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Autore: simocarre83    22/08/2016    2 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4 – QUANDO LA BANDA PASSO’

La cosa strana era che, sebbene legati da una forte amicizia e dal desiderio di passare del tempo insieme, non è che ci riuscissimo spesso, oltre all’appuntamento fisso e improrogabile delle sere. Durante la mattinata non ci vedevamo mai, spalmati, come eravamo, sui lidi di Policoro, inconsapevoli della presenza degli altri del gruppo al mare e altrettanto desiderosi di andarci. Il pomeriggio in realtà, a parte me e Giuseppe che riuscivamo a stare insieme spesso, avevamo solo da un anno incominciato a studiare insieme, anche se materie e libri diversi.

Sostanzialmente, l’unico periodo della giornata in cui riuscivamo a stare insieme era la sera. Più o meno verso le sette e mezza, con l’aria un po’ più fresca, ci si trovava fuori casa di Giuseppe e si incominciava a giocare o chiacchierare con le altre ragazze vicine di casa, soprattutto Annalisa e Francesca. Poi alle otto spaccate io ricevevo la chiamata dei nonni, per la cena e non ci si vedeva per un’oretta buona, perché prima mangiavo io, poi verso le otto e mezza, anche i miei amici. Alle nove ci si trovava di nuovo tutti insieme e si stava insieme fino a mezzanotte.

Quando si era più piccoli a giocare a palla, nascondino, e tutti i giochi da bambini. Essendo la via di Giuseppe una strada chiusa e circondata da due schiere di case, era un posto sufficientemente tranquillo e che non permetteva il passaggio delle macchine. Ogni anno, verso la metà di Agosto, ci si organizzava addirittura la tavolata e ci si mangiava la carne, magari guardando alla televisione qualche incontro sportivo. Trenta persone, cinque o sei famiglie che si divertivano fino all’una, le due, senza disturbare nessuno.

Poi, verso i miei dodici, tredici anni, avevamo incominciato a passeggiare, con gli altri per le strade limitrofe, oltre che semplicemente utilizzarle come territorio per giocare a nascondino. Finché ci accorgemmo che quelle strade erano troppo grandi per essere il territorio di una partita a nascondino. Cioè una persona, da sola, non riusciva mai a vincere contro quelli che si nascondevano. Il risultato fu che ci annoiammo sempre di più di giocarci.

Un giorno, a Emanuele, venne un idea pazza: unire “nascondino” con “Guardie e ladri”. Cioè invertire i ruoli del nascondino. In pratica uno si nascondeva e gli altri lo dovevano, in quell’immenso territorio, scovare e prendere. Vinceva il gioco chi riusciva a rimanere nascosto per più tempo.

Sembrava un gioco come tutti gli altri, ma con il tempo rivelò alcune caratteristiche e peculiarità di ciascuno di noi.

Ad esempio sia Francesco che Emanuele impararono con quel gioco, a pedinare e seguire, senza essere scoperti, qualcuno.

Giuseppe imparò a trovare sempre una soluzione alternativa per evitare una certa situazione, come quando si ingegnava a trovare una via di fuga per non essere acciuffato dagli altri. E ci riusciva praticamente sempre.

Io accrebbi la mia capacità di soluzione di problemi, di osservare e di esaminare tutte le variabili per trovare la via migliore per agire.

Soprattutto tutti imparammo a lavorare in gruppo. E apprezzammo il piacere di farlo. Così tanto, che dopo un estate di gioco, quando avevo tredici anni, quindi due anni prima di quello dei fatti che vi sto raccontando, dovemmo stabilire delle regole, perché nessuno più voleva andare a nascondersi, amando di più il gusto di partecipare con tutti gli altri alle ricerche.

Francesco suggerì una soluzione semplice alla questione. Bastava che ad uscire fossimo, a turno, tutti. In ordine alfabetico.

Gli unici a non essere d’accordo con questo gioco, che ci faceva scorrazzare da soli per quelle vie, erano i vari genitori e nonni. Per tranquillizzarli, anche se avevamo già acquisito quell’arroganza adolescenziale da pensare che non ce ne sarebbe mai stato bisogno, decidemmo che in caso qualcuno di noi si fosse trovato in pericolo, avremmo dovuto fare tre fischi brevi e ravvicinati. Le ragazze erano quelle che sapevano fischiare meglio. Questo segnale, annullava automaticamente la mano, interrompeva il gioco e faceva muovere tutti verso il luogo da cui era stato emesso il fischio. Regola che, comunque, non ci era mai capitato di dover utilizzare, se non per rassicurare i vari genitori e nonni.

Qualche sera dopo il mio arrivo, eravamo, appunto, a giocare a nascondino al contrario. Era quasi mezzanotte, il che significava che nel nostro “campo di gioco” passava solo una macchina ogni tanto. Era il mio turno. Sebbene, come tutti gli altri, provassi più gusto nel cercare che nel nascondermi, stavo provando diverse tattiche che mi permettevano di vincere la mia stessa tattica di ricerca che usavo quando ero dall’altra parte. Insomma, combattevo contro me stesso. E stavo pure vincendo, perché erano dieci minuti buoni che mi ero reso assolutamente invisibile dallo sguardo dei miei amici, soprattutto quello attento di Emanuele. Quello era più o meno il momento in cui iniziavo ad annoiarmi. Di solito a quel punto mi stufavo di essere cercato, se ci arrivavo, e trovavo il modo di farmi trovare. Così poi toccava ad Annalisa, che veniva puntualmente trovata entro i primi trenta secondi. E poi passava il turno di Emanuele, che, sotto quell’aspetto, era un osso duro.

Secondo i miei calcoli, avendo visto passare, proprio qualche secondo prima, Giuseppe dalla via che stava più in alto rispetto a quella nella quale mi trovavo, capii che nessun’altro avrebbe potuto trovarmi prima di un paio di minuti, perché Giuseppe, il più acuto ed il più veloce del gruppo, veniva mandato alla mia ricerca da solo. Quindi tutti gli altri sarebbero stati praticamente dall’altra parte del campo di gioco. E Giuseppe difficilmente sarebbe ritornato sui propri passi, se non insospettito da qualcosa che, comunque, non avevo fatto.

Udii nitidamente due fischi. Il terzo fu strozzato. Sobbalzai, quando compresi da che direzione stavano arrivando. Ero indubbiamente il più vicino. Quindi mi avvicinai lentamente all’incrocio. Riuscii a sporgermi appena per vedere quello che stava succedendo. E rabbrividire. Dorian aveva preso Giuseppe e, dopo avergli sferrato un pugno in pancia lo teneva premuto contro il muro. Al suo fianco c’era Michele. I due erano, evidentemente da soli. Compresi che la paura che avevo provato solo pochi giorni prima non era niente a confronto con quella che stavo provando in quel momento.

Che cosa volevano da Giuseppe?

E gli altri avevano sentito i fischi? Tutti e tre?

E se la risposta a quest’ultima domanda era affermativa, quanto ancora avrei dovuto attendere per ricevere l’aiuto e l’appoggio di Francesco e Emanuele?

Purtroppo quelle domande, nella mia mente, rimasero per pochissimi secondi, soppiantate immediatamente dallo spavento e dal dolore per un pugno allo stomaco, e un coltellino puntato alla pancia subito dopo da Salvatore. Una mano mi prelevò dal nascondiglio improvvisato che era stata quella via. Era Michele. Puntandomi lui, a questo punto, un coltellino al viso, mi costrinse a raggiungere Giuseppe con le spalle contro il muro.

“Bene! Abbiamo qui il capo! E siamo anche in superiorità numerica!” disse Salvatore ridendo mentre la stessa sensazione del coltellino la ebbe Giuseppe, vedendo di fronte a sé Dorian.

“Cosa pensate di farci?” chiesi con il tono più calmo che mi venne fuori in quel momento.

Michele mi buttò una sbuffata di fumo di sigaretta addosso. Aveva anche incominciato a fumare adesso? Pensai in un momento di lucidità.

“Farvela pagare!” disse. “Avete qualche idea?” propose ai due ragazzini che si era portato dietro in quella che stava sempre più prendendo la forma di una vendetta.

“Sfiguriamoli, con il coltellino o con una sigaretta!” fu la proposta di Salvatore.

“Rompiamogli il naso a tutti e due” quella di Dorian.

“Avevo in mente qualcosa di meno doloroso, ma più umiliante!” aggiunse Michele.

Io e Giuseppe ci guardammo attoniti. La paura non aveva smesso di crescere. E sentimmo contemporaneamente cederci le gambe quando Michele continuò.

“Stasera tornate a casa nudi!” fu la semplice e lapidaria sentenza di Michele. Seguita da un ordine. “Spogliatevi!”.

Per un attimo mi parve di non aver capito bene la loro richiesta. Se in un qualsiasi altro momento, una cosa del genere sarebbe stata ampiamente fuori discussione, in quella situazione rasentava l’inverosimile. Cosa voleva dimostrare Michele con quell’azione? La sua supremazia nei nostri confronti? La loro forza? O voleva semplicemente umiliarci? Giuseppe, lo sapevo, non avrebbe mai acconsentito facilmente a fare una cosa del genere. Anche se il coltello dalla parte del manico che avevano in quel momento era un buon deterrente per la disubbidienza. Ma perché? Che bisogno c’era di umiliarci così?

Ebbi un flash-back. Mi ricordai che quattro anni prima, quando ero in prima media, era successa proprio una cosa del genere. Un mio compagno di classe, un mio amico, almeno così credevo, nel giro di qualche giorno aveva incominciato a prendermi in giro, prima leggermente, poi con prese in giro sempre più pesanti. Aveva incominciato a fare il bullo con diversi di noi in classe, me compreso. E alla fine di una lezione di educazione fisica, davanti a tutti i miei compagni di classe, mi ordinò di spogliarmi completamente. Fortunatamente in quell’occasione la fine dell’incontro fu fischiata dal professore che risolse la questione.

Qui, però, professori non ce n’erano. Scuole neanche. C’erano i coltellini, però. Ed eravamo in due contro tre.

Passai pochi secondi immerso in quei pensieri che, grazie ancora una volta alla nostra amicizia, bastarono.

Due rumori cupi, due coltelli che tintinnavano cadendo dalle mani dei loro proprietari, il lamento di dolore di entrambi. Dorian e Michele si inginocchiarono per un momento in preda al dolore alla mano destra che era evidentemente contusa. Fortunatamente io e Giuseppe eravamo in preda ad una paura fortissima ma non nel panico, perché in un momento prendemmo in mano i coltelli. Salvatore purtroppo aveva già iniziato la fuga, anche se un sasso velocissimo raggiunse anche lui, questa volta sul sedere, e lo fece saltare, urlare e correre via più velocemente. Giuseppe non lo rincorse neppure, poi con una complicità sempre esistita gli bastò uno sguardo con me per capire quello che era successo.

“Allora li avete sentiti anche voi i fischi?” chiese Giuseppe.

“Si! Anche l’ultimo, che ci ha preoccupati ancora di più. Così siamo accorsi, ma eravamo dall’altra parte del campo di gioco e soprattutto siamo dovuti, per sicurezza, passare da casa! Direi che abbiamo fatto bene!” disse Emanuele.

“Benissimo! Anche se adesso anche i nostri nemici sanno della vostra mira infallibile con la fionda. Spero per questo che non cercheranno di scappare”.

Francesco, che, dopo aver disarmato con la fionda Dorian aveva anche ricaricato e colpito Salvatore, ricaricò nuovamente la propria arma. Emanuele, che aveva disarmato Michele, immediatamente dopo averla ricaricata, continuava a tenerlo sotto tiro. Giuseppe fece alzare Dorian. Puntandogli il coltello allo stomaco e forte della mira di Francesco, gli fece un’offerta che non poteva rifiutare. “Se te ne vai ora, forse non ti accadrà nulla”.

Dorian non se lo fece ripetere due volte. Appena Giuseppe abbassò l’arma corse via, lasciando solo Michele e prendendosi anche lui il suo sasso sul sedere. Io feci alzare Michele e conservai il coltello in tasca. I due fratelli, da ormai pochi metri di distanza, lo tenevano sotto tiro ed io e Giuseppe sapevamo, come d’altro canto lo stesso Michele da qualche secondo poteva ben immaginare, che ogni tentativo di fuga o di aggressione nei confronti di uno dei due avrebbe comportato il pericolo di farsi male sul serio. Guardai negli occhi Michele e sorrisi. Ce l’eravamo vista proprio brutta. Menomale che Francesco e Emanuele erano arrivati giusto in tempo. Ma ora che il pericolo era passato, era andata via la paura ed era rimasta solo la rabbia per quello che Michele e i suoi avevano voluto e provato a farci, era giunto il momento di dargli una lezione. Una di quelle lezioni che non avrebbe mai più dimenticato. E parlai.

“Così volevi umiliarci davanti a tutti? Beh! non ci sei riuscito! Ti è andata male! Prima di tutto i nostri amici si sono dimostrati veri amici. Sono accorsi in nostro aiuto e non hanno esitato un solo istante per agire con le loro migliori risorse, per salvarci. Poi complimenti per i tuoi amici. Non hanno esitato un solo istante per scappare e lasciarti da solo. Beh! Con degli amici del genere facevi bene ad avere paura di me l’altra sera. Non riesci a farti rispettare neanche da quelli che consideri tuoi sottoposti. Come pensi di meritarti il rispetto di noi, o farci paura?”

Michele, che all’inizio aveva retto lo sguardo, ora l’aveva nuovamente abbassato e le braccia penzoloni ai fianchi dimostravano la sua debolezza in quel momento. Se non fisica, sicuramente emotiva. Io me ne accorsi e, in un impeto di benevolenza, avevo quasi deciso di lasciarlo andare. Ma accadde qualcosa che mi fece cambiare idea. Michele, forse anche in preda di un pizzico di vergogna per quella situazione così capovolta e perché comprese che, almeno per quanto riguardava l’amicizia, avevo ragione, disse una cosa.

“Tanto prima o poi succederà che ti troverò da solo. Guardati le spalle, perché quando meno te lo aspetti ti trovo e ti ammazzo di botte!” e alzò lo sguardo verso di me. Se solo l’avesse fatto prima di dire quella frase, si sarebbe morso la lingua pur di non usarla così male. Avevo fatto appena in tempo a ritornare solare e simpatico come sempre. Come ero sempre stato anche con lui, quando eravamo amici. Solo che, appena sentito quella frase, di nuovo per quella serata, cambiai espressione.

Ora ero arrabbiato. Molto arrabbiato. Anzi, ero arrabbiato come non lo ero stato mai nei primi sedici anni della mia vita. Perché, per la prima volta in vita mia, avevo capito pienamente le parole di mio padre. Capii cosa significava “picchiare forte e bene” in quella situazione. Capii che avevo sbagliato, perché con persone del genere, per quanto il passato possa in qualche caso costituire un’attenuante, sebbene l’amicizia che ci legava fino a due anni prima fosse forte e genuina, ormai, le parole, per quanto pesanti e serie come quelle che avevo appena detto, non servivano a molto. Capii che era il momento di lasciare spazio alle azioni. Ponderate, si, ma il segnale doveva essere forte. Quasi istintivamente, quindi, la mia espressione facciale ritornò quella cattiva e da bullo che avevo visto tante volte in certi miei compagni di classe e che ora dovevo, per forza, mostrare anche con lui.

“Bene! Te la sei cercata. Stavo per lasciarti andare, come con gli altri, punendoti come gli altri. Francesco, o Emanuele, o entrambi, ti avrebbero fatto la stessa cosa che hanno subito i tuoi soci e tutto sarebbe finito lì. Ma con questa ultima frase hai commesso un grossissimo errore. E adesso la paghi. Con la stessa moneta che volevi farci pagare. Ragazzi? Mirate alla testa!” dissi, rivolgendo questa ultima frase ai due armati. I due eseguirono immediatamente. Capirono che a quella distanza l’avrebbero ammazzato, ma non avremmo mai permesso che accadesse una cosa del genere. Era solo un modo per dissuadere Michele dal giocare brutti scherzi.

“Visto che prima sei stato tu a pensare ad una cosa meno dolorosa ma più umiliante, adesso ci passerai tu. Se tra due minuti non sei completamente nudo, i due, al mio fianco, lasceranno partire il colpo, e ti faranno molto male, se non peggio!” conclusi.

A Michele veniva quasi da piangere. Sia per la situazione, che per l’umiliazione che avrebbe provato di lì a poco. Ma vedendo lo sguardo deciso di tutti e quattro i suoi nemici non poté fare altro che ubbidire. Neanche un minuto dopo, rosso in volto e con le mani a coprirsi d’avanti, era nudo, come ordinato, davanti a noi. I vestiti accatastati in un mucchio al suo fianco. Giuseppe quasi divertito da quella situazione palesemente vittoriosa per noi, tirò fuori il cellulare per fargli una foto. Feci appena in tempo a bloccarlo.

“No! Questo è un comportamento tipico di loro. Potremmo farlo e avremmo di che farlo vergognare per tutta la vita. Ma noi non siamo come loro. Merita una lezione, ma voglio dargli l’opportunità di cambiare atteggiamento e non costringerlo con i ricatti a farlo” dissi.

Michele guardò la scena e avvampò ancora di più. La rabbia e l’imbarazzo dovuti all’umiliazione fisica che stava subendo, si erano uniti all’umiliazione morale di quelle frasi, che adesso lo colpivano peggio dei sassi con cui avrebbero potuto colpirlo quei quattro ex-amici. Perché loro avevano veramente pensato di fargli fare quella fine. Compresa di foto e ricatti e umiliazioni conseguenti. Adesso invece, l’unica cosa che voleva era tornare a casa.

“Posso andare?” fu l’unica frase che gli uscì.

“Aspetta” disse Giuseppe.

Si avvicinò ai vestiti di Michele, frugò nei pantaloni, prese il portafogli, il cellulare, sfilò la cintura, e prese le scarpe. Prese infine l’accendino dalla tasca della camicia, lasciando nella stessa tasca le sigarette. E accese l’accendino.

“Digli addio!” disse, rivolgendosi a Michele, e contemporaneamente dando fuoco a tutti i vestiti e alle sigarette in essa contenute. Neanche un minuto dopo i vestiti erano completamente bruciati. Appoggiò il resto dei possedimenti di Michele ai piedi di quest’ultimo e gli diede il permesso di andare. Questi prese la sua roba, e, cercando di coprirsi come poteva, scappò via. Appena voltate le spalle, Emanuele e Francesco rilasciarono il loro colpo. E mentre Michele correva via, iniziando a nascondersi tra le macchine, divennero quasi immediatamente ben visibili due chiazze rossastre sui suoi glutei. Appena scomparso dalla loro vista, io e Giuseppe gettammo immediatamente a terra dietro una macchina i coltelli. Francesco e Emanuele abbassarono le armi, riponendole in tasca. Ognuno se ne andò verso casa sua, stranamente senza alcuna voglia di parlare. Prima di dividersi, però io sentii il bisogno di farlo.

“Quello che abbiamo fatto oggi, in nessun altro caso dovremo farlo. Spero solo che questo estremo rimedio abbia messo fine a questo discorso!”. Evidentemente questo servì a rasserenare gli animi degli altri tre. Ci sentimmo tutti e quattro uniti in quel pensiero e con quella speranza. Di veder finita una volta per tutte quella storia. Ma le emozioni, per quella sera, erano veramente state troppe. Ce ne andammo, quindi, ciascuno a casa propria.

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Buongiorno/sera/notte a tutti!! tornati dalle vacanze, questo è il quarto capitolo. Attendo ansiosamente di sapere cosa ne pensate!!! CIAOOO

  
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