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Autore: H a n a e    02/10/2016    3 recensioni
||Modern!AU | Gray Fullbuster | Juvia Lockser | Long | Rating Arancione 🔜 Rating Rosso ||
«Ci vogliono tre secondi per dire ti amo. Tre ore per spiegarlo. E una vita intera per provarlo.
E per Gray, ogni singolo di quei tre passaggi sarebbe costato più di quante vite avrebbe potuto avere. Nonostante la persona a cui doveva dirlo era proprio accanto a lui.»
{E n j o y I t}
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gray Fullbuster, Lluvia
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Primo Mese - Sun, Sole
 
 
A Juvia non piaceva la sua vita e quello era un dato di fatto. Fino a quel momento le aveva donato solo tristezza e dolore senza mai darle pace. Non aveva amici, persone a lei care o interessi particolari, forse solo il talento del cucito; sviluppato più per un puro bisogno personale che per altro. Costretta a fabbricarsi vestiti e ombrellini Juvia aveva imparato ad usare ago e filo a dieci anni. Poi si era specializzata, prendendo di nascosto qualche rivista di ricami e cucito alle governanti dell’orfanotrofio in cui viveva da praticamente sempre, e così aveva imparato a fare i Teru Teru Bōzu: suoi unici amici. Li attaccava praticamente ovunque, nella speranza che la pioggia se ne andasse definitivamente e la lasciasse in pace; anche se aveva appurato che quei semplici pezzi di stoffa imbottita non funzionassero davvero aveva deciso di tenerli lo stesso, per una questione di affetto. Aveva continuato a farne degli altri negli anni, per impiegare i pomeriggi passati ad annoiarsi in quelle quattro mura che erano la sua camera da letto, fino a farne un vero e proprio impiego. Sotto suggerimento di una delle signore che veniva a fare le pulizie nel grande edificio, dopo essersi lamentata per il troppo disordine aveva iniziato a recarsi abitualmente in negozi di giocattoli nella speranza di trovare qualche acquirente. Dopo molti tentativi falliti un’anziana signora le aveva dato il permesso di vendere lì il suo operato, in cambio di un piccolo stipendio mensile, che avrebbe poi iniziato a mettere da parte per trovarsi un piccolo appartamento non appena avrebbe avuto l’età giusta e lasciare per sempre quel luogo.
Forse quella era la sua unica gioia in quell’esistenza che era stata ingiusta con lei sin dalla nascita.
E come se non fosse abbastanza dura era continuamente circondata dalla sua nuvoletta grigia personale, e ovunque andasse il cielo era coperto da nuvoloni grigi e pioveva. Tanto che ormai le persone erano diventate superstizione e avevano cominciato ad additarla e a chiamarla Juvia della Pioggia. Ormai era arrivata a pensare che a seconda del suo umore l’intensità dell’acqua sopra la sua testa aumentava o diminuiva, e in quel periodo era sempre più nero.
Orfana sin dalla tenera età di quattro anni Juvia aveva passato la sua vita in un orfanotrofio, allontanata da tutti proprio per questa sua strana caratteristica. Attribuivano questo suo essere al fatto che nessuno le aveva mai donato l’affetto che una bambina desidera – e merita - da parte dei propri genitori.
Lei neanche se li ricordava se doveva essere onesta, sapeva solo che erano morti a causa di un incendio nell’edificio in cui facevano entrambi i ricercatori marini. I loro volti, neanche di quelli aveva memoria, visti talmente poche volte che non poteva mica pretendere di ricordarseli. Quando le persone implicavano di sapere come si fosse sentita alla morte dei suoi genitori – perché la gente tende a pretendere di sapere per principio quale siano i sentimenti di una persona – e le rifilavano i soliti “oh povera, mi dispiace tanto. Dovrai sentirti molto sola” e lei smentiva il tutto rispondendo che: no, non le dispiaceva più di tanto perché non aveva ricordi di loro allora veniva definita come una ragazza senza cuore. Non che le importasse particolarmente l’opinione altrui, motivo per il quale ogni volta che riceveva questo tipo di commenti si limitava ad alzare le spalle e guardarli con uno sguardo glaciale degno dei suoi occhi blu.
Non era colpa sua se non aveva neanche foto di loro tre insieme; l’unica cosa che ricordava era sua madre che le ripeteva continuamente il significato del suo nome, perché presa in giro innumerevoli volte per quello strano quanto insolito nominativo. Significava pioggia in spagnolo – ironia della sorte – e gli era stato dato per le sue origini latine, per l’appunto, e per il grande amore dei suoi genitori verso il mare. Forse era anche per quello che aveva i capelli dello stesso colore delle iridi.
Juvia non poteva definirsi brutta, anzi, con i suoi capelli lunghi blu indaco lasciati sciolti e ondulati sulle spalle, una pelle molto pallida, dei grandi occhi blu profondo privi di riflesso e un fisico attraente, con un seno prosperoso e fianchi larghi aveva il suo fascino e se voleva, con l’abbigliamento giusto avrebbe avuto molti spasimanti. Di certo il suo cappotto autunnale blu marino – che si ostinava a portare anche in piena estate -, lo scialle di pelliccia con il Teru Teru Bōzu attaccato, il suo amato capello cosacco russo, e il piccolo ombrello rosa a cuori non la favorivano da questo punto di vista. Forse neanche il suo insolito modo di parlare di sé stessa in terza persona non aiutava molto. Ma a lei non importava, apatica sia dentro che fuori i commenti di persone a lei sconosciute neanche la sfioravano.
Quello era il giorno della paga, e come di accordo Juvia si stava recando al negozio della vecchia signora per ritirare il suo denaro e lasciare i suoi nuovi Teru Teru Bōzu.
Anche quel pomeriggio pioveva e ormai la ragazza non ci faceva neanche più caso, abituata ormai ad avere l’ombrello sempre alla mano, come fosse un prolungamento del suo braccio.
Girò l’angolo e si ritrovò sull’entrata che dava al retro della piccola bottega; richiuse il suo ombrello e lo sgrullò dell’acqua in eccesso che aveva impregnato il tessuto impermeabile per poi posarlo nell’apposito contenitore in plastica grigio. Strofinò i piedi sul tappetino e bussò alla porta a vetri. Nonostante sapeva benissimo che era aperta preferiva sempre che la signora lo sapesse e le desse il permesso di entrare, anche se ogni volta la sgridava sempre ripetendole che con i clienti non poteva allontanarsi dalla cassa solo per andarle ad aprire, perché a quel punto avrebbe potuto fare come le persone normali ed entrare dalla porta principale. Anche se l’anziana signora era scorbutica aveva un cuore gentile e sapeva farsi volere bene in un modo o nell’altro.
Questa volta la donna le fece semplicemente cenno di entrare, avendo visto di chi si trattasse. Juvia spinse la porta e il solito campanello che informava dell’arrivo di qualcuno suonò e venne investita dal solito odore di plastica e tessuto di cui quel posto era impregnato.
«Sbrigati a prendere la busta con i soldi che sta per arrivare l’elettricista» la informò la vecchietta zoppicando verso uno degli scaffali del negozio.
Juvia si limitò ad annuire e andò verso il grande scaffale dietro al bancone e aprì il secondo cassetto sulla destra con la chiave già infilata nella piccola serratura. Ne prelevò la busta con il suo nome sopra e richiuse il cassettino. Aprì la busta per controllare che ci fossero tutti i soldi; non che non si fidasse, solo che con l’età gli errori erano del tutto plausibili e poi a lei quei soldi servivano più di ogni altra cosa per quel monolocale che aveva adocchiato da tempo.
« Arigatou gozaimasu, Izanami-san» disse Juvia stringendo la busta tra le dita candide.
La vecchia si limitò ad un cenno della mano da dietro uno degli scaffali straripanti di merce e Juvia fece un veloce inchino.
Una delle poche cose che le avevano insegnato all’orfanotrofio era l’educazione, lì erano molto rigide in fatto di buone maniere.
Juvia varcò la porta da cui era entrata e fece per riprendere l’ombrello quando si accorse di avere ancora attaccato all’avambraccio il sacchetto con i suoi pupazzi, perciò rimise il parapioggia nel vaso di plastica e rivarcò la soglia.
«Izanami-san» chiamò la ragazza dai capelli color indaco, voleva avvisarla e scusarsi per non essersene ricordata subito «Izanami-san?» riprovò muovendo qualche passo in più verso l’interno del negozio.
Visto che la vecchietta non rispondeva e lei doveva darle la merce si fece coraggio e ripercorse i suoi passi fino al bancone, dove avrebbe lasciato la busta e con essa anche un piccolo bigliettino in cui le spiegava l’accaduto.
Dietro alla cassa posò il pacchetto sul pavimento e poi si accovacciò alla ricerca di un pezzo di carta e una penna in uno dei mille scomparti di quel vecchio mobile. Stava cercando quando sentì la voce della signora Izanami farsi sempre più vicina, accompagnata da quella che doveva essere un timbro maschile. Juvia pensò bene di far notare la sua presenza, per due ovvi motivi: primo, se Izanami l’avesse trovata lì avrebbe potuto pensare che la stesse derubando e, secondo, le sarebbe venuto un infarto nel ritrovarsela dietro la cassa.
«Izanami-san, Juvia aveva dimenticato di lasciarle la busta e così ha pensato di-» Juvia si interruppe alla vista del giovane che seguiva la vecchia proprietaria.
Gli occhi blu della turchina si spalancarono e le pupille si dilatarono, una mano andò automaticamente a stingere una porzione di stoffa proprio sopra il suo organo pulsante. Non avevano mai visto ragazzo più bello di quello e il suo cuore perse un battito. Corpo magro e muscoloso, occhi di un blu scuro più intenso del suo e i capelli di colore nero, tatuaggio sul pettorale destro e collana a forma di spada, senza contare che fosse praticamente senza maglietta. Juvia non aveva mai visto un ragazzo mezzo nudo. Non riuscì a spiegare che cosa la colpì di lui, ma era sicura che un sentimento dentro di lei era appena nato; una sensazione di calore mai provata e un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Era certa di essere rimasto a fissarlo in quella posa buffa, perché il ragazzo diede un finto colpo di tosse e si mosse sul posto a disagio, e forse anche abbastanza infastidito.
Juvia scosse impercettibilmente il capo e si avviò verso l’uscita in un lampo. Izanami si sarebbe sicuramente accorta del motivo per il quale era rientrata, non era mica stupida.
 
 
«Senti vecchia, ti ripeto che più di questo non posso fare. Questo posto cade a pezzi e l’impianto elettrico risale agli anni ’70. Ormai neanche li producono più questi pezzi»
«Non ti pago mica per dirmi qualcosa che già so!» sbraitò Izanami brandendo il suo bastone verso la testa del ragazzo, «ti ho solo chiesto di aggiustarlo»
Il giovane sbuffò, per niente intimorito dalle minacce della vecchietta «E io ti ripeto che non posso farci niente. Qui ci serve un miracolo» disse guardandosi intorno e indicando le luci sul soffitto che sfarfallavano.
«E allora non ti pago»
«Cooosa?!» esclamò il giovane quasi cadendo all’indietro «sono venuto qui nonostante la pioggia e tu non mi vuoi dare nemmeno un misero spicciolo?»
«Non mi sembra che tu abbia risolto il problema, perciò ti pagherò a lavoro completato» rispose severa la vecchia Izanami.
Il ragazzo, con una vena pulsante sulla tempia si trattenne a stento dal tirarle un bel pugno in quella faccetta rugosa da schiaffi, «va al diavolo» si limitò a borbottare riprendendo le sue cose.
«Però prendo questo» disse afferrando un pupazzetto bianco con un fiocco azzurro attorno al collo. Doveva essere un Teru Teru Bōzu se non errava.
«Fa come ti pare» rispose la donna.
 
 
«Forza apriti!» implorò spazientita Juvia al suo ombrello. Erano dieci minuti che cercava di aprirlo, ma quell’oggetto non voleva proprio saperne di fare il suo lavoro.
«Ti dispiacerebbe darmi un passaggio fino al furgone, sai fuori piove»
A Juvia prese l’ennesimo colpo e, alla voce del ragazzo l’ombrello le cadde definitivamente di mano, precipitandosi subito dopo a raccoglierlo dal pavimento. La sua testa cozzò contro qualcosa di duro e se non avesse avuto il cappello in testa, che tanto alla fine era finito anche lui per terra, probabilmente adesso avrebbe avuto una qualche specie di danno celebrale.
«Ahia cazzo!» grugnì il ragazzo tenendosi la testa fra le mani e solo allora Juvia si rese conto di aver dato una bella craniata proprio a lui. Non si scavò la fossa da sola ma ci mancò poco; davvero molto poco.
«Juvia è tanto dispiaciuta!» cercò di scusarsi vedendolo in difficoltà. L’ultima cosa che voleva era che il giovane avesse un’idea sbagliata di lei.
«Non preoccuparti» rispose il moro massaggiandosi la testa, «questa testa è dura. E poi sono abituato a molto peggio» le aveva anche spiegato lui, con un mezzo sorriso, come se in quel modo fosse riuscito a tranquillizzarla.
«Tu invece ti sei fatta male?» domandò, una volta ricordatosi che anche lei aveva battuto la testa. Il coordinamento non era mai stato parte di nessuno dei due giovani a quanto pareva.
«Juvia sta bene, quando arriverà a casa ci metterà un po’ di ghiaccio»
«Dovrei averne uno per le emergenze in macchina, aspetta che vado a prenderlo» e sia era avviato davvero fuori dal piccolo porticato, tanto che Juvia ne rimase sorpresa, perché nessuno prima di allora le aveva mai fatto una gentilezza figuriamoci poi di sua spontanea volontà; ma a lei non le serviva affatto quel ghiaccio, perciò si affrettò a fermarlo.
«N-non serve!» disse con voce stridula «davvero Juvia sta bene»
Il ragazzo la scrutò per un secondo, perplesso sul da farsi, ma poi fece spallucce e borbottò un “come vuoi”.
La turchina solo allora si ricordò del suo povero cosacco che giaceva dimenticato tra i due a infradiciarsi.
«Faccio io» la precedette il ragazzo abbassandosi, questa volta stando bene attento ad avvisare per evitare altri spiacevoli incontri di testa.
Una volta afferrato l’indumento glielo spolverò un po’ con una delle mani libere – sotto lo sguardo attento di Juvia che non riusciva o non voleva perdersi neanche un movimento – e glielo porse.
La turchina lo afferrò incerta e le loro dita si sfiorarono. Juvia arrossì improvvisamente per quel contatto così inaspettato e ritrasse la mano portandosi il cappello all’altezza della bocca dello stomaco. Le dita del ragazzo erano sorprendentemente fredde, quando lei se le aspettava calde, quasi bollenti.
Anche lui sembrava imbarazzato, infatti infilò le mani in tasca e guardò da tutt’altra parte, proprio come aveva fatto Juvia.
La ragazza spolverò ulteriormente il suo indumento e avendo notato una macchia decise di non indossarlo, perciò lo ripose sotto braccio, insieme all’ombrello. Voleva ringraziarlo per la gentilezza e poi andarsene, perché lei non era mica abituata a tutte quel emozioni, anzi, forse non sapeva nemmeno cosa fossero le emozioni perché non ne aveva mai provate, abituata alla sua solita apatia. Sapeva solo che quella non era la vera Juvia, perché la Juvia che conosceva lei in diciassette anni non aveva mai fatto una piega davanti alle persone e non riusciva a spiegarsi per quale motivo le si era chiuso lo stomaco e il cuore le palpitava più del solito. Doveva valutare la possibilità di farsi vedere un cardiologo, perché quello non era normale, non per lei almeno.
Continuò a fissare il pavimento perché non avrebbe potuto sostenere quegli occhi blu come la notte. Una cosa che non c’era prima catturò la sua attenzione, cos’era quella, una… camicia? Che fosse di… No, ma che andava a pensare, nessuno si sarebbe mai tolto i vestiti in pubblico, figuriamoci con quel freddo polare che c’era a Magnolia poi. Eppure le sembrava di averla già vista.
Risollevò lo sguardo, giusto per essere sicura che la sua mente non le stesse giocando brutti scherzi.
«L-la tua maglietta!» gracchiò imbarazzata coprendosi gli occhi con una mano per non guardare – anche se era ormai troppo tardi.
Lui sbuffò e si abbassò a raccogliere l’indumento imprecando «non di nuovo» e se lo rinfilò come se non fosse una cosa del tutto naturale.
«È una cosa che faccio fin da bambino e adesso è un vizio» spiegò riabbottonando i bottoni.
Juvia annuì ancora rossa come un peperone e dopo averlo ringraziato frettolosamente si sbrigò ad andarsene definitivamente. Abbandonò la tettoia sotto cui stavano e aprì l’ombrello – ah quindi adesso funzioni? -, anche se c’era una leggera pioggerellina.
Troppo impegnata a non voltarsi per evitare di vederlo non si accorse che una macchina sfrecciava a tutta birra senza fermarsi, nonostante avesse visto perfettamente la turchina attraversare la strada. Juvia se ne accorse troppo tardi e rimase pietrificata lì in mezzo, incapace di muovere un solo muscolo e con le pupille dilatate per lo spavento.
Quando credeva che era davvero arrivata la sua fine venne afferrata prepotentemente per un braccio e tirata via. Sbatté il naso contro il petto di qualcuno e quasi quasi sperò che fosse il ragazzo dagli occhi blu di prima, ma penso che fosse impossibile che avesse rischiato anche lui pur di salvarla. Si strinse forte a quel tessuto con la mano libera perché le tremavano le gambe e le pizzicavano gli occhi per il forte spavento appena provato, mentre l’altra mano era ancora bloccata nella presa ferrea di quelle mani glaciali, che però per qualche strano motivo le infondevano un immenso calore.
Juvia alzò la testa, per vedere in volto il suo salvatore e si sentì felicissima di scoprire che era stato proprio il ragazzo ad impedire la sua morte. Non era mai stata così felice di vedere qualcuno in tutta la sua vita o di sentirsi protetta tra braccia altrui, perché lei era sempre stata schiva alle effusioni d’affetto.
«Stai bene?» domandò allarmato scrutandola in volto per assicurarsi che non fosse stata ferita in alcun modo.
«Juvia è solo spaventata» rispose con la voce rotta mentre cercava di asciugarsi una lacrima che si era andata a depositare al lato della bocca.
Il moro tirò un sospiro di sollievo e la strinse un po’ di più a sé, per poi insultare il guidatore, «quel coglione non si è nemmeno fermato»
«Ti accompagno a casa» continuò senza lasciarle il polso «non mi fido a lasciarti da sola dopo quanto appena successo»
La ragazza rimase a bocca aperta dalla premura che quello sconosciuto aveva avuto nei suoi confronti e si riscosse dai suoi pensieri solo quando lui la tirò, per invitarla a proseguire con lui.
«Juvia, forza andiamo»
«Come fai a sapere il nome di Juvia» domandò sorpresa. Non ricordava di essersi presentata.
«Parli di te stessa in terza persona» spiegò un po’ divertito dall’ingenuità di quella ragazza.
«Io sono Gray, comunque» si presentò.
«Gray-sama ha salvato la vita a Juvia» sussurrò «Juvia sarà per sempre riconoscente a Gray-sama per ciò che ha fatto»
Il moro rise, forse un po’ divertito dal modo di fare di Juvia o forse perché le faceva tenerezza.
«Guarda,» disse indicando il cielo sopra le loro testa, «ha smesso di piovere»
Juvia alzò la testa. Non poteva essere, pioveva sempre ogni volta che lei era in giro; eppure il sole splendeva in cielo.
Gray la guardò e gli parve che Juvia avesse assunto un’espressione davvero molto buffa, con quegli occhioni che sembravano non aver mai visto la luce del sole e la pelle diafana.
«Sembra che tu non abbia mai visto il sole» commentò dando voce ai suoi pensieri.
«Perché è così: nella vita di Juvia ha sempre piovuto» spiegò la turchina continuando a scrutare il cielo sopra di sé totalmente rapita dalla bellezza di quei colori così accesi e di quel tepore che sentiva addosso.
«E cosa è cambiato allora?»
«Juvia questo proprio non lo sa»































 
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Angolo Autrice:
Salve!
Questa volta mi sono cimentata in una long Gruvia - la mia prima!-, in cui ho messo tutta me stessa per scrivere, perciò spero l'apprezziate.
Per il momento ho solo alcuni capitolo interamente pronti, mentre altri ho buttato giù solo qualche riga, ma cercherò di essere il più regolare possibile con gli aggiornamenti, infatti tra un capitolo e l'altro passeranno più o meno due settimane, per darmi abbastanza tempo. La storia non durerà molto, giusto 10 capitolo come dice il titolo. Il rating cambierà giusto verso l'ultimo capitolo e diventerà rosso, eheheh, - la mia prima storia rossa.
Non credo di avere altro da aggiungere, perciò mi dileguo!
Un bacio,

H a n a e
   
 
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