
«Perché?»
«Lo sai perché…»
«Non è vero, non lo so, dimmelo tu…»
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Guardaci… tu hai un figlio e una moglie e io…»
Robin notò che la donna continuava a rigirarsi un piccolo anello tra le dita. Non l’aveva mai notato perché non era appariscente come gli altri. Era d’argento, sottile e semplice.
«Cosa è successo Regina?» chiese e la sua voce fu talmente gentile e calma che lei non poté che arrendersi ad essa e cominciare a parlare, a raccontare. Non poté negarglielo perché lui la guardava con quegli occhi azzurri carichi di aspettative e fiducia in lei, in loro, e lei si sentiva un mostro a dover distruggere ogni filo d’erba che piano piano, era ricominciato a spuntare sui loro cuori appassiti.
Gli raccontò di Daniel, dell’unico uomo che avesse mai amato veramente. Gli raccontò degli spettacoli, della loro chimica sul palcoscenico e fuori, di quanto fossero acclamati ed invidiati da tutti i loro compagni e di quanto poco importasse loro. Gli raccontò dei loro progetti, vivere e lavorare insieme, lontani da quella scuola congelata in vecchie regole e lontani dai loro genitori che desideravano di meglio, per entrambi.
Ma cosa ne sapevano loro? Cosa ne sapevano dei baci rubati dietro le quinte, delle estenuanti ore di lezione in cui tutto sembrava più facile se erano insieme, dell’ansia, dell’adrenalina di una presa uscita bene, del sudore e dei lividi? Cosa ne sapevano?
Era tutto perfetto, troppo, perfetto da starci quasi male.
Poi tutto si ruppe, in milioni e milioni di pezzi, schegge mortali che uccisero Daniel e uccisero anche lei.
Lui però, non riaprì mai più gli occhi.
E sì, il destino è proprio crudele, è proprio bastardo il destino, continuava a ripetere, perché sai che giorno era? Sai che giorno era? Era il giorno del nostro matrimonio, non l’avevamo detto a nessuno, lo sapevamo noi due, Emma ed un suo amico, i nostri testimoni, non l’avevamo detto a nessuno perché sapevamo che nessuno ci avrebbe appoggiato, né mia madre, né i suoi genitori, ma io l’amavo e lui amava me e non ce ne importava niente di ciò che pensava la gente.
Eravamo felici, capisci?
Poi una macchina, spuntata chissà da dove, lo ha investito ed è morto sul colpo, non ha sofferto, è morto e mi ha lasciato e il conducente non si è nemmeno fermato a vedere cosa aveva fatto, è scomparso.
Le parole fuoriuscivano dalle sue labbra come un fiume in piena. Erano rimaste per troppo tempo incollate al palato, in attesa di essere pronunciate ma lei non aveva mai avuto il coraggio, persino Emma l’aveva saputo da altri o forse era lì con lei, non lo ricordava.
Chiuse gli occhi perché faceva ancora male, il dolore non se n’era mai andato, forse non era forte come il primo giorno, ma era sordo, continuo e c’era ancora, ci sarebbe stato sempre.
Una singola lacrima le solcò il viso. Robin avrebbe voluto abbracciarla, consolarla.
L’anello, i muri, le barriere, i dubbi, i silenzi, avevano trovato una risposta.
Voleva dirle tante cose ma non sapeva da dove cominciare.
Non era facile, niente lo era mai stato.
«Regina io…»
«Se provi a dire che ti dispiace ti tiro un pugno!» lo minacciò e per qualche istante, il sorriso ritornò sulla bocca di entrambi. Forzato, ma era pur sempre un sorriso.
«Ok, non lo dirò… Anche se ciò che avrei voluto dirti era altro…»
La donna si asciugò un po’ gli occhi e gli fece un cenno con la testa, invitandolo a parlare.
«Non posso dirti che sarà facile, perché probabilmente non sarà così… Non posso neanche immaginare cosa tu debba aver passato, quanto dolore debba aver provato, ma sono passati tanti anni e non puoi semplicemente mettere il tuo cuore sotto vuoto, con la paura che possa spezzarsi ancora… Non puoi condurre una vita apatica e monotona soltanto perché hai paura di soffrire… Devi reagire e so che lo hai fatto, perché se non lo avessi fatto non saresti dove sei oggi, ma devi continuare a farlo! Perché te lo meriti, tutti meritano un lieto fine e anche tu…»
«Credi che il mio lieto fine possa essere tu?!» mormorò la donna, testarda.
«Non ho mai detto questo… Ma l’amore… Be’, quello penso sia il lieto fine di tutti…»
Lei annuì. Non sembrava ancora molto convinta e Robin non ne era per niente sorpreso. Forse lo sarebbe stato del contrario.
«E se tua moglie…»
«Non lo so, ci penseremo al momento… Sono sicuro, però, che capirà…»
La donna rialzò lo sguardo, puntando i suoi occhi scuri in quelli chiari di lui.
«Ho paura…» sussurrò e se ci fosse stata Emma avrebbe urlato che quello era un altro giorno da ricordare, da segnare su ogni calendario del mondo, perché Regina Mills, non ammetteva mai che qualcosa, di fatto, la spaventasse.
«Lo so, ne ho anche io… Ma voglio provarci comunque… e tu?»
Solo allora, la donna si accorse che le loro mani erano ancora intrecciate. Provò uno strano senso di completezza e decise che lei era Regina Mills e al diavolo la paura, niente poteva fermarla.
«Va bene…»
Erano felici e per il momento, le bastava solo quello.
Spinti da una forza e un bisogno che prima avevano cercato di reprimere si avvicinarono.
Un pensiero attraversò la mente di Regina, quasi fosse un vero e proprio fulmine in un cielo quasi del tutto sereno. Si guardò intorno, incerta.
«E Roland?!»
 

Bussò alla porta. Era agitato e accaldato, aveva guidato fin lì senza mai fermarsi e aveva lanciato qualche bestemmia al traffico insopportabile di New York.
Gli aprì Henry, seguito a ruota da un bambino piccolino dai folti capelli castani.
«Roland?!» chiese, sorpreso. Il bambino gli si appiccicò alle gambe.
Lui gli scompigliò i capelli, non lo vedeva da un po’, lo prese in braccio e constatò che fosse cresciuto.
«Che ci fai qui? Dov’è Emma?»
«Mamma ha detto che Robin e zia Regina volevano stare un po’ da soli, così ha portato Roland qui! Stiamo giocando insieme alla Wii!» rispose Henry, prendendolo per mano e trascinandolo in salotto, per mostrargli il nuovo gioco che un suo amico gli aveva prestato.
Killian lasciò Roland.
«Capisco…»
Si guardò ancora intorno, aspettando che da un momento all’altro una folta chioma di capelli biondi facesse capolino da qualche parte.
Henry forse se ne accorse.
«La mamma non c’è! È dovuta andare al negozio perché una signora l’ha chiamata! Ha detto che doveva portarle tredici scatoloni! Sì, proprio così, tredici scatoloni! E non poteva venire in nessun altro giorno, non ho capito bene perché… Sembrava un po’ antipatica a dirla tutta…»
Killian aveva bloccato il suo cervello alla prima frase.
«È uscita da molto?!»
«No, cinque, dieci minuti fa… Ha detto che però torna presto perché ci deve cucinare la cena! Ha promesso che ci avrebbe fatto gli hamburger come quelli del Mc Donald’s!»
Non ci mise molto a decidere cosa fare.
«Ehm… Vado… Vado ad aiutarla! Sapete, tredici scatoloni sono parecchi… Voi non combinate danni, mi raccomando!»
 Sparì in meno di due secondi. Henry guardò Roland.
«Secondo te cosa intendeva con “non combinate danni”?!»
Il bimbo alzò le spalle. Henry andò in cucina e tirò fuori dal frigo la panna montata.
«Ti va qualcosa di dolce?!»

 
La strada per il negozio fu meno trafficata tuttavia a lui sembrò lo stesso dannatamente lunga e quando finalmente scorse l’insegna in lontananza, sperò almeno di trovare un parcheggio.
La fortuna volle assisterlo e parcheggiò a due macchine di distanza dal maggiolino giallo di Emma.
Ignorò il cartello “CHIUSO” ed entrò.
Le campanelle sopra di lui tintinnarono come sempre.
Lei era di spalle, i biondi capelli sciolti sulle spalle e i cartoni impilati gli uni sugli altri che minacciavano di cadere da un momento all’altro.
«Siamo chiusi, non legge il cartello?!»
«Forse dovreste prenderne uno più grande, non l’ho proprio notato questo cartello!»
Si voltò all’istante, riconoscendo la sua voce. Killian era a pochi passi da lei e si grattava la nuca come sempre, quando era in imbarazzo.
«Ehi»
«Ehi… Sono passato da casa tua e Henry e Roland mi hanno detto che eri qui…»
«Sì, la signora mi ha portato gli scatoloni, “o adesso o mai più” ha detto… - imitò la voce stridula della vecchietta e Killian sorrise - Casa mia è ancora tutta intera?!»
«Per il momento…»
Fu il turno della giovane di sorridere. Gli fece segno di seguirla nel retro e si sedettero sui due sgabelli che di solito occupavano quando lavoravano lì al negozio.
«Devo dirti una cosa…» iniziò l’uomo, interrompendo quel silenzio che era calato su di loro.
«Mi sono licenziata dal “Rabbit Hole”…»
«Cosa? Davvero?»
Per un istante Killian dimenticò tutto e si concentrò su ciò che la donna aveva appena detto. Subito gli ritornò alla mente quella mattinata sul suo divano, quando aveva appena scoperto che Emma lavorasse lì, le sue parole gli rimbombarono nella mente.
«Mi sono perso qualcosa?»
Emma sorrise.
«La lettera… Tu avevi così tanta fiducia in me e io… io invece lavoravo in uno squallido night-club da quattro soldi… non riuscivo a sopportare l’idea di averti deluso così, quel pomeriggio, dopo averla letto, sono andata lì e mi sono licenziata… è stato quasi istintivo, non so ben spiegartelo… so che non posso cambiare il passato e so di averti fatto del male ma ho deciso che voglio essere migliore perché tu ti meriti questo, ti meriti la parte migliore di me…»
Killian la guardava commosso. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per lui. Emma aveva rinunciato a qualcosa che, di fatto, la rendeva felice, per quanto insensato fosse, perché lo amava e anche se non gliel’aveva mai detto apertamente, lui lo sapeva comunque.
Cercò la sua mano e l’attirò a sé.
«Swan, io vedrò sempre la parte migliore di te…»
«Ed io di te…»
«Non so se continuerai ad essere dello stesso parere dopo ciò che sto per dirti…»
Emma si ritrasse, leggermente preoccupata. Alzò un sopracciglio e Killian le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Cosa è successo?»
«Prometti che dopo ciò che dirò tu non darai di matto e non sprofonderai nei sensi di colpa perché davvero, è passato Swan… è il mio passato… io… io ho solo bisogno di dirtelo…»
«Ok, mi stai seriamente preoccupando…»
«Promettilo!» mormorò ed Emma lo fece, seppur ancora non del tutto convinta.
«È… sì, insomma… è successo molto tempo fa quando tu…»
«Killian, se non vuoi… Ti ho detto mille volte che posso aspettare…»
«…te n’eri andata. Era il giorno del tuo compleanno e io… io sono stato ricoverato in ospedale per overdose…»
 
 
We were born in those demon days
Wanted the world to know our names
Looking back, I'd do it all again
Oh, I'd do it all again, do it all again
We were born in those demon days
All those faces won't fade away
Looking back, I'd do it all again
We were born in those demon days
“Demon Days (Do It All Again)” – Wild wild Horses
 
 
Buonasera a tutti!! :)
Se vi state chiedendo cosa avete letto, be’, non vi biasimo…
Non so da dove sia uscito questo capitolo o come il mio cervello abbia effettivamente partorito un’idea del genere xD Spero di non avervi deluso e spero che vi abbia appassionato e sorpreso, così come ha sorpreso me, mentre lo scrivevo! È uno dei capitoli più lunghi che abbia mai scritto e ho deciso di non tagliare niente perché, 1) penso sia un po’ tutto importante 2) vorrei farmi perdonare il ritardo immane con cui pubblico xD Ecco spiegato il motivo per il quale Killian era così restio a dare dei dettagli sul suo passato! Non voleva che Emma si sentisse responsabile per ciò che gli era accaduto (in parte forse lo è veramente, voi che dite?) ma, allo stesso tempo, non aveva il coraggio di ricordare dettagli così dolorosi! Suo fratello non c’era, così come Emma e Killian, anche se non sembra, ha un animo piuttosto sensibile e semplicemente, non ce l’ha fatta più.
Come la prenderà adesso la giovane? Dopotutto, è stata anche un po’ colpa sua… Questo minerà il loro rapporto?
Per quanto riguarda Emma e Regina, molte di voi ci avevano visto giusto! Emma non può lasciare sola Regina in un momento del genere e fortunatamente, chiariscono tutto.
Ma Regina ha anche altro a cui pensare! Finalmente in questo capitolo si capisce cosa sia successo il giorno del famoso incidente… Insomma, il #MaiNaGioia è sempre in agguato! Però Regina non può permettersi di rinunciare a tutto per la paura di soffrire e così accetta la proposta di Robin! (SEAN CI MANCHIIII)
Posso annunciarvi che molto probabilmente, nel prossimo capitolo e nell’altro ancora ci sarà un salto temporale! E non dimenticatevi né di David e Mary Margaret, né di Belle e Gold perché li rincontreremo presto, con qualche sorpresina… :)

Non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate! So che sono ripetitiva ma non posso non ringraziare tutte voi che con le vostre recensioni mi rendete la persona più felice del mondo! Grazie perché continuate a seguire la storia nonostante i miei ritardi immani! Grazie a chi inserisce la storia nelle varie categorie e chi legge in silenzio! Se volete condividere anche voi i vostri pensieri/pareri ne sarei più che felice!!
Un bacione e a prestissimo
Kerri :*
 
 
 PS: Ecco il link della canzone! https://www.youtube.com/watch?v=OsajgG0f5_Y e sì, nel video ci sono proprio la nostra Jen e la nostra Rose (Trilli)! Jen ha diretto questo piccolo cortometraggio! :) Vi consiglio di guardarlo e ascoltare tutte le canzoni se non lo avete ancora fatto! Io ho adorato entrambi! :**
   
 
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