Anime & Manga > Rocky Joe
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Autore: innominetuo    17/08/2016    10 recensioni
Joe Yabuki ritorna sui suoi passi, dopo un anno di dolore e di rimpianto. La morte di Tooru Rikishi lo ha segnato profondamente. Ma il ring lo sta aspettando ormai da tempo.
E non solo il ring.
…Se le cose fossero andate in un modo un po’ diverso, rispetto alla versione ufficiale?
Storia di pugilato, di amore, di onore: può essere letta e compresa anche se non si conosce il fandom e quindi considerata alla stregua di un'originale.
°°°°§*§°°°°
Questi personaggi non mi appartengono: dichiaro di aver redatto la seguente long fic nel rispetto dei diritti di autore e della proprietà intellettuale, senza scopo di lucro alcuno, in onore ad Asao Takamori ed a Tetsuya Chiba.
Si dichiara che tutte le immagini quivi presenti sono mero frutto di ricerca su Google e che quindi non debba intendersi il compimento di nessuna violazione del copyright.
Si dichiara, altresì, che qualsivoglia riferimento a nomi/cognomi, fatti e luoghi, laddove corrispondenti a realtà, sono puro frutto del Caso.
LCS innominetuo
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Bianche Ceneri'
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Joe si sentiva come sdoppiato da se stesso.

Era quasi come se potesse vedersi dall’esterno, provando sensazioni strane e difficili da catturare, ma anche ben tangibili.

Cercava di condurre la sua vita al solito modo, con i gesti e le abitudini di tutti i giorni: a volte era tutto come sempre, a volte gli pareva di vivere l’esistenza di un altro uomo e di un altro corpo. Quest’ultimo era ultimamente una continua sorpresa per lui, e Joe si ritrovava suo malgrado a gestire reazioni fisiche inconsulte, seppur di breve durata. Un giorno era dedicato a forti emicranie, che gli annebbiavano la vista. Un altro giorno, invece, non si sentiva ben saldo sulle gambe. Joe apriva e chiudeva le mani e notava che spesso la mano sinistra avesse dei movimenti meno rapidi e meno controllati rispetto alla destra, cosa che poi risaltava quando colpiva il sacco per il consueto allenamento.

Poi, improvvisamente, per alcune settimane sparivano tutti quegli strani sintomi, come un brutto incubo che lascia finalmente il posto a mente sveglia e alla tranquillità quotidiana… per poi ricominciare daccapo, e con maggior frequenza.

Naturalmente non fece parola con nessuno dei sintomi che stava notando su di sé, cercando anzi di controllarli il più possibile quando si trovava in compagnia di altre persone. Ma gli sguardi eloquenti di Yoko non lo abbandonavano più e neppure per un istante, anche se la donna, tornata ormai da diverso tempo da New York, non aveva più toccato l’argomento, dopo la loro prima ed ultima vera litigata. Se anche c’erano state delle discussioni poco gradevoli ai tempi ormai lontani del riformatorio, nulla era mai stato paragonabile all’alterco che era scoppiato una sera di qualche settimana prima, come un fulmine a ciel sereno, e che aveva avuto come conseguenza una loro dolorosa separazione, seppur di breve durata.

Joe le aveva poi domandato perdono, anche se era rimasto fermo sulle sue decisioni di non fare proprio un bel nulla per verificare il suo stato di salute. Yoko lo aveva pregato, infatti, di sottoporsi ad una serie di esami approfonditi a livello neurologico, cui Joe si era opposto categoricamente, alzando la voce ed accusandola di “stargli troppo addosso e di volerlo manipolare come un burattino”: una simile accusa era stata un colpo sin troppo doloroso per Yoko, che, nei giorni seguenti si era rifiutata financo di vederlo, fino alla loro sofferta riappacificazione. Si erano quindi amati per ore, quasi con disperazione, come se si trattasse di un’ultima volta...


L’incontro che Yoko aveva avuto a New York con il Prof. Igor Kininskji qualche tempo prima, infatti, le aveva dolorosamente aperto gli occhi sulle condizioni di salute di Joe. Ciò che prima aveva solo sospettato ora le si era rivelato in tutta la sua crudezza. Il luminare si era rivelato molto gentile e disponibile con la misteriosa signorina giapponese che aveva fatto un lungo volo solo per potergli parlare: in una raffinatissima sala da tè sulla Fifth Avenue, il medico le aveva esaurientemente spiegato in cosa consistessero i sintomi più frequenti della “sindrome del pugile ubriaco” e a quali conseguenze potesse arrivare lo sfortunato atleta che mostrasse di esserne affetto.

“Vede, Miss Shiraki, alcuni sport sono intrinsecamente pericolosi per chi li pratica: anche per questo le compagnie assicurative si dimostrano tanto restie a stipulare polizze con chi pratica discipline come il football, il rugby, l’hockey su ghiaccio, il pugilato e così via. Purtroppo non è bassa la percentuale degli atleti che, ancor giovani, si ritrovino gravemente lesionati a livello neurologico, a causa dei violenti traumi cui è stata sottoposta la calotta cranica durante le performances sportive. La letteratura medica è abbastanza monocorde in tal senso: recenti studi di neurologia applicata alla medicina sportiva, alcuni dei quali condotti proprio da me e oggetto del mio ultimo convegno qui a New York, stabiliscono che anche la commozione cerebrale più lieve può provocare la demenza post traumatica. Un trauma cranico grave, invece, può far insorgere l’Alzheimer. E, comunque sia, non andrebbe tralasciato neppure il rischio di arresti cardiaci per l’atleta, sempre derivanti da colpi violenti ricevuti al torace…”

Yoko aveva ascoltato la fine del lungo discorso del professore senza mai interromperlo: si era sentita talmente angosciata da non riuscire quasi a respirare. Solo quando Kininskij le aveva palesato la sua preoccupazione, nel vederla sempre più pallida, aveva sorriso debolmente.

“No… non si preoccupi… sto bene, grazie.”

“Forse Le farebbe bene prendere una boccata d’aria: venga con me, facciamo due passi sulla terrazza, vedrà che si sentirà meglio.” le aveva proposto in tono paterno, aiutandola ad alzarsi dalla poltroncina ed offrendole il braccio. Yoko si era lasciata trasportare via come una bambina, senza dire nulla. “Mi perdoni se sono indiscreto… anche se Lei mi ha detto di essere presidente di un club pugilistico del suo Paese, credo che la sua preoccupazione sia di natura personale. Una persona che Le sta a cuore presenta i sintomi di cui abbiamo parlato?” le aveva chiesto, affabile.

Yoko si era limitata ad annuire, mentre una lacrima silenziosa le aveva percorso la gota. Il professore Le aveva quindi offerto il suo fazzoletto di batista, elegantemente cifrato e profumato di colonia. “Mi dispiace. Mi dispiace davvero. Credo che dovrebbe parlarne con… con questa persona, convincendola a fare al più presto degli esami di controllo, per verificare a che punto è arrivata la lesione neurologica e magari stabilire una terapia ad hoc.”

“Non si può fare nulla per una guarigione, giusto?” aveva mormorato Yoko, con voce appena udibile. Si era sentita il petto perforato da un buco silenzioso, da qui era entrato un freddo gelido. Un gelo che d’ora in avanti non avrebbe smesso di sentirsi addosso.

Mai più.

Kininskij aveva scosso il capo con fare contrito. “Purtroppo no… come Le ho accennato poco fa, è un decorso irreversibile, che si manifesta sia con anomalie a livello fisico, sia con anomalie a livello comportamentale: il malato non solo non possiede più la totale padronanza del suo corpo e dei suoi movimenti, ma sviluppa anche comportamenti di tipo maniaco-depressivi, risultando a volte anche pericoloso e molto aggressivo per chi gli sta intorno. Con i medicinali di ultima generazione, che sono essenzialmente degli antipsicotici, si può solo rallentare il più possibile lo sviluppo della malattia, soprattutto a livello comportamentale…”

Yoko era quindi scoppiata in un pianto dirotto, senza più controllarsi. Aveva continuato a singhiozzare, accecata dalle lacrime, gridando il proprio dolore, mentre il bravo medico l’aveva abbracciata, dandole delle lievi pacche sulla spalla. Alcuni astanti si erano avvicinati alla coppia con fare preoccupato. Un sollecito cameriere aveva subito portato un bicchiere d’acqua e zucchero.

“È tutto a posto, sono un medico. Mi occupo io della signorina. Grazie per l’interessamento.”

Quando alcune ore dopo Yoko si era congedata dal luminare, questi le aveva lasciato tutti i suoi recapiti, dimostrandole la sua più totale disponibilità e donandole il suo ultimo trattato di medicina sportiva, oggetto del convegno appena svoltosi in città. La giovane lo aveva ringraziato, promettendogli di tenerlo aggiornato su ogni nuova anomalia riscontrata nell’uomo amato, e si era quindi recata all’aeroporto per far ritorno a casa, sentendosi il cuore stretto in una morsa feroce.

°°°°°

Un tardo pomeriggio di qualche tempo dopo, sul lungofiume di Sumidagawa.


Joe si sentiva stanco, ma abbastanza soddisfatto.

Quella trascorsa era una stata una giornata “buona”, nonostante tutto: era stato perfettamente padrone del suo corpo. Niente tremolii, niente mal di testa, e niente equilibrio precario. Oramai le sue giornate non erano più tutte uguali, a livello di benessere fisico: c’erano giorni buoni e giorni cattivi e tutto questo esattamente dopo lo sventurato incontro tenutosi contro Walker. Joe sperava con tutto se stesso che i suoi disturbi fossero solo una cosa passeggera, promettendo a se stesso che dopo il match con Mendoza si sarebbe riposato, a prescindere dall’esito. Che vincesse o perdesse, poco importava: oltre a Mendoza egli non provava stimoli per nessun altro avversario, dato che il messicano costituiva per lui IL pugile per antonomasia. Dopo l’affaire Mendoza avrebbe deciso cosa fare… sempre che ci fosse ancora qualcosa da decidere, per lui.

Espirò a fondo, per svuotare bene i polmoni. Aveva fatto una bella corsetta corroborante ed ora si era fermato ad osservare i giochi di luce sulla superficie del fiume, che scorreva placido. Si sedette sul prato, dedicandosi ad un po’ di sano stretching, osservandosi con curiosa attenzione gli arti, che negli ultimi mesi gli si erano affusolati, ma anche irrobustiti. Pure le mani gli si erano leggermente ingrandite, ed ora superava di statura di almeno quattro dita suo padre, che pure non era piccolo come giapponese.

Quasi come se lo avesse evocato dal nulla, Joe si interruppe dai suoi esercizi di ginnastica, non appena se lo vide giungere incontro. Nakamura avanzava tranquillo, con il suo solito passo cadenzato ed elastico. Senza dire nulla, l’uomo discese per il piccolo pendio e si sedette sull’erba, incurante del suo elegante gessato grigio in fresco di lana di squisita fattura italiana.

“Ne vuoi un po’? L’ho presa poco fa in drogheria.”

Joe sorrise, afferrando la lattina di aranciata per trarne un lungo sorso, emettendo un sospiro di soddisfazione.

“Quanto manca?” domandò Hiro, a bruciapelo, dopo alcuni minuti di perfetto silenzio tra lui e suo figlio.

“Quanto manca… a cosa?” chiese Joe, perplesso.

“Al tuo match contro il campione mondiale.”

“Circa tre settimane. La data è stata anticipata per motivi personali di Mendoza: pare che la moglie sia in attesa del quinto figlio e Josè vuole sospendere i suoi impegni sportivi per un po’, per restare in famiglia. Così mi ha riferito Yoko giusto l’altro ieri.”

“Meno male. Prima si farà e meglio sarà. Questa attesa è a dir poco snervante.” replicò secco Nakamura, strappando un filo d’erba per metterselo tra le labbra, traendone un suono sibilante.

Joe lo osservò incuriosito, sorridendo leggermente. “Uhm… e perché mai saresti tanto in apprensione? Mica sarai tu a disputare l’incontro.”


Di rimando Hiro gli scoccò un’occhiataccia. “Sono tuo padre. Ogni volta che sali sul ring è come se ci salissi pure io. Non mi pare tanto astrusa da capire, come cosa.”

“Non ti devi preoccupare. Io sono in perfetta forma fisica e gli allenamenti procedono benone.” soggiunse Joe, atono, volgendo lo sguardo al fiume.

“Non prendermi per i fondelli, Kei. Non ci provare.” Nakamura si alzò in piedi di scatto, prendendo a calci la lattina di aranciata, ormai vuota.

“Che ti prende?” bofonchiò l’altro, di rimando.

Nakamura, in tutta risposta, afferrò il figlio per un polso, facendolo rimettere in piedi, per poi bloccargli le spalle nelle sue mani. Gli percorse il viso con uno sguardo colmo di tristezza e di rabbia. “Se credi di ingannarmi hai sbagliato di grosso. Forse puoi fregare il tuo coach, che da quando ha la sua bella palestra nuova si è completamente rimbecillito dalla felicità. O forse ce la fai a dire una balla colossale a Yoko, anche se dubito che quella ragazza se la beva fino in fondo: di certo non è una sciocca. Ma a me non la fai. Capito?”

Joe si divincolò dalla stretta, brontolando e cercando di darsi un contegno, anche grazie alla sua consueta maschera di strafottenza. “Calmati, eh? Non mi piace essere trattato così! Non sono più un bambino oramai da un bel pezzo!”

“Kei. Figlio mio…” Nakamura gli appoggiò una mano sulla spalla, massaggiandogliela con affetto, “sono mesi che ti sto osservando, facendo finta di nulla. Ho annotato, ho immagazzinato dentro di me ogni tuo singolo movimento, ogni tuo gesto. Ti ho visto incespicare molte volte, barcollare. Spesso ti ho visto pallido come un cencio per l’emicrania. Tu non stai bene… non stai bene!”

Joe strinse le labbra per poi emettere un lieve fischiettio. “Beh, non esagerare, dài… sono solo un po’ stanco. Ho intensificato gli allenamenti e spesso crollo sfinito. Se barcollo o incespico è solo per questo, davvero… per la troppa stanchezza, tutto qua. Non facciamola più grossa di quella che è. Anzi,” continuò, in tono forzatamente allegro “ti faccio una promessa: dopo il match mi metto a riposo per un bel po’ e magari me ne vado al mare per una vacanzina. Eh… che ne dici?”

Nakamura scosse la testa.

“Non me la fai, figliolo. Non me la fai. Neppure stavolta.”

°°°°°°°

Quella stessa sera, allo Shiraki Boxing Club…


“È questo che hai chiesto alla vita?”

Yoko sobbalzò, completamente colta alla sprovvista. La figura del giovane uomo si stagliava sulla porta, aitante e statuaria.

“Kiyoshi-san… come mai da queste parti?”

Yoko si ricompose, assumendo un’espressione assai poco accomodante. L’uomo l’aveva distolta dalle sue profonde riflessioni, scaturite dal libro che stava leggendo con attenzione. Alcuni termini medici non erano facili da capire, ma Yoko cercava comunque di seguire il filo del discorso esposto dall’autore, il Prof. Kininskij. Di scatto, chiuse il tomo, rimanendo seduta, un po’ rigida e a mento alzato, come una regina sdegnosa. Fissava Jun, che però non si lasciò intimorire da quello sguardo altero.

L’amico si accomodò in una sedia, posta proprio di fronte a lei, pur senza esserne stato invitato.

“Yoko… perché fai così?”

“Così, come?”

“Tu non sei felice. Inutile fingere.”

“Io sto benissimo e non vedo come la cosa debba interessarti, comunque. Non sono affari tuoi, mi pare. E non mi pare neppure di averti invitato qui, nel mio ufficio.” Yoko si alzò, cercando di darsi un contegno nell’impilare dei documenti.

“Guarda che questo tuo atteggiamento da dama snob con me non attacca. Mettila pure giù, questa maschera inutile.” Jun si alzò e le si accostò posando la sua mano, calda e forte su quella tremante della giovane, stringendola. “Stai soffrendo le pene dell’inferno. Ancora una volta. La storia si ripete… giusto? Prima Tooru Rikishi… adesso Joe Yabuki. Ti offrono le briciole delle loro attenzioni, del loro amore, mentre in realtà la loro unica ossessione è incrociare i guantoni con chicchessia. E tu te ne resti da sola a bordo ring, sospirando e scongiurando… sempre, ad ogni incontro.”

Yoko si liberò della stretta, ma Jun la afferrò per le spalle, costringendola a guardarlo in faccia.

“Cos’è che pensi, ogni volta, eh? Chissà se ce la potrà fare anche stavolta… chissà se ridiscenderà quella scaletta di legno sulle sue gambe…

“Jun, per favore…” mormorò Yoko, la voce rotta.

“Ti vedo, tutte le volte. Il tuo viso si spegne, di round in round, come se perdesse ogni singola goccia di sangue. È come se ci salissi pure tu, su quel dannato ring, accusando sulla tua pelle ogni colpo che Yabuki riceve. E fa male, fa molto male, Yoko.”

Accostò il suo viso a quello di lei, respirandole sui capelli, essendo molto più alto di Yoko. “Quanto credi di poter reggere, in questo modo? Dimmelo…” le sussurrò con dolcezza.

Le sollevò il viso, osservando le lacrime che le percorrevano le guance, morendo nelle sue labbra. Yoko aveva accusato il colpo: Jun era stato spietato. Si sentiva morire dentro, confinata in un angolo buio e freddo.

Jun non resistette più, e le catturò le labbra con le sue.

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Spigolature dell’Autrice:


Innanzitutto mi scuso per il ritardo di postaggio, ma tra problemucci di salute e – finalmente! – un po’ di vacanza, non ho avuto modo e tempo di aggiornare prima questa benedetta storia. Come avrete notato, ho sostituito il consueto banner con uno nuovo, che la gentilissima fatina DivergenteTrasversale ha confezionato per me con la sua bacchetta magica, e che ora come ora rappresenta al meglio il mio stato d’animo riguardo a Joe. La storia sta volgendo al termine, come avrete inteso, e questi ultimi momenti in compagnia di Joe Yabuki sono per me dolorosi ma anche tanto, tanto belli. Questo è stato un anno da fanfictionnara dedicato al mio Joe: del resto, lui è pervicacemente nel mio cuore da 34 anni e lì ci resterà, ancora e sempre. Sono una donnina fedele, io…


Se avete interesse ad approfondire l’argomento spinoso della demenza pugilistica, Vi lascio qui di seguito i link (anche per mio preciso dovere di credits):
http://www.dottorgiuseppedeigiudici.net/node/193
http://robertodadda.blogspot.it/2012/02/la-sindrome-del-pugile-suonato.html
http://www.alzheimer-riese.it/contributi-dal-mondo/esperienze-e-opinioni/3045-il-rugby-e-legato-alla-demenza-secondo-esperto-inglese http://www.dica33.it/argomenti/sport_salute/pugilato.asp

Al prossimo capitolo, sosterremo tutti insieme Joe nel suo match contro Josè.
Un bacio,
i.
  
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