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Autore: Mini GD    17/08/2016    6 recensioni
“Siete ancora più bella e splendente delle dee alla quale donate la vostra devozione.” Zeev si avvicinò lentamente, cauto come la prima volta nella quale scorse la bellezza delle sue labbra e quanto soffici fossero i suoi capelli. Volontariamente fece ricorso alle parole che le aveva già sussurrato anni addietro, perché nulla aveva dimenticato, nulla che fosse appartenuto a loro.
-Storia partecipante alla Sfida Cliché indetta dal gruppo Facebook EFP Famiglia: recensioni, consigli e discussioni.
Tema:I genitori di personaggio A non approvano al relazione tra personaggio A e personaggio B e pagano personaggio B per stare lontano da personaggio A.
Genere: Generale, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Nel caldo deserto, una voce delicata e leggera, accompagnata dal dolce arpeggio delle corde di un liuto, si faceva strada nel cuore di tutti coloro che erano impegnati a mescolare il fango.
Era molto raro intravedere un sontuoso baldacchino per quelle strade di una città che ancora non era tale. Una moltitudine di ebrei era lì, occupata a dare vita a templi ed edifici che avrebbero reso ancora più splendida la figura del nobile Faraone agli occhi degli dei.
La voce femminile, soave, interruppe ogni mansione, catturando l’attenzione. Tutti coloro che avevano orecchie per sentire quella musica, non potevano resistere al richiamo.
La fanciulla, curiosa di vedere come suo padre amministrava i lavori, aveva tanto pregato per osservare quello che era ancora uno scheletro, ma che ben presto avrebbe reso grande l’Egitto, come fonte di commerci e anello di congiunzione con gli altri regni.
I panneggi leggeri del suo baldacchino la proteggevano dai violenti raggi solari, ma al contempo le permettevano una buona visuale di ciò che la circondava. Smise di cantare quando si rese conto di distrarre eccessivamente i mattonai.
Però fu lei a posare i suoi occhietti scuri sulle braccia forti di un giovane ebreo, intento a modellare il fango con uno stampo. Con un ordine deciso ma non troppo prepotente, bloccò l’avanzare del suo corteo, per ammirare il fisico asciutto del giovane, temprato dal duro lavoro sotto l’implacabile Viso di Ra. Aveva gli occhi color smeraldo, una pietra che aveva visto in un amuleto di sua madre, e la pelle olivastra che, insieme agli scuri capelli mossi, accentuavano la bellezza e la profondità del suo sguardo. Non aveva nulla di costoso indosso, solo un gonnellino che copriva il basso ventre, eppure qualcosa in lui la colpiva, portandola a esitare, a contemplare quell’umiltà così maestosa.
Come se avesse percepito di essere oggetto del suo desiderio, anche lui cominciò a guardarla. Tutti i suoi compagni avevano ripreso a lavorare, andando ad attingere acqua e fanghiglia per procedere nei lavori. L’arsura che fino a quel momento l’aveva condannato sembrava essere scomparsa, volatilizzata alla vista di quella giovane donna che l’osservava dai veli sottili del suo baldacchino. Prese una postura fiera, raddrizzando la schiena per dar sfoggio delle sue spalle larghe, per non dimostrarsi inferiore a quella dea egizia che non abbassava mai lo sguardo.
Una scarica l’attraversò nel momento in cui lui le sorrise, mostrando la sua dentatura perfetta. Qualcosa era scattato dentro di lei ed era decisa, più che mai, a sapere il nome di quel ragazzo dalla bellezza accecante. Con un cenno leggero, chiese aiuto ad uno dei suoi portantini per posare i suoi piedini, avvolti in morbide calzature, sulla sabbia rovente di quella tarda mattinata.
“Qual è il tuo nome?” l’aveva raggiunto in piccole ma veloci falcate, mostrando tutta la grazia e l’eleganza tipica di una donna egizia che non aveva mai dovuto lavorare con il fango e le difficoltà del deserto. In altre occasioni non avrebbe fatto altro che evitarla, per opporsi a tutti coloro che schiavizzavano la sua stirpe, ma lei non era l’unica ad aver sentito un brivido lungo la schiena. Era rimasto folgorato dalle movenze dall’aspetto impalpabile e cercava di non sfigurare al cospetto di quella figura femminile che l’aveva tanto catturato.
“Zeev, per servirla.” Si prostrò ai suoi piedi, nonostante la fanciulla l’avesse invitato, con movimenti ripetuti, ad alzarsi.
“Maat-hor, questo è il mio nome.” L’ebreo la guardò, languido. La sua voce era musicale, come il canto degli uccelli e da quel momento non dimenticò il nome di quella bellissima dea che aveva conosciuto.
Il tempo parve fermarsi in quei minuti in cui si persero l’una nello sguardo dell’altro, a conoscersi con gli occhi, a sfiorarsi senza congiungersi per davvero. Arrivò il momento di andare quando si avvicinò il capo mastro, che ammonì severamente l’uomo perché non era intento a lavorare come gli altri. Poi, notando la figlia dello scriba reale, si inginocchiò a chiedere perdono per un simile atto di svogliatezza del ragazzo.  Lei non lo degnò di uno sguardo e si affrettò a ritornare al suo piccolo corteo, che era rimasto in trepidante attesa. Guardò un’ultima volta Zeev, sperando di poter affidare un messaggio al vento, per recapitarlo a lui soltanto. Tornerò.

Mantenne la sua parola e fece ritorno, accompagnata dalle sue due ancelle, per far visita a quelle strade dove non vi era alcun riparo dal sole cocente della stagione di Shemu. Una brezza leggera, di tanto in tanto, le carezzava il viso dolcemente, dandole tregua dall’afa che le affannava il respiro. Lo ritrovò lì, dove l’aveva visto la prima volta e sorrise spontaneamente. Il sole allo zenit proiettava piccole ombre dei suoi muscoli, accentuando quella bellezza che le faceva battere il cuore.
Era assorto dal suo lavoro, intento a mescolare la quantità d’acqua necessaria per rendere l’argilla modellabile, ma allo stesso tempo non troppo liquida. Doveva seccare il prima possibile e il caldo svolgeva bene il suo lavoro, più di una fiamma o di un forno. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, la lingua arida e lo sciamare delle forze l’obbligarono a cercare acqua da bere.
La scorse quando si alzò dalla posa che gli costringeva la schiena in curve innaturali. Inizialmente pensò che fosse frutto della sua immaginazione, una visione celestiale dovuta alla troppa fatica, ma poi, quando le fu vicino abbastanza da toccarla tendendo il braccio, comprese che non era la sua mente a fargli un brutto scherzo. Era davvero lì, davanti a lui, le braccia candide e perfette come una statua delicata e levigata, il viso fiero di una donna consapevole della bellezza in fiore della sua gioventù.
Si incamminò verso le acque torbide del Nilo, anche per allontanarsi dagli occhi indiscreti che sentiva convergere su di loro. In cuor suo sapeva che lei avrebbe colto l’invito silenzioso, seguendolo senza porre inutili questioni. Aveva un passo talmente leggero che si sentiva a malapena e Zeev più di una volta si fermò per tendere l’orecchio e saperla poco distante da lui.
La giovane egizia rimase sola dietro di lui. Aveva già concordato con le sue fidate ancelle di voler rimanere senza alcuna compagnia che non fosse quella dell’ebreo Zeev. Nel panorama del deserto incontaminato, si stagliava la sua figura imponente. Non poté fare a meno di puntare i suoi occhi sulla schiena possente; e così le notò, piccole e delineate, come il letto di un fiume, striature violacee, segni risalenti a qualche giorno prima, quando si incontrano per la prima volta quei profondi occhi neri con il verde della speranza.
Nel vederle Maat-hor si sentì in colpa, pregando il mirabile Thot per i suoi poteri curativi. Riusciva a sentire lo schiocco sonoro della frusta sulla quella pelle tonica e forte, il male indicibile e le smorfie di dolore. Quelle ferite si potevano associare anche ad un nobile guerriero che, con lealtà e devozione, conquistava i territori che si estendevano oltre l’orizzonte lontano. Lo immaginava a capo di uno squadrone mentre soggiogava interi stati, ricoprendosi di meriti e di lodi; e lei a casa, a pregare per il suo ritorno vittorioso, accompagnato dalla benevolenza del grande Ra.
“Il dio Thot curerà le tue ferite in modo da non lasciare segni.” Azzardò a parlare, rompendo il silenzio. La sua mano era tesa verso quelle linee malvage, le ripercorreva senza applicarvi pressione.
“Non cerco conforto nelle divinità che non siano il sommo mio Signore.” Si girò verso di lei, ma non le rivolse un tono di ostilità, anzi. Nel suo viso si aprì lo stesso sorriso che le aveva già mostrato, quello che si rivolge ad una bimba incosciente di quello che dice.
“Pregherò io presso di lui affinché ti guarisca se non vorrai farlo tu.” Abbassò il viso sentendosi per la prima volta in balia di una scia di sentimenti alla quale non sapeva come reagire. Ritrasse la mano, quasi avvertisse una fiamma viva dove prima vi era la pelle olivastra.
“Se è così che vuole che sia, non posso fare a meno che ringraziarla, mia signora.” Zeev si accomodò nei pressi del fiume, usando le mani per abbeverarsi. Maat-hor lo imitò, sedendosi al suo fianco, ammirando con rispetto le acque benefiche e vitali del possente fiume dalla quale dipendeva la vita del popolo d’Egitto.  Nelle mani quello scorrere placido dava sollievo e i sorsi rinfrescavano lo spirito.
“Ti ho già detto il mio nome, perché non lo usi?” Cerco di darsi un contegno, fingendo un’autorità che non possedeva. Le mani bagnate percorrevano le braccia nude per rinfrescarle, incurante delle gocce che le bagnavano la veste leggera.
“So bene il vostro nome, Maat-hor. Non lo dimenticherò mai, è inciso nella mia mente, così come nel mio cuore.” Zeev indicò il centro del suo petto, mantenendo lo sguardo fisso negli occhi di lei, meravigliati da una così tenera dichiarazione di affetto.
“Anche il mio cuore non potrà dimenticare la dolcezza del tuo nome, Zeev.” L’unico suono era il fruscio delicato e costante del Nilo e la donna finse un improvviso interesse per il limaccio che lasciava il fiume. Voleva nascondere il rossore delle sue gote, avvertendo un forte imbarazzo. Se ne stupì, perché non si era mai sentita turbare da nessuno, neanche dal Faraone in persona.
Per quel pensiero chiese perdono e augurò mille anni di vita al Faraone Seti. Suo padre, il nobile scriba Userhat, godeva della benevolenza del grande Egitto tanto che era stato designato per il gravoso, ma onorevole, compito dell’amministrazione della nuova città.
Zeev non aveva smesso di guardarla, approfittandone del suo essere sovrappensiero. Le labbra, leggermente dischiuse, erano rosee e piene. Il vestito che la copriva era leggero, come un lenzuolo, ed era arricchito con una cintola d’argento al di sotto del seno. Le bretelline sottili consentivano alle sue spalle di ricevere il dolce bacio del sole.
Silenziosamente le si avvicinò, per carezzarle i capelli neri, sottilissimi, quasi impalpabili se presi singolarmente. Le ciocche lisce terminavano sulle spalle nude e il loro movimento solleticò l’attenzione dell’ebreo. Non pensava di poter sentire null’altro che l’indifferenza nel confronto di qualunque egiziano, se non la rabbia per le sue condizioni misere. Con lei però, era tutto diverso. Il suo cuore batteva in modo anomalo e soppesava qualunque suo gesto o parola per non turbarla o allontanarla da sé. I pericoli che correva nello stare con lei senza lavorare non lo preoccupavano; volentieri avrebbe accettato la violenza di mille fruste per un bacio di Maat-hor.
“Siete più splendente di tutte quelle dee alla quale offrite la vostra devozione.” Zeev, nonostante le mani rese ruvide dal suo lavoro, prese quelle curate e morbide della giovane egizia. Già quel contatto tra loro sottolineava quanto diversi fossero. Le mani callose e piene di tagli, le unghie corte e irregolari stonavano con quelle profumate e prive di imperfezioni. Eppure a loro andava bene così.
“Vorrei fermare il tempo per restare qui con te per sempre.” Nella sua affermazione malinconica Maat-hor celava un saluto; non aveva la forza di interrompere il loro contatto, né tanto meno quella di dover pronunciare un addio.
Se suo padre avesse fatto caso alla sua immotivata assenza da casa avrebbe fatto punire non solo Zeev, ma tutta la comunità di ebrei. In cuor suo cercava la forza per separarsi da lui, per il suo stesso bene, ma già gli apparteneva, così come lui le aveva dato le chiavi della sua anima.

Nei mesi a seguire il fiume divenne luogo dei loro incontri e le ancelle le guardiane del loro amore. A debita distanza scrutavano in ogni direzione, sia quella che vede nascere il sole che quella che saluta per ultima i suoi raggi, per evitare occhi estranei e tenere celato il segreto della loro padrona. Quando il capomastro si avvicinava, correvano e cantavano a squarcia gola, suonando al liuto una melodia preparata per l’occorrenza. Attirando l’attenzione su di loro, lasciavano il tempo ai due di separarsi senza destare sospetti.
Le occasioni di incontrarsi furono donate dalla lontananza di Userhat, in spedizione per conto del Faraone. Doveva tener conto di un importante carico che proveniva da Babilonia e non poteva lasciar il compito a nessun altro che al suo fidato scriba.
I due innamorati passavano interi pomeriggi a parlare, scoprendosi ogni volta sempre di più, scavando nei loro sentimenti. Discutevano animatamente delle loro idee, senza mai offendersi l’un con l’altra, soprattutto sul loro modo differente di vivere la religione. Avevano imparato ad essere più che tolleranti, accettando che mai tra loro sarebbe giunto un accordo. Zeev apprezzava la forte fede che la legava alle sue molteplici divinità, così come Maat-hor la sua ferma convinzione che solo un dio fosse capace di muovere le fila dell’intero mondo.
C’erano giorni in cui non parlavano affatto, non comunicavano tramite la voce, ma tramite i loro sguardi e i tocchi leggeri delle mani. Palmo contro palmo, una carezza sul viso, lo spostare una ciocca ribelle. In quei momenti Maat-hor si sentiva protetta dal mondo intero e non voleva resistere alle attenzioni gentili dell’ebreo.
Lui si lasciava curare le ferite, senza farle notare che bruciavano quando venivano cosparse di quei strani unguenti. Senza dirle che erano causate per lo più dal suo calo di produttività.  Fin tanto che le frustrazioni del capomastro si fossero limitate all’uso di qualunque oggetto potesse ferirlo per lui andava tutto bene; tuttavia nel tempo cominciò a tagliare una parte di quel già magro salario che doveva mantenere tutta la sua famiglia e iniziò a pesare fortemente sulla coscienza di Zeev.
Nei giorni in cui lei non riusciva a fargli visita, sfruttava al massimo ogni sua energia per produrre il doppio della sua normalità. A dargli la forza era il pensiero di non dover pesare sui suoi fratelli e genitori anziani e quella di poter passare il tempo con lei il più serenamente possibile.  Il suo eccesso lo nascondeva in una fossa scavata da lui stesso, poco distante dal fiume, in modo da presentarlo quando non lavorava. Il suo piano funzionò anche se si rivelò incredibilmente faticoso da sostenere. La notte, alla luce fioca di una candela, pregava il suo Signore per avere energie a sufficienza per andare avanti.
Prima di dormire Maat-hor si concedeva sogni ad occhi aperti dove il suo Zeev non era un lavoratore massacrato, ma un rispettabile egiziano come qualunque altro. E poteva sposarlo.
Più volte aveva dovuto far leva al buon senso e alla calma per non mandare un messaggio al padre dove chiedeva l’allontanamento del capomastro. I segni terribili che lasciava sul corpo dell’ebreo la turbavano, ma una così esplicita richiesta avrebbe scatenato le attenzioni non volute dello scriba reale. Zeev poi era abbastanza orgoglioso da mentire sul dolore che gli veniva inflitto e, se avesse intuito la partecipazione della giovane in un eventuale trasferimento del suo aguzzino, probabilmente non si sarebbe fatto vedere più con molta facilità.

Dovevano incontrarsi quel giorno di pioggia, ma le condizioni atmosferiche obbligarono i mattonai a tornare a casa senza paga perché non avevano lavorato. Zeev avvertiva un senso di inquietudine quel pomeriggio, come se da un momento all’altro il suo mondo venisse travolto.
Il ricordo del dolce canto di Maat-hor lo rincuorò mentre lentamente seguiva la folla di ebrei che ritornava alle sudice abitazioni. Alcuni di loro erano davvero rabbiosi della situazione incresciosa che privava loro del denaro necessario per mangiare.
Il capomastro lo fermò, indicandogli la direzione opposta al cammino intrapreso. Era il tempio in fase di costruzione; era l’unico edificio con un tetto, messo da poco. Secondo il progetto doveva allargarsi e comprendere altre stanze. Vi erano già all’interno delle statuette del dio Horus, alla quale era dedicato il complesso.
“Ti hanno convocato Zeev. Seguimi.” Il tono era deciso, di quelli che non ammettevano repliche. Il sangue raggelò a quella richiesta e la pioggia che imperversava sul suo capo perse d’importanza. Anche quelli che vicino a lui avevano sentito le parole del capomastro, si fermarono sconcertati per pochi secondi. Ripresero poi ad avanzare a passi veloci per non essere coinvolti.
Zeev si fece coraggio e, anche se a testa bassa a causa della forte pioggia, cercò di non mostrarsi spaventato.
Nella sua mente si formarono tanti scenari di quello che poteva succedergli, tutti molto orridi e negativi. Una preghiera accorata fu la sua unica arma contro la minaccia ignota.
Rimase sconcertato nel vedere che il capomastro non sarebbe andato oltre l’ingresso principale. Apparentemente il tetro tempio sembrava desolato, ma un uomo vi accese una torcia rischiarando l’oscurità. Era il nobile Userhat, l’aveva riconosciuto dalla sontuosità del vestito e dagli stessi occhi della sua dolce Maat-hor. Era imponente e fiero come un leone, ai suoi piedi vi erano tavolette d’argilla, quasi a simboleggiare la sua carica di scriba.
“Tu saresti Zeev, è corretto?” Domandò, allontanandosi dalla parete dopo aver sistemato la torcia nel supporto apposito. Sotto la luce traballante della fiamma, ogni ombra appariva viva, perché ballava seguendo la lingua di fuoco.  
“Sì, sono io, Zeev l’ebreo.” Rispose, lasciandosi sfuggire un commento ironico. Era da tempo abituato ad essere considerato inferiore solo perché giudaico e per sfuggire a quel senso di inadeguatezza anticipava il suo essere semita, riducendo e riducendosi ad un aggettivo. Poteva essere Zeev il mattonaio, Zeev occhi smeraldo ma a lui era toccato Zeev l’ebreo.
“Io e te abbiamo molti interessi che vanno paralleli se non a braccetto…” Per tutto il tempo non aveva smesso di fissarlo, come se i suoi occhi potessero spogliarlo per esaminare ogni parte di quel ragazzo e decidere se il suo cuore fosse più leggero della piuma. “Io, per omaggiare il grande Faraone Seti, farò di questa città il fulcro dell’Egitto. Tu hai messo mattone su mattone per aiutarmi a realizzare questo mio sogno.” Aggiunse, camminando verso di lui. Zeev retrocesse lentamente; se c’era qualcosa che sapeva con certezza, oltre all’esistenza del solo suo dio, era che un complimento da parte di un uomo così potente non poteva che celare due cose. O il profondo rispetto, quindi essere un moto di sincero riconoscimento degli sforzi, o il profondo disprezzo.
“Per mostrarti quanto io abbia apprezzato ogni tua goccia di sudore versata per la mia causa, voglio farti dono di tre cose.” Continuò a parlare, allargando le braccia in segno di accoglienza paterna al giovane.  Con la mano destra indicò il numero tre, prima di cominciare ad elencare i sommi frutti della sua generosità.
“Il primo dono che posso offrirti, grazie alla benevolenza del grande Horus” Si inginocchiò davanti alla statuetta del dio prima di continuare “ è una casa, distante da qui, ma degna delle tue fatiche. Ha con sé, nell’atto di proprietà che riporta già il tuo nome, un appezzamento di terra per te e la tua famiglia.” Prese una delle tavolette d’argilla e la porse a Zeev che era rimasto paralizzato dallo stupore. Non pensò al motivo che aveva spinto Userhat a fargli questa concessione, troppo preso da quella che era la sua felicità. Da sempre aveva desiderato liberare la famiglia dalla situazione avversa e misera in cui versava. Un campo da coltivare costituiva sostentamento e rendita.
“Il secondo dono è più concreto. È di centocinquanta deben d’oro, che troverai già nella casa. È al sicuro in una cassetta nella stanza da letto più grande che spero spetti a te.” Aveva il sorriso del pescatore che, buttato l’amo con l’esca nel fiume, è certo che il pesce abbia abboccato. Zeev era perso, nella sua fantasia non c’era mai stato così tanto oro.
Poi, come un dardo lontano, qualcosa lo colpì, non fisicamente. Nella sua coscienza comparve una domanda, un perché che suonava forte, che voleva chiarimenti.
“Il terzo dono è quello più importante, a mio parere. Ti faccio il dono di allontanarti per sempre da mia figlia, Maat-hor. Potrai andare via senza ripercussioni, non nuocerò la tua salute né quella della tua famiglia. Sarai libero da quella piccola egiziana che non vuoi più tra i piedi, che disturbava il tuo lavoro. In cambio voglio la tua parola, quella solenne, che farai cessare ogni voce che circola su una certa infatuazione tra te e la mia figliola. Ti vedo sveglio, giovanotto, sono certo che sai benissimo che tutta questa generosità darà stabilità alla tua famiglia, riposo alle tue braccia e a quelle del tuo vecchio e stanco padre.” Lasciò la frase in sospeso, certo ormai di aver fatto breccia nella sua preda.
Il nobile Userhat era di ritorno dalla spedizione presso Babilonia quando fu informato che, nella città che dà sul fiume, vedevano spesso passeggiare la graziosa Maat-hor con la dolce compagnia del bell’ebreo. La spia era quell’esile portantino che l’aiutò a scendere dal suo baldacchino, al primo incontro tra i due amanti.
Sapeva che l’informazione succulenta era ben retribuita. In cambio della lealtà verso il suo padrone ottenne dieci deben d’argento.
Sulle prime lo scriba fu preso da un profondo sconforto. Non sapeva cosa fare e impedire alla figlia di andare in città avrebbe reso più allettante l’incontro tra i due. Elaborò allora un piano che prevedeva l’allontanamento pacifico del giovane, perché un omicidio di un ebreo, per quanto insignificante rispetto al sangue egiziano, avrebbe destato sospetti senza annullare le dicerie della gente.
Si mosse in fretta e la giornata piovosa gli fu propizia. Dolcemente, senza prepotenza o autorità, invitò la ragazza a non lasciare i suoi alloggi, visto il tempo molto avverso. Maat-hor non poté fare nulla e non sospettò minimamente che il padre fosse a conoscenza del suo amore verso il bellissimo Zeev.
Dentro di sé, Zeev era un concentrato di confusione. Prese tempo per capire quale fosse la scelta giusta, perché sapeva bene che tra lui e Maat-hor non poteva nascere un legame accettato dalla famiglia e dalla comunità egizia. L’unica alternativa era l’allontanamento da quella che era la loro realtà e cercare il modo di ricominciare da zero insieme. Ma se lei non avesse voluto rinunciare ai lussi per cominciare una vita di stenti con un uomo che sapeva solo lavorare il fango per fare i mattoni?
Se li avessero presi, cosa avrebbero fatto a lei? No, non poteva ricominciare senza avere neanche un soldo in tasca.
“Non posso fare altro che accettare i frutti della tua generosità, nobile Userhat.” Il semita comprese cosa fare e si prostrò ai piedi dell’egizio, baciandone le calzature che li proteggevano. Pensò immediatamente alla splendente Maat-hor, al loro legame speciale, alla spensieratezza del suo canto. Qualcosa dentro di lui germogliò. Era la speranza. Con la casa e il terreno avrebbe dato sostentamento alla famiglia. Con l’oro avrebbe fatto ritorno, al momento giusto, per sposare Maat-hor e fuggire da quella città, cambiare nome e vivere la loro vita, così come l’avevano sempre immaginata sulle rive del Nilo.
Maledisse la sua incapacità di saper scrivere, perché non aveva modo di lasciare messaggi alla sua amata. Con la morte nel cuore, cosciente dell’odio che lei avrebbe riversato nei suoi confronti, lasciò il tempio da uomo libero dalla schiavitù di un lavoro mal retribuito. Era quello il prezzo della libertà, la rinuncia all’amore, quello puro che esisteva tra i due, nella speranza di poter ritornare.

Dopo tre giorni di cielo plumbeo, con le nuvole gravide di pioggia, il sole tornò a fare capolinea sulle terre del Nilo. Il calore colpì nuovamente i lavoratori, più forte che mai. La giovane egizia, dopo aver passato interi pomeriggi in casa a giocare con le ancelle approfittò del bel tempo per recarsi alla città sul fiume. Si fece accompagnare con il baldacchino, come il primo giorno di visita.
Non destò più lo stesso stupore però, l’evento eclatante che era stato aveva completamente dissipato ogni attenzione dal corteo di Maat-hor.
La fanciulla ordinò più e più volte di percorrere ogni strada accessibile, alla ricerca del bell’ebreo, ma tutto fu vano. Lui era già partito, accompagnato dalla scorta personale di Userhat. Lo scriba non aveva lasciato nulla al caso e aveva provveduto al suo trasferimento immediato.
Scese dal baldacchino in malo modo, irritata dal comportamento fiacco dei suoi portantini. Tutti sapevano cosa il loro padrone aveva fatto, ma con un giuramento erano costretti al silenzio. Nei cuori teneri si formò un nodo di dolore per il comportamento smarrito della piccola ragazza, nell’animo del traditore non si mosse nulla se non l’avarizia del guadagno facile.
Dopo aver domandato ad ogni mattonaio che lavorava dove fosse Zeev e non aver ottenuto nulla se non uno sguardo impaurito dall’idea della punizione del capomastro, si recò al fiume, nel loro posto privato, dove solo gli dei avevano il permesso di volgere lo sguardo. Il volto di Ra, nel pieno delle sue forze, le bruciava il capo, ma lei non volle allontanarsi da lì e né ricevere il conforto di un ombrello protettivo. Dopo qualche tempo cominciò a vedere strane colonnine di calore che prendevano vita dalla sabbia rovente e altrettanto anomale macchie scure. Per la secchezza, le rosee labbra si spaccarono, lasciando una goccia di sangue a testimonianza del loro dolore.
Trovò sollievo nell’immergere i piccoli piedi nudi nelle acque turbolenti del fiume. Ripensò a quando aveva cantato per Zeev e anche allora aveva sfilato le calzature per bearsi delle acque fresche. Anche il giudeo aveva fatto altrettanto, senza accingersi a cantare. Trovava orribilmente stonata la sua voce a confronto con il timbro delicato della ragazza.
Dove era finito l’orgoglio che sempre l’aveva contraddistinta? Dov’era il suo amore, perché non aveva aspettato un solo giorno di più per dirle addio?
Il sole era tramontato da poco e nel cielo vi era un riverbero arancione, nel mare di violetto che contraddistingue la sera dalla notte nera. Solo allora accettò di andare via. Non versò una sola lacrima in presenza di altre persone, le aveva già donate tutte al suo amato fiume.
Una volta a casa era decisa più che mai a non soffermarsi mai più nel pensiero delle braccia forti dell’ebreo o nel suo sguardo enigmatico e profondamente bello. Scoprì di non avere la volontà che aveva sempre vantato con le sue ancelle.
“Troverai altri uomini più belli e sicuramente più ricchi di lui mia signora. Lei è bellissima.” Disse una delle sue alleate una sera, quando Maat-hor si era soffermata a guardare il volto pallido della luna piena, sospirando sconsolata.
“Non esiste uomo più bello di lui e non mi interessano i soldi, papà ha già tutto il denaro che basta per vivere senza pensieri e non sono ugualmente felice. Non senza di lui.” Rispose la giovane, senza staccare gli occhi dal cielo trapunto di stelle. L’ancella si sentì in colpa, mortificata al solo pensiero di aver suggerito una soluzione così vile ai problemi della sua padrona.


Gli anni passarono e il ragazzo ebreo diciottenne era cresciuto, diventando un uomo il cui nome era molto conosciuto nell’ambito dei commerci. Non vi era luogo dove non erano passati i suoi carri colmi di ogni bene di lusso che provenivano da oriente.
Molte donne volevano conquistare il cuore di Zeev, ma non c’era posto per altre che non fossero la bella Maat-hor. Nella sua mente ricordava ogni lineamento di quella sedicenne piena di bellezza e di dolcezza. Il naso piccolo, gli occhi felini e scuri e i morbidi capelli che molto spesso aveva carezzato. Quando era solo cantava sommessamente le melodie della sua amata, in una stretta al cuore piena di malinconia.
La sua gelosia era molto forte e non ebbe il coraggio di fare ritorno alla città sul fiume, dove aveva lasciato la sua anima; l’assaliva il terrore di saperla sposata ad un altro uomo, ora che i suoi venti anni le avevano sicuramente dato tutto lo splendore che ancora adolescente nascondeva.  Non chiedeva informazioni ai mercanti che spediva lì.
Il nobile Userhat aveva davvero una mente ambiziosa e ogni suo piano, poiché ben congeniato, andava a segno. La città che aveva plasmato, prima sulle sue tavolette di argilla, poi nella realtà, era molto irrorata di commerci. Non potevi evitare di passare per le porte altissime della sua città.
Il nobile Faraone Seti aveva rivestito di ogni tipo di carica il suo scriba per il lavoro ben riuscito.
Maat-hor ogni anno, dopo l’inondazione del Nilo, si recava alle rive dell’amato fiume, per immergervi i piedi e ricordare quel dolce amore che era sbocciato nell’arido deserto.
Sperava di poterlo rivedere e porgli tutte le domande che l’assillavano da quando l’aveva lasciata sola, in balia dei suoi dubbi.  Ma l’unico ad esserci sempre era il grande Nilo, con le sue acque purificatrici e vitali.
Il padre non le aveva mai rivelato nulla, nonostante il tempo passato e il velo di tristezza che sempre aleggiava nello sguardo della figlia.  Non volle sposare nessun uomo, neanche il figlio del Faraone Seti, chiaramente invaghito di lei fin da quando erano piccoli. Userhat era molto geloso della sua bambina e per questo motivo non la forzò a sposarsi neanche con il principe.
A dirle la verità fu un’ancella che per caso aveva assistito ad una conversazione tra il padrone Userhat e il portantino traditore. I due non avevano fatto caso alla sua presenza e pertanto parlarono liberamente. Il nobile scriba si lamentava dell’insistenza del giovane a voler sposare Maat-hor adesso che era divenuto ricco e famoso nei commerci, grazie alla somma di denaro che la generosità di Userhat gli aveva elargito.

Lo scriba la portò con sé a Tebe, la capitale del Regno d’Egitto. La magnificenza del carro sulla quale viaggiarono non passò inosservata e ogni mercante che sostava ai piedi dell’entrata alla città li fissarono sbalorditi.
Dentro di lei si fece forte il ricordo di quando più piccola ogni mattonaio ebreo venne rapito dalla visione del suo baldacchino. Cominciò allora a cantare, intonando le stesse parole di quella giornata che le cambiò la vita.
Poco distante da lì si sentì giungere un’altra voce, più roca e bassa, che seguiva il suo canto. Per lo stupore lei si interruppe e chiese immediatamente aiuto per scendere dal carro. Si precipitò letteralmente tra le strade alla ricerca di quella voce e lo ritrovò. I capelli scuri mossi dal vento, gli occhi verdi profondi e il fisico asciutto e allenato. Il tempo parve fermarsi e riavvolgersi per riportali sulle sponde del fiume, con il viso di Ra che li baciava benevolmente, e le acque fresche che teneramente solleticavano le gambe, dando sollievo dal forte caldo.
“Siete ancora più bella e splendente delle dee alla quale donate la vostra devozione.” Zeev si avvicinò lentamente, cauto come la prima volta nella quale scorse la bellezza delle sue labbra e quanto soffici fossero i suoi capelli. Volontariamente fece ricorso alle parole che le aveva già sussurrato anni addietro, perché nulla aveva dimenticato, nulla che fosse appartenuto a loro.
“Il tempo adesso si è fermato, possiamo rimanere qui per sempre?” Maat-hor tese le braccia e ottenne l’abbraccio che in tutti gli anni aveva sempre sognato e atteso. I passanti applaudirono perché l’amore che li avvolgeva vibrava nell’aria, diffondendosi come un buon profumo. Tutti si riscoprirono felici, ebbri d’affetto. Anche il nobile Userhat, dall’alto della sua posizione e immobile sul carro comprese di non potere nulla contro quell’unione così forte. Non aveva più il potere di impedire nulla alla sua bambina, ormai donna, e non aveva più l’età per opporsi. Le rughe ormai profonde segnavano il suo viso e pensò che lasciarla libera di amare l’ebreo avrebbe purificato il suo cuore, per renderlo leggero ed entrare nella grazia degli dei.

Maat-hor si svegliò di soprassalto, il cuore le batteva all’impazzata e del sudore freddo colava dalla sua fronte. Era nel suo alloggio non a Tebe e fuori dalla finestra una notte senza luna troneggiava minacciosa.
Si rese conto di aver trasmesso nel sogno il suo più grande desiderio e non comprese come fosse possibile credere una fantasia così reale. Scese dal letto, perché aleggiava ancora nella stanza quel fantasma della sua felicità, incamminandosi per i bui corridoi.
Dallo studio di suo padre si propagava una luce, quella di una torcia. Quando vi si affacciò per scorgere il padre la trovò letteralmente vuota: mancava tutto, eccetto ciò che era il mobilio. Pensò di non essersi ancora destata dal sonno e di vivere una specie di incubo. Sul pavimento vi era un pezzo di papiro strappato in malo modo, lo raccolse e nonostante la luce traballante della torcia che si stava consumando, riuscì a leggere un messaggio, rivolto al padre.
Nella notte senza luna gli dei riceveranno la tua anima per mano mia.
Sentì le gambe cedere e senza accorgersene fu a terra. Quel pezzo di carta era maledetto e il suo bruciore malefico provocò un pizzicore anomalo nella mano che reggeva la carta. Era completamente saturo della crudeltà di Seth. Il fetore immondo di putrefazione iniziava ad aleggiare nella stanza e comprese che stava arrivando dalla porta. Prima di incamminarsi nuovamente pensò bene di usare la torcia come guida nel buio. Il corridoio sembrava vuoto e tranquillo, come ogni notte ma l’odore di morte era sempre più forte ed ogni passo costava fatica. Doveva essere coraggiosa e affrontare il pericolo, scioccamente pensava di p0ter ancora salvare il padre e evitare la morte anche a se stessa.
I piedi nudi sulla pietra erano silenziosi ma la torcia era in procinto di spegnersi. Raggiunse appena in tempo la camera del genitore quando del tizzone di legno non era rimasto che una carbonella. La porta non era ben chiusa e il cigolio fu impossibile da nascondere.
La madre di Maat-hor era morta da anni, quando lei era ancora una bambina dai ricordi molto volatili e quasi nulla le era rimasto di lei, se non il portagioie che, con il permesso del padre, apriva di tanto in tanto. Gli amuleti erano sempre i più belli mai visti e le pietre scintillavano come se fossero state appena lavorate e incastonate.
Riverso sul suo letto vi trovò il padre, di spalle alla porta. Se non fosse stato per l’odore pungente di decomposizione pareva riposare come suo solito. Il cielo cominciava a rischiararsi, le prime luci dell’alba fecero capolinea. La donna si avvicinò al padre e vide il pugnale nel cuore dello scriba, incrostato di sangue. L’elsa dorata era invece pulita e poco più in là un panno di lino era invece pieno di macchie ematiche. Il volto era contratto di dolore e le mani stringevano con forza un piccolo oggetto.
Ingoiò il magone di dolore che la stava divorando e cercò con delicatezza di dischiudere le mani del vecchio padre. La rigidità della morte stava facendo i suoi effetti sulle dita ossute, ma era ancora troppo presto per avere la meglio sulla forza della giovane. Liberò l’oggetto e l’esaminò alla luce del sole che sorgeva. Un occhio d’oro, grande la metà di una mano con al centro uno smeraldo che luccicava come fosse vivo. Gettò a terra quell’oggetto, turbata dal messaggio nefasto che racchiudeva.
Poteva mai essere il gentile Zeev, dalle mani callose e piene di tagli, ma sempre delicate, ad aver inferto un colpo fatale al vecchio padre? Iniziò a gridare aiuto a tutta forza, cercando di svegliare più persone possibili. Nascose l’occhio nello scrigno della madre, certa che nessuno avrebbe mai fatto caso a quel portagioie. Poi, finalmente, si concesse di piangere l’anima del padre e il primo ad accorrere al suo grido fu il portantino traditore. Lanciò un grido anche lui, alla vista del sangue, poi corse via per richiamare tutti gli altri.
La notizia dell’assassinio del nobile Userhat ave velocemente raggiunto ogni città e anche le orecchie dell’ebreo Zeev avevano accolto la terribile novella. Il Faraone per omaggiare il suo fedele servitore, concesse altre ricchezze da mettere nella camera mortuaria, in modo da facilitare il suo passaggio all’altro mondo.
Subito la mente di Zeev pensò alla giovane Maat-hor; aveva saputo ogni cosa dai suoi mercanti e anche il fatto che fosse stata lei a trovare il corpo esamine del padre. Si fece forte il desiderio di consolare il suo pianto e di farle visita. Ma non poteva avvicinarsi a lei senza le dovute precauzioni.  Nel corso del primo anno di allontanamento aveva sempre cercato udienza al cospetto di Userhat per ottenere un matrimonio con la figlia, senza doverla strappare alla sua quotidianità, ma non ottenne   nulla che non fosse minaccia di morte.
Dopo poco smise di insistere, comprese che convincerlo non sarebbe mai bastato perché ogni egiziano avrebbe visto nella loro unione una fatalità negativa, ricoprendo la giovane Maat-hor di vergogna e rimpianto. Il nobile scriba aveva, in ogni caso, allertato ogni guardia della città di tenere lontano quel giovane ebreo che senza ritegno lo importunava.
Per la prima volta partì per quella città insieme ai suoi mercanti, deciso più che mai a voler incontrare Maat-hor e sostenerla nel lutto che stava vivendo. Una volta arrivato alle porte prese dalle sue merci gli abiti migliori, quelli che provenivano dalla Babilonia e si vestì di quelli. I colori sgargianti, le maniche larghe e il tessuto leggero coprivano il suo fisico olivastro senza opprimerlo. Si lasciò truccare da Hashepsut, una donna che aveva accolto come una sorella dopo che era stata cacciata da corte. Era la truccatrice dell’harem del Faraone e la sua bellezza naturale aveva suscitato l’invidia della regina.
Con il suo aiuto e l’uso di un copricapo di Zeev l’ebreo era rimasto solo lo sguardo magnetico e verde, come la bellissima pietra preziosa. I capelli mossi erano raccolti in modo da non fare capolinea e il trucco bianchissimo aveva dato pallore a quella pelle che per molti anni era stata bagnata dai raggi solari. Le guardie si prostrarono ai suoi piedi, credendolo un nobile egizio, mentre gli chiedevano il nome. Zeev pensò anche a quello e alla pronuncia di Merenptah le lance delle guardie si ritirarono, lasciando passare il suo carro e quello del suo seguito.
Raggiunse senza problemi l’abitazione che era di Userhat, ma le ancelle gli rivelarono che la figlia non era in casa. Una tra quelle riconobbe lo sguardo e, nonostante il suo silenzio, a parlare fu la sua espressione stupita. Fu l’ultima ad allontanarsi e sussurrò la parola Nilo, prima di dileguarsi. Comprese dove trovare il suo amore e si recò senza indugi sulle rive del fiume.
La trovò lì, intenta a guardare lo scorrere incessante, lo sguardo perso nei pensieri, i sensi tesi al massimo per captare ogni movimento estraneo. Infatti, al primo passo che lui mosse verso di lei, Maat-hor si girò di scatto con il respiro accelerato e impaurita dalla sua posizione di impotenza.
Zeev si tolse il copricapo e con la manica del vestito cercò di rimuovere il trucco bianco. Il risultato era mostruoso, linee bianche sul suo incarnato scuro seguivano il movimento ondulatorio del braccio, sparpagliandosi sul viso senza andarsene.
“Sono io, Zeev, non mi riconosci più?” Gridò; erano soli e non aveva paura di essere arrestato.
“Va via, non ho intenzione di parlare con te!” Rispose alla sua domanda con un acuto più forte.
Zeev associò la paura al suo aspetto e con cautela cercò di avvicinarsi.
“Mi sono dovuto truccare per incontrarti, altrimenti le guardie mi avrebbero preso.” L’ebreo cercava ancora di ripulire il viso, sempre con la manica larga della veste. La tinta rossa si macchiava di bianco e incominciava a sembrare più umano.
“Avrebbero fatto bene, sei solo un assassino. Solo perché ti sei protetto le mani dal sangue di mio padre quando l’hai pugnalato non ti rende meno sporco!” Maat-hor era in preda ad un isteria, senza più freni. Indietreggiò troppo e cadde nel fiume.
Senza perdere tempo il giovane si buttò nel Nilo, recuperando la donna per non farla affogare. Con un braccio intorno al ventre di lei e l’altro teso verso la riva la tirò su, strappandola all’acqua. Il viso era stato completamente pulito dallo scorrere del fiume e adesso era davvero il giovane di una volta. La mise di lato, dandole dei colpetti leggeri dietro la schiena, per facilitare l’espulsione dell’acqua dai polmoni. Dopo tre o quattro colpi di tosse Maat-hor si mise a sedere, fissandolo incerta. Non sapeva se fidarsi o meno di lui.
“Io non sono più tornato qui da ormai quattro inondazioni, non ho ucciso io il nobile Userhat, te lo giuro sul mio Dio, che rende grande i cieli.” A quelle parole parve calmarsi. Mai nessuno giurerebbe il falso se forte è la sua fede.
“Nelle mani di mio padre vi era un occhio con uno smeraldo.” Mormorò, per giustificare il suo comportamento. I capelli neri gocciolavano e le vesti bagnate aderivano al corpo diventando fastidiose.
“Qualcuno ha voluto incastrarmi, devi credermi. Troverò chi è stato e vendicherò l’anima di tuo padre.” Porto una mano sul petto per consacrare la sua affermazione ma quelle piccole di Maat-hor lo fermarono.
“No, non puoi farlo adesso. Se è vero che non sei tu l’assassino di mio padre vuol dire che chi si è macchiato di questa colpa è stato scaltro abbastanza da incastrarti.” Prese fiato per poi riprendere “È a conoscenza di molte cose. Quello che puoi fare è portarmi via da qui, non sono al sicuro.” Le parole di lei non erano più cariche di rabbia come quelle che gli aveva scagliato contro prima. Adesso sembrava fragile e indifesa e Zeev comprese che aveva ragione.
Scapparono nella notte, con la luna calante che illuminava il loro cammino. Maat-hor aveva preso con sé tutto l’oro che aveva sotto mano, quello rimasto dalla sepoltura del padre. Portò via anche il porta gioie ma l’occhio maledetto lo regalò a un mendico che avrebbe ricavato da bere e mangiare per almeno un mese. Zeev, scampato alle guardie grazie all’aiuto di Hashepsut, l’attendeva poco distante dall’entrata della città, aveva già caricato sul suo carro il corredo dell’egizia.
La guardia che era rimasta sveglia assopì la sua smania di domande quando si ritrovò per le mani un sacchettino con dentro quindici deben d’argento. La lasciò passare, divertendosi a contare quante monete contenesse il sacchettino, soppesandole, fiero del guadagno. Maat-hor prese a correre, cercando in ogni direzione le fila di carri che l’attendeva. Cominciò a disperarsi, credendosi persa, dopo aver vagato quasi un’ora. Poi intravide una figura maestosa che la salutava, sbracciandosi per farsi notare nella notte. Le stelle, luminose come non mai, rendevano visibile l’ebreo, donandogli una bellezza eterea.
Quando salì sul carro, Zeev ringraziò il suo Signore per aver benedetto le loro azioni e aver favorito la buona riuscita dal loro piano. Maat-hor pregò insieme a lui per la loro riconciliazione. Poi, quando fu lei a voler invocare la benevolenza delle sue divinità lui non si intromise per dirle che era sbagliato. La osservò parlare alla dea protettrice del suo cammino e le parve sempre la bella e testarda Maat-hor, rispettosa nei suoi confronti e ben devota alla sua religione.
Dopo diversi giorni di errante cammino decisero di sposarsi, senza violare la fede l’uno dell’altra. Trovarono una dimora nella quale abitare stabilmente e lì consacrarono la loro unione. Invitarono i pochi fidati che avevano reso possibile la loro fuga e festeggiarono, bevendo buon vino. Così poi celebrarono il matrimonio sotto l’occhio vigile del buon Dio di Zeev, affiancati dalla famiglia di lui. Non tutti appoggiarono l’unione con una donna che non credeva nel Signore, ma non fecero nulla per impedirlo.
L’identità di colui che aveva assassinato il nobile Userhat rimase sempre celata. Il portantino dall’aria innocente e lo spirito debole aveva un forte vizio per il gioco e ricattava lo scriba. Come una sanguisuga che prosciuga la preda, aveva compreso che il nobile padrone non fosse più intenzionato a pagarlo e che avrebbe reso il Faraone partecipe del ricatto. Timoroso della punizione del Grande Egitto, progettò di accusare quel sudicio semita dagli occhi verdi dell’omicidio. La sua ignobile e mai calcolata presenza gli valse la libertà e nessuno sospettò di lui.
Ma il male che aveva commesso non era stato cancellato dalla memoria degli dei. Terribili sofferenze accompagnarono gli ultimi giorni della sua esistenza. Quando ne esaminarono il cadavere lo trovarono martoriato dall’immonda presenza della punizione di Seth. Fu quella la sua condanna per aver sottratto ingiustamente la vita ad un altro uomo.
Maat-hor e Zeev, nonostante il loro matrimonio fosse ormai consacrato, non sempre trovarono sguardi cortesi, ma con il tempo si abituarono a vivere bene solo loro due, viaggiando anche fuori dall’Egitto. Ogni anno però, dopo l’inondazione, tornarono sulle rive del fiume, per beneficiare della sua vitalità e per riconfermare il loro amore, cresciuto di giorno in giorno dopo il loro primo incontro.




-Buonasera a tutti coloro che sono arrivati alla fine, sono molto felice di potervi salutare e ringraziare di cuore. Questa storia nasce dalla Sfida dei cliché del gruppo di Facebook EFP Famiglia: recensioni, consigli e discussioni.
La mia consegna era la numero 34: I genitori di personaggio A non approvano al relazione tra personaggio A e personaggio B e pagano personaggio B per stare lontano da personaggio A.
Spero di aver ben incentrato il tema e di aver dato vita ad una bella storia che non annoi durante la sua lettura. Un grazie in più a chi lascerà il suo parere sincero!

  
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