PROLOGO
Luglio
2013
-Giulia!-
Il suo grido disperato giunse alle orecchie della ragazza con la stessa
intensità di una pugnalata, e per un attimo ebbe la
tentazione di mollare tutto
e rimanere lì, con quella famiglia che l’aveva
tanto amata ma che non sapeva.
Non poteva sapere. Scese in fretta
la
rampa di scale, il borsone pieno di vestiti gettati alla rinfusa e il
cuore
ricolmo di un’insana agitazione, e aprì la porta
d’ingresso ad un cielo che
traboccava di luci e ad una sensazione di immenso che
l’avvolgeva in maniera
impetuosa e improvvisa. Decise di non guardare. Sembrava quasi che
volessero
lanciarle una sfida, quelle stelle cui aveva affidato le sue
confessioni più
profonde, come a sottolineare la remota possibilità che
aveva di sopravvivere a
quella fuga matta e disperata. Diamine, questo lo sapeva anche lei. E
sapeva
anche che, se mai fosse ritornata a casa in futuro, non sarebbe stata
più la
stessa ragazza di una volta.
Per
niente.
Avrebbe
preso finalmente in mano la sua vita senza timore, si sarebbe graffiata
la
pelle per trattenerla e non avrebbe mai ceduto ai dubbi, alle
incertezze, a
tutto ciò che in passato le aveva impedito di essere in pace
con se stessa e
con il mondo.
Avrebbe
ottenuto la sua rivincita, deridendo il destino e quelle maledette
stelle.
Peccato
che le circostanze, almeno in quel periodo, non glielo permettessero
affatto.
Superò
spedita il giardino di casa e ne aprì il vecchio cancello
senza guardarsi
indietro. Il clangore di metallo contro la staccionata
risuonò nel viale di
case in cui era cresciuta, desolato a causa dell’ora tarda.
Si sentì
rabbrividire: aveva appena rinchiuso la sua intera esistenza in quel
giardino.
E sarebbe stato ancora più doloroso se non avesse
già rinunciato ai suoi sogni
tempo prima.
-Possiamo
parlarne!- continuava a dire suo padre raggiungendo rapidamente
l’atrio. Prese
un respiro profondo, uno di quelli che servono a capire se il macigno
di
sofferenza ti abbia ucciso o no, e cercò di convincersi che
tutto ciò era giusto,
che lo stava facendo per una
buona causa: l’amore per i suoi familiari. Soprattutto per lei.
Ma
poi la sentì. Mentre si avviava velocemente verso
l’auto parcheggiata a pochi
metri di distanza dalla sua proprietà, una voce infantile ma
adulta allo stesso
tempo, flebile come una fiamma esposta al vento, debole come una foglia
al
frusciare degli alberi, sussurrò: -Non partire.-
Alzò
lo sguardo. Nascosta dalla tenda della finestra del bagno che dava
direttamente
sul giardino, la sua sorellina la osservava muoversi nella notte con le
mani ad
asciugarsi le guance, quasi che stesse piangendo ma non volesse farsi
scoprire.
Le venne una fitta al cuore. Quella bambina... ragazza
di appena quindici anni rappresentava tutto il suo mondo:
il suo passato, il suo presente e, anche se in maniera piuttosto
paradossale,
il suo futuro. Era l’unica ragione che la spingesse a vivere
ancora, il motivo
per cui non si era uccisa subito dopo aver ricevuto la notizia.
Incarnava la
speranza. Pura e semplice speranza.
E,
per evitare di sopprimerla con l’angoscia e il senso di
smarrimento, doveva
allontanarsi da lei.
Le
lacrime iniziarono a pungerle gli occhi e dovette distogliere lo
sguardo, pur
sapendo che in quel modo sarebbe scoppiata definitivamente in un pianto
disperato, e continuò a camminare. Sua sorella
l’avrebbe odiata, lo sapeva
bene. L’avrebbe odiata come si odiano le persone impulsive,
quelle incapaci di
ragionare sulle proprie azioni poiché condizionate
dall’intensità del momento.
Le avrebbe dato dell’ingrata, perché in fondo la
storia di cui era protagonista
la vedeva come un’ingrata. E pian piano iniziava a crederci
anche lei.
Mille
domande affollavano la sua mente e agitavano il suo animo, mentre
cercava di
trattenere l’istinto di correre a consolarla come sempre.
Sarebbe riuscita a
superare anche questa? Sarebbe stata in grado di affrontare la vita con
la
stessa forza d’animo che caratterizzava le donne di quella
famiglia? Sarebbe
stata... felice?
Ma
certo che lo sarebbe stata. Nei suoi occhi brillavano la fierezza,
l’invincibilità, lo spirito di una combattente che
non avrebbe ceduto di fronte
a nulla, e un giorno quella donna sarebbe emersa dal corpo di ragazzina
in
tutto il suo splendore. Ne era sicura.
Ma
non rendeva le cose più facili.
E
quando si sentì dire ancora più forte: -Non
andartene!-, accompagnato dal
pianto sommesso del papà che se ne stava accasciato sulla
soglia della porta di
casa, incapace di reagire, le sembrò di perdere tutto
ciò che le era rimasto di
buono nell’anima.
Stringendo
le labbra in una smorfia che voleva tenere a bada il dolore,
aprì la portiera
del SUV senza guardarsi indietro.
-Ehi-.
Il ragazzo al volante accostò le labbra alle sue per
salutarla, ma lei lo
rifiutò con un gesto della mano e iniziò ad
armeggiare con la cintura di
sicurezza. Ormai aveva le guance interamente bagnate.
Lui
non disse niente: parve aver capito ogni cosa, come sempre. E come
sempre lei
si ritrovò col cuore colmo di gratitudine.
-Andiamo-.
Continuava a tirare su col naso.
-Sei
sicura?- le chiese apprensivo, asciugando qualche lacrima con il
pollice. –Non
siamo costretti. Loro potrebbero aiutarti-.
Incrociò
per un attimo il suo sguardo e si stupì della nota di dolore
che vi leggeva
dentro: a quanto pareva, nemmeno per lui era così semplice
abbandonare la
propria famiglia senza sapere quando avrebbe potuto rivederla. La morsa
di
tristezza che le strinse il petto mentre pronunciava quelle parole fu
forse la
più forte che avesse mai sentito in vita sua: -Tu
non sei costretto-.
-Cosa?-
Ora sembrava confuso e vagamente arrabbiato.
-Non
voglio che tu soffra come me. Insieme a me-. Era come se mille aghi
dalla punta
avvelenata le trafiggessero il cuore, e si disse che era meglio
così, che non
poteva costringere il ragazzo che più amava ad una fuga che
non aveva meta se
non la fine, che sarebbe stato meglio senza di lei sin
dall’inizio, che magari avrebbe
incontrato qualcuno che non l’avrebbe immischiato nei propri
assurdi,
impensabili, grandi casini, e sarebbero stati insieme una coppia
felice. Normale.
Quel
pensiero le faceva male, certo, perché non era nemmeno
lontanamente capace di
immaginare un giorno lontana da lui, figuriamoci
un’eternità intera, ma le
faceva ancora più male sapere che lui volesse seguirla verso
un futuro che era
ormai già deciso e lasciarsi trascinare nel baratro, quando
aveva la
possibilità di tirarsene fuori. Forse all’inizio
sarebbe stato l’amore a dargli
la forza di rimanere, ma se alla fine fosse scomparso come succedeva
spesso in
quei casi? Sarebbe stato costretto a vivere una vita che detestava solo
per il
senso di colpa? E ammesso che l’amore non lo lasciasse,
sarebbe mai più
riuscito a provare felicità, gioia, leggerezza? Ad amare?
Non
poteva accettare quelle eventualità. Non poteva annientare
anche quel che c’era
di buono in lui.
-Che
cazzo stai dicendo?- ringhiò, le nocche rese bianche dalla
forza con cui
stringeva il volante. Lei sussultò sul sedile ma non perse
il controllo delle
emozioni che le suggerivano tutt’altra decisione. Maledetto
egoismo.
-Meriti
di essere un ragazzo come tutti gli altri. Di... vivere la tua vita
senza
preoccupazioni-. Dio, quanto soffriva.
-Cosa
significa?-
-Che
forse è meglio lasciarsi, prima di rovinare tutto-. E
ricacciò indietro le
poche lacrime che le erano rimaste da versare.
-Ne
abbiamo già parlato. Io voglio stare con te - disse, dopo
aver preso un respiro
profondo per calmarsi e stretto dolcemente la sua mano. Adesso nel suo
sguardo
non c’era che preoccupazione.
–Io
voglio stare con te perché la mia vita non sarebbe la stessa
senza il tuo
sorriso, la tua risata, le tue labbra sulle mie. Non riuscirei nemmeno
ad
aprire gli occhi la mattina, capisci?- Le sollevò il mento
con le dita e la costrinse
ad affrontare una volta per tutte la verità: -Io ti amo,
Giulia. Non mi importa
se sarà difficile e dovrò soffrire, dovremo
soffrire. Voglio rimanerti accanto. Altrimenti non me lo perdonerei
mai-.
Sorrise
commossa come se le avesse appena chiesto di sposarlo e si sporse dal
suo
sedile per abbracciarlo e riempirlo di baci sul viso. Quelle parole...
quelle
parole erano assolutamente sbagliate, ma non poteva farci niente, non potevano farci niente, perché
si amavano
alla follia e quel poco di tempo che aveva a disposizione non sarebbe
mai stato
lo stesso se avessero deciso di separarsi.
E
per quanto potesse essere scorretto da parte sua, lei l’aveva
sempre voluto con
sé in quella battaglia già persa in partenza.
Intrecciò
le dita alle sue, si accoccolò sulla spalla che le porgeva e
chiuse gli occhi,
mentre il motore si azionava con un rombo viscerale e la macchina
sfrecciava
via verso l’ignoto.
-Mi
prometti una cosa?-
-Qualsiasi
cosa-. Le passò una mano tra i capelli con fare protettivo,
gli occhi rivolti
alla strada davanti a sé.
-Non
dovrai mai smettere di amare. Mai-.
Lui
si irrigidì. –Perché me lo dici proprio
adesso?-
-Lo
sai bene- gli rispose in tono perentorio. –E sai bene che
prima o poi sarai
costretto a capire-.
Non
ribatté. Si limitò ad annuire rigido e a
stringerla a sé con più vigore.
Nessuno
dei due si azzardò a rompere quel silenzio consapevole:
avevano ancora molta
strada da fare.
E
non solo in quel viaggio.