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Autore: Kerri    13/09/2016    9 recensioni
[CaptainSwan: AU] [Accenni Rumbelle, Snowing, OutlawQueen]
Emma Swan si è trasferita a New York a 17 anni, accettando una borsa di studio che le avrebbe cambiato la vita, lasciandosi alle spalle un'infanzia difficile, Storybrooke e il suo migliore amico. Ma ha dovuto vedere tutti i suoi sogni frantumarsi, schiacciati dalla consapevolezza di aspettare un figlio.
Adesso la sua vita si è stabilizzata, ha Henry, gestisce un negozio di antiquariato e non sa che la sua vita sta per cambiare drasticamente, riportando a galla i più nascosti fantasmi del suo passato.
Killian Jones ha un'unica regola nella sua nuova vita: basta impegnarsi. È uno degli architetti più promettenti di New York e un giorno, riceverà una proposta che potrebbe dare una svolta alla sua carriera. Ma per farlo, dovrà collaborare con una sua vecchia conoscenza, riaprendo ferite mai rimarginate.
Il destino, continuerà a prendersi gioco di loro e dei loro amici, tra incontri, scontri e colpi di scena. Ma riusciranno Emma e Killian a perdonarsi e a ricominciare? Riusciranno, insieme, a riscrivere il loro destino? E se questo non fosse stato ancora scritto?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Regina Mills, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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21. Regrets are a family thing
 

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«Siamo tutti esuli dal nostro passato».
~Fëdor Dostoevskij
 
 
Le sembrò che il tempo avesse smesso di scorrere, che gli orologi di colpo si fossero fermati, che tutto intorno a loro si fosse semplicemente congelato.
Cercava di dare un senso a quelle parole, quelle che aveva appena ascoltato, quelle che lui aveva appena pronunciato, ma non ci riusciva.
Le sembrava tutto così sbagliato, la testa le pulsava e non percepiva nient’altro che il vuoto.
Voleva vomitare e piangere allo stesso tempo ma chissà come, si impedì di fare l’una e l’altra cosa.
Perfino il volto dell’uomo di fronte a lei era sfocato, quasi fosse un ologramma, uno scherzo, perché era tutto uno scherzo no?
Non riusciva a trovare nessuna parola adatta da dire o per descrivere come si sentiva in quel momento.
C’erano così tante cose che voleva sapere, dire, urlare.
«Saresti potuto morire…» mormorò infine, la voce spezzata, quasi un sussurro che però lui udì.
Abbassò gli occhi, si grattò la nuca.
Ascoltarlo dalla sua voce, gli sembrò ancora più sbagliato.
Si era immaginato diverse volte quel momento, il momento in cui le avrebbe detto tutto.
In quegli anni di silenzio forzato, nei suoi momenti più bui e difficili, quella era stata una delle poche cose che riusciva a tirarlo su e a farlo andare avanti.
Era orribile da parte sua e lo sapeva ma il solo pensiero, lo faceva stare meglio.
Ripagarla con la sua stessa moneta.
Farla soffrire, farla annegare nei sensi di colpa, così che avrebbe potuto capire come si era sentito lui, quanto aveva sofferto, quanto dolore aveva dovuto sopportare.
Adesso, però, era diverso, tutto era diverso.
Con tutto quello che era successo, con tutti i sentimenti per lei che erano rifioriti come se non fossero mai passati dodici anni, avrebbe soltanto voluto stringerla e consolarla e ripeterle all’infinito che non era colpa sua.
Se l’era immaginata che dava di matto, che si arrabbiasse con lui per non averglielo detto prima, che urlasse, piangesse, lo lasciasse ma non avrebbe mai pensato di udire quelle parole fuoriuscire dalle sue labbra.
Sembrava stesse per spezzarsi, crollare e scomparire per sempre, schiacciata dal peso di ciò che aveva appena sentito.
«Emma… Non è colpa tua…» ripeté e si odiò, perché il suo tono non convinse neanche lui.
«Saresti potuto morire…»
Lo disse ancora, come se stesse cercando di convincersi che quella fosse la verità.
Lo disse come se quella fosse la sua paura più grande.
Stava cominciando a tremare e Killian stava cominciando a preoccuparsi davvero.
Cercò di avvicinarsi ma lei si scansò.
«Swan, sono qui, non è successo niente… va tutto bene…»
Lei chiuse gli occhi e calde lacrime le solcarono il viso.
Non poteva sopportare ancora a lungo quella vista e si avvicinò ancora e la strinse a sé, cullandola e consolandola, promettendole che se fosse servito, glielo avrebbe ripetuto per tutta la vita.
Non è colpa tua. Non è colpa tua. Non è colpa tua.
 
 
Quando la porta si aprì, Henry e Roland si lanciarono un’occhiata complice.
Entrambi si aspettavano di vedere entrare Emma da un momento all’altro, seguita a ruota da Killian che reggeva qualche scatolone con le mani (magari cibo!) e la faceva ridere.
Henry si era quasi abituato a condividere sua madre con quell’altro uomo.
In fondo, non era neanche poi così tanto male…
Era entrato nella loro vita quasi per scherzo (di fatto il bambino tendeva a darsi i meriti di tutto quello che era successo, per la sua idea della cena) e aveva spontaneamente deciso di restarci.
Gli era stato presentato come un amico, ma lui non era stupido e sapeva che c’era di più, riusciva a percepirlo.
Vedeva come lui guardava sua madre, più o meno come lui guardava il suo libro preferito. Non che lui, di fatto, avrebbe mai potuto guardare un individuo di sesso femminile con quello sguardo… Assolutamente no! Era fuori discussione! Grace però…
Ad ogni modo, la cosa che più l’aveva stupito però, era che anche sua madre guardava Killian Jones con lo stesso sguardo sognante e… innamorato?
Dacché aveva memoria, ce n’erano stati di uomini, nomi più che altro, a cui lui non riusciva a dare un volto, o perché era troppo piccolo da poterli ricordare o perché non li aveva mai incontrati.
Era questo il punto.
Gli altri, lui non li aveva mai visti.
Killian, invece, era una presenza, ormai costante, sia nella sua vita, che in quella di sua madre.
Non aveva neanche il più piccolo dubbio del fatto che lui non se ne sarebbe andato, che, nonostante quello che sarebbe successo tra loro due, lui, le sue barche e il suo talento innato per i video-giochi, non lo avrebbero abbandonato.
La mamma diceva sempre che il suo affezionarsi troppo presto alle persone, presto l’avrebbe portato ad una delusione.
Lui preferiva non pensarci, non sapeva se darle ragione o meno, forse era troppo piccolo per farlo davvero.
Ma Killian… Non riusciva a spiegarsi il perché ma sapeva che lui meritava la sua totale e completa fiducia.
Qualche anno più tardi, fu portato addirittura a pensare che quell’uomo avesse da sempre fatto parte della sua piccola famiglia, dapprima come un fantasma e solo in seguito, come una persona vera, in carne ed ossa.
I racconti di sua madre, i libri, i pirati, la cannella, il passato…
Erano tutti lì e lui era solo da incontrare, ma c’era sempre stato.
Una piccola parte di lui, sperava ancora che fosse davvero Killian Jones il suo vero padre.
Quella, quella sarebbe stata la notizia che lo avrebbe reso il bambino più felice del mondo.
Perché lui amava sua madre e sua madre amava lui e avrebbero potuto essere la famiglia che tutti e tre avevano sempre sognato.
Per questo fu sorpreso quando, a varcare la soglia di casa non furono loro due, ma soltanto sua madre.
Gli occhi rossi, i capelli arruffati, sembrava quasi che avesse pianto di recente.
«Ehi ragazzini! Tutto bene qui?»
I due annuirono.
«Bene, vado a prepararvi la cena…»
La sua voce era spenta, sembrava quasi grigia.
Si voltò e si incamminò verso la cucina.
Il bambino capì all’istante che c’era qualcosa che non andava, lo percepì sulla pelle.
Roland era ancora troppo piccolo per accorgersene o, più probabilmente, non conosceva sua madre così bene come la conosceva lui.
«Erri possiamo giocare con le macchinine?»
«Certo, tu comincia… io arrivo subito…»
Seguì sua madre in cucina.
Una parte di lui, voleva anche accertarsi che non si accorgesse della panna montata mancante in frigo o del fatto che lui aveva dovuto ripulire buona parte della cucina a causa della sua voglia di “dolce”.
Ma, per come le sembrava ridotta, dubitava che notasse un particolare di così poco conto.
O almeno, ci sperava…
Si sedette dietro il bancone, sullo sgabello che di solito occupava per colazione. Spostandolo, fece volutamente rumore, così che la donna davanti a lui si accorgesse della sua presenza.
Si sentiva un po’ Sherlock Holmes, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce.
«Henry! Mi hai spaventato…» mormorò sua madre, voltandosi di scatto e mettendosi una mano sul petto.
Aveva di nuovo gli occhi lucidi, quasi stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro.
«Scusa…»
«Non fa niente… Allora, vi siete divertiti oggi pomeriggio senza di me?» chiese, cercando di sembrare il più interessata possibile.
«Sì, molto… è passato Killian qualche ora fa, ti cercava… è venuto al negozio?»
La donna annuì e continuò a fare ciò che stava facendo. Henry diede una sbirciatina.
Tagliava i pomodori.
Bene.
Quindi aveva aperto il frigorifero e non si era accorta di niente…
Ottimo!
«È successo qualcosa?» chiese, tastando il terreno e cercando di mantenere il suo tono di voce il più normale possibile. Di solito, quando era curioso, tendeva a diventare un po’… invadente, ecco.
«No, no… tutto bene…»
«Mamma lo sai che ho ereditato il tuo super potere, vero?»
La donna gli sorrise un po’.
«Non è vero, lo dici soltanto perché sono visibilmente sconvolta e in più, una pessima bugiarda…» constatò lei, mettendo da parte i pomodori e asciugandosi le mani ad uno straccio.
«Ok, forse potresti avere ragione… Ma sono davvero davvero davvero – marcò bene quell’ultima parola – preoccupato per te… è per zia Regina? Avete litigato di nuovo?»
Emma aprì di nuovo il frigo, mentre Henry tratteneva il respiro.
Ne estrasse il bacon, il formaggio cheddar e qualche foglia di insalata e poi la carne per gli hamburger.
«No, Henry… è… -stava davvero per dirglielo? Stava davvero per confessare tutto a suo figlio dodicenne? - Killian»
Il bambino sembrò sorpreso quando quel nome fuoriuscì dalle labbra di sua madre, non se lo aspettava.
«Vi siete lasciati?» chiese e il suo tono sembrava più preoccupato e triste di quanto sia lui che Emma avrebbero voluto ammettere.
«Chi ti ha detto che stiamo insieme?!» mormorò la donna, scioccata, mentre cuoceva la carne.
Henry alzò un sopracciglio e quell’espressione le ricordò così tanto suo padre da darle un improvviso capogiro, costringendola a voltare di scatto la testa e concentrarsi sulla cucina.
Prese del sale e ne versò un po’ sugli hamburger.
«Non sei troppo piccolo per questo genere di discorsi?»
«Se non cominciamo a parlare, non potrò di certo dirtelo!» constatò il bambino.
Emma rise. Suo figlio era davvero la medicina a qualsiasi male.
«Henry… Tu credi che io sia cattiva?» chiese di colpo e non sapeva neanche bene perché.
Forse voleva soltanto sentirsi contraddire, sentirsi dire che no, non poteva essere una persona cattiva.
Ma forse suo figlio non era poi la persona più adatta.
«Non intendo con te… Sai che quando ti metto in punizione lo faccio per il tuo bene… intendo con gli altri…»
Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo e se l’avesse fatto, avrebbe incontrato l’espressione concentrata e leggermente spiazzata di suo figlio.
«No, mamma… Sei solo un po’… solitaria… a volte un po’ lunatica… Ma non sei cattiva… Non si nasce cattivi, lo si diventa e tu non lo sei, credimi…»
Emma alzò lo sguardo e incontrò quello di suo figlio. Era sincero e sicuro e questo la convinse che credeva davvero in ciò che aveva appena detto.
Un po’ del peso che portava nel cuore, si sgretolò.
«L’hai letto in qualche libro?» chiese, girando gli hamburger e controllando che il bacon si cuocesse bene nell’altra padella.
Un invitante profumino aveva invaso tutta la stanza, portando lo stomaco di tutti a brontolare un po’.
«Sì, ma perché me lo chiedi? E sì, intendo perché mi hai chiesto se potessi essere cattiva?»
Emma sorrise un po’ e poi abbassò lo sguardo.
«Perché lo sono stata…» sussurrò a bassa voce, piena di vergogna.
Non era facile parlare del suo passato, non lo era mai stato, men che meno con suo figlio.
«È per quella cosa terribile che hai fatto a Killian? Non ti aveva perdonato?» chiese il bambino e ancora una volta, Emma si stupì della memoria di ferro che il piccolo possedeva.
Almeno quella, l’ha ereditata da me, pensò.
«Lui dice di sì ma oggi mi ha rivelato una cosa… Una cosa terribile che gli è successa...»
«E tu credi sia colpa tua…» disse il bambino, leggendole nel pensiero. Che fosse quello il suo super potere?
«Già…»
«Quanto è terribile da uno a dieci?»
«Cento!»
Il bambino sbarrò gli occhi, poi appoggiò il mento sulle mani e si mise a pensare.
Ad Emma parve quasi surreale tutta quella situazione ma non le importò. Doveva parlarne con qualcuno, altrimenti sarebbe crollata.
Aveva bisogno che qualcuno le dicesse che sarebbe andato tutto bene e sì, era consapevole che avrebbe dovuto essere il contrario, che avrebbe dovuto essere lei a consolare suo figlio ma, in quell’istante, andava bene così, non le importava.
Si sentiva rotta, spezzata, velenosa.
Si sentiva in colpa.
Si sentiva sbagliata.
E suo figlio, per buona parte della sua breve vita, non aveva fatto altro che affievolire tutto questo, renderla migliore. Perché adesso doveva essere diverso?
«E lui che dice?»
«Chi?» chiese la donna, ritornando alla realtà.
«Killian!» mormorò il ragazzino, con ovvietà.
«Oh…» mormorò sorpresa.
«Lui-lui dice che non è colpa mia…» 
Gli occhi del bambino allora si illuminarono.
«E allora?! Deve essere vero, lui non ti mentirebbe! Non è colpa tua e ti ha perdonato! Nessun problema!» disse entusiasta, sbattendo una mano sul bancone.
Lei gli sorrise e si sporse ad abbracciarlo. Quanta purezza poteva esserci in una persona? Henry era davvero la persona più pura e genuina del mondo e avrebbe voluto che un po’ della sua bontà e del suo ottimismo si trasferissero nel suo corpo per osmosi, per cancellare un po’ quelle profonde cicatrici, quel male e quel veleno che si portava dentro.
Lui mi ha perdonato, forse è vero.
Ma il problema è un altro…
Io riuscirò a perdonarmi?
 
 
«Sei davvero un’ottima cuoca Regina!» mormorò l’uomo, servendosi un altro pezzo della torta che avevano preparato.
La donna infatti, si era resa conto che Robin non aveva ancora assaggiato la sua famosa crostata di mele e non poteva di certo uscire con un uomo che non l’avesse ancora fatto…
Uscire.
Lei stava uscendo con Robin?
Era quello il termine che lui avrebbe usato?
Gli lanciò una piccola sbirciatina e lo trovò tutto intento a spazzolarsi i pantaloni dalle ultime briciole.
Probabilmente no, non ce lo vedeva, le sembrava un’espressione troppo stereotipata per lui…
Anche se, forse, in tutta quella storia, un po’ di stereotipi avrebbero fatto piuttosto comodo.
Così lo chiese.
Non temeva la risposta.
O forse sì?
Aveva soltanto bisogno di certezze e si fidava di lui, del suo giudizio (anche se un po’ scapestrato e impulsivo) e della sua bontà d’animo. Era un uomo buono e Regina glielo aveva letto negli occhi, prima ancora che nel cuore.
«Che cosa siamo?»
Era una domanda sciocca, eppure le sembrò che neanche lui lo sapesse.
Alzò entrambe le sopracciglia e si passò una mano sul labbro. Lei aveva notato che tendeva a farlo quando era un po’ nervoso…
«Io e te… Adesso… Che cosa siamo?» ripeté, cercando di incontrare il suo sguardo.
«Siamo soltanto due persone innamorate che provano a stare insieme…» mormorò l’uomo, dopo qualche secondo di silenzio.
«E a conoscersi!»
«Ma io ti conosco Regina!» sorrise l’uomo, carezzandole la mano.
Lei alzò un sopracciglio, divertita.
«Ah sì?! E come si chiamava il mio primo gatto?»
«Hai avuto un gatto?» chiese l’uomo, piuttosto sorpreso.
«Ti facevo più una tipa da lupi… corvi, magari…»
Di tutta risposta si beccò un pugno sul braccio.
«Idiota…» borbottò.
«Vedi Regina… So che per te, probabilmente, conoscere il nome del mio primo cane (perché ho avuto un cane) può essere davvero vitale… Se lo vuoi sapere si chiamava Johnnie… - La donna alzò gli occhi al cielo e cercò di ribattere ma Robin continuò – Ma ciò che io ho bisogno di sapere, lo so già… Sei una donna fantastica Regina, forte e determinata, decisa, a volte fredda ed è questo il lato che mostri agli altri… ma sai anche essere dolce e amorevole e i bambini ti adorano, almeno Roland mi parla sempre di te! Hai sofferto, tanto, forse troppo, ma non ti sei arresa e ti sei rialzata e io ti ammiro per tutto questo, ti...»
Smise di parlare soltanto perché la donna premette forte le labbra sulle sue, circondandolo con le braccia e tenendolo stretto.
Chiuse gli occhi, perché se li avesse aperti, lui avrebbe potuto accorgersi che erano un po’ lucidi e lei odiava piangere davanti agli altri.
Robin ricambiò la stretta e il bacio e per un po’, chissà quanto, restarono così, l’uno nelle braccia dell’altro.
«E comunque il mio gatto si chiamava Sydney e no, non chiedermi perché…»
L’uomo scoppiò a ridere e le lasciò un altro bacio a stampo.
«Penso che prima o poi lo scoprirò!»
 
 
«Mamma?!»
La donna si girò. Avevano appena finito di mangiare e fortunatamente, come aveva avuto modo di scoprire in passato, le sue doti culinarie non sparivano se era di cattivo umore.
Certo, non che per cucinare qualche hamburger ci volesse chissà quale diploma ma le sembrò che i bambini avessero gradito, finendo tutto e dividendosene anche un altro.
Adesso, stava rispondendo a Regina che le aveva chiesto, a nome di Robin, se Roland potesse restare lì tutta la notte.
Il bambino si era dimostrato piuttosto entusiasta dell’idea e lei, ovviamente, aveva acconsentito.
La sua amica meritava un po’ di pace, dopo tutto quello che aveva dovuto passare ed era felice che Robin fosse lì accanto a lei.
Non che lo conoscesse più di tanto, ci aveva scambiato sì e no quattro parole, ma da quanto le avevano raccontato sia Regina che Killian, era davvero un brav’uomo. Anche lui, come lei, aveva dovuto sopportare tanto dolore nella vita e far fronte ad imprevisti che non avrebbe mai neanche immaginato, ma ne era uscito. Era riuscito a mandare avanti la famiglia, a badare ad un bambino e a pagare le spese mediche di sua moglie, quasi completamente da solo ed Emma credeva avesse fatto un ottimo lavoro, convincendosene del tutto quella sera, osservando Roland ridere e parlare come qualsiasi altro bambino.
Vedendo l’espressione di Henry, leggermente mortificata, pensò che forse a lui non facesse piacere avere Roland lì con loro quella sera, anche se la trovava un’opzione piuttosto strana…
«Che c’è tesoro? C’è qualche problema? Roland…»
«Dorme già…» mormorò il bambino. Di fatti, avrebbe preferito che il suo compagno restasse sveglio un altro po’, così lui avrebbe potuto leggergli qualche storia o avrebbero potuto giocare un po’ ma Roland si era addormentato non appena si era steso nel piccolo letto di Henry.
«Ti dà fastidio che stia qui?»
«Oh no, no… Mi fa piacere…»
Henry cercò di rassicurarla e lei annuì, non ancora del tutto convinta.
«Tu stai meglio?» le chiese suo figlio e lei fu colta alla sprovvista.
Pensare a Regina, Robin, Roland ed Henry le aveva fatto dimenticare per un po’ tutto il resto. Non che avesse potuto davvero dimenticare e in realtà, non avrebbe neanche voluto…
«Io… S-sì, tesoro, grazie…» balbettò.
Henry annuì.
«Posso farti una domanda?» chiese.
Ci aveva pensato per tutta la cena e alla fine, aveva capito che l’unico modo per mettere fine alle milioni di domande che gli lampeggiavano in testa, era cominciare a porle.
E a chi, se non a sua madre?
«Certo…»
Henry si avvicinò un altro po’ e si risedette allo stesso sgabello di sempre. Emma lo imitò, lasciando il telefono sul bancone e accomodandosi al suo fianco.
«Cosa c’è?»
Henry continuava a torturarsi le mani (un altro vizio che aveva ereditato da lei) e aveva lo sguardo basso.
«Lo sai che puoi chiedermi qualsiasi cosa, vero?» lo incitò la donna, mettendogli una mano sulla spalla.
Il bambino si voltò e puntò i suoi grandi occhi nocciola su di lei.
«Io… Il mio papà era cattivo?»
La mano di Emma si congelò all’istante, così come il suo sangue e i suoi pensieri.
Avrebbe dovuto immaginarlo.
Henry era troppo nervoso per chiederle semplicemente il permesso di andare da qualche parte o confessarle qualche marachella.
Il bambino continuava a fissarlo con i suoi grandi occhi castani, così simili a quelli di suo padre e lei non sapeva cosa rispondergli.
«No Henry…» disse infine.
«Non era cattivo… Ha soltanto fatto una cosa cattiva…»
Il bambino parve un po’ sollevato.
«A te?»
Emma annuì.
«Sì, ma non solo… Anche a delle persone a cui lui voleva bene…»
Non voleva dirgli che l’uomo avesse un’altra famiglia, probabilmente altri figli, non voleva farlo sentire più indesiderato di quanto, forse, si sentiva già in quel momento.
«Tu pensi che se lui sapesse che io… be’, che io esisto… mi vorrebbe bene?»
Il cuore di Emma si strinse in una piccola morsa, così forte da provocarle le lacrime agli occhi. In quel momento voleva soltanto prendere suo figlio e abbracciarlo forte, stritolarlo finché non fosse di nuovo dentro di lei, così che il mondo non avrebbe mai potuto ferirlo.
«Henry… Chiunque ti vorrebbe bene, credimi! Chiunque sarebbe fortunato ad averti nella propria vita!» disse, con enfasi. Non riuscendo più a trattenersi, lo attirò a sé e gli poggiò il mento sui capelli.
«E allora perché non lo cerchiamo? Mio padre, intendo… Sarebbe facile, un gioco da ragazzi… come quando zia Regina ti chiese di…»
«Temo che non sia possibile tesoro…» lo bloccò Emma, scostandosi e guardandolo negli occhi.
«Ma…»
«Non so dove sia, né cosa abbia fatto in tutto questo tempo… all’epoca poteva non essere cattivo, oggi chi lo sa? Non voglio rischiare che, una volta scoperta la tua esistenza, quell’uomo avanzi qualche richiesta, di affidamento o che so io… io…»
Si sporse di nuovo verso di lui e lo abbracciò ancora.
«Non voglio perderti Henry…» mormorò tra i suoi capelli, ispirando l’odore del suo shampoo preferito, quello che la obbligava a comprargli da quando aveva cinque anni.
«Sei l’unica cosa bella che ho fatto nella vita…» disse e stava per piangere, di nuovo.
Scese dallo sgabello e gli si inginocchiò davanti.
«Ascolta, so che vuoi sapere cosa sia successo, lo capisco, davvero… E ti prometto che un giorno te lo dirò, solo… non ora, non adesso…  - prese un piccolo respiro e poi continuò - Per favore, promettimi che non cercherai niente, né farai nulla per contattarlo… promettimelo… puoi farlo?»
Il bimbo annuì.
«Bene… Grazie…» disse, abbracciandolo ancora e tenendolo stretto, carezzandogli i capelli e la schiena.
«Mamma?!»
«Mhh…»
«Mi stritoli…»
Emma rise un po’, poi sciolse l’abbraccio.
«Ti va un po’ di cioccolata calda?» chiese, punzecchiandolo con un dito.
«Ma tu dici sempre che non si può bere la cioccolata dopo cena!»
«Be’ oggi si può… allora?!»
Henry annuì felice ed Emma si incamminò verso i fornelli.
«Visto che Roland è nel mio letto, posso dormire con te?!»
«Certo ometto! A patto che, dopo la cioccolata, ti lavi i denti e fili direttamente nel mondo dei sogni!»
«Signorsì signora!»
Risero e dopo un po’, Henry si incamminò verso la sua stanza per prendere il pigiama ma, a metà scala, si fermò.
«Mamma…»
«No, non puoi portare tutti i tuoi pupazzi nel mio letto! Puoi sceglierne al massimo uno!»
«Mr Bob sarebbe venuto comunque a dormire con me – disse con ovvietà – ma non era questo ciò che volevo chiederti…»
Emma si voltò e lo incitò a parlare con un sorriso.
«T-tu pensi che Killian potrebbe essere il mio papà anche se il mio papà vero è un altro?!»
La donna non poté fare a meno che un sorriso si dipingesse sul suo volto e il cuore le si sciogliesse nel petto. Non amava parlare del futuro perché non avrebbe mai potuto essere certo al cento per cento ma, doveva ammettere che nonostante tutto, l’idea che Killian facesse parte sia del suo che di quello di suo figlio, le portava un misto di gioia e serenità che non avrebbe potuto definire in alcun modo.
«Suppongo che a lui farebbe molto piacere, tesoro… ma forse, dovrai chiederglielo…» disse, cercando di mascherare l’emozione e il groppo alla gola.
Henry annuì felice e si precipitò di sopra.
Emma, ancora sovrappensiero e con il cuore avvolto in una strana sensazione, si diresse verso il frigo. Ricordava che aveva lasciato un po’ di panna montata per guarnire la cioccolata così come le aveva insegnato Ingrid.
Prese la ciotola, pronta a prenderne qualche cucchiaiata in più ma…
Cos’era successo?
Era…
Vuota!
«Henry!» mormorò incredula, fissando ancora la coppa e ciò che ne restava della panna al suo interno.
Almeno su quello non c’erano dubbi…
La golosità l’aveva sicuramente ereditata da lei!
 
 
La mattina dopo, David si alzò di buon umore. Gli capitava spesso ultimamente e non gli dispiaceva più ammettere che il merito era sicuramente attribuibile a Mary Margaret.
Si incamminò verso la cucina per prepararsi la colazione. Non sarebbe stata una buona giornata se non l’avesse cominciata con una tazza di latte e cereali.
Era un’abitudine che aveva sin da bambino e ricordava ancora la voce di sua madre che gli intimava di sbrigarsi a finire perché “Lo scuolabus non aspetta te, ragazzino!”
Sorrise, prendendo una delle tazze più grandi, quella di Flash che sua madre gli aveva regalato qualche anno prima per il compleanno… o era stato Jones?! Alzò le spalle, prendendo un’altra cucchiaiata.
Lanciò uno sguardo al calendario e vide che qualcuno aveva cerchiato quel giorno con un pennarello rosso.
Si avvicinò per leggere meglio e riconobbe la calligrafia ordinata di Mary Margaret.
 
“Visita di controllo!!! H 10.30”
 
Ma quanti punti esclamativi aveva messo?!
Sorrise ancora, immaginando la scena.
Lanciò uno sguardo all’orologio e dopo aver finito di mangiare i cereali, prese il telefono.
Avvisò il suo collega che non sarebbe andato a lavoro prima delle undici e poi, come ogni mattina, mandò il buongiorno alla sua fidanzata.
Quel giorno, trovò una foto di una cheesecake alle fragole su internet e gliela spedì, sapendo quanto le avrebbe fatto gola.
Si divertiva a stuzzicarla e amava le sue risposte taglienti e scocciate. Amava ancor di più sapere che fingeva di esserlo, per non fargli montare troppo la testa.
La risposta arrivò in meno di due secondi.
Ti odio.
Sorrise e corse a vestirsi.
Uscì dal suo appartamento mezz’ora dopo, con indosso un giubbotto leggero, jeans scuri e una camicia celeste. Quella l’aveva comprata ai saldi molto tempo prima o forse gliel’avevano regalata, non lo ricordava… comunque non se l’era mai messa, chissà perché.
Quando Mary Margaret l’aveva vista abbandonata all’angolo dell’armadio, gli aveva chiesto come mai e lui aveva semplicemente scrollato le spalle. Lei, scuotendo la testa, aveva affermato che quel colore avrebbe messo ancor di più in risalto i suoi “bellissimi occhi azzurri! E no, non far finta che tu non abbia sentito perché lo so che hai sentito benissimo e io non lo ripeterò di certo!”
Si fermò ad un chiosco e comprò un po’ di caffè e un baegel, nel caso gli fosse venuta fame più tardi.
Dopo guidò verso l’ospedale e parcheggiò al solito posto, sotto un grande albero, proprio di fronte alla struttura. Ci era andato parecchie volte nelle ultime settimane, qualche volta con Mary Margaret, qualche volta da solo e una volta, persino Jones gli aveva fatto l’onore di accompagnarlo.
Oggi però, era da solo e doveva anche muoversi, perché doveva lavorare. Si sarebbe preso una giornata libera se solo se ne fosse ricordato per tempo…
Entrò e salutò con un cenno le infermiere del Pronto Soccorso. Si diresse verso l’ascensore e vi entrò.
Il dottor Kingstone stava parlando con una giovane infermiera e quando lo vide gli fece cenno di avvicinarsi.
La visita fu sempre la solita, il dottore gli auscultò il cuore, gli controllò le pupille e i riflessi e altre cose che lui non capiva davvero. Poi gli chiese se avesse riscontrato nausee o mal di testa frequenti e lui scosse la testa.
«Bene, signor Nolan, penso che siate guarito del tutto… Spero di non rivederla tanto presto!» lo salutò il dottore, stringendogli la mano.
«Anche io dottore!»
Sorrise, felice che non avrebbe più dovuto mettere piede in ospedale così tanto spesso e si incamminò verso l’uscita.
Quando uscì dall’ascensore, gli occhi si spalancarono dalla sorpresa.
Seduta su una delle sedie d’aspetto, c’era Mary Margaret china su un giornale.
Pensò che probabilmente si era ricordata anche lei della visita ed era venuta per controllare che stesse bene…
Una strana sensazione di gioia gli inondò il cuore e si diresse verso di lei, pronto a darle la buona notizia.
Qualcuno però, lo precedette. Vide un uomo alto e dai capelli stranamente biondi, probabilmente tinti si disse, parlare con la sua fidanzata. Era sicuramente un medico, perché indossava un camice bianco.
Riuscì a cogliere solo qualche sprazzo della conversazione.
Esami… importante… domani… congrat…
Quando arrivò e la donna si accorse di lui, il dottore se n’era già andato.
Vide l’espressione sul volto di Mary Margaret e non seppe dire se era più sorpresa di trovarlo lì o preoccupata…
«David!» disse e la voce risuonò stranamente acuta ad entrambi.
«Che ci fai qui?!» continuò, usando lo stesso tono.
L’uomo aggrottò le sopracciglia.
«Oggi avevo l’ultima visita, pensavo che tu… Non sei qui per questo? Chi era quello?» chiese, con le mani sui fianchi.
«Oh… La visita, giusto! Sì, certo, com’è andata? Spero bene, così non…»
La donna aveva cominciato a straparlare e solo allora si rese conto di quanto fosse nervosa.
Abbassò gli occhi e vide che ciò che la donna stava leggendo e realizzò che non era esattamente un giornale.
Non era stupido e non ci mise molto a fare due più due.
«Mary Margaret tu…»
La donna chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e li riaprì.
Di colpo, tutte le parole le erano morte in gola.
«Ah signorina Blanchard, le conviene prenotare l’ecografia…»
«Sei incinta!» mormorò.
L’uomo sbarrò gli occhi.
L’ultima cosa che vide fu il bambino del volantino del corso pre-parto, che rideva.
Beato lui! pensò, prima di cadere nelle tenebre.
 
 
«Ehi…»
Emma non ascoltava quella voce da due giorni ormai.
Non dal vivo, almeno.
Aveva cercato di mantenere le distanze, aveva giurato a sé stessa che avrebbe potuto farcela, che non sarebbe stata poi una tragedia, che lo faceva soltanto per il suo bene, per schiarirsi le idee, ma non aveva fatto altro che continuare a mentire.
Ogni cosa glielo ricordava: le barchette di Henry, il tonno in scatola, la fotografia che avevano scattato un po’ di tempo prima e che aveva incorniciato, il suo bicchiere abbandonato nel negozio…
Così quando avvertì la sua presenza calda, accanto a lei, quando ascoltò la sua voce, fu quasi come ritornare a respirare dopo un lungo periodo di apnea.
Lo vide sedersi accanto a lei, su quel piccolo muretto che dava sull’oceano.
«Henry mi ha detto di questo posto…» cominciò.
«Dice che quando vuoi stare da sola e pensare, vieni qui…»
«Sì be’, è abbastanza isolato dal mondo… le panchine del parco erano tutte occupate e i bambini mi hanno cacciato dalla casetta con lo scivolo…» disse e la voce le risuonò più fredda e sarcastica di quanto avrebbe voluto.
Si voltò a guardarlo e il cuore le si rivoltò di nuovo nel petto. I capelli spettinati dal vento, la barba, gli occhi azzurri e preoccupati, il mento…
Quanto le era mancato?
Lui accennò un sorriso e poi continuò, quasi come se lei non le avesse detto, praticamente in faccia, che avrebbe preferito restare da sola.
«So che hai cercato di evitarmi, Em, non sono stupido… Dopo quello che ci eravamo promessi, però… Capisco che tu possa essere delusa o arrabbiata ma…»
«Non sono arrabbiata con te Killian, non potrei mai esserlo…» disse e il suo tono di voce gli sembrò dolce e stanco allo stesso tempo. Sembrava avesse lottato tutto il giorno contro qualcuno e ne fosse uscita sconfitta.
«Ma…» cercò di replicare, perché non poteva più sopportare tutta quella situazione, perché doveva convincerla che ciò che era successo non era colpa sua.
«Sono arrabbiata con me stessa…» disse e rimase in silenzio per un po’.
«Avrei potuto perderti Killian e soltanto l’idea mi fa venire i brividi! Ciò che ti è successo è colpa mia… Ho provato a evitarti, è vero, ma non ci sono riuscita… Penso che non ti merito, non ti merito neanche un po’, eppure non posso più fare a meno di te… è egoista, da parte mia, lo so, deplorevole e egoista ma…»
«Emma basta!» disse lui, scuotendo la testa.
«Tu non hai fatto niente! All’epoca hai fatto ciò che credevi fosse giusto e sebbene non mi fosse mai stato chiaro il motivo, avrei dovuto… avrei dovuto accettare e rispettare le tue decisioni…»
Sembrava in difficoltà, sembrava non riuscire a trovare le parole e ad Emma sembrò una cosa tanto strana quanto infinitamente tenera. Sapeva che non era vero, che le stava dicendo quelle parole soltanto per farle piacere… nessuno, al suo posto, avrebbe accettato di essere lasciato di punto in bianco, nel cuore della notte, con uno stupido biglietto…
«Sono stato io ad infilarmi quel coso nel braccio e l’ho fatto perché… oh non lo so neanche io perché! Perché Liam non c’era e mio padre era in carcere e mia madre…»
Serrò ancora la mascella e fissò l’orizzonte, forse cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli avevano pizzicato gli occhi e che adesso colavano imperturbabili sul suo volto.
La donna se le asciugò e poi con un dito, tremante, cominciò a percorrere il profilo dell’uomo.
I capelli, la fronte, il naso, le labbra… quasi volesse rendersi conto che era davvero reale ed era lì.
Lui ritornò a guardarla, con uno sguardo interrogativo, e lei poté carezzargli gli zigomi e il mento.
«Ho seriamente pensato di sparire di nuovo Killian…» gli rivelò, mentre lui le prendeva la mano nella sua e gliela stringeva.
«Ho pensato che se ho quasi rischiato di ucciderti una volta, probabilmente l’avrei fatto ancora… ti avrei fatto soffrire ancora e non lo meriti, Killian, non dopo quello che hai passato, che io ti ho fatto passare…»
Lo guardò cercando di fissare bene a mente tutti i dettagli del suo viso.
«Ti avrei lasciato un altro biglietto, provando a convincerti che stavamo sbagliando, che non potevo andare avanti così, fingendo che ti amassi…»
«Swan…»
«Ci ho pensato e mentre lo pensavo, ho realizzato che non ne avrei mai avuto il coraggio…»
L’uomo sembrò tirare fuori tutta l’aria che aveva trattenuto, non si era accorto neanche quando.
«Non posso farlo, non ne ho la forza… Come potevo andarmene e fingere che non ti amassi? Come potevo? Se non ti ho mai detto che ti amo?!»
Gli occhi dell’uomo si spalancarono e divennero più azzurri del mare in tempesta.
«Ti amo Killian e non posso farne a meno… Non te lo so neanche spiegare… Sei in ogni cosa che faccio, a casa, nel negozio, dappertutto… tu mi rendi una persona migliore e mi dispiace, so che la tua vita senza di me sarebbe migliore forse, ma non ho la forza di rinunciare a te, non posso sopportare tutto ancora una volta… so che è egoista e mi dispiace, mi odio, io…»
Le lacrime ormai le solcavano il viso e lei non riusciva a fermarle. Sentì le braccia di Killian attorno al suo corpo, forti e sicure e il suo odore le inondò le narici, il cuore e la mente.
Sapone, pelle e mare.
Casa.
«Ti amo anch’io Swan… ti amerò sempre, nonostante tutte le stupidaggini che hai detto…» le sussurrò e lei, chissà perché, ci credette davvero.
 
 
«Killian…»
«Swan, se devi dire altre cazzate, ti prego di chiudere la bocca…»
La donna gli riservò un’occhiataccia.
«No, Emma davvero… tu credi che la tua partenza mi abbia fatto solo male e forse è così, mi ha fatto più male che bene, ma ci sono state delle cose belle, delle cose veramente belle!»
La donna alzò le sopracciglia, curiosa, incitandolo a parlare. Avevano sciolto l’abbraccio ma erano ancora vicini ed Emma riusciva a sentire ancora il suo odore e il suo respiro.
Le lacrime si erano seccate, alcune sulle guance, altre sulle ciglia. Ringraziò il cielo che, quel giorno, si era sentita talmente stanca che non aveva avuto neanche la forza di truccarsi.
«Dopo quell’incidente, continuai a bere e… vivere alla giornata, se così vuoi chiamarlo… fino a Natale…»
«Natale? Perché?» chiese la donna, non riuscendo a tenere a freno la curiosità. Se ne accorse e cercò di rimediare.
«Se non vuoi…»
«Non lo so… Stavo vomitando, di nuovo, e mi resi conto che non potevo sprecare la mia vita in quel modo, che non era questo che ti aspettavi da me e così, il giorno dopo, andai in quel rifugio dove qualche volta andavi tu… Mi fecero vestire da Babbo Natale e mi misero a servire stufato caldo… Non mi sono mai sentito più idiota di così sai?! Ma ero un idiota felice… Da allora, ho passato lì tutti i Natali… Avevi ragione… All’inizio non volevo ammetterlo ma non ci misi molto a capire quanto fossi stato stupido e arrogante…»
Così Emma conobbe Will, il bambino che, per primo, gli aveva chiesto di disegnare una casa; conobbe James e la sua fissazione per i gatti, la signora che amava le azalee e il signor Thompson che gli aveva insegnato a giocare a scacchi.
Killian le parlò di come decise di voler continuare gli studi, del giorno del diploma e di come Liam sembrava essere fiero di lui quando, vestito di tutto punto, chiamarono il nome di suo fratello e gli consegnarono quel pezzo di carta, sebbene un po’ di ritardo…
Le disse che, di tanto in tanto, andava ancora alla loro panchina e si chiedeva dove lei fosse e se fosse felice. Passò molto tempo, però, prima che potesse farlo quasi senza rancore nei suoi confronti.
Le raccontò della prima volta che vide Milah e del tuffo al cuore che lei gli provocò. Le disse di quando andarono a ballare e di quando lei gli fece cadere, per sbaglio, una caraffa intera di vino rosso addosso e lui, per vendicarsi, l’aveva ripagata con la stessa moneta.
Emma ascoltava in silenzio, sorridendo quando lui sorrideva.
Era la prima volta che lo vedeva così sereno.
Quando nominò Milah, il cuore di Emma si strinse. Non poteva essere gelosa, non ne aveva nessun diritto e lo sapeva.
Non era gelosia, forse invidia ma non le fece male come credeva, anzi.
Il pensiero di quella donna la consolò più di tutto il resto, perché era esattamente ciò che lei gli aveva augurato in quella lettera. Quella donna lo aveva curato, aveva cercato di ricucire le ferite che lei gli aveva provocato.
Le era stranamente riconoscente per aver fatto ciò che lei stessa, non aveva avuto il coraggio di fare.
Ma avrebbe rimediato.
«Mi dispiace per Milah…» disse, quando l’uomo finì di parlare. Gli posò una mano sulla spalla e sperò che bastasse, che capisse che le dispiaceva davvero.
«Anche a me…»
Fissò ancora il mare per un po’, quasi come volesse prendere in prestito un po’ della sua forza e poi lo spostò su di lei.
«Emma…» cominciò, dopo aver preso un lungo respiro.
«Non ti ho detto tutto questo perché mi piace parlare di me o del mio passato… Ci sono cose che, probabilmente, se potessi tornare indietro cambierei… Quello che sto cercando di dirti è che ti ho raccontato tutto questo, non perché volevo che provassi pietà per me ma per farti capire che ho dovuto affrontare parecchie difficoltà nella mia breve vita, è vero, ma ci sono stati tanti momenti belli, indimenticabili, momenti in cui ho davvero creduto che la felicità poteva essere alla mia portata! Il lavoro che ho scelto, mi ha dato tantissime soddisfazioni; le persone che ho amato le ho portate sempre con me e mi aiutavano ad andare avanti… Milah, mia madre, Liam e da due anni David e Robin, Roland e anche tu…»
Gli occhi di Emma si inumidirono di nuovo.
«Non mentivo quando ti ho detto che non ho mai potuto dimenticarti… c’eri il giorno del mio diploma, c’eri quel giorno in quel bagno schifoso, c’eri a Natale e sulla panchina e c’eri anche l’ultima volta che ho salutato Milah…»
«Killian…»
Gli carezzò la guancia, cercando di trattenere ancora le lacrime.
«Per cui ti prego, smettila di incolparti! Non ho avuto una vita miserabile, almeno non del tutto…» sorrise, abbassando lo sguardo.
«Ho smesso di incolparti per il mio passato, probabilmente nello stesso istante in cui ti ho rivisto e ti prego, ti prego smettila di farlo tu! Perdonati, perché io l’ho fatto… Smettiamola di parlare del passato, pensiamo al domani, a ciò che ci aspetta dopo Gold e la sua dannata casa! Pensiamo alla “Missione Genitori” – disse facendola ridere tra le lacrime – a Henry e alle sue prime cotte, a questo grande, immenso sentimento che provo ogni volta che ti guardo… ti va?»
Emma annuì e lo strinse a sé, provando l’innato e disperato desiderio di volerlo proteggere per sempre e, giurò a sé stessa che sarebbe stato tutto quello che avrebbe fatto per il resto della vita.
Amarlo e proteggerlo, sempre, cercando di rimediare agli errori che, dodici anni prima, lei stessa aveva compiuto.
 
 
David sbatté gli occhi, cercando di mettere a fuoco ciò che aveva davanti.
Sentiva un vocio indistinto intorno a lui ma non riusciva a distinguere nessuna voce in particolare.
Richiuse gli occhi, massaggiandosi la testa. Il braccio pesava più di quanto si aspettasse…
«David?! David?!»
L’uomo riaprì di scatto gli occhi e tutto divenne più chiaro.
Mary Margaret era difronte a lui, l’espressione preoccupata e timorosa.
Riuscì a distinguere ogni lineamento del suo viso, ogni piccolo capello che le copriva la fronte. Vide i suoi occhi piccoli, la bocca piegata all’ingiù.
«Presumo tu gli abbia dato la buona notizia Mary! Be’, da quanto mi dicevi, credo che l’abbia presa piuttosto bene…»
L’uomo che aveva visto poco prima era accanto a lui.
Sbatté le palpebre e si guardò intorno. Era su una barella, in uno dei tanti corridoi dell’ospedale.
Che fossero forniti anche del reparto “Padri sotto shock?!”
«Il nostro papà non ha niente di grave! Forse un calo di zuccheri…» disse, puntandogli una luce gialla negli occhi.
«Adesso vado Mary! Ci rivediamo qui domani per tutti gli accertamenti e, nel caso…»
Lasciò la frase in sospeso e David continuava a non capirci un bel niente.
“Nel caso…” cosa?
Il cuore cominciò a battere forte nel petto e lui guardò la sua fidanzata, cercando una spiegazione.
Lei era muta.
Il dottore se ne andò, il camice svolazzava dietro di lui come se fosse un mantello e lei gli fece un cenno di saluto.
«Mary…» cominciò, mettendosi seduto sulla barella, le gambe che quasi sfioravano il pavimento.
«David io non… Te lo avrei detto, lo giuro, io… Mi dispiace…»
L’uomo parve non ascoltare neanche una singola parola.
«Cosa intendeva prima quel dottore?!»
Lei alzò lo sguardo e lui notò che gli occhi le si erano velati di lacrime e allora capì, si maledisse per essere stato così stupido, così idiota da aver accostato il suo nome alla parola “Padre” nel giro di due secondi e, nel profondo, di aver provato perfino un segreto piacere nel farlo…
«Tu… Non lo vuoi?!» chiese e non seppe dire se quella voce che era fuoriuscita dalla sua gola fosse davvero la sua o meno. Era così grave e ansiosa e…triste?!
Mary Margaret non riuscì più a trattenere le lacrime che le scesero copiose sul viso, bagnandole le guance. Abbassò la testa e poi sentì che due mani calde la presero per le spalle.
«È… voglio dire… è mio figlio?!»
«Certo che è tuo, idiota! Come ti viene in mente di pensare una cosa del genere?!» mormorò la donna tra le lacrime. David sapeva che, se non fosse stata in quello stato, probabilmente gliene avrebbe fatte passare di tutti i colori dopo quella domanda.
«Mary hai pensato di…»
Abortire.
La parola era chiara nella sua mente, dolorosa, quasi fosse ricoperta di spine e pronunciarla gli avrebbe provocato un male fisico.
La ignorò, non l’avrebbe pronunciata, non poteva.
«Credevi che io potessi non esserne stato felice?»
La voce ridiventò calda e gentile, come sempre.
La donna cercò di asciugarsi le lacrime e parlare con voce ferma.
«Non ne avevo idea David! Non sapevo come avresti reagito e io…» lasciò la frase in sospeso, quasi temesse di scoppiare di nuovo a piangere da un momento all’altro.
«Tu?»
«Avevo paura… Avevo paura di perderti, ho paura di perderti! Guarda, sei svenuto non appena hai saputo tutto!»
«Ero sorpreso!» la interruppe l’uomo! «Non è esattamente una delle cose che mi sarei aspettato oggi!»
«È stato un incidente David e noi… ci conosciamo da così poco, come possiamo mettere su una famiglia e…»
Quell’odioso malloppo che aveva in gola, ancora non decideva a sparire. Si stava mordendo il labbro inferiore con tutta la forza del mondo per evitare di scoppiare a piangere di nuovo.
«Mary Margaret, guardami!» mormorò David, mettendole di nuovo le mani sulle spalle. I loro occhi si incontrarono e lei cercò in tutti i modi di non immaginare un meraviglioso bambino dagli occhi blu come i suoi.
«Tu vuoi questo? Vuoi tutto questo assieme a me? Perché io… Io penso che non potrei chiedere di meglio… Voglio dire: so che è presto e che non l’avevamo previsto e che io sono svenuto (non intenzionalmente, lo sai!) e che ci sono mille altre ragioni per cui non dovremmo farlo però io ti amo e tu ami me, chissà per quale motivo! E ho paura, ho una paura tremenda perché non avevo mai pensato di diventare padre tanto presto, però se ci sei tu, io penso che potrei affrontare qualsiasi cosa… ma solo se tu lo vuoi… tu lo vuoi?»
«Non c’è niente che desideri di più al mondo!» affermò, senza lasciargli neanche il tempo di finire di parlare e non mentiva.
Non appena aveva saputo di quella notizia inaspettata, il mondo aveva preso a girare in una direzione diversa. Sentiva la vita, la vita vera scorrerle nelle vene, quasi fosse magia. Per un attimo, si era sentita sopraffatta da tutto quello, da quell’agglomerato di sentimenti, amore ed emozioni che aveva provato quando le avevano detto che una nuova vita stava crescendo in lei.
Poi l’aveva visto lì, venirle incontro con il suo sorriso e i suoi occhi azzurri e aveva sentito tutto, aveva capito tutto e la paura le aveva attanagliato il cuore.
Se lui non l’avesse voluto? Se lui non fosse stato pronto?
Era svenuto tra le sue braccia, confermandole ciò che in cuor suo temeva.
Il dottor Whale le aveva parlato di quella possibilità, di abortire e aveva letto qualche cosa sul suo telefono ma il suo cuore sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo.
Quel bambino era vita ed era amore e non importavano le circostanze, non importava niente perché lei l’avrebbe amato e protetto nonostante tutto.
Tuttavia sentire quelle parole sincere pronunciate dalla voce dell’uomo che amava, le fece sparire un peso sul cuore che, era convinta, avrebbe dovuto sopportare per il resto della vita.
David l’attirò tra le sue braccia e lei, chiudendo gli occhi e ispirando il suo profumo, si lasciò finalmente andare alle lacrime e alle fantasie.
Dietro i suoi occhi chiusi, un bambino biondo dagli occhi azzurri, le sorrideva felice.
 
 
Erano sul pianerottolo dell’appartamento di Emma, lei cercava freneticamente le chiavi nella borsa e lui la guardava divertito.
Dopo ciò che gli aveva detto sul molo, il suo cuore aveva minacciato di uscire fuori dal petto e poi di essere calpestato e frantumato ancora una volta. Preferì non pensarci, preferì scuotere la testa e credere che lei ci avesse messo una pietra sopra e non avrebbe tirato più fuori quell’argomento. Sembrò assurdo, perfino a lui.
Quando finalmente Emma trovò ciò che stava cercando in quella borsa che, era sicuro, era più grande di quanto sembrasse, tirò un sospiro di sollievo.
Alla sua domanda del perché non si limitasse a suonare il campanello e aspettare che Henry accorresse ad aprire, lei gli rispose che nel caso il bambino stesse compiendo qualche marachella, lei l’avrebbe colto sul fatto.
Forse “marachella” non era esattamente il termine che aveva usato e forse, anzi, quasi sicuramente, quello non era esattamente un ragionamento che filava più della “questione Mc Donald’s”, ma lui si limitò a scuotere le spalle e la testa, divertito.
«Henry sono a casa!» annunciò, facendosi da parte per farlo entrare e appendendo il giubbotto rosso di pelle all’attaccapanni lì vicino.
Lui la imitò e la seguì in cucina.
Il bambino non ci mise molto a scendere di corsa le scale, stringendo forte un libro enorme. Salutò entrambi e prima che Emma potesse chiederglielo annunciò che aveva già finito tutti i compiti.
«Che bravo!» mormorò la donna, scompigliandogli i capelli.
Il bambino alzò gli occhi al cielo e poi sorrise.
«Allora posso giocare alla Wii?» chiese, speranzoso e quando la madre annuì, lui le diede un piccolo bacino sulla guancia e scomparve in salone.
Emma e Killian lo seguirono con lo sguardo.
«Prime cotte eh?! Non pensi sia ancora piccolo?» chiese la donna, ricordando ciò che lui le aveva detto prima.
«Che dici Swan! Io alla sua età ero già un piccolo rubacuori!» disse con un sorriso sghembo, sapendo che l’avrebbe sicuramente infastidita.
«Sì, me lo ricordo…» borbottò la donna, prendendo tutto l’occorrente per preparare il caffè.
L’uomo rise.
«Sai, dovresti dirlo a David…» mormorò la donna, dopo qualche minuto di silenzio.
Killian sembrò non capire. Aggrottò le sopracciglia, la domanda muta si leggeva chiara nei suoi occhi.
«Lui ti vuole bene… e anche tu gliene vuoi…» mormorò la donna.
«Certo che gli voglio bene!» affermò sicuro.
«E allora?»
«Be’, non posso uscirmene e dirgli “ehi Nolan, sappi che a diciott’anni sono quasi morto però adesso sto bene, tranquillo!”»
Il cuore di Emma sussultò ancora una volta a quelle parole ma cercò, quanto meglio poté, di mascherarlo.
«No, però penso ti farebbe bene parlarne con qualcuno che non sia… come dire… direttamente interessato nella vicenda… Che so, magari una serata tra uomini…»
«Emma…»
Aveva ricominciato, lo sentiva. Altro che pietra sopra!
«Che c’è?»
«Non so cosa voi donne pensate delle “serate tra uomini” ma dipingerci le unghie raccontandoci segreti, non è neanche nella lista!»
Emma gli lanciò un’occhiataccia, cercando di non ridere. Non ci riuscì e un sorriso divertito le si dipinse sul viso.
«Ok capitano! Come non detto! Che ne dici di andare a vedere cosa combina Henry? Vi porto la merenda tra qualche minuto…»
Alzando le sopracciglia, sorpreso che Emma avesse lasciato perdere così facilmente, si alzò dallo sgabello che aveva occupato e si andò ad accomodare accanto ad Henry.
Emma li seguì con lo sguardo e non poté evitare di sorridere. Una famiglia, ne era sempre più convinta, lei ce l’aveva già.
 
 
«Ehi giovanotto! Allora come andiamo?» gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui sul tappeto.
Lui non distolse lo sguardo dallo schermo, mormorando un distratto “Bene”.
Dopo qualche minuto, quando tutti gli incursori erano stati uccisi, il bambino mise pausa, voltandosi prima verso la cucina e poi verso Killian.
«Tu e la mamma avete chiarito eh?» sussurrò per non evitare che la donna li sentisse anche se, Killian ne era piuttosto sicuro, l’avrebbe fatto comunque. Non sapeva come, ma l’avrebbe fatto.
Si grattò la nuca, imbarazzato. Quello non era esattamente un campo di conversazione adatto ad un bambino, per di più figlio di colei che… insomma, figlio di Emma.
«Tua madre ti ha detto che avevamo litigato?!»
«Be’… non proprio! Mi ha detto che…»
Prima che potesse finire la frase, Emma arrivò in salone con una tazza di caffè e un bicchiere di succo all’arancia.
Porse la prima a Killian e il secondo ad Henry, riservando ad entrambi un sorriso.
«Di che parlavate?» chiese, curiosa.
I due si scambiarono uno sguardo, in preda al panico.
«Ehm… Henry mi stava spiegando come funziona il suo nuovo gioco… Sai quello che gli ha prestato…»
Gli aveva prestato chi?
«Hans! Quello che mi ha prestato Hans!»
Il bambino accorse in suo soccorso.
Emma annuì e i due non seppero se lo fece perché l’avevano convinta o perché non l’avevano fatto.
Ad ogni modo, stupendo entrambi, la donna si alzò e annunciò che si sarebbe chiusa in bagno per una “doccia rigenerante”.
Killian alzò un sopracciglio, contrariato. Avrebbe potuto raggiungerla ma cosa avrebbero raccontato ad Henry?! Non era esattamente il caso di sparire, così si arrese all’idea di dover fare da babysitter per l’intero pomeriggio… Non che il bambino non gli piacesse, anzi! Ma aveva paura che ritirasse fuori l’argomento della “lite” e lui non ne aveva le forze. Aveva combattuto così tanto con Emma affinché non ne parlassero più e adesso era suo figlio a tirare fuori l’argomento…
In realtà era piuttosto sorpreso che Emma avesse deciso di parlarne proprio con lui. La conosceva, sapeva che non era esattamente il tipo da rivelare i suoi problemi così facilmente e soprattutto ad estranei. Ma Henry non era un estraneo, era suo figlio ed era un bambino. Forse aveva solo bisogno di sfogarsi, forse gli aveva detto qualche “bugia bianca” per spiegargli il suo malumore…
Con quelle domande in testa seguì la figura di Emma sulle scale e poi quando sentì una porta sbattere, riportò la sua attenzione allo schermo della televisione.
«Henry…» cominciò.
«Sono felice che tu e mia madre siate fidanzati!»
L’uomo per poco non si strozzò con quel po’ di caffè che era rimasto nella tazza.
«Mh… S-sì… Cioè io non potrei…» abbassò lo sguardo sul pavimento e si grattò la nuca.
Stavo balbettando e lo sapeva.
Era in imbarazzo e sì, sapeva anche questo. Ma cosa diavolo stava per dire?
Non potrei mai prendere il posto di tuo padre.
Si fermò in tempo, si fermò quando si accorse che quel ragazzino, un padre non l’aveva mai avuto, né l’aveva mai conosciuto.
«Io amo tua madre Henry e lei ama me… abbiamo fatto tanti errori in questi anni ma ci siamo ritrovati e io non ho intenzioni di lasciarla… di lasciarvi…»
Aveva bisogno di rassicurarlo, di dirgli che ci sarebbe stato per qualsiasi cosa avesse avuto bisogno e che, non importava cosa sarebbe successo, lui non l’avrebbe lasciato.
L’idea di diventare padre non gli era mai passata per il cervello o almeno, mai per un lasso di tempo così elevato. Eppure con gli occhi di quel bambino puntati addosso, non poteva non pensarci.
«Lo so…» gli disse e, dal suo tono di voce, Killian capì che forse non l’aveva mai neanche dubitato e questo gli provocò, al tempo stesso, una fitta di piacere e di paura.
«È per questo che ho bisogno che tu mi aiuti a fare una cosa…»
«Se posso, farò tutto ciò che mi è possibile…»
Il bambino continuava a fissarlo con i suoi occhi nocciola, curiosi e pronti a divorare il mondo.
«Voglio ritrovare mio padre»
 
 
 
 
 
 
 
 




Buonasera gentee! :)
Prima di cominciare il mio sproloquio mensile, volevo sinceramente ringraziare le undici persone che mi hanno lasciato una recensione per lo scorso capitolo!
GRAZIE! GRAZIE! GRAZIE!
Non immaginate quanto le vostre parole mi abbiano ispirato ed aiutato per tutto questo tempo, sin dall'inizio della storia! Grazie! Quando ho cominciato questo "viaggio" non avevo la minima idea che così tante persone l'avrebbero seguito e soprattutto, avrebbero seguito me! (parlo anche di voi, lettori silenziosi! E voi, che preferite/seguite/ricordate!)
Quindi Grazie davvero di cuore a tutti voi e in modo particolare a Spongass, Gaialor95, pandina, k_Gio, Lady Lara, Alexies, Arya, simogi, Persefone, Chipped Cup ed Erin (sì, so che ci sei anche tu, anche se Efp non mi fa leggere la recensione!)
Questo capitolo è per voi!  
Ok, questa era la parte importante! Adesso inizio lo sproloquio xD
Ecco a voi il nuovo capitolo!! È un capitolo molto ricco e spero davvero che vi sia piaciuto! Ho cercato di rendere le reazioni dei protagonisti il più naturalmente e fedelmente possibile e mi auguro di esserci riuscita! (Fatemi sapere!)
Emma (ovviamente) è sconvolta dalla rivelazione di Killian e si prende del tempo per pensare… Si rende conto però che non può più lasciarlo, perché non lo sopporterebbe! (Killian festeggia!)
E gli ha anche detto che lo ama! (Finalmente! xD)
Per quanto riguarda il rapporto con Henry… penso che l’avevamo un po’ tralasciato ultimamente e ho voluto riprenderlo! Henry è un bambino molto intelligente e perspicace e sebbene abbia promesso a sua madre che non si caccerà nei pasticci, ha tutte le intenzioni di ritrovare suo padre e ha chiesto addirittura l’aiuto di Killian per farlo… Cosa succederà?
Passando a Robin e Regina… Finalmente la donna ha avuto qualche gioia! Ma… quanto tempo durerà? (#Sìforsesonounpo’crudele)
E infine (ma non per importanza!!) Mary Margaret e David!! Vi avevo detto che ci sarebbero state delle sorprese! E spero, di fatto, di avervi sorpreso! È un’idea che mi frullava in testa sin dall’inizio della storia e… niente, vedremo come continuerà! :D
Ripeto (per la 29038939 volta!) Grazie a tutti! Sarei davvero felice di sapere i vostri pareri su quest’altro capitolo anche questa volta!!
Non so quando sarò in grado di pubblicare di nuovo (conoscendomi, passerà un po’ di tempo!) perché, molto probabilmente, mi trasferisco per via dell’università quindi ci metterò un po’ a sistemarmi! Ma tranquille, non potrei abbandonare né voi, né la storia! Soprattutto adesso che OUAT sta per tornareee!! (-12! *-*)
E inoltre, ci sono tante altre domande ancora a cui dare una risposta! Killian deciderà di aiutare Henry? E dov’è finito Neal? Si farà vivo? Gold licenzierà tutti perché non fanno altro che cincischiare? Bonolis aiutali tu O Belle riuscirà a tenerlo a bada? Chi sono i veri genitori di Emma? Mary Margaret e David hanno quindi deciso di tenere il bambino/a? 
Ma soprattutto… Perché il gatto di Regina si chiamava Sydney? E questo spazietto finirà mai o sarà più lungo del capitolo? xD
Se avete teorie o proposte, sono sempre qui, più curiosa che mai! :) 
Adesso la smetto sul serio... 

Un grande abbraccio a ciascuno di voi e se siete arrivati fin qui, siete dei veri eroi! xD
A presto!
Kerri :*
 
 
 
PS: ho notato che, andando avanti, i capitoli diventano sempre più lunghi! Per voi va bene?! Fatemi sapere! :*
   
 
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