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Autore: Budo    23/10/2016    4 recensioni
una bettola alla buona, uno staff un po' fuori di testa, clienti strani e animali fuori dal comune. questo è lo sfondo alle avventure di Mattia, cameriere poco esperto a La Bettola. Tutte le situazioni qui narrate sono fatti VERI, per quanto assurdi possano sembrare.
Genere: Comico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Mio padre ripeteva fino alla nausea: “la madre degli stronzi è sempre incinta”. E, quando facevo l’animatore, l’immagine dello stronzo che mi ero creato coincideva in tutto, con rare eccezioni, con Ivan Casale, il dolce e amorevole ragazzino dai capelli brizzolati a 8 anni, che credo fermamente ancor oggi sia nato con la precisa missione di rompermi i coglioni.
Ivan era stato, per uno strano scherzo di Satana, affidato alla mia specifica supervisione dal responsabile di uno dei tanti campi estivi che ha avuto la fortuna di vedere me come animatore.
«L’ho fatto perché sei bravo!» mi rispondeva ogni volta che, esasperato e in preda agli istinti omicidi, gli domandavo la motivazione del supplizio. E anche se non ho mai saputo se quella frase fosse una risposta sincera o detta solo per mandarmi a cagare dolcemente, mi riempiva comunque d’orgoglio. Così avevo la forza per superare senza ucciderlo o uccidermi conversazioni del tipo:
- Animatore, animatore!
- Mattia.
- Ma sono Ivan!
- Si, e io ti ho detto che devi chiamarmi Mattia.
- Animatore, ho caldo!
- Tuffati in piscina con gli altri bambini.
- Ma non ho il costume.
- Fallo col pantaloncino.
- Ma poi si bagna.
- E si asciugherà.
- Ma non ho l’asciugamano.
- Ivan caro, ci sono 50° all’ombra. Credi davvero di riuscire ad uscire dall’acqua rimanendo bagnato?
- Ma se poi mi escono le piaghe?
- Allora non farti il bagno.
- Ma ho caldo.
E ricominciava.
 
Da quando lavoro a La Bettola, invece, il mio concetto di stronzo si è notevolmente ampliato, sino a comprendere la maggior parte dei clienti, per lo più abituali, del locale. Oppure, per meglio dire, la maggior parte dei clienti abituali estivi del locale, perché forse quella grandissima stronza della madre sempre incinta degli stronzi di cui parlava mio padre partorisce solo in estate.
La prova l’ho avuta quel sabato di inizio agosto, che vide la più grande concentrazione di stronzi che La Bettola abbia visto. O almeno, da quando io sono in sala.
 
Tavolo 1, quattro persone a nome Stracciabuca, ore 7.05. Queste due gentilissime coppie di vecchietti avevano smesso di venire a La Bettola più meno un paio di settimane dopo il mio arrivo al locale, dopo quasi 20 anni di abitudine. Perché? La cameriera che lavorava prima di me dava loro i calici per il vino più grandi e più belli, io quelli uguali agli altri. O almeno questa è la motivazione che ha dedotto la signora Angelica, dato che loro non hanno lasciato spiegazione.
Il loro ritorno al locale sconvolse anche la signora Angelica, che ormai si era abituata alla loro assenza. Li fece accomodare e si intrattenne a chiacchierare un po’ con loro, ma mandò Leila a prendere l’ordine, perché infondo, anche la signora Angelica non li sopportava.
Leila perse quasi un quarto d’ora a prendere quell’ordine, tra una spiegazione e una battuta sui suoi capelli azzurri e sul mio modo “nuovo e tutto del ragazzo” di apparecchiare la tavola. Al che guardai uno dei tavoli che avevo apparecchiato e non mi sembrava così strano, nell’apparecchiatura: coltello, forchetta, bicchiere e tovagliolo come tutte le altre volte. Ok, forse il coltello era leggermente storto. Allungai la mano a raddrizzarlo e corsi dietro il bancone del bar a stappare il vino che avevano chiesto.
Dopo essersi fatti spiegare il menù delle pizze una decina di volte, ordinarono una impepata di cozze e quattro primi diversi. Dal bar sentii l’eco delle bestemmie di Fabrizia, che aveva solo due bollitori, e le risate di Alfredo, che aveva quattro pizze in meno da fare.
«Aspettano, eh!» bofonchiò lei, e cominciò a cucinare. «Io una sono!»
I signori Stracciabuca erano i due più anziani, accompagnati dai loro amici, di cui non ho mai scoperto il nome, ma che identificavo come il signor Frederksen e compagna, perché era uguale. Ero quel tipo di anziano che quando ti vede sente il bisogno viscerale di raccontarti la sua vita, senza pretendere che tu faccia altrettanto. In particolare la signora aveva sempre una storia da raccontare, legata ad una parola che avevi detto, ad una scritta sulla tua maglietta o alla pendenza particolare della collana che avevi al collo.
Quella sera, quando portai il vino al loro tavolo, la signora Stracciabuca mi afferrò il polso e disse: «sai, caro, il modo in cui porti i capelli stasera mi ricorda di una festa che c’è stata in paese quando avevo quasi la tua età, ventisette, giusto?»
«19»
«Era la festa patronale e c’erano le giostre al porto. Io e mio marito ci eravamo appena fidanzati e mi portò alle giostre come appuntamento. Ma io non lo sapevo, quindi misi una gonna e i tacchetti, ero così carina! Se non ché il tacco del vestito si incastrò nel soppalco della giostra e si ruppe! Inutile dirti, poi, quando salimmo sulle giostre! Ero costretta a tenere le mani sulla gonna per non farla alzare! Terribile appuntamento. Ma io ero troppo innamorata e alla fine l’ho sposato»
Risero tutti, allora finsi anche io, mentre mi domandavo cosa c’entrassero i miei capelli con quel racconto. Le storie della signora Stracciabuca, però non erano il motivo del perché li ritenessi stronzi. Anzi, erano anche piuttosto piacevoli, se raccontate alle 7.00, quando non c’era nessuno in sala. Ma la storiella che ti bloccava il servizio alle 9.00 quando ormai la sala era quasi piena e dovevi lavorare cominciava a farti saltare i nervi, soprattutto perché ti teneva ancorato al tavolo conficcandoti le unghie della carne del braccio, con una forza tale che mi chiedevo spesso se non si allenasse a casa ad artigliare la gente. Se non altro, quando sono andati via erano soddisfatti, anche se io e Leila eravamo particolarmente contenti che fossero andati via e basta.
La gioia, comunque, è stata breve, anche se intensa.
Mentre Leila prendeva gli ordini e la signora Angelica si occupava delle ricevute alle pizze da portar via, io dovevo dividermi tra il bar con le bevande, e la cucina col servizio, cercando contemporaneamente di non calciare il ragazzino che correva beatamente in mezzo alle gambe delle persone che ridevano divertiti. Almeno loro. E assistendo a queste scene io mi domando se i genitori si dimenticano di essere tali entrati nei ristoranti, o se credono che i camerieri, tra le altre cose, si allenino a fare slalom in velocità per evitare di colpire giovani pargoli incustoditi. (*Nda: no, perché se ci sono genitori con queste convinzioni, tra voi lettori, sappiate che non è così e il 99% del tempo libero, noi camerieri lo passiamo a recuperare il sonno e a studiare, il restante 1% ad illuderci di avere una vita sociale).
E per ritornare al tema stronzi, mentre mi destreggiavo tra le migliori acrobazie in mezzo alla gente per evitare di fare troppi danni, anche se qualche forchetta mi è sfuggita e qualche piede l’ho acciaccato, ecco che fanno la loro gloriosa entrata i sette del tavolo 5, Barbieri.
«Salve, abbiamo prenotato a nome Barbieri. Spero non ci siano problemi ma non siamo più sette, siamo quindici.»
#rumore di tuono nella mia mente.
«E vorremo stare tutti allo stesso tavolo. Sa, è il compleanno della piccola Mariagioia.»
Così prego il Signore che non faccia girar troppo le scatole ai clienti già accomodati da un quarto d’ora in attesa di antipasti se mi allontano un attimo, urlo con quanto fiato ho in gola maledizioni contro i Barbieri, e torno a montare loro il tavolo. Si, montare. Perché non ci sono tavoli da quindici, normalmente, a La Bettola e mi tocca montare prolunghe e contro prolunghe, nonché apparecchiare, mentre la signora col vestito di velo si lamenta della sedia di paglia battendo il piede e non vorrei far altro che batterle una pentola sulla testa per farla smettere. Comunque sorrido e chiedo loro di attendere la preparazione del tavolo e decido di saltare la parte dell’urlare maledizioni, limitandomi a farlo interiormente. Perché dentro di me urlavo davvero forte.
Da quel momento la serata è proceduta abbastanza regolarmente, con tanto di spettacolo comico per i clienti, a quanto pare, perché la risata a boato che ho scatenato scaraventando un piatto a terra, grazie a Dio vuoto e grazie a Dio non in testa al pargoletto incustodito, caduto per evitare proprio il pargoletto incustodito e l’adorabile sorellina, è stata degna dei migliori cominci d’Italia.
Il culmine del divertimento, tuttavia, è arrivato col tavolo 21. O meglio, col vecchietto zoppo del tavolo 21. Aspettava da un po’ di tempo le pizze, ma una mezz’ora al massimo a voler esagerare. Contando che in otto si erano mangiati dieci porzioni di fritture fra patatine, misti e calamari, la fame si era acquietata, per il momento. Ma a quanto pare il tasso di stronzaggine no, così mi trovai con una pila di piatti in mano a discutere col vecchio al centro della sala, perché voleva mangiare.
Disse «questa è la prima volta che vengo a mangiare qui, e non è un buon biglietto da visita, ragazzino, far aspettare ore prima di servirci.»
«Signore, a parte che non è vero che è la prima volta perché è venuto anche ieri e l’altro ieri. E nemmeno che state aspettando ore. Comunque le vostre pizze sono sul banco, stanno arrivando. Se mi lascia il tempo di raggiungere la cucina vi servo immediatamente».
E lui, fiero, se esco con: «io ho il bastone, ragazzino. Alle poste mi fanno passare avanti!»
Fermi tutti.
Guardai accigliato il vecchio davanti a me, che agitava in aria il suo bastone per farmelo vedere bene, a sottolineare che non stava mentendo. Lui aveva davvero il bastone e io dovevo davvero farlo passare davanti gli altri tavoli. Il bastone. Il bastone?! Ma dico, ti pare stiamo alle poste, qui? Magari! Mi pagherebbero meglio.
«Senta, non so la politica che trova alle poste, ma in un ristorante non può passare davanti le altre persone perché ha il bastone», anche perché tu mangi con la bocca, non col piede zoppo. E se non mi lasci lavorare in pace ti azzoppo anche l’altro piede.
«Dovrei, invece… dovrei!» e si allontanò per andare nuovamente a sedersi, seguito dallo sguardo sbalordito mio e della signora Angelica, che aveva assistito alla scena.
La guardai e dissi: «non l’ho sognato io, vero? L’ha detto veramente?»
«Si… si, lo ha detto davvero».
 
Fare il cameriere, comunque, ha anche diversi lati positivi, tipo quello di riuscire a farti apprezzare le cose belle della vita. In mezzo all’odio per la mancanza di rispetto, all’incomprensione delle situazioni e alla svalutazione a schiavo che i clienti hanno di te, ci sono le piccole cose da apprezzare. E non sto parlando del “grazie, arrivederci e buon lavoro”, che solo Antonio riserva a Leila, ma proprio delle piccole cose, come il sedersi. Beato riposo di gambe e glutei che manco i fratelli Brownlee** possono capire.
Quando anche l’ultimo stronzo se ne fu andato, le stoviglie lavate e le posate lucidate, ci ritrovammo io, Leila, la signora Angelica e Giulietta seduti tutti intorno al solito tavolo, loro con la birretta in mano, io con un bicchiere da birra vuoto ridicolizzato con dell’acqua liscia, ad intavolare una piacevole discussione sulla qualità altissima della nostra clientela.
«Comunque i veri stronzi sono quelli tipo il tavolo 25, dodici cristiani e manco 0.20€ di mancia» sosteneva Leila.
«Ma dai, che se ti lasciavano 0.20€ li rincorrevi e glieli lanciavi addosso, come quei sette di ieri» la rimbeccò la signora Angelica, tra le risate generali.
«In effetti quella è taccagneria. L’apoteosi della stronzaggine è stato Cosimo al 13!» sostengo io. «Cliente da una vita e non ti rendi conto che abbiamo un solo forno dentro cui ci entrano sei pizze e se ci sono 40 persone davanti non puoi essere servito prima perché sei amico del capo, quindi è inutile che pretendi a fare che tiri fuori le tue merdosissime pizze dal taschino del mio grembiule?»
«Per non parlare dei tre del 34. Perdo venti minuti a spiegare il menù non una, non due, ma tre volte, la signora continua a fissarlo per altri dieci minuti per poi ordinarmi quella dannatissima margherita che avrei solo voluto rovesciarle addosso quando gliel’ho portata.» annuii in segno di assenso.
«Margherita» sbuffò Giulietta. «Può mai esistere pizza più banale?»
«Non è la margherita in sé ad essere banale» spiegai «ma è il fatto che non puoi sprecare un quarto d’ora per scegliere la margherita, se hai dovuto aspettare già venti minuti per ordinare, che ci sono cinque tavoli avanti e sei dopo di te!»
 
Serata sfiancante e finale in dibattito costruttivo. La Bettola: scuola di vita.
 
 
 
 
* riflessioni dell’autore
** i fratelli Brownlee sono stati, per chi non avesse seguito le olimpiadi di Rio 2016, oro e argento al triathlon.
 
NDA
Allora, prima mi scuso per la lunga attesa del capitolo. Sarebbe inutile dire che non l’ho pubblicato prima per mancanza di tempo, perché non è stato così. O almeno non fino alla fine. Con la sessione estiva, il lavoro sfiancante e il desiderio di voler una vita sociale il capitolo è stato solo accennato, poi abbandonato con l’inizio del nuovo anno universitario, che ha portato la mancanza di ispirazione. Non la mancanza di materiale su cui polemizzare. Quello non manca mai.
Spero di non aver scritto scemenze, di non avervi fatto annoiare o di aver deluso le aspettative. Ora vado a dar da mangiare al mio cane che mi sta distruggendo il timpano per richiamare l’attenzione.
Buona serata, grazie per la lettura e lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate. Ciauuu
   
 
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