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Autore: wrjms    18/08/2016    3 recensioni
Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile. Età: 38. Professione: Consulente investigativo.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, i deerstalker.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, le sigarette, il suo cappotto, le api, John Watson.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I don't have friends. I've just got one.'
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7- Api

John Watson odia le api. Sono imprevedibili, aggressive e fanno un male cane quando ti pungono. «Non pungono se non le infastidisci!», diceva sempre Harry, quando loro erano più piccoli; eppure, John non le ha mai dato retta.
Dannate api. Le creature del demonio.
È mezzogiorno, una calda giornata di Luglio. Il sole a picco gli impedisce di non strizzare gli occhi mentre cammina. John si mette una mano davanti agli occhi; controlla il proprio cellulare per rileggere il messaggio inviatogli da Lestrade.
 

Due ragazzini hanno trovato dei resti umani a Battersea, nella centrale abbandonata. Venite a dare un'occhiata?
- GL
PS. Sherlock non risponde. Come al solito.


John sospira e alza lo sguardo. La centrale di Battersea è imponente, visibile da mezzo miglio di distanza, alta e tesa fino a toccare il cielo. John l'ha visitata solo una volta, da piccolo, accompagnato dalla sorella mentre compiva l'ennesima ragazzata. Il ricordo sfocato del loro cammino lo guida lungo il corretto percorso. «Ci siamo», mormora, sebbene Sherlock sia davanti a lui e sappia dove sta andando anche meglio di un navigatore. «L'entrata dovrebbe essere proprio...».
Silenzio, all'improvviso. John Watson tace e lascia la frase a metà.
«John?», lo chiama Sherlock, fermandosi per guardarlo. Il medico, senza alcun preavviso, s'è fermato in mezzo alla strada, con lo sguardo vitreo e la testa inclinata da un lato. Non risponde.
«John, il cadavere è già in fase di decomposizione. Vorrei arrivare prima che si trasformi completamente in...».
«Ssh». John alza una mano, concentrato su qualcosa.
«... humus».
John lo ignora. C'è qualcosa che non va; qualcosa che stuzzica il retro della sua nuca, insinuandosi prepotentemente attraverso il suo timpano. «Lo senti anche tu?».
«Sentire cosa?». Poi anche Sherlock lo nota.
È un ronzio basso, costante, che non si interrompe mai. In altre circostanze, John lo troverebbe senza dubbio rilassante: gli ricorderebbe il vibrare degli altoparlanti della sua prima auto, oppure il russare lento del cucciolo che aveva quando era bambino.
Ora no.
John è il primo a muoversi. Muove qualche passo cauto verso la fonte del ronzio; ma è solo quando lo vede che, inorridito, si accorge che il rumore proviene dall'entrata della centrale.
È lì.
Uno sciame gigantesco di api che si stringe e si allarga attorno ad un cumulo gigantesco di materia scura, proprio , tra una trave e l'altra, sull'unico accesso di quel gigantesco edificio che lui aveva accettato di visitare. Sono centinaia, migliaia, si muovono alla rinfusa; eppure il gruppo è estremamente compatto, si aggroviglia e si annoda come un lungo nastro di seta nera, puntinata, più snello di qua e più largo dall'altra parte. Ronzano, ronzano, ronzano. Alcune si appoggiano sulle finestre della centrale. Altre oltrepassano l'entrata, libera da porte, e volano in piccoli sciami sull'ingresso dell'edificio, come in delle nuvolette scure e compatte.
John Watson osserva con orrore mentre un paio di api gli svolazzano davanti al naso.
«Santissimi numi», balbetta, la bocca spalancata.
«Straordinariamente incantevole», risponde Sherlock, con la medesima espressione.
John ci mette qualche secondo a reagire. «Cosa?», esclama, sconvolto; e se ne sta un po' lì fermo e un po' a muovere qualche passettino incerto, tentando sì e no di raggiungere il detective che, senza esitazione, s'è mosso alla volta della centrale. «“Incantevole”? C'è un migliaio... un milione di api lì davanti a te e tu vuoi semplicemente camminarci in mezzo?».
«Oh, non dire sciocchezze, John», risponde Sherlock, armeggiando con la camicia per abbassare sino ai polsi le maniche arrotolate. «Saranno trentamila al massimo».
«Gesù. Sherlock...».
«E sono imenotteri, John, non api».
«Ah, sì?», grugnisce, con finto interesse.
Sherlock si liscia, con nonchalance, il tessuto della camicia, tentando di rimuovere le pieghe. «Certo. Molto più pericolosi».
John non risponde. Mormora un'imprecazione, massaggiandosi la faccia con la mano sinistra; prende un respiro, poi guarda Sherlock dritto negli occhi. «Io là dentro non ci vado».
Lo sguardo del consulente abbandona la camicia e lo fissa. «Che problema c'è?», dice Sherlock; è forse un po' irritato, sì, e la sua voce è densa di sarcasmo; eppure, sul suo volto, John non può che notare una punta di preoccupazione.
«Odio le api, Sherlock», ammette il medico. Sherlock fa per dire qualcosa, ma lui lo interrompe. «Gli imenotteri... qualsiasi cosa siano. Li ho sempre odiati».
«Vuoi dire che hai paura».
«Non ho paura».
Sherlock ridacchia e si volta.
«Sono un soldato, Sherlock!».
«Non ti pungeranno, John», ripete lui; nelle sue parole echeggia la ramanzina di Harry. «O forse sì. Ma è un calcolo di probabilità; se cammini lentamente hai una possibilità su dodici di...».
«Per l'amor del cielo, Sherlock!».
«Va bene. Va bene». E improvvisamente la sua schiena si fa meno tesa, i suoi occhi si addolciscono, la sua espressione diventa, poco caratteristicamente, quasi gentile. John non la vede, ha girato la schiena e si sta dondolando sui talloni in cerca di una soluzione; ma, quando Sherlock parla, non può non notare la delicatezza con cui sceglie le sue parole.
«Manuale pratico della cultura dell'ape, con alcune osservazioni sulla segregazione della regina», mormora il detective; e lo fa quasi tutto d'un fiato, mangiandosi le parole, ripetendo la frase come una cantilena imparata da bambino. John giurerebbe di vederlo imbarazzato. «È il titolo di un...», scuote la testa e pronuncia la parola come se fosse una barzelletta, «libro che ho scritto da bambino. La mia prima ricerca. Passavo giornate intere a guardare l'alveare che c'era in giardino: studiavo i comportamenti delle api, li analizzavo, facevo esperimenti per farle proliferare. Ma non era solo una questione scientifica – le api mi piacevano, erano cooperative, perseguivano tutte il medesimo scopo. Mi liberavano dalla noia e...». Qualunque cosa Sherlock stesse per dire, la cancella brevemente; dopo una pausa, riprende a parlare. «Ho piantato dozzine di fiori in giardino solo per non farle viaggiare troppo lontano... e dopo una lunga pioggia, contavo quelle che trovavo morte». Un sospiro. «Quando la colonia è diventata troppo numerosa e i disinfestatori sono intervenuti, non sono uscito da camera mia per una settimana». L'ombra di un sorriso tirato gli attraversa il volto.
«Fidati quanto ti dico che non ti pungeranno. Solo... restami vicino. E non fare movimenti bruschi».
Sherlock inizia a incamminarsi verso l'ingresso; John, mentre lo segue, lo immagina bambino, con le gambe magroline e, forse, il volto un po' più paffuto. Lontano da tutti gli altri ragazzini, Sherlock se ne stava isolato nel proprio giardino, a guardare le api che gli ronzavano attorno. Magari ignorava i bubboni spuntati, qualche giorno prima, sulle sue gambe, quando non aveva prestato troppa attenzione.
Le mani sporche di terra, il giardino pieno di fiori. E le api che, al sicuro dentro il suo giardino, non se ne andavano mai, rimanevano sempre con lui.
John si lascia trasportare dall'immagine, così paradossalmente distante da quella dello Sherlock che conosce ora ma, allo stesso tempo, così familiare e reale. Non si rende conto nemmeno di aver attraversato l'ingresso incolume e di aver seguito Sherlock, inconsapevolmente, su per le scale.

 

8- Deerstalker

La tomba di Sherlock.
Un soggetto abbastanza macabro, per essere sinceri. Anche dopo il ritorno del giovane Holmes, John Watson continua a intravedere nella lapide di lucida pietra nera la rappresentazione dei suoi peggiori dolori, delle sue amarezze, di tutte le sue insicurezze passate e presenti. Per tal motivo, dopo la vicenda de Il Carro Vuoto, John smette totalmente di visitarla, anche solo per farla rimuovere. Mycroft Holmes non ha fra le sue più pressanti preoccupazioni quella di dissotterrare l'urna delle presunte ceneri del fratello; la lapide e i suddetti resti, per cui, rimangono dove erano stati piazzati, a mo' di emblema allegorico dell'accaduto.
A Sherlock, d'altra parte, i cimiteri piacciono fin troppo.
È passato quasi un mese dagli avvenimenti della metropolitana e il consulente investigativo decide di visitare la propria tomba. Non c'è alcuna grande motivazione dietro questa scelta: Sherlock ha bisogno di tranquillità e sa di poterla trovare lì, nel cimitero. I cimiteri hanno un'atmosfera stimolante: sono silenziosi, pacifici e, soprattutto, poca gente ci mette piede – se non dentro una bara, s'intende.
Mentre cammina fra le lapidi e le statue di marmo, Sherlock si guarda attorno e tenta di dedurre la vita delle persone dalle loro tombe. 19-05-1925 / 10-09-1943. Maschio. Morto in guerra. Appena arruolato. La tomba è a malapena leggibile; quella del padre, a fianco, è curata alla perfezione.
Figlio non voluto. I genitori devono averlo spedito in guerra alla prima possibilità--

L'attenzione di Sherlock è improvvisamente strappata dalla lapide. Là in fondo, ecco, la vede: la propria tomba, immacolata nonostante non sia stata visitata da più di un mese. Sherlock arriccia il naso. Come è possibile? La lapide giace sotto a un gigantesco platano; ha piovuto – concentrati, Sherlock – tre, sette e quindici giorni fa. Tutti e tre dei temporali devastanti. Ci sono ancora foglie e rami sparsi ai margini del cimitero, li vede bene; eppure la sua tomba è immacolata. Pulitissima. Brilla anche sotto la luce offuscata dalle nubi londinesi.
Sherlock si avvicina, velocemente, irritato perché non riesce a capire. John, Lestrade, Mrs. Hudson, Mycroft – pft, Mycroft! - sicuramente non sono passati a pulire; e allora chi?
Poi lo nota.
Quella che pensava fosse una macchia di erba troppo cresciuta, ai fianchi della propria tomba: non era erba. Uno, due, tre, quattro deerstalker, abbandonati ai piedi della lapide; e poi, distese sull'erba, poco visibili se non da distanza ravvicinata, piccole buste, portachiavi lasciati nell'erba, fogli appiccicati all'interno dei cappelli.
Cappello di pessima fattura, apostrofa Sherlock; strappa il biglietto che v'è attaccato, lo apre per leggerlo.

#SHERLOCKVIVE !! Eroe di Reichenbach < 333 3.11.14 → Noi ci crediamo!! W gli Sherlockians

Sherlock si passa una mano sul volto, accartocciando il biglietto. Prende il cappello fra le mani: perché il cappello?, si chiede; perché il simbolo di questi seguaci da quattro soldi dovrebbe essere un cappello e non, per dire, l'utilizzo di materia grigia superiore a quello della media?
Sherlock guarda ancora quella massa di lettere, cappelli, dichiarazioni d'amore senza senso e pupazzetti per bambini.
Si rigira il brutto deerstalker fra le mani.
Al diavolo.
Ringrazia di aver portato un accendino, quel giorno. Il cotone brucia eccezionalmente bene.
 

 

9- John Watson
È straordinariamente incredibile che il più grande genio di Londra non se ne sia reso conto. Ha la fama di conoscere tutto ciò che è utile, ciò che è inutile di cancellarlo, ciò che ancora non sa di dedurlo nel giro di pochi secondi. Conosce benissimo il mondo, le persone, se stesso: a undici anni, nel suo primo piccolo palazzo mentale – fantasioso, colorato, con le stanze che si ingrandiscono e rimpiccioliscono come in Alice nel paese delle Meraviglie – crea una parete interamente fatta di sughero e ci incolla una sua sagoma. Annota voglie, nei, cicatrici; ricostruisce alla perfezione quella che è la propria persona. Poi, di fianco, lascia un'etichetta e scrive:

Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile.
Età: 11. Professione: pirata.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, le verdure.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, le api, i pirati, Redbeard.

Il suo palazzo mentale, nel corso degli anni, cambia. Da un piccolo appartamento si trasforma in una villa, poi in un palazzo; le stanze assumono aspetto e dimensioni fisse; nozioni vengono ordinate, memorizzate, dimenticate.
La parete di sughero rimane sempre lì. Con il tempo, la sua sagoma cresce e subisce l'aggiunta di nuove cicatrici; quando Sherlock ha dodici anni, Redbeard viene soppresso, e lui cancella il suo nome con una matita colorata.
A quindici anni, è cresciuto. I pirati sono per bambini. Con la matita sostituisce la sua professione in studente; qualche anno dopo, in consulente investigativo. Anche verdure scompare: è cresciuto abbastanza da mangiare decentemente. Al suo posto, scrive: cappelli.
Diciassette anni. Sherlock compra un cappotto nero, Belstaff, di ottima fattura. Se ne innamora. Lo aggiunge alla lista.

Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile.
Età: 17. Professione: consulente investigativo.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, i cappelli.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, il suo cappotto, le api.


La didascalia è perfetta; rimane tale e quale per i successivi vent'anni. Sherlock si siede spesso sulla poltrona, in quella stanza, e fissa la parete di sughero: tutto, nella sua mente, è minuziosamente ordinato. Conoscenze, idee, intenzioni; ha fatto di sé una personalità completa, complessa, comprensiva. Sherlock Holmes ha creato se stesso.
È orgoglioso.
Eppure, continua a non rendersene conto.

Deve attendere un'esperienza traumatica per accorgersene. Traumatica per chi dei due, esattamente? Non ne è sicuro.
Accade tutto troppo velocemente perché abbia tempo anche solo di pensare: Sherlock deve spremersi le meningi per riportare alla mente i ricordi della serata. Un caso, un assassino, una pista. Gli episodi della nottata gli tornano in mente distaccati l'uno dagli altri, come dei rapidi flash; non è normale, per lui, pensare per compartimenti stagni, ma la confusione nella sua mente è tale che Sherlock non riesce a riunire i ricordi.
Strizza gli occhi ancora di più. È lì, nella stanza della parete di sughero, che rovescia scaffali e tavoli, rompe finestre, lascia cadere documenti e libri da tutte le parti. Dove ha messo quei maledetti ricordi? Cosa gli sta succedendo? Sherlock non capisce più nulla. Il caos lo avvolge.
Poi, improvvisamente, un altro flash. Avevano seguito una coppia di criminali fino ad un qualche ponte nel Berkshire; ricorda vagamente una chiamata a Scotland Yard e un tassista infuriato. Ma poi... ma poi cosa? Non funziona, non funziona. Sherlock è troppo turbato; non riesce a visualizzare la situazione, a ragionare, a ricordare.
Sherlock si alza di nuovo da terra e ricomincia a rovesciare pile di documenti. Deve averlo lasciato da qualche parte, quel ricordo, deve esserci: ma la verità è che la serata lo ha spossato così tanto da impedirgli di memorizzare gli avvenimenti come suo solito. Di tanto in tanto, qualcosa riemerge; Sherlock inizia a ricordare le sagome dei due criminali; ricorda forse la pistola scarica, l'impossibilità di fuga. Avevano fatto a botte? Sembra di sì, ma Sherlock non ricorda. Confuso... è così confuso...
Poi, come colpito da un fascio di luce, lo vede; un piccolo ricordo un po' annebbiato, sepolto sotto ad una pila di fascicoli e libri. Sherlock, dentro il suo Palazzo, si china a raccoglierlo tentativamente, come intimorito da ciò che sta per vedere.
È come un'immagine in movimento che continua a ripetersi, in loop, finisce, ricomincia, finisce di nuovo e ricomincia all'infinito. Nel ricordo che ha in mano c'è John, con qualche livido sul volto, che si distrae per un momento durante la lotta; manda un sorriso a Sherlock, forse, perché ha sentito la sirena della polizia; hanno vinto.
L'attimo di distrazione permette all'assalitore di avventarsi su di lui. Lo carica, lo spinge contro la ringhiera; la testa di John urta orribilmente la ringhiera del ponte, clang! e poi ciondola inerme sulla sua spalla. Ha perso i sensi.
Infine, l'assalitore lo spinge giù dal ponte.
Il ricordo finisce lì, ma Sherlock non ha difficoltà a ricordare cosa è successo dopo. Ora rimembra bene; ricordi d'ogni tipo aleggiano intorno a lui come nuvole ronzanti e Sherlock si agita per scacciarle, basta, basta! Colpisce un ricordo sonoro con il braccio destro. È la sua voce, quella, che urla il nome di John? Sherlock non ne è più sicuro. L'urlo è mostruoso, colmo di terrore, di orrore, di tensione, ma Sherlock non è mai così teso. Mai.
Scaccia via il ricordo con una mano.
La nuvola non accenna ad andarsene. Eccone un altro, davanti a lui; un ricordo orribile, incomprensibile, offuscato. C'è ancora quell'oscurità, e Sherlock che corre verso la ringhiera, appena in tempo per sentire il crash dello scontro del corpo di John con l'acqua. La vista gli è annebbiata da qualcosa. Perché c'è dell'acqua nei suoi occhi? Sherlock non riesce a vedere bene il ricordo. Non vede...
Ma sente. E ciò che sente è ben delineato, al contrario di tutti gli altri ricordi: il suo cappotto che gli scivola, velocemente, dalle braccia, e cade al suolo. Perché non c'è niente, niente nel suo cappotto, niente nelle api, niente nel violino e nel ballo e dannazione, nemmeno in Redbeard che valga tanto quanto vale John Watson.
Per cui lascia cadere il suo cappotto e salta.
Ora Sherlock cade a terra. Nella stanza caotica del suo palazzo mentale, i muri iniziano a cedere, polvere inizia a cadere dal soffitto. Ci sono tarli, nei mobili caduti ed ammucchiati, che mangiano via i dettagli di ogni suo ricordo più importante.
Sherlock Holmes si accovaccia in posizione fetale. Non vede la propria caduta in un ricordo, come ha fatto con le altre scene, ma la rimembra bene. La caduta dal ponte non è come quella dal Barts; non è una pantomima, una messa un scena, una recita teatrale.
È la verità. E lui ha paura.
Quello che accade dopo è oscurità. Sherlock non tenta nemmeno più di scacciare la nuvola di ricordi che lo assilla; lascia che lo attacchino e basta. Ricorda l'acqua scura e gelida, e la visione del medico che, appesantito dal peso del giaccone, scivolava giù, sempre più giù.
L'aveva afferrato. L'aveva portato sulla riva. Aveva sulle spalle il peso della nottata, dell'acqua, della stanchezza, delle ferite, eppure aveva nuotato, aveva continuato a farlo fino a quando John non era stato al sicuro. E, ancora lì, con il corpo di John Watson inerme fra le braccia, disteso sul pavimento gelido, non si era fermato.
La posa corretta per una manovra di rianimazione: Sherlock la ricordava a malapena, già confuso, già intontito dall'accaduto. Una, due, tre, quattro, e su fino a trenta spinte; poi si era piegato, aveva chinato il capo del medico e aveva soffiato, con tutto il fiato che aveva, sulle labbra aperte del dottore.
Uno, due, tre, quattro... trenta. Non aveva notato il sangue che usciva dalle orecchie di John.
Soffiare.
«Dannazione, John... John! Reagisci, per la miseria, reagisci!».
E le spinte erano diventate scossoni; gli scossoni pugni.
Sherlock scuote la testa e piange. Se piange nel suo palazzo mentale, piangerà anche nella realtà? Sherlock non lo sa. Non ne è sicuro. Non lo vuole nemmeno sapere.
Con la mano sinistra, si massaggia le nocche della destra. Fanno male; le botte hanno lasciato un segno.
L'ultimo ricordo gli sovviene nebuloso.
È breve, dura qualche secondo. C'è John che prende una boccata d'aria improvvisa, sotto alle sue labbra; il petto che si gonfia, l'acqua che viene tossita, faticosamente, fuori dai polmoni.
«Così, John... Così».
In lontananza, altre sirene del 911. Sherlock si strofina la faccia con una mano e respira a sua volta.

Sherlock Holmes è risvegliato dal suo stato di catatonia silenziosa da una mano sulla sua spalla. Avviene come nelle finestre di un computer: prima si chiude il ricordo che stava osservando; poi la stanza del suo palazzo mentale; poi Sherlock torna alla realtà, aprendo gli occhi. È seduto su una sedia del Pronto Soccorso, fuori dalla sala operatoria. Si era addormentato? Non si era accorto di essersi addormentato. Eppure il suo Palazzo Mentale sembra troppo distante.
«Sherlock», lo chiama qualcuno; è Mycroft, in piedi davanti a lui, con il suo cappotto ripiegato sul braccio e una mano poggiata sulla sua spalla.
«Myc...», mormora Sherlock; inavvertitamente usa il soprannome con cui lo chiamava da piccolo. La sua mente confusa non riesce a registrare l'errore.
Mycroft sorride. È... fraterno? Lo guarda con un sorriso rassicurante sul volto e Sherlock giura che, se la situazione non fosse già abbastanza sconvolgente, lo troverebbe nauseante. «John...».
«Le sue condizioni si sono stabilizzate. È stato dimesso dalla terapia intensiva mentre dormivi». E poi, prima che Sherlock possa aggiungere altro: «Non temere, Sherlock. John Watson tornerà presto in forma».
«Devo andare», dice Sherlock, afferrando il proprio cappotto dal braccio di Mycroft; barcolla leggermente, stremato dagli avvenimenti. È ancora bagnato? Non se n'era accorto.
«Sherlock», lo chiama Mycroft, trattenendolo per la spalla. Sherlock gli presta a malapena attenzione. «Torna a Baker Street. Dormi. Indossa degli abiti puliti».
«Non ci penso nemmeno».
«Non gli sarai di alcun uso, in queste condizioni».
«Non m'importa».
Mycroft sospira. «Sono consapevole del fatto che tu mi ritenga estraneo a qualsiasi sentimento umano, Sherlock, ma è mio dovere ricordarti che qualunque cosa ti stia a cuore...». Una pausa. «ha importanza anche per me. Terrò sott'occhio John personalmente».
Sherlock lo fissa ed ha quasi intenzione di sbottargli contro; eppure la stanchezza appesantisce improvvisamente le sue spalle, il freddo inizia a farlo tremare, la tensione e la confusione accumulata dentro al suo Mind Palace gli impediscono di riflettere accuratamente.
«Ti chiamerò se ci sono sviluppi», aggiunge Mycroft, senza spostare la propria mano.
Sherlock storce le labbra. Annuisce. «Due ore». E poi, velocemente, attraversa il corridoio.

Pochi minuti dopo, mentre il taxi lo porta a casa, Sherlock chiude gli occhi e ritorna nella stanza del sughero. È ancora tutto lì: i documenti sparpagliati per terra, i mobili tarlati, i muri in via di cedimento. Con qualche passo frettoloso attraversa la stanza, scavalcando ciò che si frappone fra lui ed il suo obbiettivo; raggiunge la parete di sughero, osservando se stesso.
Poco dopo, con gli occhi lucidi, afferra il pennarello indelebile:

Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile.
Età: 38. Professione: consulente investigativo.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, i deerstalker.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, il suo cappotto, le api, John Watson.



Angolo Autrice
Miei amati Sherlockians,

ritorno per l'ultimo capitolo di questa raccolta a cui, davvero, mi sono affezionata moltissimo. Capitolo dalla scrittura – e dalle trame – abbastanza trasheggianti, se mi passate il termine, ma spero che questo non vi abbia frenati nella lettura.
Una piccola noticina su Api: prende ispirazione da un'affermazione fatta da Holmes nei racconti stessi di Conan Doyle, che riporto poco sotto. [Aneddoto: la faccenda dell'alveare in sé, invece, è capitata *ahimé* proprio a me, questa primavera. L'edificio in questione era la tomba di Agamennone. La rassicurante puntualizzazione sugli imenotteri e sulla loro pericolosità è arrivata dalla mia professoressa di scienze].
Ah, btw, non mi prendo responsabilità per riferimenti scientifici o geografici poco accurati ;)
Qui sotto troverete tutte le frasi che hanno ispirato questa raccolta. Ci tenevo a menzionarle.
Un grosso grazie a tutti quelli che hanno letto, recensito e seguito la storia: mi avete fatto tornare la voglia di scrivere.
A prestissimo, con tutto il cuore,
WJ

1. Ballo | S. «I love dancing. I've always had. […] Never really comes up in crime work, but, you know, I live in the hope of the right case».
2. Indovinelli | S. «I don't like riddles». M. «Learn to».
3. Violino | S. «I play the violin when I'm thinking and sometimes I don't talk for days on end».
4. Sigarette | S. «Nicotine patch. Helps me think».
5. Stupidi | S. «I dislike being outnumbered. It makes for too much stupid in the room».
6. Cappotto | S. «I take the precaution of a good coat and a short friend».
7. Api | “«Exactly, Watson. Here is the fruit of my leisured ease, the magnum opus of my latter years.» He picked up the volume from the table and read out the whole title, ‘Practical Handbook of Bee Culture, with some Observations upon the Segregation of the Queen.’”
8. Deerstalker | S. «Why is it always the hat photograph?».
9. John Watson | CM. «Very hard to find a pressure point on you, Mr Holmes. But look how you care about John Watson».

 

   
 
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