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Autore: WillofD_04    01/10/2016    4 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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I giorni passavano inesorabilmente, alcuni più lenti, altri più veloci. Ero riuscita ad inserirmi abbastanza bene all’interno della ciurma e avevo più o meno socializzato con tutti. Avevo già individuato un paio di persone con cui non avrei mai fatto amicizia, per divergenze di pensiero e modo di fare.
«Bepo, che giorno è oggi?»
L’orso polare sembrò riflettere per un paio di secondi. «È giovedì. Perché?»
«Questo lo so. Intendo la data» feci io, un po’ infastidita. Effettivamente non avevo specificato e benché avessi perso la cognizione del tempo, che era giovedì poteva arrivarci anche un bambino.
«Oh. Chiedo scusa» chinò il capo in segno di dispiacere. «Dunque, vediamo...è il 29 Settembre»
Feci un paio di conti rapidi a mente.
«Oh, cazzo!» esclamai ad occhi strabuzzati. Poi corsi via, lasciandolo lì, più perplesso di prima.
Pochi giorni dopo sarebbe stato il compleanno di Marco, a cui avrebbe seguito quello di Law. Avevo un piano in mente. Avrei fatto i regali ad entrambi per tempo. Ma quello era stato un periodo così intenso per me, che ne ero stata completamente assorbita. Ora ero nella merda fino al collo. Dovevo trovare due regali – di cui uno spedirlo chissà dove – in pochissimo tempo. Accidenti a me e alle mie scarse capacità organizzative. Comunque, secondo i miei calcoli saremmo sbarcati l’indomani su un’isoletta tranquilla. Siccome al chirurgo piaceva passare inosservato, ogni volta che sbarcava per fare scorta di cibo o carburante, ordinava a sei o sette subordinati di scendere insieme a lui. Gli altri sarebbero dovuti rimanere rigorosamente a bordo a “fare la guardia al sottomarino”, che tradotto stava a significare che i malcapitati sarebbero stati a girarsi i pollici per tutto il tempo. Non c’era mai niente da fare su quello stupido sottomarino. Come lo sapevo? A parte il fatto che l’avevo sempre sospettato, erano due mesi che ero rinchiusa là. In tutto quel tempo eravamo emersi sei volte. Solo una volta, per puro miracolo, mi era stato concesso di scendere dal sommergibile e visitare uno scorcio di mondo. “Di solito il personale medico rimane a bordo”, aveva detto Penguin “a meno che non si tratti di una missione pericolosa o di affari seri. In quel caso siamo tutti tenuti a scendere”. Non mi interessava un bel niente delle questioni in cui si andava ad invischiare Law, io dovevo assolutamente scendere dall’imbarcazione, in un modo o nell’altro.
 
La sera stessa, provai con il “metodo Cami”, lo stesso metodo che usavo per evitare di andare a scuola. Andai in camera mia e iniziai a cercare l’ombretto porpora nella mia trousse. Ne presi un po’ con l’apposito pennello ed iniziai ad applicarlo appena sotto alla rima ciliare inferiore. Una volta finito, con il dito cercai di sfumarlo il più omogeneamente possibile. Aggiunsi anche un tocco di grigio. Il capitano era uno a cui non sfuggiva niente, per questo dovevo cercare di farlo sembrare più reale possibile. Ad opera conclusa mi avviai verso lo studio di Law. Bussai quando fui arrivata alla porta.
«Avanti» disse. Aprii la porta con cautela, premurandomi di assumere un’espressione da cane bastonato, di posizionare una mano sullo stomaco e di chinarmi leggermente in avanti. Lui era seduto, intento a trascrivere qualcosa su una pagina di un quaderno. Mi rivolse un occhiata veloce e tornò a concentrarsi su quello che stava facendo. Poi sembrò ripensarci e mi squadrò da capo a piedi, in attesa che dicessi qualcosa.
«Credo che sarebbe una buona idea se domani mi dessi il permesso per sbarcare» iniziai, cercando di mimare conati di vomito e malessere generale.
Si abbassò leggermente con indice e pollice gli occhiali che portava e interruppe il suo lavoro, girandosi verso di me.
«E perché dovrei farlo?»
«Perché ho il mal di mare. Ho bisogno di un paio di ore sulla terraferma»
Si tolse gli occhiali. «Quindi pensi che un paio di ore sulla terraferma risolvano il problema, che tra l’altro, si è presentato all’improvviso?»
Annuii appoggiandomi con una mano alla parete e portandomi il braccio libero alla bocca per simulare fastidio allo stomaco.
«Non vorrai mica che io battezzi il tuo sottomarino con la mia bile, vero?» chiesi, nel modo più provocatorio che il mio finto malessere mi permetteva.
«Il mio sottomarino è molto prezioso per me. Se pensi di non essere in grado di contenerti, chiuditi in bagno. Ne hai uno tuo, un privilegio che non molti hanno».
Non aveva tutti i torti – e questo era uno dei motivi principali per cui certe volte lo detestavo – ma dovevo trovare assolutamente un modo per convincerlo a farmi sbarcare.
«Non puoi sapere per quanto tempo avrò il mal di mare. Tu sei un medico, dovresti volere che le persone stiano bene. Domani sbarcheremo e a me basterebbero due ore su quell’isola per stare meglio»
«Io non posso saperlo, ma nemmeno tu. Se pensi che la nausea non passerà entro 24 ore, allora vai in infermeria e prendi dei farmaci antiemetici. Oppure fatti una flebo. Ormai dovresti esserne in grado.»
A quelle parole mi irrigidii per qualche secondo. Mi aveva messo all’angolo. Ma quel che era peggio era che probabilmente mi sarei dovuta ficcare un ago in vena per rendere la mia messinscena credibile. Certo, avrei potuto rigirare la situazione a mio vantaggio. Avrei pur sempre potuto rivendicare l’inefficacia delle medicine e convincere così Law a farmi evadere per un po’ da quella trappola per topi. Ma una flebo non era il prezzo che ero disposta a pagare per uno stupido regalo.
«Io sono per i rimedi naturali. Aria fresca, piedi che poggiano per terra. Pavimento che non oscilla. Questo genere di cose. Non puoi tenermi attaccata ad una flebo per tutta la vita, no?»
«Rimedi naturali...dunque hai sbagliato specializzazione. Se è così che la pensi, non intendo più istruirti all’arte della medicina. Non esistono rimedi naturali.»
«Cosa?» spalancai gli occhi. La situazione stava degenerando. Scossi la testa, quasi incredula. «Non è questo il punto! Ti sto dicendo che basta solo che tu mi dia il permesso per sbarcare per qualche ora.»
«No.»
«Perché no!? Io ho bisogno di aria. Aria fresca. Sono due settimane che sono rinchiusa in questo angusto sottomarino! Non ce la faccio più! Ho bisogno di aria.»
Cominciavo a pensare di aver davvero bisogno di sbarcare.
«Domani tu non lascerai il sottomarino. E la questione è chiusa.»
A quelle parole, per un attimo, non ci vidi più dalla rabbia. Lo fissai dritto negli occhi, il mio sguardo carico di odio. Feci un paio di respiri profondi prima di girarmi, infilare la porta e sbatterla con forza alle mie spalle.
Camminavo iraconda per il corridoio che portava alla mia camera.
«Ehi, Cami, hai un aspetto schifoso oggi!» scherzò Penguin, che passava di lì.
Girai la testa con uno scatto e lo fulminai con lo sguardo. «Vaffanculo!».
 
Dovetti cercare di mantenere la calma mentre vedevo parte dell’equipaggio che si allontanava sulle scialuppe adibite allo sbarco. Però stringevo i pugni, tanto che le nocche mi erano diventate bianche. Quella era la mia occasione d’oro per poter comprare i regali di compleanno a Marco e Law e quest’ultimo me l’aveva portata via con incredibile indifferenza. Non che lo sapesse, certo, ma di sicuro gli piaceva rendere impossibile la vita agli altri. Quello che non aveva capito era con chi aveva a che fare. La “nuova Cami” era un tipo tosto e non avrebbe mollato tanto facilmente.
Appena le barchette non furono più visibili all’orizzonte, mi girai verso Maya.
«Abbiamo altre scialuppe?»
«Certo. Ma perché me lo chiedi?»
«Perfetto. Chi vuole accompagnarmi in un’emozionante avventura?»
«Oh, no. Non vorrai mica disubbidire al capitano, vero?» un bagliore di terrore si insinuò nel suo sguardo.
«E che male c’è? Mi servono due orette di aria fresca sull’isola»
Una figura slanciata mi prese per un braccio e mi trascinò in disparte.
«Hai idea di cosa ti accadrebbe se il capitano venisse a sapere che hai ignorato un suo ordine?» Omen mi guardava serio, come non aveva mai fatto.
«No. E non lo voglio sapere. Ecco perché voi mi aiuterete e terrete la bocca chiusa»
«Io e Maya non intendiamo essere tuoi complici. Che cosa devi fare di tanto importante?»
«Stammi bene a sentire. Io devo fare una cosa importante per il capitano. E lui non lo deve sapere. Dal momento che la prossima volta che sbarcheremo sarà troppo tardi per poterla fare, questa è l’occasione perfetta e non me la farò sfuggire. Perciò puoi anche non voler essere mio “complice”, ma levati di mezzo e lasciami fare quello che devo fare.» pronunciai il tutto con un tono molto minaccioso.
Il mio interlocutore sospirò, si spostò da un lato e mi lasciò passare. Poi, fece cenno a Maya di seguirmi. Mi indicarono le scialuppe e mi aiutarono a portarne una sul ponte. Mi fecero raccomandazioni di ogni tipo. Ad un certo punto li fermai, non solo perché mi stavano leggermente spaventando, ma anche perché dovevo remare da sola per cinquecento metri per arrivare alla spiaggia e sapevo che ci avrei messo una vita e mezzo.
 
Infatti così fu. Mi ci volle almeno una mezz’ora prima di poter attraccare sulla spiaggia. Durante la “traversata” avevo continuato a ripetere nella mia mente il ritmo con cui dovevo remare. Ma dopo i primi cinque minuti tutti i miei buoni propositi erano andati a farsi benedire. Non avevo mai fatto una cosa del genere e mai l’avrei fatta se non avessi voluto a tutti i costi comprare i regali per i due pirati. L’addestramento di Bepo mi aveva dato più forza, era vero, ma ancora ero acerba e quando posai i piedi sulla sabbia avevo il fiatone, ero esausta, avevo le mani tutte arrossate e screpolate e braccia e spalle mi dolevano come mai avevano fatto. Maledissi mentalmente il mio capitano e le sue esagerate misure precauzionali. Potevo capire che era bene tenere il sottomarino lontano dal porto per non attirare occhi indiscreti, ma non c’era bisogno di ormeggiare dietro alla baia. Trascinai faticosamente la barca a riva. Oltre ad essere tutta dolorante, ero pure fradicia. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo mentre mi toglievo la cintura e la mettevo sotto alla barca, che avevo prontamente rovesciato – con quale forza non lo sapevo nemmeno io –. Dovevo essere libera di muovermi inosservata, sia perché non avevo soldi con cui comprare i presenti, sia perché non potevo permettermi di farmi vedere da qualcuno della ciurma. Law mi avrebbe visto comunque, ma a lui sarei stata molto attenta. Sapevo di dover agire in fretta. Non avevo idea di quanto tempo avrebbero passato sull’isola e dovevo tenere da parte anche una quarantina di minuti per poter tornare al sottomarino con la scialuppa e rimetterla a posto indisturbata. Considerato che in media il chirurgo passava tre ore sulla terraferma, avevo a disposizione un’ ora e mezzo. Non era molto, ma me lo sarei fatto bastare.
Lasciai la barca sulla spiaggia e mi incamminai verso il sentiero che portava al villaggio. Era la terza isola che visitavo e mi sentivo un po’ emozionata. In parte lo ero anche perché se fossi stata scoperta per me sarebbero stati cavoli amari. Ma non me ne preoccupavo più di tanto, in quel momento avevo altro con cui arrovellarmi il cervello. Che regalo avrei fatto a Law? E che regalo avrei fatto a Marco? Come avrei fatto a spedirglielo?
 
Quasi senza pensarci ero entrata in una gioielleria. Non sapevo nemmeno perché, visto che né Law né Marco indossavano bracciali e diavolerie varie. Era un’idea stupida. Girai i tacchi e feci per andarmene, quando li vidi. Ne rimasi estasiata e ne fui entusiasta. Cadevano a pennello. Era destino, mi trovavo al posto giusto al momento giusto. Se non era fortuna quella.
Il gioielliere, però, aveva l’aria sveglia. Non sembrava essere come quel commesso a Shogyoshima. Ecco perché per prendere ciò che volevo dovevo escogitare qualcosa e rapidamente, anche. Arrivai fino al bancone, attenta a non urtare niente. Poi mi misi a fissare dritto negli occhi il negoziante, che avevo a pochi centimetri di distanza e che sembrava essere ignaro della mia presenza. Mi appoggiai al tavolo di legno.
«Che cosa potrei fare? Tu cosa suggerisci?» chiesi al mio interlocutore, che stava guardando altrove.
«Le tue cianfrusaglie sembrano avere parecchio valore. Mi dispiace per quello che sto per fare, ma ho un capitano da compiacere, cerca di capirmi» alzai le spalle mentre spazzavo via tutti i gioielli che c’erano su una delle mensole, facendoli cadere a terra fragorosamente. Prima di farlo, però, controllai il prezzo. Non avrei potuto permettermi nemmeno l’anello meno costoso. L’uomo si mise sull’attenti, setacciando la gioielleria per cercare di capire cosa potesse essere successo. Non appena vide per terra collane, bracciali e pietre preziose in frantumi, si precipitò per valutare la situazione. Mi parve di averlo sentito imprecare poco elegantemente. Non si addiceva al proprietario di un negozio di classe ed elegante come quello. Ma come biasimarlo; del resto, io sarei stata la prima ad imprecare senza ritegno in una situazione come quella.
Ripetei il trucchetto altre due volte, su mensole distanti tra loro, per confondere il poveretto. Quando decisi che l’avevo fatto dannare abbastanza, prelevai i due ciondoli, premurandomi di prendere anche le rispettive scatole. Infine uscii.
«È stato un piacere fare affari con te!» gridai, all’uomo disperato, inginocchiato accanto ai pezzi dei suoi gioielli «E scusa ancora».
Prima di andarmene dall’isola pensai di passare anche in cartoleria per rubare dei biglietti di auguri. Lì fu più facile. Fu un attimo. I biglietti erano esposti fuori, insieme alle cartoline. Ne scelsi due bianchi affinché li avessi potuti riempire a mio piacimento.
Mentre percorrevo il sentiero che mi avrebbe riportato alla spiaggia, riflettei sulla persona che ero diventata. Prima titubavo perfino a rubare una caramella. Ora invece distruggevo e rapinavo negozi come se nulla fosse. Certo, mi sentivo in colpa, ma l’avrei rifatto se fosse stato necessario e per una “buona” causa come quella. Law aveva una cattiva influenza su di me. Decisamente. Proprio mentre pensavo a questo, qualcosa mi mandò nel panico e mi arrestai immediatamente. Davanti a me di un centinaio di metri, riconobbi prima le tute bianche di Shachi e Penguin, poi la tuta arancione di Bepo e infine l’inconfondibile cappotto nero di Law. Ero terrorizzata. Non potevano vedermi, non dovevano vedermi. Beh, l’unico che era in grado di farlo senza che avessi la cintura era Law, il che forse era anche peggio; anche perché ero sulla terraferma e non stavo indossando la divisa, come avrei dovuto fare secondo il patto siglato settimane prima. La pena per questo sarebbe potuta essere tre volte peggiore. Mi guardai attorno, imprecando selvaggiamente tra me e me, in cerca di un posto dove potermi nascondere. Decisi di addentrarmi nella boscaglia che avevo a sinistra e aspettare lì finché non fossero andati via. Sempre che se ne fossero andati. Aspettai una decina di minuti nascosta dietro un albero con il cuore che batteva a mille. Avevo scelto una posizione strategica, che mi permetteva di scorgere la ciurma e tutti i loro spostamenti, ma allo stesso tempo di rimanere nascosta agli occhi degli altri. Il capitano stava parlando con un uomo del villaggio che aveva l’aria preoccupata e forse anche un po’ agitata. Dopo un po’ fece segno a tutti di seguirlo e finalmente io potei essere libera di tornare alla scialuppa. Tirai un sospiro di sollievo. Per precauzione attesi un altro paio di minuti, in cui mi persi a fissare i ciondoli che avevo “acquistato” poco prima. Erano una scelta più che azzeccata. Avrei dovuto fare qualche lavoro di manutenzione, ma il più era fatto.
 
Al ritorno impiegai una decina di minuti in meno di quanto non avessi fatto all’andata. Erano pur sempre venti minuti per fare cinquecento metri, ma ero lo stesso fiera di me. Per fortuna nessuno mi aveva rubato la barca. Non avevo ancora rimesso la cintura, giusto per cautela. Arrivai al sottomarino, con Maya e Omen che mi aspettavano in ansia sul ponte. Lasciare la terraferma, viva e colorata, e ritornare a quell’angusto sottomarino, grigio e spento, mi rendeva un po’ triste. Ma questo dovevo fare.
«Ma che cazzo succede!? Perché la barca è vuota?» imprecò il ragazzo dai capelli dritti
«Ops...» mi ricordai solo in quel momento che non avevo la cintura indosso. La misi e poi, per il sollievo di tutti, saltai a bordo. Il moro recuperò la barca e la portò al deposito. Maya mi chiese di farle un resoconto della mia "missione", ma io avevo i pantaloni bagnati ed avevo fretta di cambiarmeli e farmi una doccia. Per cui la salutai, promettendole che le avrei raccontato tutto più tardi. Corsi in camera, tirai fuori da sotto la maglietta le scatole e le riposi accuratamente nel cassetto del comodino. Mi tolsi i vestiti, li gettai nella cesta dei panni sporchi – ebbi cura di mettere i pantaloni fradici sotto al mucchio – e mi buttai sotto la doccia. Che giornata stressante.
Dopo che ebbi finito la doccia, mi vestii con degli abiti puliti e mi stesi sul letto. Sospirai, buttando fuori tutta l’ansia e l’angoscia che avevo trattenuto fino a quel momento. Non ero adatta per fare certe cose. Rimasi a guardare il soffitto per almeno mezz’ora. Poi, qualcuno bussò alla porta. Mi puntellai sui gomiti per vedere chi fosse.
«Avanti!» gridai.
Sulla soglia, c’era il chirurgo. Corrucciai la fronte e mi misi a sedere.
«Che ti serve?» chiesi con circospezione. Lui non disse niente, si limitò a tirarmi un flacone di qualcosa. Lo presi al volo e quando lessi l’etichetta non potei fare a meno di sorridere. “Antiemetico”. Lo ringraziai e gli dissi gentilmente che non ne avevo più bisogno. Lui mi ordinò di tenerlo, in caso ne avessi avuto bisogno di nuovo. Stranamente, iniziammo a conversare del più e del meno. Mi chiese com’era andata la mia giornata. “Piuttosto noiosa” gli avevo risposto, e lui aveva annuito, ignaro che avevo rischiato almeno tre infarti e che le braccia mi avrebbero fatto male per una settimana. Poi mi fece presente che la nausea poteva dipendere da tanti fattori, non solo ed esclusivamente dal mal di mare e mi invitò a fare un prelievo ematico. Rifiutai categoricamente e a quel punto mi comunicò che avrei dovuto farlo comunque prima o poi, perché i membri del suo equipaggio si sottoponevano trimestralmente ad un check up completo. Rimasi con la mascella a penzoloni. Non me l’aveva detto. Nessuno me l’aveva detto. Quei bastardi! Mi avevano fregato!


Angolo autrice:
Ciao a tutti! Questo è quello che definisco un capitolo di passaggio, ovvero non succede nulla di particolarmente eclatante. Tuttavia spero che lo abbiate apprezzato e soprattutto che non l'abbiate trovato troppo noioso.
Come sempre, fatemi sapere che ne pensate. :)
Alla prossima!
   
 
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