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Autore: Panenutella    29/08/2016    2 recensioni
Sara Vitali è una che scappa: ha lasciato l'Italia, ha cambiato cognome e numero di telefono pur di sfuggire al suo stalker, e si è nascosta a Belfast nella speranza che lui non la trovi mai. Non si fida di nessuno e sente il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, protetta e non più sola. E' in questo stato che una sera in un anonimo bar incontra Kit Harington, appena uscito dalla sua relazione con Rose Leslie e nel pieno delle riprese del Trono di Spade. Sara non pensa che da quell'incontro possa cambiare qualcosa, ma scoprirà presto di sbagliarsi.
Nota: il primo capitolo è identico alla prima parte della mia One-Shot "Two stories in the night". Se siete curiosi di leggere anche la seconda, fateci un salto! Grazie in anticipo a chi leggerà.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kit Harington, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alive
 
I took and I took and I took what you gave
But you never noticed that I was in pain
I knew what I wanted, I went out and got it,
Did all the things that you say that I wouldn’t,
I told you that I would never be forgotten
And all in spite of you…
And I’m still breathing, I’m still breathing
I’m still breathing, I’m still breathing
I’m alive!
- Sia
 
- Pronto?
“Controllati. Controllati. Controllati. Controllati…”
- Pronto? – Ripete.
- Sono io.
Un’esclamazione di sorpresa, poi scoppia a ridere sguaiatamente. Senza cuore.
- Oh-oh! Ciao cerbiattina, come va? È da un po’ che non ci sentiamo, cos’è successo? Hai saputo che ho spaccato la testa a tuo padre? È stato divertente! Ho preso la bottiglia di vino, poi lui ha girato l’angolo, ho preso l mira e BUM! Si è spaccato tutto! Che spasso! – Continua a ridere.
“Figlio di troia.”
Allontano il telefono dall’orecchio e lo schermo si accende, premo sul pulsante col microfono e comincio a registrare la telefonata.
- Sì, ho saputo. E sappi che la pagherai cara, per questo e quello che hai fatto a me.
- E cosa vorresti fare? Sguinzagliarmi dietro i cani? – Ridacchia.
- Io ti ammazzo. Sei solo uno psicopatico.
- No, cerbiattina, io ti ammazzo. – Si fa improvvisamente serio, con la voce grave, minaccioso. Come quando, ubriaco, mi chiudeva in un angolo e io capivo che di lì a poco sarebbe scoppiato. – Appena riuscirò a trovarti e tirarti fuori da quel nascondiglio che ti sei creata non so dove, ti assicuro che ti farò pagare ogni attimo di fatica che ho dovuto fare per riconquistarti.
- Riconquistarmi? Tu non sai cosa sia l’amore. Non sai niente.
- Io ti amo e ti ritroverò. Te lo prometto.
- Ti metteranno in galera, Matteo. Ti arresteranno e ti butteranno dietro le sbarre per il resto della tua vita. E quando tu sarai morto e io sarò una vecchia decrepita, giuro su Dio che ballerò sulla tua tomba. Io te lo prometto, e stai certo che manterrò la mia promessa. Mi sono rifatta la vita, alla faccia di tutte le idee del cazzo che mi hai messo in testa, e non riuscirai a buttarmi a terra un’altra volta. Non ci riuscirai mai.
Chiudo la telefonata e poso il telefono a terra con foga, completamente assordata dai battiti del mio cuore che mi rimbombano nei timpani.
Non riesco neanche a sentire lo sciabordio delle gocce d’acqua che cadono sul fondo della doccia, dietro la porta dall’altra parte della stanza. Tutto ciò che riesco a sentire è solo un senso di nausea e vertigine che si impossessa del mio corpo, tentando di trascinarmi nell’abisso.
Mi alzo da terra strisciando una mano sulla parete, cercando di ignorare il violento tremore alle gambe. Non riesco a respirare!
L’ambiente intorno a me sembra irreale, come se stessi camminando in un sogno. Non so come raggiungo le scale, migliaia di puntini colorati che esplodono e brillano dentro ai miei occhi, a salire i gradini, percorro il corridoio e in qualche modo arrivo in bagno. Prima che possa controllarlo, faccio appena in tempo ad abbracciare la tazza del water.
Poi più il nulla.
 
***
Kit
 
Esco dalla doccia, afferro un ampio asciugamano poco lontano e me lo avvolgo intorno alla vita, sorridendo fra me e me.
Oggi è stata una giornata stupenda: pagherei per poterla rivivere ogni volta che voglio, come in una videocassetta. Il ricordo del corpo di Sara sul mio, nella sua genuinità e nel candore del gioco, è come un bicchiere di acqua fresca in una torrida giornata.
Per la prima volta da molto tempo, mi sento felice.
Mi sfrego i capelli con un asciugamano, poi afferro una maglietta e dei calzoncini e mi rivesto.
Apro la porta del bagno padronale, uscendo nel salotto.
Potremmo ordinare del cibo da asporto, stasera, e magari guardarci un film.
Potrei presentare Sara a Emilia, Sophia, Peter, Maisie, Alfie, Nathalie, Iwan e gli altri un giorno. Magari approfittando della festa di metà riprese, a fine giugno. Poi partiremo per l’Islanda e sono sicuro che David la scritturerà nella crew.
- Fawny? Ti va del cinese? – Domando a voce abbastanza alta da farmi sentire anche al piano di sopra.
Nessuna risposta.
Mi avvicino alle scale. - Fawny? Sei sotto la doccia?
Silenzio.
Salgo i gradini. – Sara?
Quassù è accesa solo la luce del corridoio, che di solito si accende automaticamente non appena rileva un passaggio. Sbircio nella camera da letto, è vuota.
Possibile che sia uscita, così all’improvviso e senza salutare?
- Sara?
La porta del bagno è spalancata, ma la luce all’interno è spenta e non sento rumore d’acqua.
Accendo la luce ed entro.
- Oh, Cristo!!
Sara è raggomitolata esanime, immobile attorno al water, ancora in vestiti da spiaggia. Nell’aria, puzza di vomito. Mi precipito su di lei, sollevandole la testa e mettendomela in grembo e colpendola leggermente.
- Ehi, sveglia! Che cosa ti ha preso? Che diamine è successo? Sara!!
Niente.
- Merda!
Corro di sotto, afferro il cellulare sulla mensola e chiamo il 999.
- 999, qual è l’emergenza? – Risponde l’operatrice.
- Salve, mi serve un’ambulanza al numero 29 di Amsterdam Quay, Belfast. La mia ragazza è svenuta.
- Non conosce le cause?
- No.
- Soffre di attacchi di panico, pressione bassa, sincopi frequenti?
- Non lo so. Senta, mi mandi subito questa maledetta ambulanza! – Abbaio.
- Stia calmo, un’ambulanza sta venendo a prenderla. Il suo nome?
- Kit Harington.
- D’accordo Kit, i paramedici saranno lì fra poco.
- Grazie.
Chiudo la telefonata senza badare a convenevoli, e torno di sopra salendo le scale a due a due e corro in bagno.
Sara ora ha gli occhi aperti e si guarda intorno, spaesata, col fiatone.
Tiro un sospiro di sollievo e mi rannicchio accanto a lei, posandole una mano sul viso. È madida di sudore, e gira gli occhi verso di me. Sembra imbarazzata.
- Ehi – sorrido. – Bentornata. Mi ha preso un accidente.
- Che… cosa è successo?
- Non lo so. Ti ho trovata svenuta, ho chiamato l’ambulanza.
- No, no, che ambulanza! Non serve! Sto bene! – È mortificata.
- Scusa, ma di questo voglio proprio esserne sicuro.
- Voglio alzarmi.
Prima che riesca seriamente a fare forza sulle mani le passo una mano sotto le ginocchia e una sotto le ascelle, tirandola su, ignorando le sue solite e flebili proteste.
- Kit, sono pesante! Mettimi giù, posso camminare…
- Chiudi il becco.
Entro in camera, la adagio sul letto e mi siedo accanto a lei.
- Che cosa è successo? – Domando. – Hai preso troppo sole oggi o…?
Apre la bocca per parlare, ma il trillo del campanello la interrompe.
 
- Deve essere stato un attacco di panico che si è autorisolto. Nulla di grave. – Annuncia il paramedico mettendosi lo stetoscopio attorno al collo e cominciando a rimettere a posto lo sfigmomanometro. – Non occorre portarla in ospedale, ma serve senza dubbio riposo.
- Certo. Grazie.
Scorto fuori i due paramedici e, appena chiusa la porta, torno di sopra. La trovo a braccia incrociate.
- Te l’avevo detto che non mi serviva l’ambulanza – brontola.
- Avevo scordato che fosse il tuo modo di somatizzare lo stress.
- Era da un po’ che non mi capitava…
- Dalla sera in cui ci siamo conosciuti. – Ammicco. – Perché non ti riposi? Hai l’aria stanca.
- Sto bene.
Mi chino su di lei e le do un bacio sulla fronte. È fresca.
- Sarà, ma non voglio che tu ti muova da questo letto. Intesi?
- Va bene...
Brontola di continuo, la mia italiana testarda.
 
***
Sara
 
- Cena! – Esclama Kit rientrando in camera con un vassoio carico di ciambelle al cioccolato e una teiera. Me lo appoggia sopra le gambe e si siede a gambe incrociate accanto a me, sorridendomi dolce.
- Povero Kit, ti sto facendo diventare matto. Sono una frana.
- Naaaah – commenta versando il the nelle due tazze. – Non sei di nessun peso.
- Bugiardo.
Addento in silenzio una ciambella, immergendomi nei miei ultimi ricordi e tentando di dare una spiegazione a tutto. Prima la telefonata di mia madre, poi la conversazione con Matteo… il mio cervello deve essere andato in tilt.
Sento su di me lo sguardo ancora preoccupato di Kit, e alzo gli occhi per osservarlo.
“Tu non ti meriti attenzioni.” Le parole di Matteo mi ritornano in testa da antichi ricordi con la forza di una badilata. Scuoto la testa e poso la ciambella mangiata a metà.
- Mia madre mi ha chiamato. – Cerco di spiegare, evitando il suo sguardo. – Matteo è riuscito a introdursi in casa nostra. Ha spaccato la testa a mio padre pensando che fossi io.
Kit si immobilizza dalla sorpresa. – Sta bene?
- Non ho potuto parlargli al telefono, ma mia madre dice di sì. Penso che a questo punto dovranno aprire per forza un’inchiesta, se non per violenza e stupro almeno per tentato omicidio. Mia madre mi ha ordinato di non tornare in Italia per nessun motivo, perché se Matteo mi trova adesso è capace di uccidermi.
Posa la ciambella sul vassoio. – Non ho più fame.
Sorrido amaramente. – Mi dispiace.
- È questo che ti ha fatto svenire?
- Non solo.
- Che altro?
“Promettimi di non arrabbiarti”. – Subito dopo aver parlato con mia madre, io… ho chiamato Matteo.
- CHE COSA??? - Mi afferra per le spalle. – Sei pazza? Ti ha dato di volta il cervello?
- Che cosa dovevo fare? Stare lì a girarmi i pollici? E poi l’hai detto anche tu, le chiamate internazionali sono irrintracciabili.
Grugnisce qualcosa in risposta e mi lascia andare, passandosi le mani nei capelli e tirando un lungo respiro.
- Che cosa gli hai detto?
Stringo il lenzuolo in un pugno, rivangando la conversazione. – Gli ho detto che l’avrebbe pagata per quello che ha fatto. Gli ho promesso che quando sarà uscito morto dalla galera io ballerò sulla sua tomba; e gli ho detto che ora mi sono rifatta una vita e che non riuscirà mai a spezzarmi di nuovo. Ho registrato la conversazione, ma non potresti capire nulla: è in italiano.
Ora mi guarda in silenzio con un che di ammirato. O è orgoglio? Il solo guardare il suo volto, la sua preoccupazione, mi riempie il cuore di tenerezza. In uno slancio di sincerità, tolgo il vassoio che c’è tra noi e mi chino su di lui, arrivando perfino a mormorare. Sto per svelare ciò che non ho mai detto a nessuno, ciò che mi fa vergognare di me stessa persino più del fatto di essere stata violentata dal mio stesso ragazzo: una volta detto questo non avrò più segreti, sarà come essere completamente nuda davanti a lui. Per me è un grande sforzo e una grande dimostrazione di fiducia, e spero che lui lo capisca.
Gli sfioro le dita e lui piano le intreccia con le sue.
- Sei mesi dopo avere cominciato la nostra relazione siamo andati a vivere insieme. Cominciavo già a nutrire qualche dubbio sui miei sentimenti nei suoi confronti, ma credevo che fosse un problema mio e che convivendo si risolvesse tutto da solo. Mi sbagliavo: più vivevo con lui, peggio era. Aveva il controllo totale su di me ma io, credendo di amarlo, lo lasciavo fare. Pensavo che quello fosse l’amore, che fosse così in tutte le coppie. Che stupida, vero? Ma era la mia prima relazione seria, e non potevo capire quanto tra noi ci fosse di sbagliato.
            Insisteva per uscire da solo con i suoi amici, e molte sere tornava a casa ubriaco. Mai tardi, verso le undici e mezza. Quando era in quello stato bastava solo una cosa messa fuori posto, una parola di troppo, ed esplodeva. Il più delle volte mi tirava uno schiaffo, certe volte un pugno in bocca. Non era facile andare in giro con quei lividi sulla faccia, mascherati dai trucchi il più possibile, e inventarsi storie su come me li ero procurati: molto spesso dicevo di essere inciampata e aver sbattuto… così giustificavo un occhio nero, un labbro spaccato o una guancia gonfia. Le regole da seguire erano semplici: dovevo fare quello che voleva lui. Non potevo uscire coi miei amici o coi colleghi di fisioterapia, non potevo messaggiare con gli altri uomini anche se erano amici d’infanzia, dovevo vestirmi come voleva lui altrimenti ero una sfigata. Quando mi dava uno schiaffo, subito dopo lo copriva con un bacio e mi diceva di amarmi, e che era per il mio bene che faceva quelle cose. E io non ho mai provato a difendermi: avevo paura che sarebbe stato ancora peggio. Tuttavia continuavo a pensare che mi amasse, che fosse davvero come diceva lui. Il mio più caro amico d’infanzia, conosciuto al corso di danza, una volta provò a farmi aprire gli occhi, si era persino offerto di accompagnarmi in un centro per donne maltrattate, e sai cos’ho fatto io? Ho troncato i rapporti con lui. Non ci siamo sentiti mai più. E così con tutti i miei altri amici.
            Dopo tre mesi di questa convivenza, ormai il mio amore per lui era completamente sparito, e anche il sesso era un ricordo lontano. Anzi, ero sicura che fosse uno psicopatico e che dovevo troncare la relazione al più presto. Una sera eravamo sul balcone di casa nostra, e io chiamai a raccolta tutto il mio coraggio e provai a lasciarlo. Lui mi ha guardato con un ghigno, e mi ha detto… non me lo scorderò mai… “Ascoltami bene, cerbiattina: se mi lasci resterai sola come un cane, perché ti voglio bene solo io. Sei talmente brutta e sfigata che non ti vorrà nessuno, solo io ti amo. Non hai nessuno”. Non lo ascoltai, anzi cominciai a urlare e mi chiusi in bagno. Lui sfondò la porta, mi chiuse in un angolo e… - Abbasso il capo con un sospiro. -… mi violentò. Il giorno dopo chiamai mia madre, aspettai che Matteo uscisse e grazie al suo aiuto sono scappata a casa. Non ho mai detto ai miei genitori dello stupro. – Una pausa. – Sai che in Italia in media ogni due o tre giorni un uomo uccide una donna? Non mi ero mai resa conto di quanto fossi in pericolo fino a quella sera. Lì ho cominciato a pensare a tutte quelle donne che sono nella mia stessa situazione, e come me non dicono niente. E perché? Per paura. Perché quando vanno alla polizia a denunciare chi fa loro del male, molto spesso non vengono neppure ascoltate perché non hanno delle prove concrete.
            Quando ha capito che ero tornata dai miei genitori (e non c’è voluto molto), Matteo ha cominciato a perseguitarmi. Era passato un anno da quando ci eravamo messi insieme. Sono passati altri quattro mesi prima che mi decidessi a lasciare l’Italia, e fanno un anno e quattro mesi. Ho passato sette mesi a Belfast prima di incontrarti. Fanno due anni della mia vita, completamente condizionati da un pazzo. Da un certo punto di vista però mi ritengo fortunata: ci sono donne che sopportano la violenza da molto, molto più tempo di me, in silenzio.
 
***
Kit
 
Passa qualche secondo di perfetta immobilità. Niente si muove: né io, né lei, forse nemmeno l’orologio che fino a un attimo fa ticchettava il passare del tempo.
Solo a discorso finito alza finalmente il viso e mi guarda negli occhi.
- Io non voglio credere a ciò che mi diceva Matteo. – Continua. – Non voglio pensare di essere invisibile: non lo sono. Voglio credere di essere forte. Mi piace pensare che forse, un giorno, qualcuno mi amerà e mi farà capire cos’è davvero l’amore.
“Io. Io ti amo”.
Lo penso con una tale intensità che pare quasi che lo possa sentire.
Sara mi guarda con quegli occhi nocciola, grandi e limpidi, un po’ intimoriti. Piega la testa di lato, sorridendo triste.
- Non dici niente?
Solo ora mi ricordo di avere la sua mano nella mia. La porto alla bocca e gliela bacio.
- Addirittura il baciamano. – Scherza.
- Non posso esprimere a parole quello che sento. – Le spiego. – Non posso commentare un dolore grande come il tuo. Vorrei poterti dimostrare scientificamente che non tutti gli uomini sono dei violenti, e che non è assolutamente vero quello che ti ha detto quel figlio di puttana. Vorrei dirti qualsiasi cosa possa farti sentire meglio e aiutarti a cancellare quel brutto periodo della tua vita, ma purtroppo il passato è indelebile: puoi solo coprire i brutti ricordi con nuovi ricordi, belli però. Vorrei poterti dire che d’ora in poi ci sarò io a proteggerti e che non lascerò che quello ti tocchi, mai più. Posso dirtelo, ma sarebbe meglio dimostrartelo, e l’unico modo che ho per farlo è rimanerti accanto nel bene e nel male. – Le accarezzo una guancia. – Sara. Voglio che tu mi prometta che non crederai mai a ciò che quello ti ha detto. E soprattutto voglio che tu non dubiti mai di meritare attenzioni e amore. È chiaro? – Si irrigidisce leggermente a quest’ultima frase, lo sento sotto il mio tocco. – Tu meriti di essere felice e di essere amata, e di avere tutte le attenzioni di questo dannato mondo. Sei una persona meravigliosa che è stata ferita, sbattuta, denigrata, piegata e spezzata: e nonostante questo ti sei rimessa in piedi. Ti sei alzata e stasera hai lottato. Ci sono dei demoni contro cui possiamo lottare. Sono sicuro che, alla fine di tutto, vincerai tu. Mi prometti ciò che ti ho chiesto?
Quegli occhi così grandi sono ora lucidi di lacrime, tanto da farmi venire un groppo in gola. – Te lo prometto – risponde, posando la mano sulla mia. Poi si avvicina e si rannicchia nel mio petto.
- Grazie, Kit. Grazie di tutto.
Il ricordo della giornata che volge al termine torna a riaffacciarsi alla mia mente, lasciando indelebile un pensiero che prima mi ha solo sfiorato la mente, che ora picchia forte come un martello pneumatico.
“Io la amo e la proteggerò”.
 
Sono passati cinque giorni dalla giornata in barca. Cinque notti passati nella routine del lavoro, e cinque notti passate a dormire castamente nello stesso letto.
La prima sera è stato casuale: dopo aver a lungo chiacchierato ci siamo addormentati nel suo letto e risvegliati abbracciati, lei ancora impastata di sale. La notte dopo Sara è sgattaiolata in camera pensando che dormissi già, ed è entrata nel mio letto. Da lì in poi è stato consenziente e del tutto privo di rapporti amorosi.
La fantasia di un paio di settimane fa si è avverata: ogni mattina mi sveglio pensando a lei, mi giro e la trovo addormentata sul cuscino.
Da quando mi ha svelato le camere più oscure e dolorose del suo cuore i demoni che giacevano silenziosi tra noi si sono dissolti come cenere al vento, e il resto è stato pura magia. È come essere tornati adolescenti.
Ora siamo seduti davanti al divano, a mangiare una pizza e guardare la terza stagione del Trono. Siamo quasi arrivati al Red Wedding, e la cosa più bella è che lei non ne ha proprio idea.
- Kit, ferma un attimo il filmato: voglio chiamare i miei, non li sento da due giorni.
La accontento e lei va a prendere il cellulare per poi tornare a sedersi accanto a me. Compone il numero a memoria, e appena sento i rumori di una risposta delle frasi concitate riempiono il suono che fino a pochi secondi fa era stato occupato dagli squilli.
Sara balza in piedi.
- Che cosa?? Con quali accuse??
Sembra agitata, come se fosse successo qualcosa di inaspettato. Peccato non capire un accidente di italiano. Altre voci concitate.
- Ma veramente?? Mamma, dimmi che non stai scherzando! …Oddio!!
Si immobilizza, fissando il vuoto proprio davanti a me.
- Che c’è? – sillabo silenziosamente. Sara mi ignora.
- Scusa mamma, devo dirlo subito a Kit! È grandioso! Vi voglio bene anche io! Ci sentiamo presto!
Chiude la telefonata, continuando a fissare il vuoto.
- Che è successo?
Fissa i suoi occhi nei miei, apparentemente sotto shock.
- L’hanno arrestato. Hanno arrestato Matteo.
Poi tutto accade in pochi secondi.
Il suo viso si distende come ringiovanito di dieci anni, lei cade in ginocchio e scoppia in singhiozzi di sollievo, forti e irrefrenabili. Quasi grida, incrociandosi le mani sul petto e muovendosi avanti e indietro, solleva il viso e ride fra i singhiozzi.
- Oh, piccola Fawny! – Mi inginocchio accanto a lei e la abbraccio stretta. Quasi non mi accorgo che sto piangendo anch’io. – Hai vinto. Sara, hai vinto tu! Hai VINTO!
Ci baciamo sulle labbra fra i singhiozzi, e abbracciandoci continuiamo a ridere. 
   
 
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