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Autore: vincey_strychnine    07/10/2016    0 recensioni
Lui le assomigliava sotto molti aspetti. Anche lui era vuoto, ma ad un certo punto nella sua vita doveva aver riempito gli spazi con rabbia e odio verso tutto, tutti e magari anche verso sé stesso.
(...)
Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”
“No,” disse lui. “Ma tu sì.”
La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.
A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”
Cato e Clove partecipano agli Hunger Games perché per loro è un onore, perché l'hanno scelto. Ma se nella vita sono stati cresciuti ed addestrati per essere macchine letali, come fanno a sapere che non c'é nient'altro, nulla di meglio al di là dell'uccidere?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brutus, Cato, Clove, Lyme, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nell’oscurità della notte, le grandi costruzioni di pietra di Capitol City posizionate con maestria brillavano di luci cangianti che sembravano essere di ogni colore dello spettro. Palle di luce punteggiavano come minuscole stelle tremolanti le strade al di sotto, dove gli abitanti indaffarati potevano essere visti mentre saltellavano da edificio a edificio, i loro corpi e capelli dai colori vivaci davano l’illusione che fossero alieni provenienti da un altro pianeta. O forse non era un’illusione, quelle persone erano di un altro pianeta.

 

Nemmeno Clove, che stava in piedi appoggiata allo spesso vetro che la separava dalla città arcobaleno, poteva dire che il suo distretto, pur essendo uno dei più ricchi, fosse simile a quello spettacolo. Queste creature di Capitol City sarebbero apparse totalmente fuori posto nel suo mondo di gente di montagna e case di mattoni costruite su salite ripide, un posto dove c’era tanto cibo ma la vita era comunque dura. Pensò ai grossi muratori dalla pelle solcata, curvi sul loro lavoro come giganti minacciosi. Neanche i visi giovani dei privilegiati che si allenavano con lei nell’accademia avrebbero potuto rivaleggiare con questa razza di persone completamente nuova; queste bestiole ignoranti che non sapevano nulla del dolore, nemmeno un’avversità a pesare sulle loro insignificanti vite.

 

Il suo pollice sfregò contro il coltello stretto nella mano mentre li guardava.

 

Lyme sarebbe stata scontenta se si fosse accorta del momento in cui Clove l’aveva fatto scivolare nello stivale mentre i loro piatti venivano portati via a cena. Avrebbe pensato che volesse usarlo per uccidere Cato, o il loro accompagnatore, o chiunque altro. Ma non era questo il caso. Era solo qualcosa con cui giocherellare nelle notti insonni.

 

Non erano insolite per Clove.

 

La sua incapacità di dormire per più di una o due ore per volta un tempo la infastidiva immensamente, e anche ora c’erano comunque molte notti passate a girarsi e agitarsi senza posa mentre con gli occhi vuoti fissava la luminescenza rossa di un orologio. Ma aveva imparato a conviverci. Aveva un impatto minimo sulle sue funzioni giornaliere, o almeno per quanto lei ne sapesse. Talvolta voci che non esistevano le sussurravano all’orecchio. Talvolta lei rispondeva anche. Ma questi avvenimenti li considerava meno che piccoli misteri.

 

Per ragioni a lei ignote, le sue difficoltà a dormire erano iniziate quando era molto piccola. Da bambina vagava spesso per i corridoi vuoti e per le strade della sua città fino all’alba. In seguito crescendo aveva iniziato ad allenarsi con varie armi, compresi i suoi amati coltelli. Questo era, in parte, il modo in cui era stata in grado di avanzare così rapidamente all’accademia: gli altri nel corso avevano solo il numero limitato delle ore diurne per perfezionare le loro tecniche. Presto aveva iniziato a credere che il sonno fosse qualcosa di cui poteva fare a meno.

 

Dopo un’edizione degli Hunger Games in cui un ragazzo era riuscito a vincere seguendo i concorrenti e aspettando che si addormentassero prima di ucciderli, era giunta alla conclusione che anche questa fosse una debolezza, uno stato di estrema vulnerabilità. Di conseguenza qualcosa di cui poteva decisamente fare a meno.

 

Anche se a volte si trovava a chiedersi come doveva essere un sogno. O anche un incubo.

 

Il silenzio che riempiva l’aria della stanza fu spezzato dal suono di un respiro leggero e dallo scricchiolio di una caviglia.

 

Anche Cato non riusciva a dormire bene.

 

Clove rimpianse subito di aver sobbalzato al suono. Quello era il suo obbiettivo in fin dei conti, quantomeno intimidirla, figurarsi spaventarla muovendosi silenziosamente fino a che non fosse stato alle sue spalle, solo per dimostrarle che lei sarebbe potuta essergli in pugno. Se fossero stati nell’arena, avrebbe potuto tagliarle la gola, avrebbe potuto accoltellarla dritto nelle budella. Molte delle loro interazioni erano di questo tipo, cercavano di intimidirsi l’uno con l’altra, di infastidirsi. Era infantile, ma del resto, non erano forse ancora dei bambini?

 

“E cosa pensi di farci con quello?” disse in un sussurro così roco e basso che sarebbe potuto essere il rombo di un terremoto.

 

C’era qualcosa nel suo tono che le fece capire che lui sapesse cosa le era passato per la testa a cena. L’elettricità le scorreva nelle vene ma continuò a dargli le spalle. Il suolo sotto ai suoi piedi scalzi cedette un poco quando lui spostò il suo peso e le si avvicinò.

 

“Rubi l’argenteria adesso? Mi sembra una cosa un po’ da disperati,” proseguì. Poteva quasi sentire il ghigno sul suo viso prima ancora di voltarsi a guardarlo.

 

Cato la sovrastava considerevolmente in altezza e larghezza. Erano così vicini che lei dovette sollevare la testa per guardarlo negli occhi.

 

“Almeno io non la rompo,” bisbigliò lei. Il coltello le pareva leggero nelle mani mentre lo posizionava sul suo addome, muovendolo verso l’alto e sfiorando la linea definita fra i muscoli del petto con deliberata lentezza. Lui si irrigidì immediatamente ma le sue dita non si chiusero attorno al polso di lei finché la lama non fu contro la curva del suo collo.

 

Lei osservò la protuberanza sulla sua gola alzarsi e abbassarsi mentre deglutiva. La pelle si gonfiò leggermente con delicata morbidezza attorno alla lama, come se questa stesse premendo contro a un cuscino anziché contro al suo collo. La sua vista si stava oscurando nuovamente. Ciò che era iniziato come un dispetto innocente si trasformò in qualcosa di totalmente diverso. L’eccitazione le si diffuse in tutto il corpo, nelle braccia, nelle dita. La sua mascella si contrasse e i suoi occhi si spalancarono al pensiero del suo sangue. tutto quello che serviva era una spinta. Poteva farlo. 

 

E quindi lo fece.

 

Per un solo istante, con un lievissimo movimento del polso, la lama penetrò nella superficie morbida della sua pelle. Se lui non l’avesse trattenuta, avrebbe potuto squarciarla e far schizzare il suo sangue sulle pareti. Ma le sue dita grosse si chiusero sul polso sottile con forza sufficiente a lanciare il coltello via dalla sua mano e per terra. Prima che lei potesse controllarsi le sfuggì un rantolo per la pressione esercitata sul suo polso. La sua mano libera che, solo ora se ne rese conto, era aggrappata alla stoffa della maglietta sottile che lui indossava, volò verso la sua faccia di riflesso, solo per essere catturata dalle dita letali della sua altra mano.

 

L’alone ora rosso delle luci di Capitol City era riflesso dai suoi occhi vacui mentre gravavano su quelli di lei.. Uno squittio incontrollato e involontario le sfuggì dalle labbra mentre la sua presa si stringeva, ma stavolta non le importò nemmeno. Come un animale in trappola, era tornata agli istinti primordiali e si agitava nella sua morsa per liberarsi i polsi prima che si spezzassero. La linea dura della bocca di Cato s’incurvò in un sorriso alla vista della sua disperazione.

 

“Starei attento con quella cosa se fossi in te,” sussurrò con voce rauca, tirando il corpo di Clove contro al suo come se fosse stato leggerissimo. Tutto quello che gli occhi di lei riuscivano a vedere ora erano le sue spalle possenti e il collo che adesso era marcato da una sottile linea rosa.

 

Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”

 

“No,” disse lui. “Ma tu sì.”

 

La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.

 

A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”

 

Poi il volto squadrato di lui si avvicinò al suo, inclinato abbastanza perché il suo respiro caldo le sfiorasse le labbra. Le ciglia bionde si abbassarono un po’ sugli occhi chiari mentre questi restavano incollati ai suoi con un’espressione che lei non aveva mai visto sui suoi lineamenti, che poteva essere descritta come tra il letargico e il seducente. 

 

“Allora forse dovresti averne. Sei così…” tacque per un momento mentre le stringeva nuovamente i polsi, uno dei quali scricchiolò. Il dolore per lei era all’improvviso insostenibile. Le avrebbe spezzato i polsi. Detestava tutto ciò. Detestava non avere il controllo. Lacrime di agonia le inumidirono gli occhi e si morse forte il labbro per non urlare. “…Delicata.”

 

“Potrei ucciderti,” sibilò. “In questo momento, potrei ucciderti. Sarebbe così semplice spezzare il tuo bel collo sottile.”

 

E poi fu il suo turno di provare dolore. Quando il ginocchio di Clove andò diretto al suo inguine, Cato si piegò immediatamente in due e le allontanò le mani con tanta forza da scagliare tutto il suo corpo a terra. Un tonfo leggero scosse l’aria assieme alla voce di Cato, che sputò una dozzina di modi diversi di chiamarla puttana.Con difficoltà riuscì a strisciare fino all’utensile lanciato prima che stava per essere usato come arma. Avrebbe sofferto per qual suo giochetto. Se ne sarebbe assicurata.

 

“Sei piuttosto delicato anche tu, dolcezza,” ringhiò.

 

La stanza le sfrecciò davanti agli occhi prima ancora che potesse girarsi per accoltellarlo, e la sua testa fu improvvisamente sbattuta contro il muro. Luci brillanti le offuscavano la vista. Cato la stava tenendo per la gola, spingendo lentamente. La disarmò del coltello con facilità.

 

“Me la pagherai per questo,” ansimò lui, nonostante lei potesse a stento sentirlo per via del ronzio nelle sue orecchie.

 

Aveva già radunato un bel po’ di saliva nelle guance pronta a sputargliela contro quando le luci della stanza si accesero improvvisamente, accecandola con il loro bagliore inaspettato.

 

Brutus stava appoggiato alla fine di una scalinata di fronte a loro. La nitidezza della stanza illuminata permetteva una visibilità sufficiente a notare il sorrisetto in cui era torta la sua bocca sul viso irruvidito dalla barba scura e sfatta, e i suoi occhi erano illuminati da qualcosa che Clove non riusciva a decifrare. 

 

“Complimenti bambini, le folle lo ameranno,” si complimentò. Poi aggiunse, in tono molto più serio: “Cato, lasciala andare.”

 

Per un momento non fu certa che Cato gli avrebbe dato ascolto ma un istante dopo la sua mano si ritirò dal suo collo come se l’avesse morso. L’aria le bruciò fastidiosamente in gola quando inalò un respiro profondo e urgente, che quasi la fece soffocare. Afferrando le zone che le dita di lui avevano lasciato, le sue mani tremavano ancora.

 

Fu in quel momento che si rese conto del danno reale che le avrebbe potuto causare. I suoi polsi. Le sue mani. Il suo controllo. Senza la piena capacità e la precisione delle sue mani non era nulla, sarebbe stata inutile nell’arena. Alla luce poteva ora vedere i lividi già anneriti concentrati principalmente sulla pelle sensibile sotto ai palmi. Roteò nervosamente un polso, e ciò risultò in uno scricchiolio minaccioso e una fitta di dolore infuocata che le attraversò il braccio.

 

Quel bastardo. Quel fottuto bastardo.

 

Alzò gli occhi per lanciare un’occhiataccia a Cato che stava in piedi di fronte a lei e scoprì che l’aveva battuta sul tempo. Poi la mole di Brutus lo escluse dalla sua vista.

 

“Clove, fammi vedere i polsi,” disse con una delicatezza inusuale.

 

Per tutta risposta lei scosse la testa e li tenne saldi lungo i fianchi. L’unico modo per mantenere quel poco di dignità che le restava era soffrire da sola. Non voleva il suo aiuto, e soprattutto non voleva la sua compassione.

 

Subito la delicatezza evaporò dalla sua voce e lei realizzò che non avrebbe ricevuto alcuna compassione da parte sua.

 

Fammi vedere i tuoi dannatissimi polsi.” Abbaiò l’ordine con tanta durezza da abbattere il suo muro d’orgoglio e i polsi quasi volarono dai suoi fianchi.

 

Li girò rudemente nelle mani callose, ignorando i sussulti che lei cercava di trattenersi dal compiere. Dopo un momento la fissò con gli occhi scuri e disse con voce piatta: “Non sono rotti.”

 

Sapeva cosa voleva dire. Nessun danno irreparabile. Fattene una ragione.

 

Ciò nonostante le sue parole non le arrecarono sollievo. Non poteva essere certa che non stesse mentendo. Le venne in mente che Brutus poteva aver assistito a tutta la scena e aver deciso spontaneamente di non intervenire. Era il mentore di Cato, del resto. Perché mai avrebbe dovuto impedire al suo tributo di mettere in difficoltà la competizione? Allo stesso modo, perché avrebbe dovuto preoccuparsi che i suoi polsi non fossero davvero danneggiati? Dopotutto sarebbero stati uno degli ingredienti fondamentali perché un coltello si piantasse nel petto di Cato.

 

Il volto di Lyme si fece strada nella sua mente e si maledisse da sola per aver desiderato la presenza della sua mentore nel suo stato fisico già indebolito.

 

“Siete fortunati che Lyme sia fuori stanotte,” disse Brutus, leggendole nel pensiero. Ma i suoi occhi erano puntati su Cato. “Ovviamente dovrò riferirle l’accaduto. O almeno una parte.” Diresse la sua attenzione su Clove, “Dovrai farti sistemare questo piccolo infortunio prima dell’allenamento di domani. Non puoi andartene in giro con quei lividi. Non favorisce la nostra immagine.”

 

Per non parlare di quanto poco l’avrebbe favorita durante l’allenamento.

 

Un sorriso sinistro s’insinuò sul suo viso mentre giocherellava con il coltello di Clove. Non si era nemmeno accorta che l’avesse raccolto.

 

“Devo dire che siete di gran lunga i tributi più esuberanti che il nostro distretto abbia avuto da un po’ di tempo a questa parte. E vuol dire davvero molto. I vostri caratterini vi procureranno un bel po’ di sponsor. E il vostro slancio ad uccidere…” La sua voce calò di un’ottava. “…vi porterà lontano nei giochi. Non sono stato all’allenamento con voi ma da quello che mi avete detto gli altri tributi quest’anno sembrano ancor più deboli del solito.”

 

Era vero. I distretti costituivano scarsa competizione per il Due quell’anno. Clove li aveva osservati durante l’allenamento; il ragazzino storpio del Dieci, la coppia di spilungoni allampanati del Sei, il ragazzo malnutrito del Nove, la ragazza dell’Otto che sembrava sempre sul punto di piangere, la ragazza del Dodici che tentava sempre di imparare a fare i nodi e che appariva solo leggermente più difficile da uccidere rispetto alla sorella al posto della quale si era offerta così audacemente, la ragazzina dell’Undici…

 

Allora la presenza enorme ed incombente del ragazzo dell’Undici si insinuò nella sua mente. C’era qualcosa di lui che la metteva a disagio. Lui avrebbe costituito della seria competizione. Forse era per questo.

 

Brutus la strappò ai suoi pensieri.

 

“Mi sembra che tutto preannunci un vincitore dal Distretto Due quest’anno,” disse e Clove non poté non notare i suoi occhi fissi su quelli di Cato. “Il mio consiglio per voi due è di controllare bene il vostro tempismo. Prima di tutto controllatevi fino ai giochi. Una volta che sarete là concentratevi per abbattere i tributi più deboli per primi. Usate il Distretto Uno finché la maggior parte della competizione sarà morta e allora uccidete anche loro due.”

 

Cominciò ad allontanarsi con il capo reclinato in avanti e un sorriso che mostrava tutti i suoi denti bianchi e lucenti.

 

“Allora, al momento giusto,” disse, “Potrete usare tutte le vostre forze per uccidervi a vicenda.”

 

E con ciò spense le luci, lasciando Clove e Cato di nuovo nell’oscurità. L’unica interruzione nel silenzio giunse da un punto sulle scale dove Brutus si fermò prima di chiudersi alle spalle la porta della sua stanza per dire “Buonanotte, ragazzi.”

  
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