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Autore: futacookies    26/09/2016    4 recensioni
{Longfic • Duncan/Courtney • accenni Trent/Gwen e Alejandro/Heather • commedia romantica}
Duncan Nelson, scapestrata rockstar, nota al pubblico e ai paparazzi per l'eccesso con cui conduce la propria esistenza, viene citato in causa dal direttore dell'Ottawa Royal Palace, di cui - si dice - avrebbe distrutto numerose stanze durante la propria permanenza.
Al suo agente non resta che rivolgersi allo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen, per cui toccherà alla sua storica ex, Courtney, tirarlo fuori dai guai.
Dal capitolo 5:
Ma la voleva davvero, la sua attenzione? Oppure era unicamente uno stupido capriccio, l’ombra semisvanita di quello che una volta era stata, con lui? Non lo sapeva, ed era terrorizzata dall’idea di scoprirlo – non ci sarebbe ricascata in alcun modo, le ci erano voluti anni per liberarsi completamente di lui e adesso, che ci era finalmente riuscita, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggersi.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Heather, Trent | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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«Like every broken wave on the shore, this is as far as I could reach»
 
  • Capitolo IV
 
Courtney stava ancora cercando di contattare la maggior parte dei nomi presenti sulla lista che John le aveva procurato – considerando che un nome non era sufficiente per mettersi in contatto con qualcuno –, quando le arrivò una telefonata da parte di Gwen.
«Ehm, ciao, Courtney…»
«Gwen, che c’è?», ruggì al telefono, sbattendosi una mano in fronte – sperava davvero che qualunque cosa avesse spinto l’amica a chiamarla potesse essere risolta senza di lei.
«Ehm… sì, ecco… la signora Tobloskij ha appena chiamato al museo chiedendo di me.»
«Ah, davvero
«Sì, Court, davvero. Il problema è che io non posso muovermi, c’è un gruppo di americani alle dieci e mezza– ossia tra cinque minuti – e un gruppo di inglesi a mezzogiorno.»
«Be’, nemmeno io posso muovermi.»
«Ma il problema riguarda te!»
«E perché la signora Tobloskij avrebbe chiamato te
«Non aveva il tuo numero? Senti, non lo so. Ha detto che ha sentito degli strani e forti rumori provenienti da casa nostra e che ha chiamato la polizia – che però non può entrare per via della serratura blindata
«Duncan! Maledetto! Deve solo pregare che la notizia rimanga segreta quanto più a lungo possibile, altrimenti lo darò personalmente in pasto ai paparazzi.»
«Sì, certo, ne sono sicura. Gli americani sono arrivati, ti devo lasciare, magari ci vediamo per la pausa pranzo!»
«Gwen!», strillò contro la cornetta, ma fu inutile. Aveva già attaccato. Adesso le sarebbe toccato correre a casa, dire alla polizia che era stato tutto un grandissimo malinteso, che Duncan era soltanto un ospite turbolento e la signora Tobloskij una vecchietta facilmente impressionabile. Maledetti tutti e due. Ci sarebbe dovuto essere Duncan a fare la faticaccia che stava facendo lei, e non solo non la stava aiutando, ma le metteva pure i bastoni tra le ruote.
Nel momento in cui passò di fronte all’ufficio di Lizzie, ebbe un’illuminazione – un’idea così geniale che non sarebbe potuta venire a nessun altro.
«Lizzie, cara, ti disturbo?», le chiese, entrando.
«No, Courtney, affatto! Accomodati. C’è qualcosa che posso fare per te?»
Ecco, se c’era qualcosa che amava nel fatto che ogni anno arrivassero nuovi avvocati freschi di specializzazione, era il fatto che avrebbero fatto di tutto, pur di poter fare qualcosa.
«In effetti, sì. Ti andrebbe di darmi una mano con il caso Nelson? Ci sarebbero un paio di possibili testimoni da rintracciare – le carte sono sulla mia scrivania
Non le diede quasi nemmeno il tempo di terminare la frase che si alzò balbettando cose sul fatto che sarebbe stata felicissima e onorata di aiutarla e avrebbe fatto tutto il possibile e non l’avrebbe delusa per nessun motivo.
«Bene! Io devo correre a casa per un’emergenza, ma non dovrei metterci molto. Ci aggiorniamo tra un’oretta.»
 
***
 
«Sì, agente, le assicuro che è stato un malinteso», disse all’uomo in divisa mentre infilava le chiavi nella toppa della serratura.
«Sa, ieri è arrivato da Montréal un cugino della mia coinquilina, ed è un tipo un po’ sopra le righe…», spiegò, mentre lo conduceva nel salotto dove avrebbe dovuto trovarsi Duncan.
«Vede? È tutto a po…», non si preoccupò nemmeno di finire di pronunciare le ultime parole famose. Il salotto era messo sotto sopra e dal balcone si vedeva chiaramente un montacarichi.
«Duncan!», gridò e cominciò a sciorinare una serie di epiteti che avrebbero fatto arrossire un delinquente della peggior specie – ossia, per l’appunto, Duncan. «Cosa stai facendo, brutto idiota?»
«Donna, se strilli così mi fai venire il mal di testa!», esclamò in risposta, «E comunque, sto facendo sostituire il divano – la cosa più scomoda su cui le mie chiappe si siano mai posate!»
Il poliziotto, inerme spettatore della scena, stava chiaramente cercando di dire qualcosa, ma Courtney non gli badò nemmeno per un istante.
«Il mio divano! Era un regalo di mia madre! Come hai osato! Oh, ma vedrai, ti farò a pezzetti e ti darò in pasto al topo!», appena terminò quella frase, ci fu un attimo di silenzio nel quale si sentì Pimplebottom miagolare dall’ingresso.
«Fuori da casa mia! Fuori!», sbraitò rivolta al gatto, al che la signora Tobloskij – che stava indiscretamente assistendo a quello spettacolo – lo prese per la collottola e disse: «Courtney, cara, certo che ce ne andiamo! Se continui così non solo tu diventerai afona, ma io diventerò sorda!»
Nel momento in cui sentì la porta della casa della signora Tobloskij chiudersi, si rivolse all’agente e lo pregò gentilmente di lasciare l’appartamento, dato che – oltre la sua crisi di nervi incipiente – non avevano alcun tipo di problema. Il poliziotto tentò di dire qualcosa di molto simile a “quello mi sembra Duncan Nelson, sa, il cantante”, ma Courtney gli aveva già sbattuto la porta in faccia.
«La signora Tobloskij ha fatto bene a chiamare Gwen, altrimenti chi sa cosa avresti combinato!», esclamò, e cominciò a battere furiosamente un piede per terra.
«Cosa ti aspetti, delle scuse? Ho passato la notte peggiore della mia vita su quel divano, e considerando che ci dovrò passare molte altre notti, mi sembra assolutamente normale volerlo cambiare!»
«Assolutamente normale? Ma ti ascolti quando parli, o c’è solo aria nella tua testa? Stai parlando di fare cambiamenti in una casa che non ti appartiene, di cui sei ospite e da cui potrei cacciarti da un momento all’altro!». Notando il sorrisetto del ragazzo, riuscì a comprendere le sue intenzioni. «Oh, ma è questo che vuoi! Vuoi che ti cacci da qui, permettendoti di andare scodinzolando dal tuo agente per dirgli di come ti abbia maltrattato. Magari vorresti anche un altro avvocato. Bene, sappi che sarà l’ultima cosa che succederà!»
«Be’, tu vorresti teneri segregato in casa tua fino alla fine dei miei giorni, non ci vedo nulla di bello!»
«Non fino alla fine dei tuoi miseri giorni, Duncan. Soltanto fino alla fine del processo, e soltanto per evitare che tu combini danni come quello di ieri!», fece una pausa e, approfittando del fatto che il ragazzo non le aveva ancora risposto, riprese a parlare. «E, cortesemente, smettila di fare la vittima, perché non ne posso più. “Oh, povero Duncan, costretto a convivere con l’ex psicopatica”. Come se quello che hai fatto tu non avesse importanza.»
L’altro sembrò vivamente offeso. «Che significa “come se quello che hai fatto tu non avesse importanza”? Mi hanno trascinato in tribunale per una cosa da niente, che sarebbe potuta essere risolta in poche ore, volendo! Io non faccio la vittima, io sono la vittima!»
Courtney gli lanciò un’occhiata furente e aggiunse, piccata: «Io non stavo parlando del processo. Comunque, quella che tu consideri “una cosa da niente” è solo l’ultimo esempio della tua superficialità e della tua noncuranza. Non ti preoccupi mai di quello a cui potrebbero portare le tue azioni! Tu prima agisci e poi – se va storto qualcosa – rifletti su quello che hai fatto. Ma non potrai comportarti così per sempre! Dovrai pur crescere, ad un certo punto – non puoi continuare fare guai che altri dovranno risolvere.»
Duncan si passò una mano sulla faccia. «Non dirmi», scandì lentamente, «che ce l’hai ancora con me per la storia di Gwen! Courtney, sono passati più di dieci anni!»
Roteò gli occhi e non gli volle nemmeno rispondere. Certo che ce l’aveva ancora lui, e ne aveva tutto il diritto – non solo l’aveva umiliata in mondovisione, ma l’aveva separata per mesi dalla sua migliore amica, e quella era una cosa che non gli avrebbe mai perdonato. E poi, non era anche quello un esempio della sua superficialità? Non aveva prima agito, spinto dall’impulso, e poi aveva pensato – se mai l’aveva pensato – di aver ferito i suoi sentimenti? Scosse la testa e gli rivolse uno sguardo al vetriolo – Duncan era sempre stato una debolezza, per lei, ma era stata abbastanza brava da nasconderglielo.
«Adesso devo andare», spiegò, come se stesse parlando ad un lattante, «devo continuare a parlare con gente stupida, per salvare il tuo stupido culo dagli stupidi capricci del direttore dell’albergo. Sei in grado di restare buono e tranquillo – senza allarmare la signora Tobloskij – oppure devo chiamare una babysitter?»
Duncan le rispose con una smorfia. «Bene», continuò lei, «ci vediamo stasera. Se hai fame, c’è ancora un po’ di pizza nel forno, se ti annoi puoi vedere la televisione e se Pimplebottom graffia alla mia bellissima porta non devi aprire. Per nessun motivo.»
«Perché dovrei aprire a quel sacco di peli?», le chiese, quasi sconvolto dalla sua ossessione per il gatto. Courtney si morse un labbro e si impedì di risponde che Scott lo faceva sempre, quindi aveva bisogno di ripeterglielo spesso. Ma Duncan non era Scott e non era il suo fidanzato – con un po’ di fortuna, entro qualche settimana non sarebbe stato più nemmeno un suo coinquilino.
Il ragazzo però non aveva notato la sua esitazione e si era concentrato su un altro aspetto del suo discorso. «Se posso aprire a Pimplebottom, significa che non mi chiuderai a chiave?»
Courtney lo guardò sarcastica. «Solo per non aver altri problemi con la polizia.», poi aggiunse: «Io vado.», e si sbatté la porta alle spalle.
 
***
 
Quando era tornata a lavoro, aveva con piacere scoperto che Lizzie era riuscita a procurarsi gran parte dei numeri di telefono – ebbe la tentazione di chiederle come avesse fatto, dato che lei in più di un’ora non aveva combinato niente, ma decise di desistere.
Aveva cominciato a fare chiamate quello stesso giorno, ottenendo, nel corso della settimana successiva, praticamente nulla: sembrava si fossero messi tutti d’accordo – chi ricordava pochi minuti, chi era completamente ubriaco, chi non sapeva nemmeno come ci era arrivato, in camera di Duncan. In poche parole, non aveva nulla.
E poi, per dimostrare cosa? Non c’era modo di provare che non fosse stato lui a fare quel macello, quindi in ogni caso avrebbe perso – se solo Duncan non fosse stato una grandissima testa di cazzo, a quel punto avrebbe soltanto dovuto occuparsi del divorzio di Heather. Invece stava lavorando continuamente, se non altro per passare a casa meno tempo possibile – dopo l’incidente del divano Duncan sembrava essersi calmato, tuttavia i suoi nervi ritenevano una saggia scelta stare quanto più lontano possibile da lui.
Nel momento in cui era costretta a rientrare, sperava sempre di trovarlo già addormentato, oppure camminava a passi talmente piccoli da sperare di non essere sentita – voleva evitare in ogni modo l’imbarazzo di una conversazione che non avrebbe portato da nessuna parte, perché lui era un cretino e aveva messo nei pasticci anche lei, e avrebbero sicuramente finito con il litigare e gli avrebbe lanciato contro qualche piatto, oppure una sedia, e Gwen sarebbe dovuta correre a prendere il kit di pronto soccorso e lei avrebbe dovuto trovare una scusa da rifilare alla signora Tobloskij il giorno dopo.
Il suo rapporto con Duncan, al di là delle gag ridicole d’ogni sera e ogni mattina – evitate come la peste –, non aveva preso nessuna piega diversa. Sembrava che le uniche reazioni che potesse suscitarle fossero la rabbia, o il nervosismo, l’offesa – non faceva altro che strillare scandalizzata e alzare gli occhi al cielo. Aveva temuto, nei primi tempi, che potessero risvegliarsi, tra le altre cose, gli antichi sentimenti, ma ciò non era accaduto – forse, perché ormai era talmente abituata alla sua altalenante relazione con Scott che si aspettava che il ragazzo potesse tornare da un momento all’altro.
Negli ultimi dieci anni, Duncan non c’era stato – non gliene faceva una colpa, ovviamente. Le loro strade, di questo ne era certa, si erano separate molto tempo prima della loro rottura. Erano troppo differenti, vedevano il mondo in maniera opposta, non condividevano nulla, eppure c’era stato un periodo in cui aveva amato quel ragazzo dalla creste verde conosciuto quasi per caso – lo aveva amato perché era giovane, e molto probabilmente più stupida di quanto lo fosse in quel momento, e l’aveva amato più per l’atto di ribellione che consisteva nell’amarlo che per Duncan stesso.
La sua mente vorticava talmente rapida in quei pensieri – Duncan, Scott, il processo – che non si rese nemmeno conto che qualcuno aveva bussato alla porta. «Ehm, Courtney? Qui c’è la quasi signorina Wilson che chiede di te.», le disse Lizzie e, tentando di nascondere un risata, fece entrare Heather.
«Quasi signorina Wilson? Mi piace, dovresti metterlo sui biglietti da visita.», affermò, non riuscendo proprio a trattenersi – era sollevata che di lì a pochi giorni sarebbero iniziate le sedute in tribunale per la separazione. Almeno c’era un caso che era parzialmente sicura di vincere.
«Il giorno più bello della mia vita», sentenziò l’altra in risposta, «sarà quello in cui mi libererò definitivamente da quel patetico, viscido verme!»
«Sì, certo.», le rispose, «È quello che hai detto anche l’ultima volta, e quella prima ancora. Praticamente, vivi nell’attesa di questo giorno e intanto fai di tutto perché non arrivi.», cercava di mantenersi seria, ma proprio non ci riusciva – l’ostinazione con cui Heather sosteneva la sua incrollabile opinione poteva essere ammirevole, se non fosse probabilmente data dalla sua mente che viaggiava troppo in fretta.
«Allora», domandò, «ci sono novità? Alejandro si è fatto sentire?»
Sentendo quelle parole, Heather divenne quasi paonazza. «Si è fatto sentire? Quel maniaco ha cercato di entrare in casa mia!»
«Che tecnicamente è anche sua…», aggiunse Courtney.
«Ma è intestata a me.», ribatté.
«Ma tu lo hai costretto a lasciare casa sua, perché tu non ti saresti mai abbassata a vivere da lui – e poi lo hai cacciato da casa tua
«Ciò non toglie che se avesse avuto bisogno di qualcosa avrebbe potuto chiamarmi come tutte le persone civili!»
«Mi permetto di dissentire.»
«Dissenti pure, ormai il problema l’ho risolto. Ho cambiato la serratura.»
Courtney fu terribilmente tentata dall’idea di sbattersi una mano in faccia – o di sbattere Heather fuori dal suo ufficio.
«Ti rendi conto di quello che stai facendo?», le chiese, quasi con un lamento.
«Certamente. Ora, vogliamo parlare della tua linea d’accusa, avvocato
Sospirò rassegnata. A quanto pare, Heather era pronta a portare avanti quella pagliacciata fino all’ultimo – almeno, fino a quando non le avrebbe messo le carte del divorzio sotto al naso.
«La mia linea d’accusa, quasi signorina Wilson», la vide arricciare il naso di fronte al soprannome nuovo di zecca, «si basa sulla tua testimonianza di un tentativo di adulterio.»
«Pft, chiamalo tentativo. È rimasto tale soltanto perché io, dall’alto della mia intelligenza e della mia onniscienza, ho trascinato il fedifrago recidivo…»
In quel momento Courtney si sentì in dovere di correggerla. «Heather, ti ricordò che è la prima volta che succede da quanto siete sposati.»
L’altra sbatté un piede per terra. «Ma tu da che parte stai
«Dalla tua, Heather. Solo che qui l’ultima cosa che mi manca è un’accusa di diffamazione, quindi cerca di controllarti.»
«Mh, come dici tu. In tal caso, se non avessi portato il plausibile fedifrago», fece una pausa e domandò sarcastica: «Va bene così?», non attese nemmeno l’assenso di Courtney e riprese a parlare, «Be’, se non l’avessi fatto da plausibile fedifrago il caro Alejandro sarebbe passato allo stato di fedifrago attuale. Come la mettiamo?»
Avrebbe tanto voluto risponderle che non era possibile volere il divorzio perché una ragazza a caso aveva flirtato con suo marito, che la sua accusa, a meno che non avesse trovato prove soddisfacenti, avrebbe retto addirittura peggio della difesa di Duncan. Quei due le avrebbero distrutto la carriera con i loro capricci.
«Che c’entra Duncan, adesso?»
«Chi ha nominato Duncan?», sbuffò Courtney, mettendo su la sua migliore smorfia schifata.
«Stavi sorridendo.»
«Non stavo sorridendo. Stavo pensando a una cosa che mi faceva ridere.»
Heather alzò un sopracciglio in segno di curiosità.
«Stavo pensando che tu e Duncan finirete per essere la mia rovina.»
«Un po’ come ai vecchi tempi.», affermò Heather e Courtney annuì.
«Però stavi pensando a Duncan, e stavi sorridendo.»
Courtney la guardò di traverso e la conversazione finì lì – non stava pensando a Duncan e non stava sorridendo.
 
***
 
La prima seduta in tribunale per stabilire il divorzio tra Heather e Alejandro era stata universalmente riconosciuta come un disastro: Heather, com’era prevedibile aveva dato di matto appena aveva visto il marito; quest’ultimo aveva perlopiù ignorato la moglie, ma il suo avvocato aveva preso nota degli epiteti non troppo gentili che gli aveva rivolto e aveva minacciato conseguenze; la maggior parte dei membri della giuria, dopo aver sentito la tesi che sosteneva l’accusa, per poco non si era messa a ridere – per fortuna, la difesa aveva una tesi ancora più ridicola della loro. Courtney sarebbe volentieri sprofondata – o avrebbe fatto sprofondare Heather, per impedirle di combinare altri pasticci – ma ormai era in ballo e doveva ballare.
In quei giorni Lizzie era riuscita a procurarsi diverse dichiarazioni dai presenti alla festa di Duncan, senza però ottenere buoni risultati – erano tutti ubriachi, tutti strafatti, e via dicendo. Insomma, nulla di diverso da quello che aveva ottenuto lei. Qualcuno nominava qualcun altro, e allora magari sapevano di dover rintracciare altra gente.
Il contributo di Duncan, in quel trambusto, era consistito nella promessa di fare il bravo, non dare problemi, e non aggravare ulteriormente la sua posizione – il direttore dell’Ottawa Royal Palace aveva sentito la sua dichiarazione in tv e aveva dato in escandescenza. Il suo avvocato – che per qualche sconosciuto miracolo non aveva la metà delle sue abilità – aveva assicurato che questa mancanza di riguardo sarebbe stata evidenziata in tribunale. A pochi giorni dall’inizio del processo, dopo due settimane dall’inizio del caso, Courtney non aveva guadagnato nulla – non un testimone chiave, non una singola pista con la quale smontare l’accusa. Solo una forte emicrania e dei nervi che sarebbero potuti saltare da un momento all’altro.
«Questo pasticcio», sbottò un giorno a cena, mentre in televisione c’era l’ennesimo servizio sulla vita sregolata del ragazzo, «è solo colpa tua e della tua superficialità.»
«Grazie, pr- Courtney, per averlo sottolineato. Io non ne avevo proprio idea.»
Gwen era a cena fuori con Trent – l’aveva abbandonata senza pensarci due volte, quell’arpia. Avrebbe potuto invitare Heather, ma il solo pensare a lei le faceva venire voglia di mollare tutto e salire sul primo volo per le Bahamas.
«Chiaramente, hai bisogno di qualcuno che te lo ricordi ogni giorno. Sappiamo quanto tu possa essere pericoloso.»
«Parli di me come se fossi un criminale incallito!», esclamò. Courtney notò del fastidio nella sua voce, ma lo ignorò completamente. Si limitò a rivolgergli uno sguardo che valse più di mille parole – di certo, valse di più di tutte le parole che aveva intenzione di dirgli, perché Duncan si alzò e prese la giacca.
Lei si alzò di rimando, allarmata. «Dove vai?», chiese a bruciapelo.
«A fare un giro. Lontano da te.»
Avrebbe voluto dirgli che no, lui non andava proprio da nessuna parte, perché non voleva affatto che facesse altri danni o le complicasse il caso ancora di più o facesse un bagno di folla – ma si sentiva in colpa per quello che aveva detto, quindi non riuscì a muovere nemmeno un muscolo.
«Non preoccuparti, principessa, cercherò di non fare danni irreparabili.», disse in tono di scherno – Courtney non riuscì a capire se le face più male la porta che sbatteva o la consapevolezza che in quel momento il pasticcio l’aveva combinato lei.
 
***
 
Quella ragazza lo avrebbe fatto ammattire e non in senso positivo – non come una volta, quando non aspettava altro che le sue provocazioni. Perché ormai quelle non erano più provocazioni: Courtney ci credeva davvero, che fosse capace di commettere crimini di ogni sorta – forse non lo credeva capace di uccidere, ma chi sa qual era l’opinione che si era fatta di lui.
Insomma, lo conosceva, anche bene, sapeva che c’erano cose che non avrebbe mai fatto – eppure, sembrava che fossero sconosciuti, o meno. Sembrava che l’unica idea che avesse di lui derivasse da qualche testata di gossip. Sembrava che di lui non le importasse niente. Forse era davvero così.
In fondo, voleva davvero che le importasse qualcosa? Sapere che lei fosse interessata a lui, dopo tutto quel tempo, avrebbe cambiato il loro rapporto? Probabilmente, no. Ma, almeno, avrebbe fatto bene al suo ego. Si appoggiò alla bellissima porta di Courtney e scivolò lentamente a terra – ovviamente, non sarebbe andato da nessuna parte, perché nemmeno lui voleva aggravare la situazione.
Dopo il primo dispetto del divano, non aveva avuto molto fortuna con il suo progetto di piegare agente e avvocato ai suoi capricci, soprattutto perché, nonostante vivesse nel suo stesso appartamento, nell’ultima settimana aveva visto Courtney più raramente di quanto non avesse visto John – il che era tutto dire, considerando che John si era fatto vedere appena tre volte dall’inizio del caso stesso. Doveva ammettere, però, che quell’idea si era rivelata un totale fallimento – l’istinto di provocare Courtney aveva preso il sopravvento e si era fatto scoprire, bruciando tutte le sue possibilità di indurla a sbatterlo fuori.
«Ehi, Courtney ti ha sbattuto fuori?», a dare parola al suo pensiero era stata Gwen, appena uscita dall’ascensore, un po’ alticcia e decisamente troppo sorridente.
«Magari…», commentò lui, spostandosi appena per farle posto quando capì che si stava sedendo accanto a lui.
«Uh, allora te ne sei andato tu?»
«Hai fatto centro, Sherlock!», le rispose canzonatorio.
«Courtney lo diceva sempre, che le tue battute erano banali, ma almeno lei trovava la forza di ridere.»
«Banali
Gwen fece intendere che era un discorso troppo lungo e articolato – un discorso, in pratica, che le andava di fare un altro giorno, da sobria, magari.
«E cos’altro diceva Courtney di me?»
Gwen aprì la bocca e poi la chiuse di colpo. «Stai cercando di approfittarti di una ragazza ubriaca.»
«Non sei ubriaca.», osservò ironicamente lui.
«Ma potrei diventarlo presto. O almeno, spero. Questa dovrebbe essere una di quelle occasioni in cui Court si fionda a stappare lo champagne.»
«Ti avviso che potrebbe non essere nell’umore adatto per lo champagne.»
«Ti avviso, Duncan, che tra un mese mi sposo. Courtney diventerà dell’umore adatto per lo champagne.»
Per poco non si strozzò con la saliva. Gwen si sposava – e entro un mese!
Poi si strozzò davvero con la saliva. Entro un mese Gwen non avrebbe più abitato con loro – ergo, non ci sarebbe stato nessuno a testimoniare eventuali soprusi, violenze e omicidi.
«Oh», commentò la ragazza entrando nel soggiorno, «Courtney non c’è.»
«Sai cosa, Gwen? Ho bisogno di qualcosa leggermente più forte dello champagne.»
«Hai ragione. Vada per il whisky, lo champagne può aspettare Courtney.»
Perfetto, pensò lui. Tra un mese Gwen si sarebbe sposata e lui sarebbe diventato un uomo morto.

 
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Note dell’autrice:
Salve a tutti! So di essere in un ritardo mostruoso, ma come penso sia evidente, l’inizio della scuola mi ha davvero massacrato – in questo momento dovrei star studiando sedici pagini di fisica e altrettante di filosofia (se mi volete bene, uccidetemi)!
Mi spiace che abbiate dovuto aspettare tanto per un capitolo che è per lo più di transizione, tuttavia io mi sono divertita un casino a scriverlo e spero anche voi a leggerlo. Ho cercato di analizzare soprattutto il rapporto tra Duncan e Courtney – paragonando la relazione di un tempo a quella attuale. Nel tempo dovrebbe evolversi sempre più e – be’, è una commedia romantica, sappiamo tutti come andrà a finire. Per quanto riguarda il divorzio tra Heather e Alejandro, mi ero resa conto che non avevo ancora chiarito perché stavano divorziando, quindi ho pensato di inserire la scena in cui ne parlavano per chiarire la cosa! E sì, Gwen si sposa e Duncan è un uomo morto – anche se ho intenzione di movimentare ulteriormente la situazione prima della fine (che è ancora lontana)!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e spero di riuscire ad aggiornare il prima possibile, anche se, per via degli impegni, non prometto niente!
Sempre vostra,
Fede
  
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