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Autore: Elphie94    24/09/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxvii.

il canto muto

 

 

 

Calais affacciava direttamente sul mare come un'enorme ancora di una nave all'approdo. I miei compagni ed io la attraversammo, simili a fantasmi nella notte, dopo aver trascorso gli ultimi giorni nelle solitarie campagne del mio Paese, da cui presto mi sarei separata, forse per sempre. Il solo pensiero era intollerabile, ma dovevo essere coraggiosa. Sono un lupo, una leonessa – non un cucciolo smarrito. E non piangerò. Questo era il giuramento che avevo fatto a me stessa e che tenevo a mantenere.

Gli ultimi giorni di viaggio erano stati un tormento. Monsieur Nadir mi guardava di sottecchi con i suoi occhi verdi e penetranti, come se si aspettasse di vedermi scattare da un momento all'altro. Solo Erik si limitava a non commentare la spiacevole avventura che ci aveva coinvolti fino a farci sanguinare, fuori e dentro. Nel profondo della mia anima, eressi mura più alte di quelle dell'Opera Garnier, la mia casa tanto amata e ora lontana, sfuggente come un sogno, bella come il ricordo di un'alba.

Non ci scambiammo una parola su quanto era accaduto; ci assicurammo solo che nessuno dei tre avesse qualcosa di rotto e che fossimo tutti in grado di montare a cavallo e viaggiare per un altro tratto di strada fino al porto di Calais. Eravamo ricoperti di lividi e tagli, deboli nelle membra e nell'anima, ma vivi. I nostri abiti erano sporchi e stracciati, anche se non emanavano un lezzo disgustoso quanto i nostri corpi lasciati a marcire tra umori ed escrementi in quel carro maledetto per quasi una settimana. Sentivo i pidocchi correre su e giù per la nuca, e tanto era il fastidio che avevo preso l'abitudine di cercare di prenderne uno per poi schiacciarlo tra le dita come fosse un minuscolo frutto troppo acerbo. Lasciavano sul palmo della mia mano una traccia sanguinolenta, ma non avevo altrettanta fortuna nell'acchiapparne più di uno o due alla volta.

Notte e la puledra d'argento erano caduti sotto i colpi della banda di sicari, quindi prendemmo i loro cavalli. Malgrado l'esitazione di Monsieur Nadir, non seppellimmo i corpi, lasciandoli ai corvi. D'altronde, loro avrebbero fatto lo stesso con noi. Così disse Erik, ed io ero d'accordo. Non avevamo nulla da discutere.

Viaggiammo per una notte e un giorno, la luce del sole che filtrava dai drappi di foglie dei boschetti che superavamo al trotto, quella della luna che ci bagnava sui sentieri più aperti. Corremmo il rischio di attraversare le strade solo di notte, quando erano deserte. Io viaggiavo sempre con Erik: avevamo trascorso così tanti giorni a quella vicinanza inaspettata che il mio odore si era impregnato del suo – vagamente dolciastro e nauseante, simile al lezzo di qualcosa di marcio in lenta decomposizione. Ma ormai vi avevo fatto l'abitudine. Affondavo il viso tra le sue scapole con un agio tale che mi sembrava di viaggiare con lui da sempre. A lui non dava alcun fastidio, altrimenti sapevo che avrebbe espresso il suo disappunto a voce alta; ma non commentò. Si limitava a stringermi di tanto in tanto il braccio, per assicurarsi che fossi ben avvinghiata a lui.

Il nostro ritmo di viaggio fu più lento di prima, ed era naturale: malconci com'eravamo, avevamo bisogno di più pause per riposarci e nutrirci. Le scorte che avevamo trovato in sella ai cavalli dei nostri antichi torturatori erano migliori delle nostre, seppur semplici, e in quantità maggiore: pane duro, formaggio stagionato, gallette, carne essiccata, e addirittura mele mature. Dopo giorni di digiuno, divorammo le nostre porzioni con avidità, sebbene Monsieur Nadir avesse già razionato con cura il cibo, avvertendoci di non mangiarne troppo per non sentirci male dopo. Il nostro organismo doveva riabituarsi ad avere di nuovo qualcosa nello stomaco.

Ci abbeverammo a fresche sorgenti, dove tentai anche di sciacquarmi i capelli e liberarmi dei pidocchi; forse avrei dovuto tagliarli ancora più corti. Il solo pensiero mi dava la nausea: volevo indietro i miei capelli, volevo indietro la mia identità. Me l'avevano strappata insieme all'innocenza, alla mia pelle imbevuta di sangue. Non avrei permesso che mi rubassero altro.

Giungemmo a Calais di notte, come avevamo sperato. In caso contrario, avremmo attirato troppa attenzione, conciati in quella maniera miserabile. I vicoli stretti della città erano silenti, mentre noi li sorpassavamo con moto altrettanto taciturno. Calais era una città costruita sulla pianura che si allargava fino a lambire le coste sabbiose del mare, freddo e nero sotto il cielo altrettanto scuro della notte. Si succedevano viuzze strette tra mura di argilla e mattoni lasciati a scottare al sole o impregnati della rugiada dei raggi di luna quando il giorno moriva. Noi superammo quelle strade, attirandoci solo gli sguardi curiosi degli ubriaconi che, fuori dalle taverne, si attardavano a gozzovigliare.

Il molo era uno spettacolo che, perfino di notte e con la mia amarezza, mi lasciò per qualche secondo senza fiato: non avevo mai visto il mare. Una distesa d'acqua all'apparenza infinita, abbracciata all'orizzonte solo dalla luce fievole dell'astro notturno e bagnata dalle sue lacrime. Attraccate al pontile, vi erano navi di tutti i tipi e dimensioni: galee a remi e a vela, chiatte e pescherecci carichi di merci, natanti mercantili di grosse dimensioni e scafi da diporto. Mi chiesi quale, tra quelle, sarebbe stato il mezzo con cui saremmo arrivati in America. Era visibile anche un'imponente nave da crociera, che avrebbe preso il largo proprio il giorno dopo, forse diretta verso il Nuovo Mondo, come noi. Ma non potevamo rischiare di esporci al pubblico in quel modo. Erik aveva un suo piano ben definito da attuare.

«Al limitare del porto, c'è una locanda che in verità è gestita da dei contrabbandieri – mie vecchie conoscenze. Con la somma d'oro giusta, ci consentiranno un passaggio diretto verso l'America. Saremo ben nascosti e non avremo alcun problema, vedrete. Non si sono certo dimenticati di Erik.» Era molto sicuro del fatto suo, e noi ci affidammo – di nuovo – interamente a lui, ché non avevamo altra opzione.

Lasciammo i cavalli fuori da una piccola taverna dalle finestre ancora illuminate, con un'insegna che leggeva Da Jean. Rimasi nell'ombra di Erik, sentendomi sicura con la mia daga infilata nel risvolto della manica. Se le cose si fossero messe male, non ci saremmo lasciati prendere allo sbaraglio, questa volta. Non avremmo esitato. I sicari di Persia – originari in verità di varie nazioni sparse per il mondo – ci avevano derubato del nostro oro (beh, di quello di Erik) e delle nostre armi, ma noi ci eravamo ripresi tutto questo con la forza.

«É un'usanza dello Shah, l'assoldare tanti sicari ai suoi ordini?» avevo chiesto ad Erik, con voce più roca del solito poiché non la utilizzavo più tanto spesso come prima. Avevo imparato a trattenere la lingua tra i denti, e a tenere certi segreti per me.

«É un'usanza di tutti i ricchi politici, re o governanti che siano. Anche nella nostra civilizzata Francia» rispose lui con un pizzico del suo usuale sarcasmo. «Guardie o sicari, non fa differenza.»

«Eri anche tu una sorta di… mercenario, diciamo così?»

«Una sorta, sì. Ad alto costo.»

«E perché svolgevi questo bel lavoretto, se tanto li disprezzi?»

Erik ebbe una pausa. «La sultana – ora Khanum – mi promise che sarei diventato l'uomo più potente di Persia, con delle abilità singolari come le mie. Ed io ero stanco di sentirmi impotente. Mi lasciai andare: se ero un mostro, tanto valeva che lo fossi completamente.»

«Ma poi ti stancasti anche di questo.»

Lui annuì piano. «Uccidere non mi dava alcuna gioia, se non quella vacua sensazione di potere a cui ti ho già accennato. Nel profondo, sapevo di desiderare solo una vita normale. Ora mi rendo conto di quanto fossi sciocco nel pensare che l'avrei mai ottenuta. Niente e nessuno poteva regalarmela. Nessuna magia poteva cambiare la mia faccia.»

Ma la compassione di Christine ti ha cambiato, pensai d'un tratto. Ti ha fatto ridiventare umano. E ora tu sei diverso. Lo percepivo dal tono della sua voce, dall'espressione nei suoi occhi dorati, più lontana del solito. Tu dovevi morire – volevi morire. Non eri più legato a questa terra da alcunché. Nemmeno da me.

Entrammo nella taverna mentre il locandiere si accingeva ad asciugare dei boccali vuoti al bancone e una servetta lucidava i tavoli. Era un locale spoglio, con assi di legno tarmate dal tempo. Eppure, era più accogliente di qualsiasi luogo avessimo incontrato sulla nostra strada in quei giorni folli. L'uomo al bancone ci squadrò con aria sospettosa e guardinga insieme, posando il boccale e lo straccio che aveva in mano. La servetta si limitò a lanciarci un'occhiata veloce e a scambiarne un'altra col suo padrone.

«Vai pure, Danielle» disse questi, e la ragazza si dileguò in un battito di ciglia. Alzai un sopracciglio: eravamo così spaventosi?

Nel locale non c'era nessuno a parte un ubriaco che dormiva nel suo posto al bancone. Anzi, che russava con beneplacito. Per il resto, eravamo soli. Il che è un bene, supposi. Sentii pesare il pugnale nella manica, e vidi bene di non cacciarlo fuori prima del momento opportuno. Eravamo lì per fare accordi, non sgozzarci a vicenda.

«Il locale è chiuso, adesso.»

«Non proprio» fece Erik, con un cenno all'ubriaco al bancone. Per tutta risposta, questi continuò a russare sonoramente.

Il locandiere – Jean? – avvampò. Il suo naso dai capillari scoppiati divenne ancora più rosso. Ora rassomigliava a una mela un po' troppo matura, complice anche la rotondezza del suo ventre.

«Chi siete, Messieurs?»

Di nuovo, ero stata scambiata per un uomo. Perfetto, pensai sarcasticamente. Ma in fondo, non era quello che volevate?

«Non mentire: mi riconosci. Quante altre volte hai veduto un uomo in maschera passare di qui?» fu di nuovo Erik a parlare, con voce di seta.

«Solo una volta, e molti, molti anni fa» disse Jean, come colpito da un fulmine. «Allora era un ragazzo in giro per il mondo. Che tu sia proprio…?»

Non fece in tempo a concludere la frase che un'altra voce lo interruppe. «Già, sembrerebbe essere proprio lui, no? Il vecchio Erik. O dovrei dire Azrael? Hai molti nomi: quale ti è più congeniale?»

Chi aveva parlato? Mi guardai in giro, individuando la fonte di quelle domande sarcastiche: era l'ubriaco al bancone. Solo che non era poi così ubriaco, e aveva soltanto finto di dormire. Era un uomo di bell'aspetto, dalla carnagione olivastra, con corti capelli scuri e occhi penetranti della stessa sfumatura nocciola, insidiosa. Era più giovane del nostro guerriero migliore, Erik, ma non era armato.

In un lampo – non ebbi neanche il tempo di ammiccare – Erik estrasse il laccio del Punjab da sotto il mantello e il Persiano la sua pistola. Di conseguenza, anch'io tirai fuori il mio coltello.

Lo sconosciuto sollevò le mani in un gesto di muta resa. «Ehi, ehi, andiamoci piano, con quelle armi.»

«Non voglio spargimenti di sangue nel mio locale» disse l'uomo che doveva essere Jean, d'un tratto livido in volto. Notai come non si fosse spostato di un millimetro dalla sua postazione dietro il bancone.

«In passato, mi permettesti un viaggio verso la Turchia su una delle tue navi da contrabbando» disse Erik a Jean, senza però staccare gli occhi dallo sconosciuto dall'incarnato bruno. «Ora credevo che, grazie all'oro che portavo con me, me ne avresti concesso un altro. E invece chi mi ritrovo nel tuo locale? Scagnozzi della regina.»

Guardai l'uomo che si era finto ubriaco con un improvviso accesso d'odio. Se era un uomo della Khanum, allora lo avrei eliminato io stessa, e con piacere, se Erik e Nadir mi avessero lasciata libera di agire senza interferenze…

«Devi anche specificare di quale regina, però» disse l'uomo con un mezzo sorriso irriverente. Provai l'istinto di fargli provare il gusto del mio coltello su quella lingua lunga che si ritrovava.

«Di che cosa sta parlando?» chiesi, stizzita.

Fu Monsieur Nadir a rispondermi. «Non porta il simbolo della rosa rossa. Perlomeno non dove lo possiamo vedere. Deve essere un uomo di Ezzat, la sorella della Khanum.»

Ezzat, certo. Ora rammentavo: Senza Nome ne aveva accennato nei suoi disumani interrogatori. Qual è la mappa del palazzo di Ezzat? Un brivido mi corse lungo la spina dorsale al ricordo.

«Non voglio guai… regali, qui dentro.» Certo che quel Jean era proprio un codardo.

«Nessun guaio, amico» rispose il finto ubriaco con un altro sorriso irriverente.

«Amir» disse Jean, il naso che sembrava esplodere tanto era rosso e vistoso il suo colore, «mi avevi detto che sarebbero venuti, ma mi avevi promesso che non si sarebbe verificato alcuno scontro. Non voglio il mio locale sporco di sangue.»

«Sarà pieno d'oro quando ce ne andremo» fece l'uomo chiamato Amir.

«No, sarà pieno del tuo, di sangue, vecchio» ribattè Erik in un sibilo, puntando il laccio del Punjab verso Jean e tenendo allo stesso tempo d'occhio Amir, che continuava a ridersela, come se avere dinanzi l'Angelo della Morte non contasse nulla, «se non mi spiegate cosa succede. Entro un limite di tempo ragionevole, s'intende.»

«Il daroga ha ragione.» Amir fece un cenno col capo a Nadir. Notai che non aveva ancora abbassato le mani. «Ezzat è la mia regina. E nessun altra. È lei che mi comanda di portarti nel suo palazzo, Azrael.»

Ora anche questa Ezzat ci dava la caccia? Non bastavano i sicari dello Shah?

«Come può la Persia avere due regine?» dissi io, corrugando la fronte.

«É possibile. Ma ancora per poco.»

«Che vuol dire?» continuai io in tono duro, nella speranza di chiarire l'ingorgo che avevo al posto del cervello.

Amir fissò i suoi caldi occhi scuri su di me. Sembrò squadrarmi per un attimo, prima di rispondere: «Sua Maestà Ezzat non vi cerca per prendervi prigionieri e poi uccidervi. Cerca Azrael per un solo motivo.»

«Le servo» aggiunse Erik, corrucciato e meditabondo. Chiaramente, stava pensando se strangolare sul momento quel tipo di nome Amir, tutto sorrisi sprezzanti, oppure no.

«Ma certo che sì, Azrael. Per vincere una volta per tutte la cosa più importante.»

«Che cosa?» chiesi in un sussurro.

«Il potere.» Fu Erik a rispondere, con voce misurata. «L'unica cosa che conti.»

«Perspicace, Azrael» fece Amir in tono impudente.

«Ed Ezzat vuole prendere il posto della sorella come Khanum?» chiesi. Ora cominciavo a inquadrare i vari tasselli.

«Sua Maestà Ezzat vuole diventare Khanum al posto della sorella minore. Il trono è suo di diritto. Suo figlio Roshak dovrebbe regnare come Shah.»

Ora capivo. Si trattava di una partita letale nella quale ci avevano tragicamente coinvolti. Lo eravamo fino al midollo, perché loro – adesso ne comprendevo il motivo – avevano bisogno di Erik.

«Vi servo per svelare i segreti del palazzo di Mazenderan. Il palazzo dell'attuale Khanum, Assiye, la sorella della tua regina.»

Era strano per me udire il nome della Khanum lanciato lì sulla scacchiera come un pedone comune. Era anche il nome che rivangavo nella mente ogni volta prima di arrendermi a Morfeo, quando la stanchezza cedeva il passo agli incubi che mi perseguitavano – incubi di sangue e materia organica e sangue e ancora sangue. Dovunque: sui corpi dei miei poveri genitori, di Senza Nome… Dentro di me, sentivo una calma gelida afferrarmi, come se il mio cuore fosse avvinto nel pericoloso nodo scorsoio del laccio del Punjab. Stavo stringendo fino a ridurlo in briciole. Più Erik diveniva umano, meno io mi sentivo costretta nelle maglie dell'umanità. Eravamo l'uno lo specchio distorto dell'altra. Il mio oscuro riflesso… pensai.

Lo guardai. Sembrava immerso in una profonda meditazione.

«Possiamo fidarci?» chiese Nadir, più a se stesso che ad Amir.

Quest'ultimo annuì lentamente. Aveva ancora le mani sollevate in quella dichiarazione di pace e resa muta. «Siamo amici, o perlomeno così spero. La mia regina non ha alcuna intenzione di farvi del male. Tu la conoscevi, Azrael. Non è come sua sorella. Non è come il ragazzo Shah.»

Erik deglutì, stringendo gli occhi.

«Deduco che non abbiamo scelta» disse infine, in tono moderato. «Non credo affatto che tu sia giunto fin qui a mani vuote e senza una scorta. Come sapevi che saremo venuti in questo postaccio?»

«Ezzat era sicura che saresti passato per Calais come l'ultima volta che sei fuggito dalla Persia. Per tutti questi anni, ha sempre saputo che eri vivo, ma non ne ha mai fatto parola con nessuno.»

«E viene a cercare adesso il mio aiuto?»

«Necessita di alleati, non di nemici. Sarete liberi di andarvene, se lo desiderate. Non vi staremo alle calcagna, a differenza di qualcun altro.» Qui l'uomo di nome Amir si arrestò, con fare eloquente. «Se venite con noi, sarete più al sicuro, poiché vi proteggeremo.» Questa volta si rivolse direttamente ad Erik: «Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Azrael. Per vincere una guerra civile. Molti popolani hanno formato una resistenza contro il regno dell'attuale Shah, Naser, che in fondo è solo un burattino della madre. È la Khanum Assiye a governare davvero. E tu la conosci, Azrael: è crudele, una tiranna. Ezzat sarebbe una regina più adatta. Conoscevi anche lei, e la sua saggezza.»

Quindi erano le due donne a comandare: i loro giovani figli non erano altro che pedoni sacrificabili. Erik si accigliò, e così anche il Persiano. Io stessa corrugai la fronte, le dita ancora strette con veemenza attorno alla daga. Che cosa potevamo fare? Quale scelta avevamo?

«E va bene. Verremo con voi.» Erik e Nadir si scambiarono uno sguardo d'intesa. Entrambi erano giunti alla stessa proposizione.

«Tu che ne dici?» mi chiese infine Erik.

Meditai: andare in Persia… mi pareva ancora più difficile dell'America. Presto sarebbe esplosa la rivoluzione, di cui non saremmo stati che detriti. Ma se andavo in Persia, potevo essere vicina alla Khanum e al suo regale figlio. L'odio mi ribollì nelle vene, fiele di una vendetta a lungo ponderata.

Annuii e diedi il mio muto consenso.

«Bene!» esclamò Amir, battendo le mani sul bancone. Il bicchierino di rum ancora mezzo pieno sobbalzò insieme al tavolo. «Sapevo che sarei riuscito a convincerti. Devo dirlo subito agli altri – dobbiamo partire in fretta.»

«Agli altri?» sibilai, sempre con la daga in allerta.

«Beh, il tuo amico mascherato l'ha detto, mi pare. Non mi sarei arrischiato a fermarmi in questo posticino delizioso – nulla di personale, Jean – se non avessi avuto con me un certo numero di compagni. Su, andiamo. La carrozza ci attende, ragazzo.»

«Sono una ragazza» precisai, ormai stanca di quella mascherata.

Amir s'inchinò con fare giocoso. «Tante scuse, Madamoiselle. Non incontro molte donzelle con le braghe, di questi giorni. Andrai d'accordo con mia moglie. Anche a lei piacciono i pantaloni.»

Mi accigliai, sospettosa. L'uomo lasciò un sacchetto pieno di monete d'oro sul bancone e, con un altro mezzo inchino rivolto al vecchio Jean, si diresse verso l'uscita della locanda, aspettandosi che lo seguissimo.

«Il tempo non ti ha reso giustizia, Jean» fece Erik al vecchio contrabbandiere, che appariva sgomento. Poi ripose il laccio del Punjab in un risvolto del lungo mantello e seguì le orme di Amir fuori dall'uscio, nella notte fresca di inizio Maggio. Nadir ed io lo imitammo, non senza prima lanciare una breve occhiata alla locanda che ci lasciavamo alle spalle. Vidi la testa di Danielle, la servetta, spuntare dalla porta sul retro, e il naso rosso del vecchio Jean, che appariva molto felice di essersi liberato di noi.

Non salutai e mi infilai la daga nella cintura. Anche quello era solo un altro posto che sarebbe divenuto polvere nei miei ricordi, un cumulo di cenere disperso nel vento.

 

 

Scoprimmo che Amir aveva portato degli amici con sé – molti più di quanto ci aspettassimo, in realtà. Il brigantino a palo di cui era capitano possedeva tutta l'apparenza di un semplice natante mercantile, ma in realtà era un covo di pirati e mercenari della peggior sorta. Sulla tolda della nave, la luna rischiarava i buchi neri che erano gli occhi di Erik mentre si guardava intorno con diffidenza.

«Non siete mai salita su una nave, vero, Meg?» mi chiese Monsieur Nadir, con l'usuale tono gentile con cui mi si rivolgeva.

Scossi il capo. Guardai la grande vela ripiegata su se stessa, che presto si sarebbe gonfiata per il vento, se questo avesse avuto la grazia di esserci favorevole. La ciurma ci fissava con curiosità, e sogghignai tra me e me nel vedere con quanto timore reverenziale occhieggiassero Erik, che tuttavia appariva indifferente.

«Sei famoso da queste parti, Angelo della Morte» gli dissi in tono sarcastico. Lui emise un lieve sbuffo di fastidio.

«Preferirei essere chiamato Erik. Almeno da te.»

«Stavo solo scherzando. Come sei permaloso… E comunque, io ti chiamo come voglio» risposi con impertinenza. Lui rinunciò a piegarmi, poiché sapeva che era vano, e si rivolse al capitano.

«Quanto durerà il viaggio fino in Persia?»

«Circa un mese e mezzo» rispose invece una donna con un pesante accento straniero. Aveva la pelle scura e splendidi occhi grigio ardesia, simili in bellezza a quelli del Persiano. Era abbigliata con modesti abiti di lino, un velo intorno al capo, ma notai le braghe di cuoio resistenti e gli stivali alti fino al ginocchio, una spada infilata nella cintura. Una vera spada, non il giocattolo con cui mi trastullavo io e che avevo rubato a Senza Nome.

«Poi dovremmo attraversare parte del Paese non appena saremmo arrivati alla sponda sud. Questo dopo aver superato lo stretto di Gibilterra, il Mar Mediterraneo e una frazione dell'Egitto. Circumnavigare l'Arabia e lo Yemen è l'idea migliore: in questo modo, non dovremo oltrepassare i confini nazionali» continuò lei, incrociando le braccia al petto. Malgrado gli abiti modesti, non potei non notare che il suo era molto più generoso del mio, il che mi fece corrugare la fronte. Quella sì che sarebbe stata difficile da scambiare per un uomo, e la invidiai un tantino per questo.

«Una parte del Paese? E anche una frazione dell'Egitto, dite. Non sarà pericoloso?» disse Nadir, accigliato.

«Sì, ma in Egitto abbiamo nostre spie fidate. In Persia, a metà strada ci uniremo all'esercito di Sua Maestà Ezzat e suo figlio Roshak.»

«Ci attende comunque un duro cammino» proseguì lui. Era vero: avevamo avuto esperienze spiacevoli durante il nostro, di viaggio sulla terra ferma. Chi ci assicurava che non avremmo potuto incontrare dei soldati della Khanum nel bel mezzo del deserto persiano?

«É l'unica strada che ci attende» concluse Amir, e vidi Erik annuire impercettibilmente. Era d'accordo, e lo ero anch'io: non vedevo altre soluzioni.

La donna dai begli occhi grigi mi porse la mano inaspettatamente. «Sono Darya» disse con un lieve sorriso bianco neve. «E ho sposato questo idiota.» Fece un cenno ad Amir, che parlava fitto con il Persiano e che quindi non poteva udirci. Le mie labbra si schiusero in un sogghigno.

«Se lo consideri un idiota, perché lo hai sposato?»

«L'amore è una follia, piccola.» Per fortuna lei aveva riconosciuto in me delle fattezze femminili. «Non sono piccola. Non lo sono più da molto tempo. Ho ventuno anni, ormai» risposi. Lei arretrò, visto il tono duro della mia replica.

«Ti chiedo scusa, allora. Vestita in questo modo, sembri più giovane.»

Mi rilassai, accarezzando la punta della daga che avevo infilata nella cintura. «Lascia perdere. Io sembro sempre più giovane.»

«Avete tutti un aspetto terribile» commentò Darya, serrando i suoi occhi da felino e scrutandoci con attenzione. Erik e Monsieur Nadir stavano ancora parlando col capitano, Amir, del viaggio che ci attendeva, e all'apparenza avevano mostrato poca attenzione a quella donna vestita in modo tanto singolare, ma sentivo lo sguardo di Erik che mi bruciava la nuca. Nulla poteva sfuggire ai suoi occhi dorati.

«Facciamo davvero tanta paura?» domandai, corrugando la fronte. Darya rise, anche se brevemente. «Oh, no. Tu sembri solo un pulcino coperto di lividi. I tuoi amici, d'altro canto…» Capii che si riferiva soprattutto ad Erik. La maschera imbevuta di sangue non aiutava a rendere le sue fattezze meno minacciose. «Abbiamo un medico a bordo» mi informò Darya con voce melodica. «Vi apporterà tutte le cure possibili…»

«Neanch'io sono un pulcino» ribattei in tono ostile. La guardai negli occhi, per una volta fiera dei miei lividi, dei tagli che ancora esponevo sul volto e sulle braccia. «Ho ucciso un uomo, io. Per difendermi e fuggire, ma l'ho fatto. Non sono innocua come credi.»

Darya mi guardò severamente. «Allora sono tante le cose che di te non so… come posso chiamarti?»

«Meg andrà bene.»

«Meg» sussurrò lei, come assaporando il mio nome. Le piacque, quindi mi rivolse un breve sorriso, sebbene tetro. «Tu e i tuoi compagni avete comunque bisogno di un medico». Guardammo Erik e Nadir, ancora vicini ad Amir, che impartiva ordini in una lingua sconosciuta, probabilmente persiano – stavo cominciando a riconoscerne la cadenza, anche se non ne comprendevo una parola – ai suoi uomini.

«Il vento è favorevole» mi disse Darya, con la sua voce da donna sicura, esperta. Mi rammentava mia madre, in modo assurdo. «Sarà un viaggio tranquillo, se non incapperemo in qualche bonaccia. Ma anche in quel caso, andremo avanti a forza di remi. Abbiamo una forza non indifferente di uomini dalla nostra.»

Era vero: tutta la ciurma – una masnada di almeno cinquanta uomini – si agitava sulla tolda, sul ponte di comando, diretta ai loro posti. Saremo scivolati nella notte come spettri.

«Alla dogana egiziana non ci scopriranno?» chiesi, chiedendomi come fossero i nostri rapporti con la marina del luogo.

«Abbiamo delle credenziali – e dei precedenti. Crederanno che questo sia un natante mercantile. È carico di spezie e tessuti, sai. Va sempre bene per simulare uno scambio di merci.»

«Eravate da quel Jean e i suoi contrabbandieri per questo.»

Darya annuì, squadrandomi con attenzione. «Sei sveglia. Ora vai sottocoperta, ti mostrerò la tua stanza. Un bel bagno dovrebbe farti bene.»

 

 

L'acqua era salata, ma pur sempre acqua. Strofinai la spugna contro la mia pelle indurita dalle intemperie, mentre la nave avanzava placidamente tra le onde bagnate dai raggi di luna. Eravamo diretti verso un luogo a me sconosciuto, e la nostra meta avrebbe dovuto farmi paura, ma più che altro mi sentivo insensibile: niente aveva più senso adesso, non ora che…

Strofinai più forte, liberandomi definitivamente dei pidocchi, guardandoli galleggiare, stecchiti, nell'acqua. Ero immersa in una tinozza, nel mio cantuccio sottocoperta. Darya mi aveva mostrato come riempirla d'acqua e persino il sapone da usare. Quella donna mi piaceva: era sinceramente gentile, non aveva un duplice scopo nei nostri riguardi. E questo era una rarità.

Pensai ad Erik e Nadir, a cui Amir aveva mostrato, in modo simile a come Darya aveva fatto con me, tutto ciò che poteva loro servire nei loro nuovi cantucci sottocoperta. Avevamo persino una branda tutta nostra, e dormirvi sopra sarebbe stato meraviglioso: non riposavo su una superficie morbida da quel che parevano eoni. Pensai in particolare ad Erik, con la sua ferita al volto. Avrebbe acconsentito a farsi curare da un estraneo? Sperai di sì, per il suo bene. Era ostinato, ma non tanto ottuso da non capire il pericolo che correva altrimenti.

«Non così forte, potresti spellarti quel poco di pelle che hai attaccata alle ossa» disse una voce familiare. Smisi di strofinarmi e mi voltai: Darya era sulla soglia del mio nuovo cantuccio, con in mano quello che mi parve un involto di abiti puliti che depose sulla branda. Mi sorrise: aveva un sorriso affilato quasi quanto quello del marito.

«Sei un pirata anche tu?» chiesi, curiosa mio malgrado.

«Per adozione» rispose lei, incrociando le braccia al petto. I miei occhi non lasciavano mai la spada che portava alla cintura, e lo notò. «Questa? Un giocattolino col quale mi piace trastullarmi come un gatto fa col suo gomitolo.»

«Tuo marito ti permette di indossare braghe e andare in giro armata.»

«Siamo su una nave di pirati ed io sono l'unica donna a bordo, cosa ti aspettavi? E poi, non è mio marito che me lo permette. Sono io che l'ho deciso.»

Corrugai la fronte, gli occhi posati sul capo velato che si andavano a fermare poi sulla spada alla sua cintura. «Pensavo che i musulmani fossero persino più severi dei cristiani riguardo simili… particolari.»

«Amir non è mai stato un tipo particolarmente religioso. E se avesse mai tentato di proibirmi qualcosa…» Darya sorrise – di nuovo quel sorriso affilato come un rasoio. «Lo avrei sgozzato nel letto nuziale. E lui questo lo sa.»

Deglutii. Questa donna mi piaceva sempre più.

«Prima mi hai dato del pulcino.»

Lei chinò il capo, in segno di scusa. «Non sapevo con chi avevo a che fare.» Colsi una nota beffarda in quella risposta, e mi accigliai.

«Lo sembro così tanto? Un pulcino, intendo.»

«Sembri sperduta, come una bambina» Darya meditò a fondo prima di parlare. «Non spaventata, ma realmente senza bussola.» Serrò gli occhi felini e mi squadrò, ancora nuda nella tinozza, con curiosità e acutezza insieme.

«Non voglio più avere un'apparenza simile. Voglio essere sicura, indomabile. Cosicché nessuno possa più farmi del male. A me e alle persone che mi sono care.»

«E quel singolare uomo che attualmente nella stanza accanto sta facendo tante storie perché non vuole togliersi la maschera è una di queste persone?»

Il solito Erik. Sospirai.

«Anche se lo fosse?» chiesi in tono di sfida.

«Hai degli amici particolari. E potenti. Di certo non adatti a un pulcino.»

«Perché non sono un pulcino. Voglio essere una fiera.» Come avevo detto ad Erik quel che sembrava un'eternità prima? Se non posso essere viva, non come un tempo, allora voglio essere padrona della morte.

Darya mi scrutò con tutta l'attenzione dei suoi occhi grigi, magnetici. È molto bella, pensai con rammarico. E davvero capace di sgozzare un uomo nel letto nuziale.

«Anch'io ero come te. Quando ho incontrato Amir, lui era già una fiera, come dici tu. Mi ha insegnato come diventarlo, a suo rischio e pericolo – o meglio, mi ha dato qualche indicazione. Io ero già sulla buona strada. Il percorso da terminare era mio e soltanto mio. Essere sua moglie non sarebbe stato facile. Non volevo essere un peso, un costante tesoro da proteggere. E pertanto ho imparato l'arte della spada, cosicché nessuno potesse farmi del male, proprio come dici tu.» Chinò il capo nella mia direzione.

«Esistono diverse tipi di armi che una donna può usare in questo mondo, proprio come un uomo. Le lacrime, il cuore, la lingua, la spada… e anche qualche altra cosa.» Ridacchiò vedendomi ammiccare mio malgrado, poiché avevo inteso l'antifona. «Io ho scelto la mia. E tu, pulcino… quale sarà la tua scelta?»

Uscì con un inchino, lasciandomi a meditare.

 

 

Entrai nella camera destinata ad Erik con indosso una camicia e dei calzoni puliti, sebbene un po' larghi per la sottoscritta, soprattutto poiché dopo la tempesta che si era abbattuta su di noi ero molto smagrita. Anche Monsieur Nadir era lì, e mi accolse con un debole sorriso paterno.

«Meg» disse, poggiandomi una mano su una spalla con fare protettivo. Con il capo, fece un cenno all'uomo che si agitava sulla branda a qualche passo da noi, e sospirammo all'unisono. Se qualcuno al mondo poteva comprendere il mio stato d'animo conflittuale nei confronti di Erik, quel qualcuno era il Persiano.

«Voglio uno specchio» sibilò il fantasma dell'Opera in persona – o Angelo della Morte: come avrei dovuto definirlo? – incrociando le braccia al petto, in un segno di ostinazione che si poteva dire eloquente in tutte le lingue del mondo.

Il medico scosse il capo. «Non sarebbe una buona idea, signore. Proprio non…»

«Lo so bene, cosa credi? Via, dunque, datemi uno specchio. Non mi sembra di aver chiesto nulla di introvabile.»

L'uomo che fungeva da medico di bordo, pasciuto e vagamente pallido (non sembrava felice di occuparsi di un paziente come il nostro Erik, e non potevo biasimarlo), scambiò un'occhiata con Monsieur Nadir. Quest'ultimo annuì, e io alzai gli occhi al cielo.

«Davvero, Erik, non mi sembra il momento di…» iniziai, ma lui mi dardeggiò contro un'occhiata fulminante e io tacqui, sollevando le mani in segno di resa. «Come vuoi tu» mormorai, stizzita. Se non ci dava retta, tanto peggio per lui.

Quando il medico gli porse lo specchio, Erik si sfilò la maschera e i rudimentali bendaggi intorno alla ferita e lanciò un'occhiata al suo riflesso. La sua smorfia poteva pareggiare con la mia. Sembrava sul punto di scoppiare a ridere… o in lacrime, cosa che avrebbe fatto venire i brividi a tutti comunque. Con un mugugno incomprensibile, lasciò cadere lo specchietto sul letto che occupava, e il medico si affrettò a recuperarlo.

«Monsieur sarà lieto di sapere che è stato fortunato. La ferita avrebbe potuto portargli via una parte del naso se…» Qui il medico si fermò, ingarbugliandosi nel suo stesso francese stentato. Se effettivamente avesse avuto un naso, conclusi io nella mia mente. Erik dovette giungere alla stessa conclusione, perché si aprì in un sogghigno orribile alla vista. «Che dire: sono nato fortunato» disse, sarcastico. Poi lanciò un'occhiataccia al medico, che arretrò d'istinto.

«B-bisogna disinfettare la ferita e ricucirla. Se Monsieur me lo permette…»

«Monsieur non te lo permette.»

«Ah» il medico arretrò ancora.

«Erik» disse il Persiano in tono d'avvertimento, incrociando le braccia al petto. Il fantasma lo ignorò.

«Andiamo, Erik» mi intromisi io, stufa di quei giochetti. «Invece di spaventare mezzo equipaggio, potresti essere più collaborativo. A nessuno piace la tua ferita, a te meno che a tutti. Fatti curare, avanti. E non fare storie come un bambino capriccioso.»

«Non sono un…» esordì lui, poi si fermò, forse rendendosi conto di quanto ciò che stesse per dire apparisse effettivamente infantile e petulante. «E va bene» fece un cenno al medico, ancora spaventato. «Sistemiamo questo orrore.»

Nadir ed io sospirammo di sollievo. E anche questa è fatta, pensai, sentendomi meglio ora che Erik avrebbe ricevuto delle cure appropriate e dopo essermi lavata a fondo.

«Non credevo fosse possibile per me diventare ancora più brutto. A quanto pare mi sbagliavo» lo sentimmo mugugnare con sarcasmo al povero dottore, che annuì tutto contrito e concentrato sul suo lavoro di tetro ricamo.

 

 

Il medico ci diede una qualche pasta da spalmare sui lividi e i tagli che ancora esponevamo sulla pelle nuda – i miei erano diventati di un inquietante colore giallastro – e ci raccomandò di riposare bene, quella notte, sulle nostre nuove brande. Io annuii in risposta, chiedendomi quanti uomini dell'equipaggio sapessero parlare almeno un po' di francese. Sapevo che se usavano quel particolare idioma era per rendersi comprensibili alle mie orecchie, dato che sia Nadir che Erik ovviamente conoscevano il persiano.

Mi rigirai nella brandina: no, il sonno non riusciva proprio a cogliermi impreparata. Era come se delle mura difensive mi proteggessero dall'abbraccio liquido di Morfeo.

Salii sopraccoperta, avvolta solo nei miei calzoni e nella camicia di lino leggera. Un brivido mi percorse verga a verga, ma lo ignorai. Volevo avere la luna negli occhi, come pozze di pioggia astrale nelle mie orbite. Mi sporsi dalla murata, osservando l'acqua nera come la notte punteggiata da esili spruzzi lucenti, riflessi delle stelle lontane. Un moto lento e regolare mi cullava, ma non mi facilitava il sonno. Sentii solo una lieve nausea. Tutti gli altri uomini dell'equipaggio dormivano sottocoperta, eccetto la sentinella sulla torre di guardia. Osservai le vele che si lasciavano gonfiare dalla lieve brezza notturna.

«Non riesci a dormire?»

Quella voce impossibile mi tintinnò nelle orecchie, e la accolsi, non sapendo se con benevolenza o semplice accettazione.

Appoggiato con grazia alla murata del natante, Erik mi guardava a braccia incrociate, il volto coperto dalla solita maschera, e non solo: a fasciargli il viso vi erano anche certe garze che delicatamente gli coprivano la carne dalla fronte al buco che aveva in luogo del naso.

«E tu?»

Erik scosse il capo. «Oramai ho bisogno di dormire di rado. Mi sono abituato a una vita senza sonno.»

«Non mi sembra salutare.»

«Siamo in due, allora. Da quanto non dormi come si deve, Meg?»

Non soddisfai il suo interesse nei miei riguardi. La risposta era palese. Da quando siamo partiti. Da quando mia madre è morta. Da quando ho ucciso Senza Nome.

«I sogni mi rammentano ciò che vorrei dimenticare. E ci sono altre cose…» corrugai la fronte, tracciando con le dita arabeschi invisibili sul legno scuro della murata, «… cose che non posso e non devo dimenticare. Ma mi tormentano. Sono un'ossessione impronunciabile.»

«Puoi parlarne?» Era una domanda, quasi che non fosse sicuro delle mie intenzioni verso di lui. Lo guardai in quei suoi occhi inumani, eppure stille di emozioni si coglievano in lui solo attraverso quelle orbite dorate, appena visibili oltre la maschera.

«Con te… Sento che posso parlare di molte cose» gli confessai, chinando lo sguardo, «e quindi anche di questa.» Sospirai. «Non riesco a non pensare che… di mia spontanea volontà… sono divenuta un'assassina. E la mia brama di sangue non si è placata.» Lui sapeva a che mi riferivo. «E non posso non pensare che, se vi cedo… forse, solo forse… ora non sono tanto diversa da loro. Pronta ad uccidere chiunque pur di ottenere quello che voglio. E se fosse come un contagio, e se la malvagità che mi circonda mi avesse scolpito nonostante la mia anima, la mia volontà fossero differenti? Se una parte di me fosse irrimediabilmente crudele, se…»

«Meg, tu non sei crudele

«Potrei esserlo.»

«In molte circostanze e, con più esattezza, in quelle in cui ti sei ritrovata tu, molti lo sarebbero.»

«Sì, e anche nel tuo caso. Ma tu stesso mi hai detto che…»

«… non sono “molti uomini”, sì, credo che tu te ne sia accorta, ormai. Ma tu sei… tu. Diversa da qualsiasi altro.»

«Una parte di me ora lo è in modo insanabile.» Lo fissai dritto negli occhi. «Se ricordi, mi hai promesso un cuore.»

Lui s'irrigidì. «Non hai ancora mutato idea in proposito.»

«No, non potrei mai.» Strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie scorticate nella pelle. Avevo ancora le dita coperte di piccoli tagli provocati dalla pietra aguzza con cui avevo ucciso per la prima volta. «Loro hanno fatto del male a mia madre, Erik. Un male irreparabile. Come potrei cambiare idea? Tutto ciò che voglio è il cuore della Khanum nel palmo della mia mano.»

«Non ti renderebbe felice, alla lunga.»

«Tu dici? Scommettiamo.»

«Meg, non ti restituirebbe tua madre.»

Mi morsi un labbro. «Questo lo so. Ma cos'altro mi resta per cui vivere? Mi sembra di annegare nel nulla…»

Erik fece per sfiorarmi una spalla, ma si fermò, con mia grande delusione. Rabbrividii, ma non per la paura, né il freddo. Io volevo che la sua mano si posasse su di me, in modo da trarne… cosa, conforto?

Dovevo essere impazzita sul serio.

«Temi di cedere al nulla che ti assale, lo capisco» disse lui, chinando il capo. «Poi non ti resterebbero che la follia e il dolore… Credimi, lo so. Ho già provato tutto questo in passato. Ma tu sei forte, Meg – non cedere, non commettere i miei stessi sbagli. Una volta mi dicesti di non diventare il mostro che loro temevano che fossi. Ora io ti dico di non abbandonarti a quegli istinti violenti che senti agitarsi nel tuo animo, perché è ciò che vorrebbero loro. Io ti ho promesso un cuore, è vero… E lo avrai, alla fine di questa storia. Ma tu dovrai solo avere coraggio e combattere con te stessa. Non perderti, non diventare ciò che non sei.»

Non diventare come me.

Feci una smorfia. «Pazza come mio padre? O crudele come chi ha ucciso mia madre?»

«Tutte e due le cose. Vedi, alla lunga ho imparato… che la violenza non è la risposta a tutto. Per persone come noi può essere un sacrificio enorme, ma ne vale la pena, davvero.»

Christine, pensai. Non avrei mai creduto di udire queste parole uscire dalla sua bocca. Ma l'amore di Christine lo aveva davvero trasformato.

«Sei in cerca di un cuore, ma non perdere il tuo, frattanto. Non farlo. Sarebbe una perdita incommensurabile.» Il tono di Erik era venato di tristezza.

«Ti dispiacerebbe vedermi persa?»

«Mi dispiacerebbe se tu facessi qualcosa di cui poi ti pentiresti. Inoltre, tua madre non avrebbe mai voluto che ti lasciassi consumare dall'odio.»

«Mia madre non avrebbe voluto che accadessero tante cose, Erik.»

Guardammo in silenzio la distesa marina dinanzi ai nostri occhi spenti: era punteggiata di stelle, come schizzi su una tela lasciati dal pennello di un pittore distratto. Dio – se esisteva – era in quel riflesso, in quella notte. Sentii la presenza del creato, pulsante e fiera, come mai prima d'ora.

«Vorresti dormire con me?»

Erik mi lanciò un'occhiata sbalordita, come se mi fossero diventati d'un tratto i capelli blu.

«Cosa?»

Lo vidi arrossire – o meglio, le sue orecchie assunsero una spiacevole tonalità tulipano. Io stessa esplosi in una risatina idiota. Così posta, sembrava una domanda indecente.

«Voglio dire» mi affrettai a correggere, «se ti va di fare come facevamo all'Opera. Potremmo parlare finché non ci addormentiamo, e trascorrere così la notte.» Sapevo che anche il suo sonno era travagliato da incubi. Era anche per questo che si era abituato a dormire poco – il necessario per sopravvivere ed essere in forze, perlomeno.

«Non ho nessun libro da leggerti.» Ricordai con nostalgia quando mi leggeva Il conte di Montecristo per farmi compagnia nelle mie notti agitate. Era così che era nato il nostro… rapporto, per quanto bizzarro potesse sembrare ad occhi esterni.

«Non fa niente, ci inventeremo qualcos'altro. Vieni.» Lo afferrai gentilmente per un polso e lo guidai fino al mio abitacolo sottocoperta. Mi distesi sulla brandina con movimenti resi goffi dai lividi che ancora portavo sulla pelle come vessilli della vita e dell'innocenza che avevo perduto. Gli feci cenno di accomodarsi accanto a me. Lui si sedette al mio fianco, esitante.

Chiusi gli occhi. «Parla.»

«E cosa dovrei dire?»

«Qualunque cosa. Per distrarmi.»

«É solo per questo che vuoi che ti parli?»

Scossi lievemente il capo. Alzai lo sguardo verso di lui. Le sue pupille feline brillavano nel buio come scaglie di diamante – spezzato dal dolore, dalla tempesta che era la sua esistenza da quando aveva messo piede in questo mondo.

«La tua voce» risposi semplicemente. Non c'era suono più bello per le mie orecchie.

Lui comprese, perché chinò lo sguardo sulla mia forma minuta, le mani giunte in grembo come in attesa di qualcosa che non aveva nome.

Annuì e dischiuse le labbra in un canto sconosciuto, composto da parole straniere che non riconoscevo. Manteneva la voce bassa, per non farsi udire dal resto dell'equipaggio, ma io potevo sentirlo benissimo riverberare nella mia mente – le sue doti di ventriloquo erano, come sempre, eccellenti. Mi riempiva le orecchie e il cuore come il mare. Un brandello di paradiso al centro dell'inferno.

«É una ninna nanna gitana. La imparai quando non ero che un ragazzino in giro per il mondo» mi spiegò con pazienza. Poi ricominciò a cantare.

La sua voce! Se esistevano poche parole per descrivere l'orrore del suo volto, ebbene, nessuna era in grado di rendere chiaramente la meraviglia che era la sua voce. Pungolava in me corde sconosciute, e mi sentivo fremere dall'interno. Cullata dall'angelo, i miei pensieri si schiarirono, scevri di memorie di sangue e vite distrutte. Ora esisteva solo la voce, e il corpo di Erik che sfiorava il mio sulla brandina stretta che condividevamo. Provavo un calore indefinito in tutte le membra, ma lo ignorai. Lo sentii sfiorarmi – solo sfiorarmi – qualche ciocca di capelli ribelle dalla fronte, delicato come una lacrima su una pelle vergine.

«Dormi, Meg. E non pensare. Fai buoni sogni.»

Ci addormentammo con il mio capo poggiato sulla sua spalla, la sua testa china sulla mia, cullati dalla marea andante. Quella notte, sorprendentemente, nessuno di noi venne assalito da un incubo.




Note dell'autrice: Vi avevo detto che ci sarebbe stata una scena carina tra Erik e Meg in questo capitolo. Che ne pensate dell'idea di farli andare in Persia? Ve l'aspettavate o meno? Erik è davvero cambiato dopo tutto ciò che è successo con Christine, ma non temete, non è diventato un santo, e penso proprio che mai lo diventerà. Ha solo capito i suoi errori, e meno male: il rapporto tra lui e Meg non avrebbe potuto sbocciare altrimenti. Da questo chapter in poi ci saranno non pochi OC, spero che vi piacciano perché sono un po' come delle mie creature. :D
E ora, le fantastiche recensioni:

ondallegra: Sono così contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Ci saranno altri momenti crudi, comunque. Niente di troppo esagerato, però. Spero che continuerai a seguirmi in questa follia! Attualmente sto scrivendo il 33° capitolo (oh mamma mia, non posso credere di essere arrivata a tanto), e spero di finire la storia prima di Natale. Non ci conto troppo, però. Un bacio e grazie mille per aver recensito! :3

bibliofila_mascherata: Tu mi vuoi far piangere, vero? No, perché leggendo la tua recensione ero davvero toccata. Scrivere è la mia vita, e un giorno spero di poter pubblicare un libro decente, secondo te ne sarò in grado? Ti ringrazio moltissimo per le tue splendide parole, mi fanno sorridere e riempire d'orgoglio come un pavone allo stesso tempo. Anche tu hai notato la somiglianza tra Meg e Arya? Come ho già detto, l'ispirazione per tutta questa storia della vendetta mi è giunta leggendo Dumas, ma come avrai notato anche da questo capitolo, sono stata molto influenzata da Martin. Lo vedo un po' come un tributo, visto che mentre scrivevo questa parte della storia stavo rileggendo… mi pare il secondo o terzo libro della saga. Quali sono i tuoi personaggi preferiti di GoT? Per me è difficile scegliere, sono tutti così ben caratterizzati, ma direi Daenerys, Tyrion, Jaime, Arya (per l'appunto) e Brienne. Ma mi piacciono anche tanti altri! Il prossimo chapter, pensa un po', si chiamerà *rullo di tamburi* Il gioco del trono. Si capisce bene il perché. Tutta questa storia della sorella maggiore che viene scansata dalla sorella minore per il trono di Persia non ti ricorda un po' gli eventi della Danza dei Draghi? Anche se sono due cose molto, molto differenti, eh. :) Grazie mille per le tue dolci parole, un bacio! :3

debbythebest: Sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo, avevo un po' di dubbi in merito, e spero che ti piacerà anche questo. Apparentemente non sono più diretti verso l'America: adesso è la Persia la loro meta. Vanno proprio nella tana del leone, eh? Mi dispiace di averti fatta piangere, però. (Piangerai anche in seguito. Muhahaha. XD) Ci sentiamo al prossimo capitolo! Un bacio anche a te! :3

Malinconica: Sì, credo che il rating arancione vada bene, ma sai, per sicurezza volevo chiedere. Io sono abituata a thriller e scene di sangue, ma non posso guardare cose splatter che mi viene il vomito, quindi… sono un po' suscettibile. XD Per non parlare dei film horror: una volta ho visto (da sola, a quindici anni… pessima idea) Shining di Kubrick – il mio regista preferito – e ho sognato che un tizio mi voleva squartare con l'ascia mentre mi rincorreva. XD Che ne dici di Erik in quest'ultimo capitolo? È proprio dolce anche qui, vero? Sta diventando proprio un bravo guaglione come diciamo noi in Campania, ma mai un santo. Però migliora, fortunatamente per Meg. Un bacione, e alla prossima! :3
   
 
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