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Autore: Lilith in Capricorn    16/10/2016    0 recensioni
In un mondo in cui la magia è scomparsa da ben 1300 anni e gli dèi hanno smesso di parlare con i mortali ormai da tempo, l'Impero Katileo è all'apice del suo sviluppo tecnologico e la sua sete di conquista sembra incontrastabile. Ha ormai sotto il suo controllo gran parte del Grande Continente, ma una nuova alleanza di regni del nord sembra essere in grado di tenergli testa: la guerra con il Wesmark Settentrionale e Meridionale, infatti, va avanti già da diversi anni e sembra non vi sia modo di uscire dall'impasse ... Finché l'Imperatore Kut non ha un'idea brillante e ambiziosa e decide di mettere insieme una spedizione per realizzarla.
Intanto, antichi misteri, enigmatiche profezie e arcaiche forze da tempo sopite iniziano a riemergere dalle profondità dell'oblio, ma non tutti sembrano rendersene conto ...
Genere: Avventura, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 10: Una commissione speciale
 
Mentre da nord a sud numerose battaglie impregnavano di rosso la terra del Grande Continente, e miseria e sofferenza dilagavano nelle zone più remote dell'Impero, nella splendente Katils la vita sembrava quasi una fiaba: sullo sfondo di una meravigliosa città dalle mura candide e dai tetti dorati, lambita dalle luccicanti acque dell'oceano e del fiume Geremendt, una ridda di eleganti abiti colorati dai tessuti preziosi affollava le strade, i ponti e i canali.

Nobiluomini e nobildonne dalle maniere raffinate e cortesi si alternavano a sacerdoti dall'aria sobria e solenne, studiosi avvolti nelle loro divise austere, mercanti arricchiti dai modi spicci e gli abiti pacchiani, studenti squattrinati e chiassosi sempre con qualche libro o pergamena sottobraccio, e infine alcuni schiavi riconoscibili dal nastrino nero legato al collo; persino gli abiti di questi ultimi avevano una loro dignità ed eleganza.

Mereis, ad esempio, quella sera indossava un corto vestito rosso, sopra una leggerissima camicetta, stretto in vita da un corsetto velato da uno strato di pizzo nero. Il fiocco da schiava si armonizzava perfettamente col colletto della camicia, tanto da sembrare quasi una normale decorazione. I sandali, comunque, erano il suo capo di abbigliamento preferito, perché non aveva mai visto, né indossato una calzatura simile prima, e li trovava terribilmente graziosi sui suoi piedi.

La prima volta che Urem Tolban l'aveva fatta vestire di tutto punto, chiedendole di indossare i suoi gioielli per un'esibizione, Mereis era rimasta a dir poco basita, ma aveva presto imparato a fare tesoro di quelle piacevoli occasioni in cui le era permesso di lasciare per qualche ora il suo complicato lavoro e stare semplicemente ferma, come un manichino di legno da sartoria, a farsi ammirare dalle donne ricche di Katils.

Nei primi minuti sorridere e ammiccare non era facile, ma se c'era una cosa in cui le nobildonne eccellevano questa era mettere a proprio agio il prossimo, che si trattasse di un altro nobile, di un amico, o persino di uno schiavo. Così, non appena venivano a sapere che era stata proprio Mereis ad intagliare alcune delle pietre, subito iniziavano a conversare con lei e spesso le chiedevano consiglio su quale gioiello si sposasse meglio con la tonalità dei loro occhi, della pelle, o dei capelli.

Quella sera, però, non ci sarebbe stata occasione di parlare e Mereis non avrebbe potuto aiutare il suo gentile padrone a convincere qualche compratore indeciso, dal momento che avrebbero preso parte ad un'asta. L'occasione era il debutto in società dei giovani nobili che avevano raggiunto la maggiore età quell'anno ed era un'opportunità d'oro per attirare qualche nuovo cliente. Il vantaggio dell'invito, in effetti, era solo questo, dato che il ricavato delle aste sarebbe andato in beneficenza a tre importanti accademie: quella militare, quella per i letterati e i funzionari e quella dei guaritori della Mandragora.

Assieme a Mereis c'erano anche altre due donne e tre uomini particolarmente fascinosi ed esotici, come Nijöllar e Sasjër, i due gemelli provenienti da una delle tante Signorie dei Monti Scintillanti: avevano la pelle lattea, perfetta, e i capelli quasi bianchi, ed erano talmente identici che, osservando solo il viso, era pressoché impossibile distinguere la femmina dal maschio. Poi c'era l'ammaliante e misterioso Kretgar, arrivato chissà come a Katils dalla lontana Tselbuc, la dolce e giovanissima Orelle di Mei-Nash e infine il loquace Gresvardt, un contrabbandiere originario di Mirat Sud. Quella sera ci avrebbe pensato il gioielliere a parlare: a loro sarebbe bastato fare un sorriso per sedurre gli astanti.

Poiché il loro padrone nutriva una profonda diffidenza verso le glurendel − le leggerissime e affusolate imbarcazioni che solcavano i canali − giunsero alla villa della festa in carrozza, percorrendo le strade illuminate dai numerosi lampioni ad olio del quartiere più ricco. Come tutte le altre abitazioni, anche quella era costruita con mattoni bianchissimi, regolarmente puliti e lucidati, e probabilmente aveva anche il tipico tetto dorato, ma quella sera era stata addobbata con festoni di foglie e frutti, statuette, fiocchi di seta, piume di uccello variopinte e molti fiori.

Vennero accolti con calore e cortesia da un servitore e fatti accomodare in una stanzetta adiacente a quella dell'asta, piena di ritratti e con dei comodi divanetti accanto a delle finestre velate da preziose tende, dove iniziarono a pettinarsi a vicenda e indossare i gioielli da presentare.

«Non ci tratterremo a lungo» li rassicurò Urem Tolban, vedendoli già stanchi a causa della lunga giornata di lavoro. «Sarete presto liberi di tornare a casa a riposare, se vorrete.»

"Non è poi una cattiva idea" pensò Mereis, ma alla fine quasi certamente si sarebbe trattenuta a parlare un po', e con lei anche Gresvardt.  Aveva sempre amato le conversazioni educate, per quanto la cortesia dei nobili fosse artificiosa e di facciata. In quanto a Gresvardt, beh, semplicemente adorava fare sfoggio della sua facondia per sedurre le giovani e sentimentali nobildonne.

Difatti, conclusa l'asta, mentre gli altri schiavi facevano ritorno a casa su una glurendel, Mereis andò a consegnare i suoi bracciali e la sua collana da corpo, si rimise il fiocco nero e tornò nella sala per unirsi al suo padrone, che subito la presentò come la sua migliore intagliatrice. Davanti alla curiosità dei giovani debuttanti e dei loro ricchi famigliari, iniziarono entrambi a tessere le lodi l'uno dell'altro, come erano soliti fare.

«Dovreste vederla all'opera, Signori» diceva sempre il gioielliere, «ha delle mani talmente veloci e precise che sembrano quelle di un folletto di Fezàr

«Senza le vostre cornici» rispondeva Mereis, «le mie creazioni non sono nulla di speciale; come dei petali che assumono vera bellezza e valore soltanto se costituiscono una corolla.»

Tra una battuta e l'altra sull'arte della creazione dei gioielli, più tardi un gruppetto di giovani debuttanti avvicinò Mereis e, con un velo di imbarazzo reso meno goffo da quella particolare grazia che avevano appreso nell'infanzia, le dissero: «Hai un aspetto molto particolare: non si vedono molte donne col tuo tipo di fascino, a Katils. Ci piacerebbe sapere da dove vieni.»

Quando Mereis rispose che veniva da Rinno, subito i giovani spalancarono la bocca in maniera buffamente teatrale, scambiandosi occhiate meravigliate. «La tua gente è così rara da queste parti ... Non abbiamo mai conosciuto un barbaro di Rinno.»

A quella parola, forse pronunciata in buonafede, Mereis dovette trattenersi dallo storcere il naso e si sforzò di soddisfare la loro grande curiosità: «Parlaci della tua tribù. È vero che su quell'isola bisogna spostarsi in continuazione, per via dei vulcani e della scarsità di cibo, e che non esistono città? E che quindi non ci sono re e regine? E le enormi miniere di diamanti? Quelle sono vere? E i cannibali? Davvero ci sono tribù di cannibali a Rinno, o è solo una sciocca storiella raccontata ai bambini per mettergli paura?»

Davvero tante domande, ma nulla che non le fosse già stato chiesto, da quando era stata portata via dalla sua terra. Ciò che la stupì quella volta, però, fu la frivolezza con cui i giovani rampolli discussero con lei di quella che un tempo era stata la sua casa, dalla quale lei era stata brutalmente strappata. Sembrava quasi che non si rendessero conto della serie di ingiustizie e sofferenze che l'avevano portata lì, e che si aspettassero di ascoltare il resoconto di un viaggio di piacere.

I giovani di Katils, nati e cresciuti nella capitale, pareva che non avessero la minima cognizione del dolore e della miseria che affliggevano il mondo al di fuori della loro splendente favola. Non avevano idea delle barbarie perpetrate dalla loro stessa gente, dai loro stessi padri, o forse ce l'avevano, ma non gliene importava o erano addirittura tanto arroganti da credere di essere in diritto di usurpare liberamente la terra altrui.

*
 
Nonostante fosse ormai inverno e i venti monsonici spazzassero incessantemente i campi, le foreste, i giardini e le strade, portando dal nord un'aria fresca e asciutta, il vestiario tipico di Katils non era cambiato molto e Mereis indossava ancora gli stessi abiti leggeri, fatta eccezione per una tunica a maniche lunghe stretta in vita e larga nel gonnellino, come sempre adornata col fiocco nero, e la curiosa aggiunta di un paio di pantaloni che Urem Tolban le aveva donato quella stessa mattina.

L'insieme, sebbene non mancasse della consueta eleganza, era decisamente più sobrio e coprente e, per quanto non le dispiacessero quei nuovi indumenti, era chiaro che dietro ci fosse una ragione ben precisa, visto che tutte le atre donne continuavano ad indossare gonne, camicette e abiti elaborati. Il fatto che quella mattina fosse stato ordinato a Gresvardt di accompagnarla, come una sorta di guardia personale, non era che una conferma del suo sospetto.

Così, nel bel mezzo del suo aneddoto sulla giovane contessa che diceva − o forse millantava? − di aver sedotto la sera precedente, Mereis interruppe il suo accompagnatore: «Gresvardt, di' la verità: perché il Signor Tolban mi ha dato questi vestiti e ti ha ordinato di accompagnarmi? Ho sempre fatto le sue commissioni da sola e non ho mai cercato di fuggire, perciò non credo che abbia perduto la sua fiducia in me.»

«No, infatti» rispose il compagno schiavo, con un sospiro infastidito.

«Allora perché ...»

«Perché dove stiamo andando non è un bel posto.» Poi, ripensandoci, rettificò: «O meglio, la nostra destinazione è soltanto la villa di un celebre studioso e inventore, ma per raggiungerla, beh, dovremo passare attraverso il luogo in cui vanno a morire tutte le speranze di quelli come noi.»

A quella triste descrizione Mereis rispose con un'occhiata confusa e la fronte aggrottata, ma tutto le fu più chiaro quando raggiunsero l'ufficio di vigilanza della città e Gresvardt la indirizzò verso uno stretto vicoletto che stava fra quello e un altro edificio adiacente. Prima che potessero imboccarlo, però, uno dei vigili andò verso di loro e intimò un "altolà!".

«Chi siete e perché siete diretti verso il Promontorio?» domandò brusco il gendarme, sfiorando con le dita l'impugnatura del suo stocco − la tipica lama lunga e sottile che Mereis aveva visto portare sul fianco da molti uomini a Katils.

«Il mio nome è Gresvardt e lei è Mereis» li presentò l'uomo, puntando poi un dito sul suo fiocco nero. «Come capirete, siamo stati mandati dal nostro padrone per una commissione speciale: dobbiamo consegnare un prezioso oggetto al Signor Ferem Peregrast.»

Il vigilante sembrò rilassarsi un poco e, raddrizzando il berretto adornato con una cordicella d'oro, una penna d'uccello rossa e lo stemma della città, ribatté: «Conosco il Signor Peregrast, ma vorrei sapere chi è il vostro padrone e cosa siete stati incaricati di consegnare.»

Per tutta risposta, Mereis aprì delicatamente un pesante cofanetto foderato in seta e Gresvardt spiegò: «Il celebre gioielliere Urem Tolban ha recentemente collaborato con il Signor Peregrast per realizzarlo. Ormai è quasi completo, il nostro padrone ha già finito la sua parte del lavoro.»

Il gendarme osservò incuriosito e meravigliato il prezioso oggetto per qualche istante, poi, com'era prevedibile, domandò: «Ma ... cos'è, esattamente?»

Gresvardt si strinse nelle spalle ed esclamò: «Cosa volete che ne sappia un umile schiavo del lavoro di due grandi e brillanti maestri? A ben guardarlo, vi direi che parrebbe un doppio cannocchiale, o qualcosa di simile, ma come ho detto sono solo un semplice servitore.»

Il vigilante parve soddisfatto della risposta e, dopo aver restituito il cofanetto, si offrì di scortarli fino alla villa. Mereis stava per rifiutare con cortesia, ma Gresvardt accettò con entusiasmo, prima che lei potesse dire qualunque cosa.

«Avrebbe potuto sospettare che volessimo rivenderlo a qualche contrabbandiere» le sussurrò all'orecchio il suo compagno, mentre imboccavano il vicoletto. «E comunque, con un vigilante saremo molto più al sicuro.»

Da cosa dovessero stare al sicuro, Mereis lo capì non appena la sua attenzione si rivolse ai volti, alle case e agli odori che affollavano la strada che risaliva verso il Promontorio: pareti luride, infissi marci, carretti sgangherati pieni di frutta e verdura tutt'altro che fresche, pesce nauseabondo e pane raffermo, una folla di volti stanchi e scavati, corpi smunti e abiti cenciosi, lungo una strada piena di buche riempite di un liquame nero e fetido che scorreva in rivoletti fra le pietre.

Non c'era da stupirsi che persino la fulgida Katils avesse un quartiere abbandonato a se stesso, in cui erano radunati tutti coloro che non rientravano nel disegno di una capitale perfetta, ordinata e favolistica: contadini rovinati da una pessima annata, mercanti e artigiani sommersi dai debiti, donne ripudiate dai propri mariti, piccoli orfani abbandonati, moltissimi storpi, ciechi e malati, uomini soli e senza speranza e, ovviamente, ladri e delinquenti nascosti in ogni angolo.

Tuttavia, era la prima volta che vedeva i miserabili e gli indesiderati così ben segregati dal resto del mondo: se persino loro due che avevano cercato di entrare erano stati prontamente bloccati dall'attenta vigilanza, uscire da quel luogo, o perlomeno raggiungere i quartieri ricchi e perbene, doveva essere un'impresa degna dei più astuti e furtivi contrabbandieri. Dopotutto, lo stesso Gresvardt era stato arrestato e messo ai ceppi proprio alle porte di Katils.

Non appena si ritrovò a pensare al compagno, Mereis tornò col pensiero alle parole che aveva usato per descrivere quel luogo infelice. Vinta da una perplessa curiosità, si inclinò verso di lui e domandò sottovoce: «Perché credi che finiremo anche noi qui, un giorno?»

Il fu contrabbandiere, per tutta risposta, inarcò le sopracciglia e le rivolse un'espressione che sembrava dire: "Non è forse ovvio?".

«Che c'è? Che ho detto?» ribatté lei, scavalcando una buca piena di chissà quanto liquame nero.

«Pensa a tutti gli schiavi che hai conosciuto» le suggerì, «come hanno finito per diventarlo? Cos'erano prima?»

Dopotutto, Gresvardt aveva ragione, era alquanto ovvio: contrabbandieri, ladruncoli, debitori, truffatori, falsari, forestieri pieni di rancore provenienti dai territori conquistati ... «Persone di cui non ci si può fidare» sussurrò Mereis, quasi più a se stessa che al suo compagno.

Gresvardt annuì: «Ben pochi sono disposti ad associarsi con chi ha un passato poco ... onorevole. Mio padre era un bandito tra i più noti e odiati a Mirat Sud: derubava i mercanti e persino i nobili, assalendoli lungo le vie che attraversano le foreste. Io sono sempre stato un contrabbandiere. Quanto a te, beh, nessuno sa niente di te, se non che hai un certo simbolo impresso a fuoco sul collo» disse, indicando il carattere divino della schiavitù con cui Genan Tārmend l'aveva marchiata prima di disfarsene, «che la dice lunga sul tuo temperamento.»

A quel punto, Mereis si chiuse in un silenzio malinconico e meditabondo, mentre Gresvardt ascoltava con partecipazione il vigilante che li metteva in guardia dai pericoli del Promontorio, narrando delle pericolose imprese che aveva compiuto col suo squadrone, da quella volta in cui avevano scoperto il nascondiglio di una scaltra banda di ladri senza scrupoli, a quella in cui avevano dovuto respingere l'assalto di una folla di indesiderati che aveva cercato di distruggere i cancelli e scavalcare i muri e gli edifici per riversarsi in città.

Soltanto una volta giunti in vista della villa, finalmente Mereis si riprese dal suo profondo sconforto e il suo sguardo si fece incuriosito: la villa, sebbene fosse di dimensioni modeste, rispetto ai palazzi che si affacciavano sui canali della città, era probabilmente l'edificio più bello che avesse visto. Non perché fosse particolarmente sfarzoso ed elegante, al contrario, ma piuttosto per la sua unicità.

Per quanto le forme di Katils ispirassero raffinatezza, maestosità, forza, stabilità e armonia, infatti, bisognava ammettere che erano fin troppo uniformi, tanto da diventare persino ipnotiche, se si attraversavano velocemente i canali a bordo di una glurendel, e Mereis era persino riuscita a perdersi, qualche volta. In mezzo ad un simile contesto, la dimora di Peregrast era come una nota fuori posto, ma non stonata.

Questa sensazione era ispirata già dall'alta inferriata arzigogolata, tutta avvolta da rampicanti intrecciati che culminavano in profumatissimi fiori viola dalla forma simile a quella di un insetto alato. Al di là del cancello, tra i ferri intrecciati, era visibile una curiosa villa rotondeggiante, affiancata da una piccola torre della stessa forma. Numerose statue riempivano alcune nicchie ricavate su entrambi gli edifici, mentre altre, curiosamente, erano state svuotate e solo la presenza di aloni chiari testimoniava che un tempo erano presenti statue anche in quelle.

Osservando il tetto dell'edificio più basso e ampio, poi, Mereis notò che era adornato da una serie di anelli interrotti qui e là da delle tacche verticali e posizionati a distanze diverse secondo un criterio che non riusciva a capire. Sulla punta del tetto, invece, spiccava una sorta di punta di lancia lunghissima, la cui ombra gettata sulle tegole arrivava a sfiorare uno degli anelli. La torre, per contro, sembrava non avere affatto un tetto.

Volando con lo sguardo sul giardino meticolosamente curato, la sua attenzione rimase a lungo catturata da una curiosa fontana: questa rappresentava una donna dagli arti robusti e la tipica fisionomia delle genti dell'estremo nord, che stringeva fra le mani un'anfora sopra la testa. Sotto lo sguardo incantato della schiava, l'acqua che sgorgava dall'anfora si riversava in un lungo recipiente ricavato dal tronco sottile e flessibile delle piante della vicina giungla e, quando si fu riempito, si rovesciò ruotando sul suo perno, andando a riversare tutto il suo contenuto nel recipiente successivo.

Anche questo, una volta pieno, si rovesciò su quello sottostante e così via, in un percorso a zigzag, fino a che l'acqua non raggiunse la vasca. Ad ogni passaggio, quando i recipienti svuotati si raddrizzavano tornando sull'originario punto di appoggio, emettevano un suono battendo e ognuno aveva una sua nota personale, creando così una melodia che si fondeva armoniosamente con il gorgoglio dell'acqua, il fischio del vento e il frusciare delle foglie e dell'erba.

La gradevole sensazione di pace, controllo e comunione che tutto l'insieme trasmetteva rapì a tal punto l'attenzione di Mereis che neanche si rese conto di essersi aggrappata alle sbarre del cancello, spingendo la faccia più in là che poteva e scansando con degli schiaffetti il rampicante e i suoi fiori. La sua concentrazione era tale che solo all'ultimo vide arrivare di gran lena, gesticolando come un forsennato, un vecchietto dalla faccia lunga come quella di un kabé che, rivolgendosi proprio a lei, gridava: «Via! Via quelle manacce dalle mie carennel

Al brusco e accorato richiamo, Mereis quasi perse un battito e lasciò immediatamente la presa sulle sbarre, scusandosi umilmente.

«Hai idea di quanta fatica mi sia costata far crescere queste carennel lungo il cancello?» continuò a brontolare l'uomo, allisciando e riposizionando i suoi preziosi fiori. «Queste piante non sono mica come quei volgari rampicanti da salotto per giardinieri pigri e inetti! Questi son fiori delicati, mia cara, occorre un vero artista per farli crescere come si deve!»

«Perdonatemi» ripeté lei mortificata, «non conosco le carennel, non sapevo fossero tanto fragili.»

«Ovvio che tu non le conosca, cosa può saperne di queste cose una come te?» ribatté rudemente il vecchio e Mereis, perplessa, si chiese cosa intendesse con "una come te". Una schiava? Una straniera?

«Beh, una cosa la so» replicò, non riuscendo a trattenersi, «fossi in voi non seminerei delle piante tanto preziose proprio lungo la recinzione, dove chiunque può vederle e toccarle.»

Le occhiatacce di Gresvardt e del vigilante non tardarono ad arrivare, mentre il vecchio le rivolse uno sguardo confuso, osservandola per la prima volta negli occhi; aprì la bocca come se volesse ribattere e darle una lezione, ma poi decise che non ne valeva la pena − o magari che fosse nel torto? − e liquidò la cosa con un: «Ah!» scuotendo la testa e le braccia spazientito.

«Vi chiedo perdono, Signor Peregrast» intervenne a quel punto il vigilante, «avrei dovuto metterli in guardia dal toccare qualunque cosa nella vostra dimora.»

«Oh, non importa, Bernass, non fartene una colpa» gli rispose il vecchio Ferem, con tono più dolce, mentre apriva delicatamente il cancello, giusto quel poco sufficiente a far passare una persona alla volta. «Immagino che voi siate i due schiavi mandati dal caro Urem. Prego, entrate. Anche tu, Bernass, e» aggiunse col tono burbero di prima, «se dovessero azzardarsi a toccare qualcos'altro dagli pure una bella bastonata in testa!»

«Certamente, Signore» acconsentì il gendarme, trattenendo a stento una risata, mentre indirizzava i due verso lo stretto passaggio aperto.

Sorprendentemente, oltre il portone d'ingresso la dimora era l'esatto opposto del giardino: polverosa, disordinata, piena di inutili cianfrusaglie ammucchiate contro le pareti, e gran parte delle stanze − quasi tutte rigorosamente prive di una porta − sembrava fungere da magazzino per strampalati oggetti, macchinari e invenzioni probabilmente non riuscite.

Gli unici oggetti accuratamente spolverati e posizionati erano, appunto, alcuni di quegli strani macchinari e qualche scultura, un paio delle quali sembravano suggerire che fosse il vecchio stesso a realizzarle, poiché erano palesemente incomplete. Tutto questo, però, Mereis riuscì a vederlo solo parzialmente, poiché ogni finestra era ben chiusa e oscurata da pesanti tende e uno sgradevole odore stantio aleggiava fin dall'ingresso.

«Presto, chiudi subito la porta, Bernass: niente luce in casa! Esperimenti con le piante» spiegò sbrigativamente il vecchio Ferem, scortandoli verso una pesante porta di ferro, zigzagando tra le cianfrusaglie a terra, fra le quali Gresvardt per poco non inciampò. Superato il portone cigolante, il quartetto si ritrovò in una sorta di lunga anticamera vuota, alla cui estremità opposta un'altra porta di ferro si apriva su una stanza circolare che si prospettava molto diversa dalle altre: a giudicare dalla posizione, doveva trattarsi della piccola torre che affiancava la dimora.

Quando il vecchio li scortò all'interno e li fece accomodare attorno ad un grosso tavolo, videro che si trattava di una sorta di officina, con una piccola fornace, degli scaffali pieni di oggetti metallici di ogni sorta − armi, chiavistelli, martelli, strumenti vari, pezzi di armature, misteriose componenti per chissà quali macchinari ... − alcuni barili, una massiccia incudine e una gran quantità di fogli e pergamene sparpagliati sul tavolo centrale.

Sbirciando fra questi ultimi, Mereis riuscì a notare due cose: che fra di essi c'erano anche i progetti del "doppio cannocchiale" e che alcuni fogli più vecchi avevano una calligrafia completamente diversa. Poi Ferem Peregrast parlò e non ebbe modo di vedere altro: «Bene. Vediamo un po' come avete conciato il mio binocolo

«Binocolo» ripeté la schiava sottovoce, mentre apriva sul tavolo il cofanetto.

Se la sentì o meno, il vecchio non lo diede a vedere: aprì un fazzoletto di seta scuotendolo in aria e lo utilizzò per afferrare l'oggetto, mentre con la mano libera si risistemava sul naso quel curioso arnese che chiamavano "occhiali" e che a Katils stava guadagnando sempre più popolarità. Per un attimo, sia Mereis che Gresvardt tornarono col pensiero a quella buffa volta in cui ne avevano consegnato uno ad una cliente del Signor Tolban e lei, non appena se li era calati sul naso, aveva praticamente spiccato un balzo, esclamando sconvolta che doveva esserci per forza lo zampino degli dèi e che la magia era finalmente tornata nel mondo dei mortali.

«Davvero molto belle» mormorò tra sé e sé Ferem Peregrast, osservando le tre aggiunte incastonate da Urem Tolban sui due cannocchiali e sul ponte che li univa: due placche di diaspro rosso con sopra incise le rappresentazioni degli antichi Eroi Kaat e Shu e una di agata bianca raffigurante il blasone della famiglia Menradt, sormontato dall'Occhio del dio Mechnin.

«Se non è irrispettoso domandare, Signore» intervenne educatamente Gresvardt, «saremmo curiosi di sapere chi vi ha commissionato questo ... binocolo.» Per tutta risposta, il Signor Peregrast alzò lo sguardo su di lui e inarcò le sopracciglia. «Voi capirete: è alquanto bizzarra la richiesta di incidere entrambi gli Eroi Kaat e Shu, dato che i Katili non amano accomunare e mettere vicine le loro rappresentazioni. Insomma, per via del rapporto di dubbia moralità e decenza che, secondo alcuni racconti e canzoni, pare ci fosse fra di loro.»

«Il vostro padrone non ve l'ha detto?» chiese a sua volta il vecchio, tornando a studiare le minuziose incisioni.

«Ha detto soltanto che si tratta di una persona molto importante e molto riservata.»

«In tal caso, hai la tua risposta: no, non potete saperlo. Saremo soltanto io, il mio vecchio amico e il suo intagliatore a incontrare la persona che ha commissionato questo binocolo, quando glielo consegneremo» rispose l'inventore, mentre sollevava il cuscinetto su cui era stato adagiato il binocolo per scoprire il nascondiglio soffice e sicuro delle lenti e dei prismi che avrebbe dovuto montare nella struttura dorata.

A quelle parole, Mereis sollevò la testa e inarcò le sopracciglia. «Quindi io posso incontrarla? O incontrarlo?»

«Cosa? Ma che vai farneticando?» ribatté il vecchio con quelle maniere burbere e scortesi a cui la schiava, ormai, aveva già fatto l'abitudine.

«Ho tagliato io le pietre e modellato le lenti e i prismi. Devo ammettere che le lenti mi hanno messa a dura prova, era la mia prima volta, dopotutto. Mi ci sono voluti un po' di tentativi, ma alla fine sono venute proprio come era indicato nei progetti che ci avete mandato.»

Lo scetticismo negli occhi dell'inventore non accennò a sparire neanche dopo che ebbe alternato diverse volte lo sguardo tra Mereis e i vetri ricurvi. «Tu? Una schiava intagliatrice?»

«Se non mi credete» replicò facendo spallucce, «potete chiederlo al vostro vecchio amico, no?»

«Bene. In tal caso» disse allora Ferem Peregrast alzandosi per primo dal tavolo, «immagino non ti dispiaccia darmi una mano: dobbiamo incastonare tutti i prismi e le lenti. A quel punto, non dovremo fare altro che provarlo e scopriremo subito se hai fatto bene il tuo lavoro, intagliatrice

«Non ti angustiare» la consolò Bernass, rompendo per la prima volta il silenzio, «fa così con tutti, ha sempre qualcosa da ridire su chiunque e su qualunque cosa.»

«Lo immaginavo» ribatté Mereis con una risata, mentre udivano il vecchio bofonchiare da un'altra stanza: «Ma tu guarda, cosa avrà per la testa quel vecchio rincitrullito? Affidare ad una schiava un lavoro così delicato e importante. Mah!»

Guess who's back! Back again!

Ma salve! Eccomi di ritorno dalla sessione autunnale :). Come ho scritto anche sulla mia pagina facebook, ho corretto e aggiornato tutti i capitoli precedenti, perciò se avevate intenzione di rileggerli per riprendere un po' il filo dopo questa pausa, adesso avete un motivo in più per farlo.

Alla prossima e do il benvenuto a tutti quelli che hanno iniziato a leggere "La Maledizione Di Aktanasìl" durante le settimane di assenza!

   
 
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