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Autore: Nia    09/08/2016    2 recensioni
"Nessuno conosceva Haymitch meglio di suo fratello.
Non avevano bisogno di parole, entrambi sapevano cosa all’altro facesse male più di ogni altra cosa.
E adesso quel marmocchio del suo fratellino voleva ferirlo e basta.
Ancora una volta si ritrovò ad ammirarlo e al contempo odiarlo."

Prima classificata al contest "Hunger Games" indetto dallo Slash Theatre
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Haymitch Abernathy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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HTML HAYMITCH

Autore: Nia Titolo: Il Cacciatore e l’antieroe.
Fandom: Hunger Games
Personaggi: Haymitch Abernathy e il suo fratellino.
Tipo di coppia (se presente): non presente
Genere/i: malinconico, introspettivo
Rating: verde
Note dell’autore o breve introduzione: in questa storia ho lasciato libera la mia immaginazione riguardo un particolare che viene rivelato – nel terzo libro della saga – sul personaggio di Haymitch, quando quest’ultimo rivela che la sua famiglia fu uccisa dopo la sua vittoria.
Mi sono attenuta solo e unicamente a ciò che viene rivelato nel libro:
Haymitch parla di una madre e di un fratellino. Non parla di suo padre, né rivela dei nomi. Ho quindi agito di conseguenza anche io, concentrandomi maggiormente sul ruolo del fratello più piccolo. Mentre il padre, nella mia storia, non viene mai menzionato (proprio come nel libro).
Non ho voluto, inoltre, dare un nome al fratello. È stata una mia precisa scelta lasciare questo vuoto, visto che nella storia originale, nemmeno questo, viene svelato.









Il Cacciatore e l’antieroe






Fin da quando era nato, quel piccolo esserino aveva sempre dimostrato uno strano, quanto disinteressato, interesse nei suoi confronti.
Ad esempio, quando Haymitch faceva capolino sulla sua culla quello in tutta risposta si zittiva di colpo – a volte sembrava quasi smettesse di respirare per qualche istante – e si immobilizzava a fissarlo, totalmente assorto.
Vi erano dei momenti in cui il piccolo Haymitch si ritrovava infastidito da così tanta attenzione. Quegli occhi erano fin troppo grandi, fin troppo indagatori malgrado lo scricciolo ancora non parlasse.
Però infondo non era male averlo per casa. All’inizio aveva temuto che una bocca in più da sfamare, piangente e urlante, avrebbe creato più problemi del dovuto, invece fin da subito quel marmocchietto aveva imparato a non lamentarsi troppo, quasi avesse intuito fin dal primo istante quale fosse l’andazzo del mondo in cui era capitato. A ben pensarci, ne andava quasi fiero.
Così, malgrado quegli occhi, quello sguardo indecifrabile che spesso si ritrovava puntato addosso, a lui non dispiaceva ritrovarselo in braccio di tanto in tanto, giocarci insieme o anche solo rimanere seduto in camera sua, ad ascoltare i suoi versetti incomprensibili: tentativi infiniti di pronunciare le prime parole.

Aveva così assistito a tutte le fasi fondamentali della sua crescita: la prima parola, il primo dentino, i primi passi e così via.
Era sveglio e taciturno. Osservava il mondo in modo diverso, di questo Haymitch ne era convinto.
A volte lo ritrovava in mezzo all’erba, sdraiato sotto il sole a fissare le nuvole. Totalmente imbambolato.


Non si lamentava per il poco cibo, non gli aveva mai sentito profferire un solo lamento al riguardo.
Alcune volte temeva che avesse imparato, prima ancora di compiere cinque anni, ad arrendersi ed accettare inerme ciò che accadeva intorno a lui.
E andava bene. Andava bene perché forse non ci sarebbero stati drammi, shock, e momenti strazianti, perché in realtà era proprio quello che lo spaventava più di ogni altra cosa. La reazione di suo fratello.
Lo osservava spesso quando prendevano parte alla visione della mietitura, anno dopo anno.
Entrambi ancora troppo piccoli, se ne stavano in disparte vicini alla loro mamma, ad ascoltare l’inno, il solito proliferare di parole inutili e poi il pescaggio. L’estrazione dei due tributi che quasi certamente non sarebbero mai più tornati.

C’era stata solo un’occasione in cui Haymitch si stupì della reazione di suo fratello, in genere sempre imperscrutabile durante tutte le mietiture.
Era stato estratto un nome. Un ragazzino di appena dodici anni, un tipetto dall’aria malaticcia e poco agile.
Le probabilità di rivederlo tornare nel distretto erano praticamente inesistenti.
Nessun applauso di incoraggiamento, nessun rumore. In tutta la piazza si espandeva un silenzio raggelante mentre quel ragazzino si faceva strada tra la folla.
Quando salì sul palco, il silenzio venne interrotto da un urlo straziante. Una donna dal volto deturpato dalle lacrime e dalla fatica di una vita nel Distretto 12, stava correndo verso il palco gridando il nome di quello che doveva essere suo figlio. Il ragazzino dall’aria malaticcia appena estratto.
Era la madre di un tributo, non c'era condanna peggiore.
Venne subito fermata dai Pacificatori, ma nemmeno questo sembrò intimorirla.
Una madre disperata per la sorte del figlio, per quanto fosse deperita, riusciva sempre a trovare una forza a lei stessa estranea.
Era quasi arrivata al palco, le mani protese verso il suo bambino che, preso dal panico, iniziò a piangere allungando a sua volta le mani, probabilmente temendo per la sorte della madre.

Non riuscirono a toccarsi. Uno dei Pacificatori fu più veloce e col calcio del fucile le assestò un colpo netto allo stomaco.
La donna venne portata via e Haymitch non la incontrò mai più per il Distretto. Come il figlio del resto, che non fece mai più ritorno a casa.
Dopo quella volta, i controlli durante le mietiture divennero più rigidi. Il numero dei Pacificatori venne raddoppiato.

Mentre la donna priva di sensi veniva allontanata, Haymitch guardò suo fratello, ritrovandosi a sgranare gli occhi stupito per ciò che vide.
Le manine erano serrate alla gonna della loro madre, gli occhi lucidi, pieni di lacrime. Tremava visibilmente, ma non emanava un suono. Né un lamento né un segno che confermasse la sua ricerca di conforto.
Si imponeva l’impassibilità, malgrado tutto dentro di lui stesse urlando.
Quella visione lo terrorizzò più di qualsiasi cosa, più di qualsiasi mietitura a cui potesse mai assistere.
Era solo un moccioso che portava una maschera dilaniata da piccole crepe che lui, da solo, si premurava di riparare. Costantemente. Giorno per giorno. Senza chiedere il conforto di nessuno.

Si inchinò vicino a lui, senza dire niente, solo guardandolo. Subito il suo fratellino puntò gli occhi nei suoi, lasciandosi vedere così
scoperto.
Uno, due secondi, e lasciò la presa sulla madre per buttare le braccia al collo del fratello maggiore.
Sconfitta la nuova ondata di stupore che lo investì dopo quel gesto, Haymitch ricambiò subito quella stretta.

Ancora non udì niente. Né un singhiozzo, né un sussulto. Si aspettava di sentire la schiena di suo fratello mossa dal respiro mozzato del pianto.
Non avvenne niente del genere.
Il marmocchio lo stringeva, ma non gli permetteva di far parte del suo dolore.
Lo ammirò e lo odiò, sentendo un moto di rabbia del tutto sconosciuta nascere dentro di lui.

Sei solo un moccioso dannazione! Reagisci! Piangi! Disperati! Fa qualcosa!

Rimasero fermi qualche istante, almeno finché non sentì la presa del fratello affievolirsi, fino a staccarsi lentamente.
Stava riprendendo il controllo della situazione.
Quando alla fine si separò da lui, gli prese la mano stringendola con la sua. Non gliela lasciò mai, fino alla fine della mietitura, fino al loro ritorno a casa.

Quel pomeriggio si nascosero fuori, sul retro della loro vecchia casa. Sotto l’albero dove spesso si appisolavano.
Rischiavano grosso se fossero stati scoperti: tutti dovevano guardare gli Hunger Games.



“Raccontami una storia.”

Fu Haymitch ad uscirsene con quella strana richiesta che creò qualche istante di silenzio tra i due.
Il più piccolo sollevò lo sguardo verso di lui, guardandolo incuriosito, dubbioso sull’aver capito o meno.
“Una storia?”
“Sì, una storia. Inventala.”
Di nuovo qualche istante di silenzio. Sul volto di Haymitch si dipinse un leggero, sarcastico sorriso nel vedere quegli occhi smarriti puntati su di lui.
“Una storia… tipo?”
“Oh insomma! Una storia!”
Anche Haymitch sosteneva il suo sguardo, desideroso di ricevere quello che solo lui poteva dargli.

“Portami da un’altra parte. Fammi un po’ vedere dove ti rifugi marmocchio. Voglio andare lontano il più possibile dal Distretto 12.”

Potevano sembrare decisamente parole fin troppo difficili da capire per un bambino così piccolo, ma il suo fratellino era sveglio. Molto, molto sveglio.
E infondo Haymitch stava solo rivelando a quel furbetto di aver capito fin da subito il suo segreto.
La sua maschera era venuta allo scoperto, e lui l’aveva vista, l’aveva quasi toccata.

“Non voglio una fine.”
Disse poi il più piccolo, lasciando nei suoi occhi una visibile titubanza nel non aver colto il significato di quella frase.
“Non mi piacciono le favole.” Continuò allora a spiegare, lasciandosi sfuggire un sospiro impaziente, che per un istante irritò il maggiore.


“Dopo la fine non c’è più niente, invece la mia storia deve continuare.”
Prese un legnetto giocando con un po’ di terra, ma gli occhi ritornarono presto su quelli di Haymitch.

“La mia storia finisce quando finisco io.”
Sentenziò infine.

Aveva messo in chiaro le regole, e ad Haymitch sembrarono condizioni più che plausibili.

“E… la costruiamo insieme.”
“Insieme?”
“Insieme.” ripeté il più piccolo, annuendo deciso. “Una parte ciascuno. Io inizio, e quando tocca a te continui dal punto in cui mi sono fermato. Ma a quel punto sei tu che comandi, tu che decidi che scelte fare.”
Si zittì un istante, il suo sguardo era tremendamente enigmatico.
“Pensi che sia stupido?”
Si stupì di quell’ultima domanda, si aspettava potesse dire di tutto, ma non quello.
“No. Certo che no.”
“Ok.” Ritornò con lo sguardo verso il terreno, il legnetto ancora stretto in mano.

“È un cacciatore.” Continuò qualche istante dopo.
“Chi?”
“Il mio eroe.” Si imbarazzò a pronunciare quelle ultime parole, Haymitch lo capì subito. Lo trovò persino tenero.
“Un cacciatore?” chiese sorridendo, cercando di spronarlo a continuare, dimostrandosi davvero interessato.
“Sì.” Sorrise appena, senza smettere di giocare col legnetto.
“Un cacciatore che vive nei boschi. Lui è libero di andare dove vuole. Sa sopravvivere in qualsiasi situazione. Non dipende da nessuno, sono gli altri che dipendono da lui! Perché lui sa cacciare, lui porta il cibo a chi ne ha bisogno!”

Più parlava e più la sua foga aumentava. Muoveva veloce il legnetto sul terreno, disegnando cerchi e linee senza fine. Come uno scrittore travolto dalle sue stesse idee, bisognoso di liberarle e dar loro vita.
Quei personaggi, quei boschi di cui parlava, spingevano per uscire fuori. E lui li stava finalmente portando alla luce.
Sembrava quasi trarne un sollievo fisico vero e proprio.

Haymitch lo osservava e lo ascoltava rapito, come raramente gli succedeva.
Si ritrovò talmente immerso in quel mondo creato dal suo fratellino che, quando all’improvviso si interruppe guardandolo in attesa, non poté fare a meno di ricambiarlo con uno sguardo di disappunto.

“Ora tocca a te.” Spiegò lui, intuendo i suoi pensieri.

Non era pronto ad una cosa del genere, ma non si sarebbe di certo tirato indietro a quella sfida.

Il Cacciatore aveva dimostrato un coraggio non comune a sfidare le guardie dell’Imperatore, a ribellarsi al suo regno di oppressione, per poi fuggire nei boschi in attesa del momento propizio per sferrare un degno contrattacco.
Le guardie lo braccavano, ma lui non era mai demoralizzato. I boschi erano la sua casa e nessuno poteva eguagliarlo se si trattava di arrampicarsi su un albero o di procacciarsi del cibo.
E in realtà il Cacciatore non si limitava solo a questo. Cacciava per poi aiutare le famiglie che vivevano di stenti.
Il Cacciatore era una leggenda. Era un salvatore. Era la speranza.



Quel Cacciatore divenne così il loro compagno di giochi e avventure. Un esempio a cui fare affidamento ad ogni nuova mietitura.
Andò bene così per molto tempo. Quello era il loro rifugio. Il fratello maggiore finalmente condivideva qualcosa col minore.



Qualcosa si incrinò al dodicesimo compleanno di Haymitch.
Non fu un giorno felice (non che in genere festeggiassero i compleanni in modo eclatante) ma tutti in casa sapevano cosa avrebbero vissuto da quel momento in poi.
Quella mattina sua madre lo aveva svegliato dandogli un bacio sulla fronte, facendogli trovare un pezzo più grande di pane a tavola e, alla fine, era persino riuscita a trovare il coraggio di sussurrargli spaventata un flebile “
buon compleanno” . Fu esattamente a quel punto che suo fratello lo aveva guardato con talmente tanto disprezzo che per un attimo fu quasi tentato di chiedergli scusa.
Era poi uscito veloce di casa per andarsi a rintanare sotto il loro solito albero.

Quel giorno non ci fu traccia del Cacciatore.
Lo osservò tenendosi a distanza, mentre teneva in mano il solito legnetto intento a tracciare mondi invisibili sul terreno sabbioso.
Non provò ad avvicinarsi né a parlargli. Sapeva che doveva stargli alla larga, che qualsiasi cosa gli avesse detto non sarebbe mai stata quella giusta.
Soffriva. Soffriva come pochi altri bambini potevano soffrire alla sua età. Perché lui non piangeva, non esternava niente.
Quel giorno suo fratello stava disperatamente combattendo di nuovo contro le crepe della sua maschera.
Era solo una questione di assestamento. A breve sarebbe tornato come nuovo.
Doveva solo convincersene.


Il piccoletto gli concesse una tregua superata la prima mietitura.
Haymitch non era stato estratto, era tornato a casa con loro. Per quell’anno erano salvi.

Quel pomeriggio il Cacciatore diede il meglio di sé, ingannando i sicari dell’Imperatore con una trappola e riuscendo persino a fare colpo su una principessa di un paese lontano.
Risero tanto, storcendo il naso all’apparizione della principessa. Come ci era finita lì?!
Il Cacciatore ormai aveva vita propria, governava le loro avventure. Ma una principessa per loro non era allettante quanto un’ avventura!



Ogni anno osservava in silenzio la battaglia silenziosa che il suo fratellino, ormai sempre più grande, ingaggiava con se stesso.
Alla seconda mietitura di Haymitch aveva iniziato ad isolarsi una settimana prima dell’estrazione.
Il Cacciatore si prendeva una pausa, spariva dalla sua visione. A volte se lo immaginava svanire tra la radura dei boschi, senza lasciare traccia, affidandolo così a suo fratello, che lo custodiva gelosamente.

Dopo, sì
dopo, tornava più energico che mai. Sentivano le urla degli oppressi che lo acclamavano, che lo invocavano.
Sapevano che sarebbe tornato! Perché lui tornava sempre.




Al suo quindicesimo compleanno Haymitch si pose una domanda che scacciò con la stessa velocità con cui era giunta.
Cosa avrebbe fatto quando anche il suo fratellino avrebbe avuto dodici anni?
Quel pensiero gli attanagliava la gola, procurandogli un vero e reale dolore fisico.
Né il lavoro, la scuola, né la fatica di aiutare sua madre a portare a casa del cibo, sembravano poter eguagliare quel… quel male.
Per la prima volta capiva pienamente lo sguardo di risentimento e rabbia che suo fratello gli aveva riservato il giorno del suo dodicesimo compleanno.
Se il sangue non mentiva, probabilmente Haymitch si sarebbe ritrovato a fare lo stesso con lui.

Anno dopo anno la sua ansia cresceva. Così come le tessere col suo nome. Un argomento fin troppo pungente che aveva ben evitato di affrontare in presenza di suo fratello. A volte temeva che fosse riuscito a scoprire tutto e che per questo provasse ancora più risentimento nei suoi confronti.
Altre volte pensava fosse solo frutto della sua immaginazione e che in realtà il fratellino non sospettasse niente.

Quell’anno venne estratto un suo compagno di classe. Non fu facile vederlo salire sul palco.

In quei momenti si ritrovava a pensare al Cacciatore con un certo bisogno inespresso.
A volte provava vergogna di ritrovarsi a fare simili pensieri a quindici anni. Ma il suo fratellino era felice in quei momenti, lui non ne faceva una questione di età. Il Cacciatore esisteva nelle loro vite, punto e basta.

“ Ancora tre volte.”
Se ne uscì con questa frase mentre tornavano a casa dopo la mietitura. Uno strano sorriso sghembo stampato sul suo volto.
“ Tre volte cosa?”
Forse aveva già capito cosa intendeva, ma non voleva esserne certo. Sperava di aver frainteso quel sorriso pieno di aspettative.
“Ancora tre volte e sarai libero.”

Rimase in silenzio a metabolizzare quelle parole, ritrovandosi fin troppo stupito da quel tono ottimista e tremendamente pieno di speranza che mai, prima di quel momento, gli aveva sentito.
La testa gli girò, sentendo subito dopo una fitta allo stomaco. Lo guardò ancora.
Sorrideva stringendogli la mano.
Lo stava facendo sul serio. Dannazione, quel moccioso stava davvero
sperando.




Cinquantesima edizione.
Nuove regole: quattro tributi per ogni distretto.
Di nascosto dal fratello, Haymitch aveva iniziato ad allenarsi coi coltelli, dimostrando di possedere anche una discreta abilità.
Il suo nome compariva fin troppe volte per potersi prendere il lusso di non pensarci.

Il Cacciatore quell’anno venne nominato decisamente poco. E quelle sporadiche volte fu lo stesso Haymitch a tirarlo in gioco.


Aveva notato come suo fratello si stesse richiudendo in se stesso, consapevole che quella speranza che gli aveva visto negli occhi l’anno precedente l’avrebbe fatto soffrire più di ogni cosa.
Non riuscivano a parlarsi, a dedicarsi del tempo. Quando si ritrovavano insieme, seduti sotto il loro albero, per lo più rimanevano in silenzio. Uno vicino all’altro.

Infondo era piacevole anche quello.

Il giorno della mietitura fu il più atroce di tutti. Fin dal risveglio.
Lo aveva sorpreso in flagrante mentre conficcava uno dei suoi coltelli – chissà poi come aveva fatto a trovarli – contro la corteccia dell’albero.
“Sei impazzito?!”
Veloce l’aveva bloccato, portandogli via l’arma dalle mani. Quello in tutta risposta si era voltato verso di lui, lo sguardo liquido carico di rabbia.

La vedeva ancora, come quella mattina di tanti anni prima. Quando quella donna venne allontanata con forza dal figlio estratto come tributo.
La sua maschera stava andando in mille pezzi.
Faceva male. Faceva terribilmente male ad entrambi.

Si prepararono per la mietitura in un silenzio tombale.
Mentre uscivano di casa si chiese come il Cacciatore, nella mente del suo fratellino, avrebbe affrontato tutto quello.

Ogni anno aveva preso l’abitudine di voltarsi a cercare sua madre e suo fratello, prima e dopo il pescaggio.
Non poteva più stare vicino a loro, non poteva più stringere la mano al piccoletto facendogli coraggio.

Ora lui faceva parte del gioco, e doveva stare in mezzo agli altri giocatori.
Sapeva meglio di chiunque altro quanto quel momento di separazione fosse causa di infinita sofferenza per il suo fratellino.
Così si voltava, lo cercava, lo guardava. A tredici anni gli aveva fatto una linguaccia, riuscendo a strappargli un sorriso anche se poco convinto.
Le altre volte si limitava a sorridergli. O semplicemente a guardarlo.
Man mano che crescevano notava le differenze. Sia in se stesso che nel fratello.

Lui se ne stava lì, lo sguardo indecifrabile a fissare un punto imprecisato verso il Palazzo di Giustizia. Non ascoltava né l’inno né le parole che seguivano.
Sapeva bene che drizzava le orecchie solo al momento dell’estrazione.
Tutto il resto del tempo era dedicato al suo nascondiglio dietro la sua maledetta maschera.

Sempre, dopo l’annuncio del nome del tributo maschile, Haymitch si voltava verso di lui, cercava il suo sguardo, si guardavano in silenzio. In quei momenti il suo fratellino gli dedicava un flebile, debole sorriso.

Quelli erano i momenti in cui più di tutti si rivelavano l’uno all’altro. Scoprendosi di tutto, mostrandosi per quello che erano.
Un bambino terrorizzato all’idea di perdere un fratello maggiore. E un fratello maggiore preoccupato a morte per il
suo piccoletto.


“Haymitch Abernathy.”


Il nome riecheggiò per tutta la piazza.
Rimase immobile un secondo, non abbassò lo sguardo. Non mostrò paura. Mentire e ostentare una certa sicurezza – di sé soprattutto – era il suo forte.
Si incamminò verso il palco facendosi strada tra la gente intorno a lui.

Questa volta non si voltò. Non ci fu nessuno scambio di sguardi tra lui e suo fratello.



Vennero scortati tutti e quattro all’interno del Palazzo di Giustizia, per venire poi separati in quattro diverse stanze.
Dopo averlo accompagnato dentro, i Pacificatori lo lasciarono solo, informandolo che presto avrebbe avuto modo di salutare un’ultima volta i suoi familiari.
L’attesa era più atroce di qualsiasi altra cosa.

Si aggirava per la stanza nervoso cercando di fare mente locale sulla situazione. E mentre nella sua testa si susseguivano frenetiche immagini su immagini delle edizioni passate degli Hunger Games, si rese conto che l’unica cosa che davvero lo terrorizzava, lì in quell’istante, era dire addio al suo fratellino. Alla sua famiglia.

Si lasciò ricadere sul divano, deglutendo a fatica. La testa gli girava a mille. Non era pronto ad affrontare tutto quello.
Non era pronto per niente.

Calmati.
Si ordinò repertorio.
Solo lui sentiva quella paura. Solo lui sentiva quel dolore farsi largo dentro ogni anfratto del suo corpo.
Mentire. Nasconderlo. Costruire la sua maschera. Sì, poteva farlo anche lui. Nessuno doveva scoprire la verità.

“Haymitch…” riconobbe la voce ancora prima di girarsi.
Il volto di sua madre era rigato dalle lacrime che subito si premurò di asciugare appena lui le andò incontro.
“Haymitch mi… mi…”
“Sì. Lo so.”
Si lasciò andare e la strinse a sé. Sicuro e protettivo.
Solo quando fece capolino dalla spalla della madre vide la figura di suo fratello ancora vicino alla porta. Era immobile, e lo fissava con una rabbia e un odio che quasi lo raggelarono.
Eccola di nuovo quella fitta.
Faceva male. Faceva un male cane!

“Non lasciargli prendere le tessere.”
Sussurrò vicino all’orecchio della donna “Mai. Capito mamma? Non lasciargli mai prendere le tessere!”

Lei annuì decisa, come se quelle fossero parole superflue su cui non c’era certo bisogno di discutere.
Solo in quel momento si rese conto di quanto sua madre si sentisse in colpa nei suoi confronti.
Gli prese il viso tra le mani e baciò suo figlio sulla fronte.

“Tu sei forte e noi crediamo in te. Sempre.”

Anche quello faceva male.

Guardò sua madre negli occhi. Aveva i suoi stessi occhi grigi, solcati dalle occhiaie e da notti insonni. Si chiese se le fosse stata vicina quanto ne aveva bisogno.

Quando si staccò da lei puntò subito lo sguardo su di
lui.

Era ancora vicino alla porta, non si era mosso di un millimetro. Continuava a guardarlo nello stesso modo in cui si guarderebbe un traditore che ci ha pugnalato alle spalle.
Si accorse che aveva i pugni serrati, stretti. Era teso come la corda in violino. Capì che stava affrontando la più grande battaglia di sempre, quella più difficile.

Fu quindi lui a prendere l’iniziativa avvicinandosi per primo, avevano pochissimo tempo e non avrebbe detto addio a suo fratello in quel modo.

“Adesso smettila. Lo so che sei furioso ma… ehi! Guardami.” Fece per mettergli una mano sulla spalla, ma quello si scansò di colpo, respingendo con violenza la sua mano.

“L’anno prossimo avrò dodici anni!” sbottò feroce, pieno di rabbia inespressa.
Sapeva perché lo stava dicendo. Nessuno conosceva Haymitch meglio di suo fratello. Non avevano bisogno di parole, entrambi sapevano cosa all’altro facesse male più di ogni altra cosa. E adesso quel marmocchio del suo fratellino voleva ferirlo e basta.
Ancora una volta si ritrovò ad ammirarlo e odiarlo.

Ed ebbe in effetti successo, perché quel pensiero lo distrusse ancora di più.
L’Arena, il numero raddoppiato dei tributi… tutto quello a cui stava per andare incontro passò velocemente ed incredibilmente in secondo piano.
Avrebbe lasciato solo suo fratello ad affrontare gli anni peggiori della sua vita, e il solo pensiero che potesse finire anche lui nell’arena lo investiva di un immenso senso di colpa e paura. Non gli aveva insegnato quasi niente! Non gli aveva spiegato come sopravvivere!
Un fratello maggiore dovrebbe essere una specie di guida… un mentore! E lui non aveva fatto niente di niente per suo fratello! Si odiò così tanto in quel momento.
Fu allora che iniziò a farsi strada quel peso che, per sempre, per tutta la vita, si sarebbe portato appresso. Un peso insopportabile da gestire, che ogni anno gli veniva sbattuto in faccia da tutti i tributi morti del Distretto 12.
Non era in grado di fare il mentore.

“E forse prenderò anche le tessere!”
Glielo sbatté in faccia in quel modo. Con rabbia e aria di sfida. Quasi a volergli dire
“cos’è, pensavi fossi davvero così stupido da non sapere delle tessere?”

“Adesso smettila!”
Fu lui questa volta ad alzare la voce, scuotendolo forte e obbligandolo a guardarlo.
“Smettila di dire cavolate! Smettila di fare il moccioso! Lo sai cosa devi fare! Devi stare vicino alla mamma, devi aiutarla! E non hai bisogno di prendere le tessere, ti ho spiegato a chi chiedere aiuto e da chi stare attento. Puoi farcela anche senza di me, e lo sai anche tu!”
Parlava sicuro, veloce, riempiendolo di parole senza dargli il tempo di metabolizzarle. Le avrebbe rielaborate dopo, capendone da solo il significato.


“Non voglio rimanere da solo…”

Lo aveva sussurrato piano, mentre cercava di mantenere il controllo sulla sua voce.
La fitta, stavolta, arrivò dritto al suo petto. Trafiggendolo come una freccia.
“Non sei solo.” Rispose subito, con la stessa sicurezza di prima, ma dimostrando decisamente più dolcezza.
“Non voglio che li guardi…” - continuò, guardandolo negli occhi - “Non voglio che guardi gli Hunger Games.”
Aveva alzato lo sguardo verso sua madre, incontrando di nuovo il suo viso rigato da nuove lacrime che si asciugò subito. Era forte, si stava obbligando anche lei a mantenere il controllo. La vide annuire di nuovo decisa, non c’era bisogno di dire altro. Sarebbe stato impossibile, in realtà lo sapevano entrambi. Forse solo chiudendolo a chiave nella loro camera avrebbe potuto impedire una cosa del genere.

Azzardò troppo forse. Regalandogli un sorriso, passandogli una mano tra i capelli…
“Lo sai cosa facciamo oggi no? Torniamo a casa e il Cacciatore ci porta lontano da tutto questo.”
“NO!”

Per un attimo pensò di averla vista. Aveva visto l’esatto istante in cui la maschera del suo fratellino – costruita con perizia e accuratezza per anni e anni – in meno di un secondo si era sgretolata, andando in mille pezzi.

“La storia è finita! Non c’è più niente! NIENTE!”
Gli occhi gli si riempirono di lacrime, aveva iniziato a tremare, spaventando persino sua madre che non l’aveva mai visto così sconvolto.

Un’altra fitta al petto, come una lama tagliente. Avrebbe voluto urlare e spaccare qualcosa.
Stava per rispondergli, stava per dirgli che la storia non era finita, che poteva custodire il Cacciatore dentro di lui, che poteva farlo vivere di nuovo, poteva dirgli che forse era giusto avere quella fiamma di speranza a riscaldarlo e portarlo lontano.
Stava per dirgli tante cose in realtà, probabilmente tutte sconnesse l’una dall’altra. Ma ancora una volta fu il piccoletto a precederlo.

Gli buttò di colpo le braccia al collo, stringendolo con forza, sprigionando tutto quello che si portava dentro.
Sentì la sua paura, il suo dolore… ogni cosa. Finalmente gli fu concesso di essere partecipe a quella sofferenza. Anche Haymitch la provava.

“Giurami che tornerai.”
Un’altra richiesta che lo investì all’improvviso, lasciandolo inerme senza parole.
Lo sentì lasciarsi andare alle lacrime. Alla disperazione. Sentiva la sua schiena mossa da singhiozzi incontrollabili. Piangeva così tanto che lo sentiva persino faticare a respirare di tanto in tanto, cercando aria intorno a sé, ma per niente intenzionato ad affievolire la presa. Così disperato da provare un reale dolore fisico. Ne era certo, perché anche lui lo sentiva. Sentiva tutto in quel momento.
“Giuramelo!”
Non poteva esserci niente di peggio dentro l’Arena, vero?
Sentì gli occhi bruciare. Li serrò all’istante perché non poteva permettersi di piangere davanti a loro. Lo strinse a sé, forte. Più forte che poteva.
Cercava disperatamente di scacciare quel dolore che sentiva invadere il suo corpo ed espandersi come un virus.
Era atroce, era insopportabile. E pregò che finisse subito.

Sussurrò poi il suo nome, vicino al suo orecchio
“Ti voglio bene.”

In risposta lo sentì singhiozzare di nuovo, ancora annaspava aria.
“Anche io!”
riprese frettoloso, la voce spezzata. Terribilmente sincero.




Quando ritornò ad essere di nuovo da solo nella stanza, ad aspettare che gli dicessero cosa doveva fare, si ritrovò a serrare la mano sulla camicia, all’altezza del petto. Si sentiva come se fosse rimasto in apnea per tutto quel tempo.
Continuava a deglutire, ma non trovava saliva. Si avvicinò alla finestra e preso da quell’impeto d’ira furiosa che aveva trattenuto fino a quell’istante, scagliò un pugno contro il muro.
Fece male, ma non male come quello che stava provando.

Appoggiò le mani, la fronte, contro il vetro, cercando di trarne un po’ refrigerio.
La finestra era chiusa, serrata. Non faticava a capirne il motivo.
Sollevò lo sguardo e vide un uccello librarsi tra le nuvole.

Sperò con tutto se stesso che suo fratello, almeno per quel giorno, almeno per un’ultima volta, si rifugiasse nel mondo del Cacciatore.
In quell’istante se lo immaginò del tutto diverso. Come mai l’avevano descritto.
Un Cacciatore dotato di ali – forse artificiali, non era chiaro – in grado di volare e fuggire nel cielo. Tra i rami dei boschi.
Chiuse gli occhi un istante, sentendo il dolore della consapevolezza. Non avrebbe mai potuto condividere con suo fratello quella nuova, bellissima immagine del loro eroe.
Mai più.



__


Fu lui stesso ad uccidere il Cacciatore.
Ogni ricordo ad esso legato, ogni avventura, ogni incontro vissuto da quell’uomo inesistente, spariva nel nulla.
L’Imperatore, le sue guardie, i suoi sicari, i villaggi, quei magnifici boschi che descrivevano sempre con meticolosa dovizia nei loro racconti… tutto venne brutalmente cancellato.
La loro storia era diventata una semplice e squallida favola.

“Non mi piacciono le favole. Dopo la fine non c’è più niente, invece la mia storia deve continuare.”

Implorava alla sua mente di tacere. Arrivava a colpirsi talmente forte da pensare che prima o poi si sarebbe ucciso.

Nessun cacciatore sarebbe mai esistito. Non vi erano più uomini coraggiosi nella loro epoca.
E lui, Haymitch Abernathy, si considerava il primo tra i codardi.

Il ruolo del Cacciatore venne presto spodestato dall’alcool. L’alcool era l’unica cosa che lo salvava dai ricordi.
Viveva in un vero e proprio delirio quando veniva a mancare.
Sentiva il Cacciatore deriderlo, ridere a crepapelle di quel misero uomo che si era lasciato sfuggire tutto ciò che aveva di più importante. Rideva, perché ad uno come lui era stato affidato il ruolo di mentore. Di guida.
E lui, proprio come con suo fratello, continuava a fallire, anno dopo anno.

Più diventava lucido e più i ricordi si facevano strada nella sua mente. Era allora che il dolore diventava impossibile da gestire. Da controllare.
Distruggeva. Semplicemente distruggeva tutto ciò che si ritrovava intorno.
La casa in cui si ritrovò a vivere - totalmente diversa e opposta a quella in cui aveva vissuto con la sua famiglia - fu presto irriconoscibile. Ogni mobile, ogni oggetto, riportava le cicatrici della sua ira.

Urlava fino a sentire la gola graffiare, fino a tossire e sentirsi impossibilitato a pronunciare anche solo una parola.
Non c’era salvezza da quel dolore. Non c’era salvezza per un antieroe come lui.
Aveva ucciso l’eroe di suo fratello. Aveva ucciso il sangue del suo sangue.

L’unica cosa di cui aveva bisogno era solo l’oblio.

“Alla salute Haymitch!”
Il Cacciatore sollevava il suo calice traboccante di vino, ridendo sguaiatamente.
“Alla salute, vecchio inutile derelitto!”



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“Guardatela! Guardate questa qui! Mi piace! Ha un gran… fegato!”
Lasciò la presa su Katniss e si rivolse poi verso le telecamere
“Più di voi!”
Lo sguardo rabbioso, la bocca storpiata in un’espressione piena di disgusto.



Più di voi.









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Piccola Nota:
Le ultime parole in corsivo, pronunciate da Haymitch in presenza di Katniss, sono tratte dal primo libro della saga, così come sono.


Questa è una storia vecchissima che partecipò ad un contest altrettanto vecchio (https://slashtheatrearena.wordpress.com/2013/04/15/hunger-games-contest-bando/) Solo oggi mi sono decisa a postarla, senza nessuna ragione particolare.














   
 
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