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Autore: Nat_Matryoshka    29/04/2009    1 recensioni
In una città non ben precisata, un bambino sfugge alla miseria e alla fame di una vita randagia per incontrare nuovi compagni, a cui si unirà. Le avventure non mancheranno, e con loro la nascita di un sentimento nuovo e particolare per Naruto, il capobanda.
[Crack pairing- OrochimaruxNaruto]
Prima classificata e vincitrice del Premio Originalità al contest "Orochimaru's Pairings" indetto da Compagnescu e Ainsel.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kiba Inuzuka, Naruto Uzumaki, Orochimaru, Sakura Haruno
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Personaggi/Paring: Naruto, Orochimaru, Kiba Inuzuka, Konohamaru, Choji Akimichi, Sakura Haruno [OrochimaruxNaruto]
- Genere: Avventura, drammatico
- Rating: giallo
- Avvertimenti
: AU, shonen-ai
- Trama (facoltativa): In una città non ben precisata, un bambino sfugge alla miseria e alla fame di una vita randagia per incontrare nuovi compagni, a cui si unirà. Le avventure non mancheranno, e con loro la nascita di un sentimento nuovo e particolare per Naruto, il capobanda.
- NdA (facoltativa):
i personaggi della storia hanno tutti 14-15 anni, ma tra il primo capitolo e il terzo passano due anni; Orochimaru risulta quindi caratterizzato come ai tempi dell’Accademia ninja con Jiraiya e Tsunade.

 

 

 

White Blood

 

Ogni inizio è la fine di qualcosa.

 

 

Non sapeva dov’era, e neppure perché era lì. Sapeva di essere vivo, e basta.
Disteso su uno straccio lacero, nell’angolo di un vicolo buio e poco frequentato, il bambino si riparava dall’umidità, tentando di nascondersi il più possibile dagli sguardi: per sua fortuna, però, faceva troppo freddo perché qualcuno decidesse di passeggiare a quell’ora, e comunque non sarebbe mai saltato in mente a nessuno di inoltrarsi in strade così pericolose.
L’inverno stava finendo, ma notti come quella erano ancora gelide, e il più delle volte portavano la neve o il ghiaccio, facendo somigliare le strade a tanti sentieri di glassa, contornate da casette di marzapane.

Il paesaggio era quello di una favola, con i bambini che correvano per le strade (ben coperti e felici nel loro sfidarsi a palle di neve), e le coppie che passeggiavano mano nella mano, gettando occhiate alle vetrine, sorridenti nonostante i morsi impetuosi del gelo. Ma quello fatto di luminarie e passanti ben vestiti era solo il lato esteriore della città… il lato a cui molti avrebbero desiderato appartenere, e che appariva perfetto, lontanissimo, per coloro che vivevano dietro a quelle quinte dorate e affascinanti.
Il dedalo caotico e claustrofobico dei vicoli si snodava dalla piazza principale e abbracciava quasi tutta la periferia, col suo insieme di palazzoni, discariche e parcheggi sterrati. Più ci si allontanava dal centro, più l’aria diventava fresca e sopportabile, lasciando spazio a zone verdi e meno popolate… ma, nel bel mezzo dell’intreccio delle strade, i rigori dell’inverno e l’afa soffocante dell’estate giungevano intatti e fastidiosi, condizionando il più delle volte l’umore di chi vi abitava.
Il piccolo starnutì, cercando di stringere con i pugni chiusi la coperta sbrindellata che lo copriva a malapena. Dopo aver vagato per giorni, tormentato dal freddo e dalla fame, si era stabilito in quell’angolo con i suoi unici averi: un cappello, una sciarpa spelacchiata di lana marrone, le scarpe troppo grosse e pesanti per i suoi piedi magri, i pantaloni piene di toppe (fatte con quel che trovava e cucite con dello spago) e, appunto, quello straccio che fungeva da coperta.
Aveva mangiato prevalentemente croste di pane vecchio, rubandole nelle cucine dei ristoranti quando il cuoco si assentava, e si era fatto bastare per una settimana le poche verdure trovate quasi intatte vicino alla spazzatura: insomma, si arrangiava.
Aveva sentito dire che al centro, in quel groviglio di strade che chiamavano “La Ragnatela”, era più facile trovare cibo e riparo che in campagna, dove i controlli dell’esercito si rafforzavano e si veniva acciuffati pochi minuti dopo aver rubato anche una semplice mela al mercato. Nei suoi ricordi trovava descrizioni di bambini sporchi, furbi, che si riunivano in piccole bande e si procuravano il cibo lavorando e (talvolta) rubacchiando, per poi nascondersi come topi nelle canne fumarie dei casotti abbandonati, o nei bidoni dell’immondizia.
Il suo piano originario era quello di presentarsi ad uno qualsiasi dei capibanda, e chiedere di essere preso con loro: aveva già esperienza (avendo fatto parte di parecchi piccoli gruppi), e sapeva rendersi utile ai compagni in vari modi. Ora che era arrivato fin lì, però, iniziava a capire quanto fossero vuoti e vaneggianti quei sogni.

 La sera stava scendendo, e lui era più solo di quanto non fosse mai stato prima, tra le strade di campagna.

Il silenzio, solido come un muro, pesava sulle orecchie quasi con violenza, spaventandolo. Era abituato al canto degli uccelli, alle grida dei passanti, allo scorrere del torrente… suoni leggeri ma quotidiani, che lo facevano sentire quasi protetto, e il non udirli lo rendeva vulnerabile.
A peggiorare la situazione, una voce tonante si diffuse nel vicolo:

 “Ah, siete nascosti qui, eh? Uscite fuori, canaglie…”

 
La polizia girava per le strade più o meno ogni giorno, per controllare che nessun bambino fuggiasco le stesse usando come dormitori. Il più delle volte si limitavano a scacciarli con malgarbo, ma si raccontavano storie di ragazzini buttati su camion diretti nelle città vicine o trascinati alla stazione di polizia e costretti a trascorrere la notte in cella. Ragione in più per nascondersi e restare in gruppi, che contavano sull’unione e sulla possibilità di “coprirsi” a vicenda durante le fughe.
Anche prima di scorgere la figura massiccia del militare spuntare nella viuzza, capì che doveva darsela a gambe il più velocemente possibile. Alzatosi di scatto, il bambino ebbe pochi secondi per raccattare i suoi oggetti: non uno soltanto, ma ben due uomini in uniforme fecero irruzione, ferendolo con la luce accecante delle loro torce.

In seguito, gli eventi si succedettero così rapidamente da non lasciargli nemmeno il tempo di respirare.

 
Nell’attimo esatto in cui uno dei due uomini allungava la mano verso la sua gamba, il ragazzino si divincolò e iniziò una fuga forsennata, trascinando dietro di sé i suoi oggetti personali, che sbattevano e svolazzavano al vento quasi comicamente, come la scia di un aeroplano.
Le strade gli passavano davanti a velocità crescente, confondendo cartelli stradali, automobili e lampioni in un turbinio multicolore stordente, ma non gli importava: l’unica cosa che desiderava era mettere il maggior numero di passi possibili tra lui e i due agenti, che continuavano a stargli alle calcagna con una costanza degna dei migliori cani poliziotto.
Tossendo, ormai senza fiato, si tuffò in una galleria alla sua destra, sicuro di riuscire a scovare un angolo buio dove nascondersi fino al loro passaggio… ma, dopo aver voltato l’angolo, si accorse di aver commesso un grave errore: davanti ai suoi occhi si stagliava un muro, alto e impenetrabile, al di là del quale si intravedevano palazzi e alberi.

 In trappola.

 

Come spesso succede quando si è nei guai fino al collo, è l’istinto a comandare le azioni al posto del cervello. Trovandosi davanti quel muro di mattoni rossastri (anneriti alle estremità, probabilmente a causa dello smog), il bambino non rifletté nemmeno per un istante: i suoi muscoli gli urlavano di scalarlo, aggrapparsi con foga agli interstizi e salire più che poteva, fino ad attraversarlo… e non poté far altro che obbedirgli, nel disperato tentativo di darsela a gambe.

“Sta scappando! Sta scappando! Prendilo da sotto, così lo bloccheremo!”

La confusione aumentò, fino a condurlo ad uno stadio di semi-incoscienza. Prima di battere la schiena e finire a terra, ricordò di aver visto i due uomini buttarsi su di lui, allontanati qualche minuto dopo da un gruppetto (possibile?) di ragazzini, e la sua sciarpa torcersi in una capriola al rallentatore e finire con un volo quasi elegante a terra, descrivendo un disegno sinuoso simile alla coda di una cometa.

 
***

 

“Perché te lo sei portato dietro? Non ci servirà a nulla!”

“Ah, sentilo! Se avessimo pensato la stessa cosa quando ti sei presentato qui piagnucolando, credi che ti avremmo tenuto? Piantala di fare lo spocchioso!”
“Io direi di smetterla, tutti e due. Quando si trova un compagno abbandonato, lo si accoglie e basta. Guardate, si sta svegliando.”

Un cicaleccio sommesso accompagnò il risveglio del bambino, che aprì gli occhi pigramente. All’inizio, credette di sognare: com’era possibile trovarsi disteso su un letto, con un cuscino soffice dietro la testa e una folla di suoi coetanei intorno che lo osservavano con l’espressione curiosa di una scolaresca in visita allo zoo, se fino a poche ore prima era riverso sull’asfalto di una stradina decentrata?

 
[Forse era in Paradiso. Era morto in seguito al trauma cranico, e lo avevano portato direttamente in quello strano Paradiso, dai muri giallo cupo e l’arredamento alla buona..]

 

Il suo sguardo perplesso non passò inosservato. Quello che sembrava il capo, un ragazzino biondo con dei bizzarri graffi su ciascuna guancia, gli sorrise.
“Se ti stai chiedendo dove ti trovi, ti do subito la risposta: sei nella nostra base. Io sono Naruto Uzumaki, il capo delle Volpi Rosse, la banda insediata in questa zona. Loro sono Kiba (un tipo magro, con due segni sulle guance più grossi rispetto a quelli di Naruto e i capelli arruffati), Choji (uno più grassoccio, che sgranocchiava patatine) e Konohamaru (il più basso dei tre, con una espressione corrucciata stampata in viso). Benvenuto fra noi!”

 [Certe volte i sogni sono davvero bizzarri, pensò il ragazzino. Adesso mi sveglierò,e mi accorgerò di essere ancora in quel vicolo, avvolto nella coperta e solo come un cane…]

 “Allora, vuoi dirci almeno il tuo nome? Una presentazione sarebbe d’obbligo, non credi?”

A parlare era stato Kiba, che sembrava in qualche modo il vice di Naruto, forse per i modi spicci e un po’ autoritari. L’ultimo arrivato lo squadrò per un attimo, smarrito, e schiuse le labbra, lasciando uscire una voce sottile e roca:
“Mi.. mi chiamo Orochimaru”.

“Che razza di nome!” esclamò Konohamaru, divertito, lanciando un pezzo di pane all’indirizzo del nuovo arrivato (le buone maniere non erano proprio il suo forte…). “Troppo lungo! Da oggi in poi ti chiameremo Orochi o White, sei così pallido… da quant’è che non mangi?”
Orochimaru raggiunse uno specchio sbreccato nell’angolo della stanza con lo sguardo, e osservò il suo riflesso. Era vero: delle occhiaie marcate gli circondavano gli occhi giallognoli, e le guance incavate indicavano che non toccava cibo decente da parecchio tempo.
“Nessun problema, ti rimetteremo in sesto noi!”
Naruto era il capo della combriccola a tutti gli effetti, e in quanto tale si preoccupava della salute e delle condizioni dei suoi compagni. La casa in cui si trovavano apparteneva ai suoi genitori (morti parecchi anni prima), e ormai veniva usata solo come dormitorio e quartier generale.

 Nella zona vigevano regole ben precise, tra cui la più importante era quella di non fare domande, seguita dal non intromettersi negli affari altrui. Era talmente consueto vedere ragazzini che vivevano per conto loro, guidavano automobili e maneggiavano denaro da non meravigliare più nessuno: la polizia veniva chiamata solo in casi davvero estremi, come aggressioni armate o omicidi. In quel modo, i quattro erano riusciti a riunirsi e a tirare avanti, anche se con delle famiglie disastrate alle spalle: Kiba aveva una sorella sposata, che viveva nella parte “alta” della città (e il marito aveva esplicitamente dichiarato di non volere il cognato tra i piedi); il padre di Choji era disoccupato e gli unici parenti di Konohamaru erano due zii con un figlio piccolo, che però abitavano in un'altra regione… in quanto a Naruto, era completamente solo. Non c’era da stupirsi, quindi, se ogni fuggiasco (anche in condizioni disperate) venisse accolto con calore e benevolenza dai membri del gruppo.
Orochimaru accettò il cibo con un po’ di riluttanza: era pur sempre dotato di un certo orgoglio, e non gli piaceva essere imbeccato e coccolato come il pulcino più piccolo della nidiata. Però doveva riconoscere di essere affamato… e, dopotutto, non era proprio spiacevole trovarsi un tetto sulla testa e qualcosa sotto ai denti dopo settimane di stenti.

“Veniamo a noi, White” riprese Naruto, dopo averlo osservato mangiare in silenzio. “Per essere ammessi nel gruppo, è necessario far capire qualcosa di più di sé stessi. Cosa sai fare? Lavori manuali, destrezza, intelligenza fuori dal comune… hai qualche abilità particolare?”
Il ragazzino ci mise un po’ prima di rispondere.

“So afferrare gli oggetti molto velocemente, e correre bene. Un po’ di tempo fa, nella banda in cui mi trovavo, recuperavo le cose che ci portavano via gli altri ragazzini della zona”.

“Perfetto! Ci mancava qualcuno con i riflessi pronti” approvò Naruto, acchiappando anche lui un pezzo di pane. “Tu sarai l’addetto al controllo del movimento e alla sorveglianza, ci sarai molto utile durante gli spostamenti… per adesso, vedi di rimetterti in sesto e far comparire un po’ di grasso intorno a quelle ossa sporgenti, poi inizieremo a parlare di lavoro e mansioni. Ora a dormire, è tardi e abbiamo tutti bisogno di riposo”.
Da quello che Orochimaru poteva desumere, anche in quella casa esistevano ruoli definiti: l’addetto agli alimenti sembrava essere Konohamaru, mentre Choji sistemava gli arredi e teneva puliti i letti e le stanze. Kiba e Naruto erano “le menti”, e si limitavano a dar regole e a coordinare le azioni delle Volpi Rosse.
Fu infatti il ragazzo corpulento a distendere una coperta e un cuscino un po’ sformato sulla poltrona pieghevole destinata al “nuovo”, augurandogli la buona notte e dirigendosi nella stanza in fondo al corridoio, dove i quattro riposavano.

 ***

 
“Era tutta una messinscena quella delle abilità, ammettilo. L’avresti preso lo stesso, anche se non fosse stato capace neppure di acchiappare una mosca”.
Tra le qualità che mancavano a Naruto, la cosiddetta “faccia da poker” spiccava sulle altre con prepotenza. Il biondo tentò di assumere la solita espressione strafottente, ma dovette arrendersi poco dopo.

“Si, è così. Ha in sé qualcosa di strano, di speciale. Dal primo momento in cui l’ho visto, quando ci è passato davanti correndo, ho sentito di doverlo salvare in qualche modo. Forse sono solo pazzo, Kiba… ma sento che adesso il nostro gruppo è davvero al completo.”
Choji si risistemò sull’amaca appesa al soffitto, facendola dondolare pericolosamente da un lato e tirandosi addosso il lenzuolo. “Per essere strano, lo sei. Ma hai ragione: in cinque si sta sicuramente meglio”.

“Come si dice, sarà il futuro a rivelarci se abbiamo fatto bene o no a farlo restare”.
Kiba sbadigliò, con piglio quasi canino, e si sistemò sul letto, terminando lì la discussione.

   
 
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