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Autore: Alchimista    13/11/2016    3 recensioni
Daichi riusciva a trovare rilassante l’andare in bicicletta, anche se si trattava di farlo per tornare a casa dopo gli allenamenti di pallavolo: in qualche modo scaricava, pedalando, l’adrenalina che inevitabilmente accumulava agli allenamenti o durante le partite di prova, quindi lo faceva volentieri, soprattutto se i tramonti erano caldi e poteva andarsene con calma, guardando magari quello che lo circondava.
[...]
Stavano discutendo del più e del meno quando successe; col senno di poi nessuno dei due si sarebbe ricordato di quegli istanti, tanto fu improvviso ciò che accadde. Non lo videro, non se ne resero conto.
[...]
Sentirono solo il peso dei loro corpi che si colpivano, la sensazione di non avere più terra sotto i piedi. Poi lo schianto ed il buio. Non ci fu tempo neanche per il dolore. Forse fu un bene.

Soulmate!AU in cui trovando il proprio compagno si vedono i colori per la prima volta. Daisuga | Asanoya | Kagehina | IwaOi. Angst.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Koushi Sugawara, Tooru Oikawa, Yuu Nishinoya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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PairingDaichi x Suga |Asahi x Noya |(in più piccola parte anche Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata). 

Parte: 3/3 (sebbene la storia nasca e si sviluppi come unica e sia divisa solo per comodità).

AvvertimentoSoulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Molto angst | Sebbene siano vicende nuove, la storia nel suo continuum e contesto è legata alla prima soulmate di questa raccolta, che può essere letta qui.

Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.

Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie, come sempre, alla mia Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia e beta tutto quello che scrivo.

 

 

 

Just a little late (you found me).

Parte Terza

 

 

 

Era ormai giorno, quando i ragazzi della Karasuno poterono finalmente scendere e respirare l’aria fresca che la mattinata di Tokyo regalava loro. Qualcuno prese a fare stretching per sciogliere i muscoli intorpiditi dal sonno e dalla posizione fissa, altri semplicemente si guardavano con meraviglia intorno, per la prima volta a contatto con una città tanto grande.

Suga e Noya scesero insieme, benché non avessero più proferito parola per il resto del viaggio e l’alzatore avesse anzi problemi a far partire una semplice conversazione. Si allontanò da lui quasi senza rendersene conto, avvicinandosi ad Ennoshita e Yamaguchi, gli unici insieme a Tsukishima e Tanaka che in qualche modo erano stati presi dalla situazione solo marginalmente.

«Credete che Kageyama ed Hinata se la stiano cavando con i test?», si stava chiedendo Yamaguchi «Ieri sera sembravano così dispiaciuti di non essere potuti venire con noi».

Tsukki lo guardò brevemente: che senso aveva preoccuparsi a quel modo? Era totalmente colpa loro: se si fossero impegnati di più anche a lezione, invece di consumare energie altrove, ora sarebbero lì insieme a loro – invece avevano fatto danno a loro stessi e alla squadra. Non essere a Tokyo quella mattina era il minimo.

«Erano anche abbastanza determinati a non perdere il Campo, però», sopraggiunse Ennoshita e Suga, unitosi a loro, non poté che annuire in consenso. «Sono certo che ce li troveremo qui per metà mattinata!». Poi si voltò verso Tanaka. «Siamo sicuri che riusciranno ad arrivare, piuttosto?».

Ryuu rise con fare superiore. Una parte di lui era estremamente consapevole della guida sconsiderata della sorella e davvero non invidiava il viaggio che quei due avrebbero dovuto affrontare, tuttavia era stato un ottimo senpai ed era riuscito a garantire loro un modo per raggiungerli, quindi doveva andarne molto fiero.

«Sono in una botte di ferro», si vantò, incrociando le braccia al petto, in posa da eroe. «Il loro senpai ha tutto sotto controllo e non appena finiranno quello stupido test potranno partire per raggiungerci!».

Conoscendolo, Ennoshita non si sentì del tutto rassicurato da quelle parole, ma sorrise, seguendo gli altri all’interno della struttura che li avrebbe ospitati per le prossime settimane. Tanaka fu l’ultimo del gruppo a dirigersi verso l’ingresso: era rimasto fermo, improvvisamente la sua spavalderia s’era arrestava – Noya, ancora vicino al pullman da cui erano scesi, pareva aver preso a parlare con Asahi. Era la prima volta in settimane che accadeva e Ryuu avrebbe davvero voluto sapere che cosa si stessero dicendo: stavano finalmente chiarendo? Avevano finalmente deciso di avvicinarsi di nuovo? Tanaka non sapeva ancora che cosa volesse dire avere un legame, ma davvero non poteva credere che quello tra Yuu ed Asahi fosse debole come l’Asso aveva invece detto.

«La squadra è dentro, dovremmo seguirli».

Asahi stava cercando con poco successo di svincolarsi da Noya, che gli si era parato di fronte non appena lo aveva visto da solo. Lo guardava in un modo che all’Asso faceva paura, con una decisione che solitamente il Libero dedicava allo scontro con gli avversari durante le partite più difficili. Non aveva mai guardato lui in quel modo, non dopo che era tornato in squadra, almeno, quando aveva ripreso il suo ruolo. L’idea di un litigio, nonostante tutto quello che era già successo tra loro, gli faceva salire un dolore lungo lo stomaco, fino al petto. Sarebbe stato meglio se Noya aveva semplicemente lasciato perdere.

«No», lo contrastò il più piccolo. «Non finché non avremo chiarito».

«Non credo ci sia qualcosa da chiarire». Asahi cominciò ad avere paura – non avrebbe retto quella bugia ancora una volta. «Ti ho spiegato come stanno le cose».

Noya si fece scappare uno sbuffo di risata, esasperato e quasi isterico. Ne aveva davvero abbastanza.

«Fin troppo bene», concordò – il tono era ironico ed Asahi sentì un brivido lungo la schiena. Lo sapeva.

«Non senti nulla, giusto? Non hai sentito nulla, non è così?». Yuu non avrebbe voluto gridare: credeva di essere abbastanza padrone delle proprie reazioni, ma avere il proprio compagno di nuovo davanti, guardarlo mentre ancora si ostinava a mentire con così tanta facilità lo faceva stare male. E l’Asso lo sapeva – non aveva scampo: raccoglieva i frutti di ciò che aveva seminato.

«Yuu, io-»

«Tu mi hai mentito! L’incidente lo sai sentito, se stato male per quello che mi è successo! Perché… perché mi hai mentito? Ho creduto… ho creduto di non essere abbastanza, ho pensato che fosse colpa mia, che avevo rovinato tutto e non ho avuto il coraggio di dire nulla! E invece, per tutto questo tempo, sei stato tu, hai fatto tutto tu! Ha deciso che era troppo, che non ne valeva la pena stare male per me? Hai avuto paura ancora una volta? Che cosa, Asahi?».

L’Asso era senza fiato sebbene non avesse ancora detto una parola. Noya invece sembrava non riuscire a fermarsi.

«Mi hai lasciato da solo! Mi sono svegliato e non c’eri! Mi sono guardato intorno, in quella stanza bianca, cercando il tuo viso, il tuo sorriso e invece c’era solo freddo… freddo e assenza». Il Libero ce la stava mettendo tutta per non piangere, ma la sensazione che aveva provato quando s’era ripreso in ospedale, riportata a galla in quel modo, lo faceva stare male. S’era sentito solo, abbandonato a se stesso, come mai aveva pensato che avrebbe potuto essere.

«Tu-tu non hai idea di come mi sia sentito quando- Di cosa abbia provato in ospedale, mentre-».

Asahi boccheggiava, mentre cercava un modo giusto per spiegare le sue ragioni: tutto quello che aveva pensato, le motivazioni che nella sua testa aveva trovato per giungere a quella conclusione ora parevano cenere, resti bruciati dalla rabbia del suo compagno. Aveva sbagliato? Aveva commesso un errore? Non voleva altro che proteggerlo, togliergli il peso di se stesso e del suo fallimento… Perché avrebbe fallito, lo sapeva – era già successo e stavolta avrebbe trascinato giù con sé anche Noya

«Hai ragione. Non ho idea di cosa si provi, ma ­Dio se ero pronto a scoprirlo!».

Le prime lacrime premettero agli angoli degli occhi di Asahi, ma il ragazzo fu abbastanza bravo da non lasciarle scivolare giù. Doveva essere forte, dimostrare che era fermo nella sua decisione: semplicemente, non era disposto a vivere col rischio che Noya, prima o poi, provasse quello che lui aveva provato la sera dell’incidente. Ecco quanto lo amava. Tutta la sofferenza che stavano sentendo in quel momento non era nulla a confronto di ciò che Asahi aveva già sperimentato e pareva un prezzo accettabile da pagare, per Noya.

«Ho sempre pensato che, in fondo, ti facessimo torto: tu hai sempre avuto molto coraggio: il coraggio di assumere il ruolo di Asso senza averlo chiesto, il coraggio di addossarti tutta la colpa di un fallimento e poi di rialzarti – non ho mai dato nulla di tutto questo per scontato, Asahi. Ma adesso non so più chi sei e mi rendo conto che forse a sbagliare sono stato io, che sei davvero solo un codardo».

Azumane incassò il colpo chiudendo gli occhi e tremando appena: doveva aspettarselo, dopotutto – non era la verità, in un certo senso? Non era comunque paura la sua? Se fosse stato qualcun altro, avrebbe semplicemente confessato ciò che pensava, le ragioni per cui aveva deciso di allontanarlo, ma non lui, non Asahi. Per Asahi alle volte era più facile semplicemente rinunciare.

Noya, d’altro canto, non sapeva davvero che cosa volesse dire lasciar perdere. E stava lì, lo fissava aspettando che parlasse ancora, che si spiegasse. Non aveva rinunciato a lui, nonostante tutta la sua rabbia e il suo rancore non aveva rinunciato a lui; ma allo stesso tempo, non poteva semplicemente fingere che le cose gli andassero bene così come s’erano messe. Quindi lo odiava, amandolo lo odiava e lo odiava ancora di più perché lo amava.

Si guardarono, i due compagni, ancora per qualche istante – disprezzo e rassegnazione si fronteggiavano in una lotta a chi fosse più forte, a chi avesse più resistenza, finché quel contatto non si interruppe.

«Ragazzi?». Ennoshita aveva notato che stavano parlando e non avrebbe davvero voluto intromettersi, ma l’allenamento stava per avere inizio e dovevano entrare tutti. «Dobbiamo prepararci…».

Noya si mosse per primo, voltando le spalle al compagno.

«Yuu-». Asahi si sentì morire – fece male come non si aspettava, come non aveva fatto male la prima volta che gli aveva voltato le spalle: stavolta il Libero era consapevole di ciò che stava facendo, sceglieva e sceglieva di lasciarlo.

«Non abbiamo più nulla da dirci», lo bloccò Noya – aveva cercato quel contatto per vendicarsi del dolore che stava provando, per esporre l’Asso, smascherare la sua bugia e farlo crollare, forse anche soffrire. Che cosa aveva ottenuto, invece?

 

Tanaka aveva cercato Nishinoya ovunque dopo gli allenamenti. Non era il migliore degli oratori, soprattutto quando si trattava di cose tanto serie come i rapporti col proprio compagno, eppure aveva davvero bisogno di parlargli, capire cosa era successo – perché qualcosa era successo, di questo era sicuro. L’aveva capito dal modo in cui, da quella mattina, Yuu aveva guardato Asahi, dal modo in cui quest’ultimo aveva giocato per tutta la giornata. Se possibile, il loro rapporto era peggiorato ancora di più.

«Noya?», chiamò, entrando in un grosso sgabuzzino – ormai stava provando qualunque stanza, dal momento che non lo aveva trovato nella stanza in cui avrebbero dormito, in mensa o nelle palestre. Tuttavia, nessuno gli risposte.

Sospirò: aveva tralasciato qualche posto? Gli stava sfuggendo qualcosa?

D’istinto, pensò di tornare nello spogliatoio in cui s’erano cambiati dopo l’ultimo set. Era stato quello l’ultimo posto in cui lo aveva visto con sicurezza e a pensarci non aveva fatto caso a se fosse uscito con loro, quando Suga era andato a sistemare la palestra con Ennoshita e gli altri s’erano mossi verso la mensa.

«Nishinoya, sei qui?», chiese con cautela, entrando nella stanza ed accendendo la luce.

«Vattene», si sentì rispondere: era stato un sussurro, ma nel silenzio aveva pesato come un grido. Tanaka non pensò neanche per un istante di fare come gli era stato detto.

Fece qualche altro passo verso l’interno e finalmente lo scorse, raggruppato su se stesso in un angolo, la testa nascosta dalle braccia come a voler sparire. Sembrava estremamente indifeso, così piccolo e debole che Tanaka sentì lo stomaco stringersi e dolore e rabbia montare allo stesso modo nel suo petto.

«Yuu», insistette, scivolando lungo il muro accanto a lui. «Parlami».

Noya alzò la testa a guardarlo: i suoi occhi brillavano di lacrime ed il volto era pallido come l’amico non l’aveva mai visto – era così poco lui in quella scena, pareva opaco, consumato come un disegno sbagliato dalla gomma. Il Libero si stava lasciando andare e Tanaka aveva estremamente paura.

«Ha scelto di lasciarmi. Non era vero nulla, mi ha sentito e ha scelto di lasciarmi, fingendo che non fosse successo. Ed io vorrei davvero rialzarmi e fingere che non sia nulla, ma non ne sono capace, non ci riesco. Sono così debole…».

Ryuu lo prese per le spalle, in uno scatto d’ira.

«Tu non sei debole, Nishinoya Yuu! Tu sei la persona più forte che abbia mai conosciuto! Mi hai capito?! E né Azumane né nessun altro avrà il potere di convincerti del contrario! Non farti abbattere, non smettere di lottare!».

«Tu non capisci, Tanaka». Noya era stanco «Ho già perso… non ho più nulla per cui lottare…».

 

«Certo che i due primini sono davvero fenomenali!».

Gli allenamenti della giornata s’erano finalmente conclusi e, nonostante le diverse sconfitte, la Karasuno poteva ritenersi già abbastanza soddisfatta del modo in cui aveva giocato, soprattutto dal momento in cui, risolta la faccenda dei test, anche Hinata e Kageyama li avevano raggiunti – avevano potuto giocare al massimo e mettere in moto ingranaggi nuovi che sarebbero sicuramente tornati utili una volta sviluppati.

Suga era davvero stanco: aveva dormito poco o nulla la notte prima, durante il viaggio, e quel intero giorno di allenamento lo aveva sfiancato più di quanto credesse possibile. In più c’era l’intera squadra da tenere sott’occhio e Daichi aveva deciso proprio adesso di rivolgergli la parola – davvero non poteva essere più sfortunato di così.

Si voltò verso il capitano mentre posava gli ultimi palloni nel cesto: Daichi lo guardava dritto negli occhi, come non aveva mai osato fare nelle ultime settimane e questa cosa destabilizzava Koushi – cosa voleva, perché gli parlava ora? Non s’era reso conto di essere tanto sulla difensiva come in quel momento, mentre il suo compagno si muoveva verso di lui e semplicemente avrebbe voluto essere in un altro posto, lontano, al sicuro dal dolore che, lo sapeva, ne sarebbe derivato.

Daichi invece sembrava sicuro come non lo era mai stato da quando aveva ripreso conoscenza. Si muoveva verso di lui, consapevole del fatto che fossero ormai da soli in palestra. Sapeva quello che voleva e sperava che potesse essere d’aiuto ad entrambi. Si fermò solo quando fu ad un soffio da Suga, così vicino da poter sentire il suo respiro leggermente accelerato, gli occhi appena spalancati e fissi addosso e il corpo teso ma bloccato, impossibilitato a muoversi. Così lo baciò, con quella decisione, e contro la fissa rigidità dell’altro premette le sue labbra in maniera del tutto inaspettata.

Suga si sentì mancare l’aria, come se lo avessero colpito in un punto ben preciso tra petto e stomaco, e non ci fu alcuna gioia in quel gesto, alcuna dolcezza in quelle labbra che parevano baciarlo per la prima volta. Nulla, nulla gli ricordava il suo compagno, nulla in quel gesto sapeva di lui. Si allontanò  di fretta, mettendo le braccia avanti, creando uno spazio fisico tra loro che gli garantisse sicurezza.

«Che diavolo pensi di fare?!».

Daichi lo guardava sinceramente sorpreso. Ovviamente, non si aspettava necessariamente una reazione positiva, ma quell’allontanamento in qualche modo era stato troppo e lo aveva ferito, anche se in maniera del tutto illogica.

«Tu- tu non puoi. Tu-». Suga invece era sconvolto e ad ogni nuovo respiro aumentava in lui il panico ed il dolore. Anzi, non era propriamente un dolore, era un bisogno insoddisfatto, la consapevolezza che quella non fosse la cosa giusta eppure la sfiorasse senza raggiungerla davvero, come il miraggio di un’oasi nel deserto, la visione di un sogno sfumato.

«Mi dispiace. Non volevo… non volevo che reagissi in questo modo». Daichi non sapeva che cosa fare. Aveva creduto di agire per il meglio, che fosse un modo per… «Ci sto provando». La voce si ruppe in un singhiozzo che Suga non si aspettava «Ci sto provando così tanto a ricordare, Koushi. E ho creduto che forse in questo modo potessi recuperare qualche ricordo… Che sarebbero semplicemente tornati…».

Daichi non voleva piangere, non in quel modo, non davanti al suo compagno, ma non riusciva più a trattenersi: ogni giorno gli sembrava di stare sempre peggio e più tempo passava senza ricordare nulla, più diventava grande la paura in lui che quei ricordi non sarebbero mai più tornati, che avrebbe semplicemente dovuto rassegnarsi all’idea di essere quella nuova persona, senza passato, senza consapevolezza di sé. E chi avrebbe potuto stargli accanto, ridotto com’era? Sentiva che la sua forza, la sua determinazione, tutto ciò che per istinto sentiva di essere gli era stato strappato via e non aveva idea di come recuperarlo. Era smarrito, in balia di sensazioni che non comprendeva, di un dolore folle che non sapeva come attenuare e colori a cui non riusciva a dare significato.

Suga gli si avvicinò lentamente: non l’aveva mai visto tanto indifeso ed esposto, così fragile – Daichi era sempre stato quello forte e deciso, quello che non aveva bisogno di parole per prendere posizione e a cui tutti guardavano con ammirazione; una guida per naturale inclinazione. E qualcosa di quella persona c’era ancora in lui: l’aveva visto dal modo in cui s’era avvicinato – certo, l’aveva sorpreso, forse anche un po’ spaventato, ma nella sua camminata, nel modo in cui aveva preso in mano la situazione, forse poteva vedere qualcosa del suo Daichi. Qualcosa di grezzo ed istintivo, che a primo impatto non aveva riconosciuto.

Poteva imparare a conoscere di nuovo il suo compagno? Poteva cominciare da capo con lui, partire da zero? Una mano su allungò verso il capitano, le dita sottili raccolsero una delle lacrime che stava scendendo lungo il suo viso.

«Torneranno, Daichi. Datti tempo, torneranno». Non ci credeva del tutto, Suga. Aveva paura a sperare, perché non credeva di essere tanto forte da reggere una simile delusione. Non era forte abbastanza, forse, per cominciare da capo: aveva semplicemente atteso troppo per quel legame ed ora che era legato senza alcun senso a Daichi non sapeva come andare avanti.

«E nel frattempo?». L’altro, invece, sentiva istintivamente di non poterlo perdere e che quel temporeggiare sarebbe stato rischioso.

«Non lo so».

Non chiedermi di restare con te, non chiedermi di amare il corpo di qualcuno quando la sua anima è stata la prima cosa ad avermi catturato.

«Ho capito».

Non ti terrei mai legato a me. Non so chi tu sia, ma sento che il ragazzo che fino ad ora ti ha amato non vorrebbe mai la tua infelicità.

 

Hinata si trovò a pensare che sarebbe stato bello se fosse riuscito semplicemente ad addormentarsi – scivolare nell’incoscienza fino al giorno dopo quando un’altra serie di partite dell’allenamento lo avrebbero nuovamente distratto. Si sentiva inquieto quella sera: non sapeva per quale motivo, ma si sentiva fuori posto, come se non stesse a suo agio nella propria pelle ed aveva l’istinto continuo di muoversi, di fare qualcosa.

Si trattava della squadra. C’era stato qualcosa di strano nel modo in cui avevano giocato, qualcosa che aveva cominciato a stridere, come uno strumento male accordato. Ma si rendeva conto che non si trattava solo di gioco: il suo disagio era dovuto solo in parte al modo in cui aveva giocato, ai pensieri che, inconsciamente, avevano cominciato a muoverlo verso nuovi obbiettivi – c’era stato dell’altro e non riusciva a scrollarsi di dosso una sensazione di profondo disagio.

La squadra non era stata unita: in tutti i set a cui lui e Kageyama avevano preso parte, la squadra s’era mossa a blocchi, come ingranaggi poco oleati. Senza Nishinoya e Daichi in difesa, il coach aveva provato un nuovo gioco spostando Tanaka in seconda linea, ma sebbene la sua ricezione fosse stata quasi sempre buona, il modo in cui aveva provato a coordinarsi con Kageyama o Sugawara era stato pessimo e ancora peggio la visualizzazione di Asahi in terzo tocco. Era sembrato per tutto il tempo distratto e sovraccaricato ed aveva mal indirizzato le sue energie finendo per sbavare moltissime volte. L’Asso, invece, era parso semplicemente distratto, non in partita, come se la sua mente fosse costantemente impegnata altrove. Suga aveva provato ad essere il collante di tutti quei piccoli disagi, aveva cercato di salvare il salvabile, ma anche così e anche con l’arrivo dei due primini, la situazione non era migliorata di molto. Ukai non aveva avuto cuore di rimproverarli e dopo aver genericamente ricordato a tutti di dare il massimo in vista delle qualificazioni, li aveva lasciati andare.

Shouyou non avrebbe mai pensato di potersi sentirsi in quel modo tra i suoi compagni. Per lui la squadra era tutto. in qualche modo era un luogo sicuro, in cui anche i problemi più grandi potevano essere risolti, mentre adesso quel calore e quella sicurezza parevano spariti del tutto, divorati da situazioni più grosse di loro – aleggiava dolore e nervosismo tra i suoi compagni e Hinata semplicemente non riusciva a sopportarlo.

Non s’accorse della piccola figura che scivolò silenziosa al suo fianco finché non fu Kenma stesso a parlare – con Shouyou, l’alzatore aveva l’istinto di farsi notare, mostrarsi.

«Sei nervoso?». Hinata sobbalzò appena, ancora perso nei suoi pensieri confusi. Nervoso non era esattamente il termine che avrebbe usato, ma annuì comunque: forse stavolta mancava a lui la voglia di socializzare. Kenma, tuttavia, aveva abbastanza familiarità con quel genere di situazioni da sapere per istinto come comportarsi – non disse nient’altro e riprese a giocare, avvicinandosi appena un po’ di più, ma facendo in modo che le loro spalle non si toccassero. Erano soli nel corridoio di quel piano, Shouyou avrebbe facilmente capito che quello era il suo modo di stargli accanto.

Con un po’ meno attenzione del solito al videogioco, Kenma si rese conto di quanto fosse facile, dopotutto, stare vicino ad Hinata: anche in una situazione simile, in cui rischiava di essere investito dai forti sentimenti dell’altro e di trovarsi profondamente a disagio, non provava l’istinto di allontanarsi e mettersi a riparo, ma anzi parte di lui avrebbe voluto essere in qualche modo l’aiuto.

«Ti sei mai trovato a disagio nella tua stessa squadra?».

Hinata sapeva che, dopotutto, non era una situazione tanto inusuale – bastava chiedere a Kageyama per avere una sentita conferma – eppure non riusciva proprio a stare tranquillo: aveva aspettato così tanto per avere dei compagni tutti suoi, a cui essere legato come membra di un solo corpo ed ora l’idea che in qualche modo tutto quello potesse finire lo mandava in panico.

Kenma scosse la testa: Kuroo l’aveva convinto a provare, a giocare, a far parte di un gruppo e da allora non aveva mai avuto motivo di pentirsene – la devozione e l’affetto con cui tutti alla Nekoma gli si rivolgevano era disarmate ma lo faceva stare bene. Non riusciva ad immaginar che cosa volesse dire non essere in sintonia con i suoi compagni.

«Non che qualcuno mi abbia fatto qualcosa di male!», si affrettò intanto a chiarire Shouyou, interpretando il silenzio dell’altro come preoccupazione o disapprovazione. «È solo che… sento che stanno cambiando delle cose ed è come se gli ingranaggi che facevano funzionare la squadra si siano in qualche modo inceppati». L’Esca si rendeva conto che, in parte, dipendeva anche da lui, che in primis in lui era in atto un cambiamento, ma a turbarlo era soprattutto la mancanza di armonia che sentiva tra i compagni.

«Ho notato una certa ostilità fra alcuno di voi: Kuroo mi ha parlato dell’incidente…».

«Sembra che le cose non vogliano saperne di tornare a com’erano prima di quell’incidente…», sospirò Hinata «Sugawara e il capitano, Noshinoya ed Azumane…».

«C’entra il legame?». Kenma avrebbe dovuto immaginarlo da subito: dopotutto, aveva visto quanto scompiglio aveva creato, agli inizi, tra Yaku e Lev e tutta la Nekoma.

Stavolta fu Shouyou ad annuire appena e per la prima volta da quando avevano preso a parlare spostò gli occhi dal pezzo di cielo stellato che si poteva vedere dalla finestra per guardare l’alzatore che aveva affianco.

«L’incidente sta mettendo alla prova un po’ tutti i legami… e le cose non vanno così bene».

Kenma non ne sapeva molto a riguardo: non aveva ancora provato nulla di simile e a dirla tutta non ne sentiva poi così tanto il bisogno, ma poteva immaginare quanto potesse essere destabilizzante una simile connessione se le cose diventavano serie.

«Non credo ci sia molto che tu possa fare, sai? Immagino che, a prescindere da come vada, sia un problema che solo i diretti interessati possono risolvere…». Non era noncuranza, era semplicemente la realtà dei fatti.

Hinata sospirò, poggiando la testa sulle braccia incrociate sul davanzale di marmo della finestra. Sapeva che Kenma aveva ragione. Improvvisamente, pensò a Kageyama – era uscito dalla stanza in cui la Karasuno avrebbe dormito lasciandolo solo; non poté trattenersi dal chiedersi che cosa stesse facendo e in quel generale fastidio, in quella generica irrequietezza e tristezza pensò ch forse non s’era accorto della sua assenza, che forse neanche gli importava davvero: dopotutto, loro non potevano essere in crisi perché non erano legati…

Gli occhi di Kenma studiarono la figura spenta di Hinata: che cosa doveva fare? Gli sorrise – ed era così raro un sorriso di Kenma, Shouyou lo sapeva, che quando l’Esca lo vide non poté fare a meno di provare a ricambiare il gesto. Perché si tormentava tanto, quando lui e Tobio non avevano fatto altro che rassicurarsi? Aveva idea che la loro incompletezza risuonasse della tristezza altrui per un’affinità intima e avrebbe davvero voluto imparare a spezzare quell’eco, a liberarsi di quel tormento.

«Voglio solo sapere per quale motivo l’hai fatto! Perché l’hai ferito in questo modo! Credevo lo amassi!».

Una voce, d’improvviso, ruppe il silenzio in cui due ragazzi erano caduti. Hinata sobbalzò, affacciandosi dalla finestra e sperando di scorgere il punto da cui era provenuto il suono – aveva riconosciuto a chi appartenevano quelle parole ed era consapevole di come sarebbe andata a finire quella situazione. Tuttavia, non vide nessuno.

«Deve essere dall’altra parte del palazzo, dove sono le palestre», suggerì Kenma, staccando gli occhi dal display luminoso.

Hinata scattò lungo il corridoio seguendo quelle indicazioni e dopo qualche istante l’alzatore lo seguì, sebbene non con la stessa velocità: la piccola Esca della Karasuno aveva davvero lo strano potere di spingere Kenma al di là della sua solita routine. Ad ogni modo, la preoccupazione di Shouyou era più che giustificata, perché a gridare era stato Takana e la supposizione di Kenma era stata corretta: il ragazzo aveva bloccato Asahi a pochi passi dall’ingresso di una delle palestre e non pareva minimamente intenzionato a lasciando andare, per quanto il più grande stesse provando a svincolarsi in tutti i modi da quel contatto diretto.

«Tanaka, per favore-». Si sentiva così stanco, Asahi.

«Cosa?! Per favore, cosa?! Non me ne starò qui a fare nulla mentre tu ti diverti a distruggere in questo modo Yuu!».

«Distrug-». No, no, no! Non era quello che aveva fatto! «Io non ho fatto nulla del genere! Tu non hai idea di cosa stai dicendo!». Era proprio l’opposto: tutto quello che aveva fatto era stato per proteggerlo, perché in futuro non si trovasse nella situazione di…

«Io so quello che vedo e Noya è a pezzi per colpa tua! Non m’importa quali fossero le tue intenzioni, non puoi trattarlo in questo modo! Glielo devi! Al di là di tutto, glielo devi per le volte in cui ti è stato accanto, per le volte in cui non si è arreso e ha continuato ad avere fiducia in te! E solo perché sta troppo male per venirti a dire tutto questo di persona, non significa che tu possa fare quello che voglia di lui e passarla liscia!».

Asahi era senza fiato. Era questo quello che aveva fatto? Lo aveva maltrattato ed abbandonato, aveva fatto di lui ciò che voleva, senza tener conto dei suoi sentimenti? Cosa… che cosa aveva fatto? Che cosa stava facendo? Da quando quella era diventata la sua vita e perché aveva deciso di gettare tutto via in questo modo? Avrebbe voluto lasciarsi cadere a terra e non fare più nulla – forse senza di lui le cose sarebbero tornate a posto. Forse…

«La verità è che non l’hai mai meritato».

Tanaka parlava a ruota libera, senza essere neanche sicuro di credere ci che lasciava la sua bocca: aver trovato Nishinoya negli spogliatoi, nascosto in un angolo a piangere, rannicchiato su se stesso e tremendamente indifeso aveva scatenato in lui un moto di rabbia così grande che né la logica né il buonsenso potevano ora trattenerlo dallo sputare tutte le sentenze e le cattiverie che parevano adatte all’occasione, nella vana illusione che avrebbero potuto aiutare Yuu.

«E…e forse è meglio così, forse troverà qualcuno che meriti davvero tutto quello che Yuu ha da dare, perché lui è una persona eccezionale e tu… tu non l’hai mai capito davvero!».

L’orgoglio in Asahi gridava per essere sentito: certo che sapeva quanto Yuu fosse fantastico, certo che lo conosceva! E – Dio, Dio! – se lo meritava! Lo aveva reso una persona migliore, s’erano resi persone migliori nel tempo che erano stati insieme! Ma pari all’orgoglio, cresceva nell’Asso qualcosa di nuovo, qualcosa che lo faceva star male a livello fisico. Con ancora Tanaka davanti agli occhi, Asahi vide tutto improvvisamente offuscato e poco chiaro; il campo visivo cominciò a tremare, come se qualcuno gli stesse fisicamente tirando via la terra da sotto i piedi e per il tempo in cui Hinata e Kenma li avevano raggiunti, non era più certo della natura dei colori che lo circondavano.

I legami, dopotutto, potevano anche spezzarsi.

 

La mattina seguente, la Karasuno pareva ancora più scossa, ancora meno coordinata. Nessuno, a parte Hinata e Kenma, aveva saputo della discussione tra Tanaka ed Asahi, ma tutti avvertivano che quella che era stata una vaga ostilità il giorno precedente ora si era trasformata in un’aura di astio chiaramente percepibile. Ryuu se ne stava da un lato, accanto a Noya, mentre Asahi esattamente all’opposto, lontano dal gruppo, lontano da quella palestra. Da quando s’era svegliato, quella mattina, avvertiva qualcosa di decisamente sbagliato: aveva dormito malissimo dopo le parole di Ryuu e qualcosa dentro di lui pareva essersi rotto – aveva la sensazione di essere arrivato ad un limite, di aver toccato il fondo e non sapere come riemergere. Non riusciva a capire, ancora, come fosse arrivato a quel punto, quando avesse deciso di rovinare così la sua vita, e forse anche quella di Noya. E soprattutto, non aveva idea di come andare avanti. Voleva andare avanti, poi?

Il coach parlava, spiegava gli schemi, dava loro dei consigli su come riuscire ad essere più incisivi per cogliere di sorpresa la Nekoma e vincere il set, ma l’Asso non riusciva a concentrarsi su ciò che aveva davanti: per quanto ci provasse, ogni cosa pareva sfuggire alla sua attenzione e i pensieri gli si affollavano nella mente, confusi, disarmanti, lasciandolo disorientato. Aveva l’impressione di avere le vertigini e faticava a respirare.

Quando mosse i primi passi dentro il campo, Asahi percepì chiaramente il proprio corpo stentare a fare ciò che la mente ordinava. Che cosa gli stava succedendo?

«Azumane? È tutto a posto?».

A Kageyama non era di certo sfuggita l’incertezza con cui il ragazzo pareva muoversi: Asahi avrebbe dovuto aspettarselo. Sorrise, annuendo appena, ma senza la forza di rispondere. Se n’era accorto anche qualcun altro? Suga, forse, o magari Daichi? Davvero non aveva voglia di spiegare qualcosa che anche lui faticava sempre più a capire. Sentiva gli occhi di Tanaka addosso e quella semplice consapevolezza bastava a fargli desiderare di non essere visto da nessuno: aveva avuto ragione, Ryuu, così come aveva avuto ragione Noya la mattina precedente. Forse quella era la pena per la sua colpa.

La partita si svolse con una rapidità che l’Asso non si aspettava: non riusciva a dare il cento per cento nel gioco, ma non era solo in campo e la squadra pareva avere un’aggressività diversa quella mattina, come se l’irritazione e la mancanza di grazia si sfogassero in un istinto animale che non era mai appartenuto loro e che coglieva di sorpresa gli avversari. Hinata pareva aver preso ad andare in solitaria, portando a termine delle azioni che non erano le sue solite e che mostravano una certa, nuova, consapevolezza. Tanaka schiacciava con un’aggressività che non aveva mai avuto in campo, Ennoshita e Tsukki facevano semplicemente bene il loro lavoro, così come Kageyama.

Nishinoya, come la mattina precedente, osservava il gioco da bordo campo, accanto a Daichi. Tuttavia, seguire le azioni si stava rivelando estremamente difficile stavolta: non importava che cosa facesse, l’attenzione veniva sempre, improvvisamente, dirottata sull’Asso della Karasuno. S’era accorto che i suoi movimenti erano stranamente incerti, che non faceva più passi del dovuto e non schiacciava con la solita forza; che, in sostanza, non era concentrato sul gioco. Stava male? Yuu non avrebbe davvero voluto preoccuparsi per lui: era ancora così furioso per quello che gli aveva fatto, per il dolore che stava provando a causa sua, eppure una pare di lui non poteva fare a meno di temere per quel comportamento tanto strano. Era solo il legame a parlare? Quell’attaccamento era solo dovuto al fatto che era il suo compagno? Noya non avrebbe saputo dirlo – ma non poteva staccare gli occhi da lui.

L’azione era semplice, da manuale. Ennoshita aveva fatto una buona ricezione, facendo arrivare la palla a Kageyama senza alcuno sforzo. Hinata era scattato, cambiando traiettoria all’improvviso, con la sua solita velocità ed imprevedibilità, ma era stata una finta e agli ultimi istanti l’alzatore aveva servito il terzo tocco per una semplice e potente schiacciata all’Asso. Asahi era riuscito a seguire quel gioco con più lucidità di quanta se ne aspettasse – aveva pensato che forse, finalmente, la sua mente si fosse decisa a concentrarsi su quello che gli stava davanti ed aveva preso una buona rincorsa per dare alla palla la potenza che fino ad allora le sue conclusioni non avevano ancora avuto.

Poi, tutto s’era mosso a rallentatore. Ad Asahi era parso di vedere tutta la scena dall’esterno: la palla che compiva la prima metà della sua parabola e si alzava, le sue gambe che si piegavano per dare slancio al salto, il corpo che seguiva quell’azione, il braccio che si alzava… E mentre attendeva la palla, in quelle poche frazioni di secondo tutto esplose.

«Il mio nome è Nishinoya Yuu. Sono un Libero».

La prima volta che l’ha visto.

«Capisco, quindi tu sei l’Asso! Farò in modo di difendere bene, così che tu possa fare quanti più punti possibile!». Arrossisce. Non ha idea del perché quel ragazzo, che lo conosce così poco, gli sia tanto devoto.

La prima volta che Noya ha creduto in lui.

Noya difende la seconda linea come se ne andasse della sua vita. È dannatamente bravo ed elegante, un corvo che spicca il volo: ricevere per il sembra facile come respirare.

La prima volta che lo ha ammirato davvero.

«Ti va se facciamo la strada insieme? Non abitiamo troppo distanti…». Stavolta non arrossisce, è felice di quella richiesta ed annuisce con un certo trasporto. E gli batte il cuore, come mai aveva fatto prima.

La prima volta che si è reso conto che Noya era diverso. La prima volta che ha desiderato davvero essere legato a qualcuno nel modo in cui sono legati i compagni.

Esplode il mondo davanti ai suoi occhi. Esplode tutto e Noya è lì, davanti a lui. Ed è bellissimo. E lo bacia, perché non ha bisogno di chiedergli se ha visto lo stesso, perché i suoi occhi glielo stanno dicendo: sono stati fortunati, si sono amati prima del legame ed ora sono uniti.

La prima volta che ha sentito davvero la felicità.

Il freddo lo pervade, si insinua nelle ossa, gli arriva al cuore. Non ha fiato per respirare, stretto nelle sue stesse braccia, isolato, in shock. Trema e mormora cose insensate. Non ha senso pensare, non ha senso esistere. Come si continua a vivere? Può farlo? Gli è concesso? Ha paura, una paura folle. Il dolore gli provoca conati di vomito che trattiene a stento. Non sente la voce dei genitori che cercano di rassicurarlo: andrà tutto bene, stanno arrivando in ospedale, presto sarà da Noya, presto starà bene. Non sente nulla, nulla che non sia il dolore ed il pericolo e l’allarme che il legame gli pompa nelle vene: è questo il sapore della morte?

La prima volta che ha avuto davvero paura.

Gli volta le spalle. Va via da lui e il legame si incrina. Può sentire chiaramente quel suono, come di un ramo che si spezza e sa di aver sbagliato. Sa che è troppo tardi. Sa che non c’è redenzione. Sa che ha distrutto qualcosa di perfetto – probabilmente sa anche che era quello il suo destino. Non è mai stato bravo nella vita, non ha mai fatto davvero la cosa giusta al primo colpo.

L’ultima volta che ha sentito distintamente la presenza di Noya.

Mentre è lì, nel bel mezzo dell’azione, una sorda consapevolezza colpisce Asahi: ha smesso di sentire la presenza di Noya. Un vago alone di ciò che è stato ancora lo accarezza, ma la maggior parte della consapevolezza del suo compagno s’è consumata nel dolore e nelle bugie, nella paura e nel tormento. Ha lasciato morire tutto e non se n’è davvero accorto finché non è stato troppo tardi.

D’improvviso nulla ha più senso. La concentrazione svanisce, il corpo sospeso a mezz’aria non ha più coscienza di sé e l’Asso si trova a cadere a peso morto sul campo liscio della palestra; cade senza realizzarlo, cade come cadrebbe un oggetto inanimato, per la sola forza di gravità.

Yuu mentirebbe a se stesso se dicesse di non averlo sentito. Non sa bene come, ma ne è stato improvvisamente consapevole: un secondo prima guardava il terminarsi di una semplice azione quello dopo sapeva che Asahi stava male. Era il legame o forse il suo intuito, l’amore che anche prima di essere uniti lo aveva portato all’Asso, un sentimento tutto loro, intimo, che nulla aveva a che fare con la sua legittimazione pubblica – Noya lo aveva sentito.

Nell’istante stesso in cui Asahi era crollato al suolo, il Libero s’era mosso, entrando in campo. No, la rabbia non era sparita, la delusione non s’era attenuata, il dolore non lo aveva abbandonato. Era tutto lì: ciò che aveva subìto, ciò di cui incolpava il suo compagno era tutto lì, ma non gli aveva impedito di correre verso di lui, il cuore in gola, i polmoni senza fiato, la paura che correva nelle vene. Perché non aveva smesso di amarlo, perché il legame si stava consumando, ma aveva ancora vita. Perché in fondo, Yuu non sapeva arrendersi.

«Asahi! Asahi?!», lo chiamò, gettandosi a terra, prendendogli la testa tra le mani. «Asahi, svegliati, apri gli occhi! Asahi, sono qui, mi senti?». E se fosse stata la fine? Se quello fosse stato solo l’ultimo guizzo di un animale morente? Non vide Suga e Daichi inginocchiati accanto al ragazzo, pallidi in viso mentre cercavano anche loro in qualche modo di farlo rinvenire; non notò la tempestiva chiamata di soccorso di Ukai, il professor Tanaka senza fiato o Hinata che, con occhi granati e bocca aperta, si teneva alla maglietta di Kageyama per avere un appiglio e non crollare. La sola cosa a cui il libero riusciva a pensare era che le ultime parole che aveva detto ad Asahi erano state solo di odio.

 

«Ma si sa qualcosa?».

«Nessuno sembra volerci dire nulla».

«Qualcuno ha chiamato i genitori?».

I ragazzi della Karasuno non riuscivano a star tranquilli. Si muovevano avanti e indietro lungo il corridoio dell’ospedale, in preda ad un terribile déjà-vu di cui davvero nessuno sentiva il bisogno – ma stavolta era ancora peggio, stavolta non avevano la minima idea di cosa fosse successo e quindi di cosa aspettarsi.

Nishinoya non aveva detto più nulla. Aveva tenuto la testa di Asahi, privo di sensi, in grembo finché non era arrivata un’ambulanza e poi lo aveva seguito all’interno, senza fiatare, guardando il suo volto pallido mentre i paramedici controllavano i segni vitale e prestavano il primo soccorso. Il battito del ragazzo era estremamente debole, il respiro affaticato. Quando erano arrivati, lo avevano portato direttamente in terapia intensiva, lasciando Yuu da solo, fuori, ad aspettare.

Non aveva detto più nulla – tra le mani aveva ancora la sensazione dei capelli di Asahi, lunghi e lisci. Gli era mancata quella sensazione, gli era mancato averlo così vicino e il pensiero che potesse essere l’ultima volta…

Il legame aveva preso a far male da subito. Anzi, era stato il dolore ad avvisarlo del pericolo. Ora una fitta continua al petto gli spezzava il fiato e faceva in modo che non si reggesse sulle proprie gambe – per questo, quando anche gli altri erano arrivati, s’era seduto e non s’era più mosso. Non riusciva a pensare, né a mantenere l’attenzione sulla stessa cosa per più di pochi istanti: i suoi pensieri tornavano sempre al compagno e più pensava a lui più stava male e stando male non poteva non pensare a lui, in un circolo vizioso che rischiava di farlo impazzire. Era così che funzionava quindi? Si lasciavano, Asahi stava male e lui veniva di nuovo risucchiato in quella storia, nonostante il dolore, nonostante la delusione? Lo aveva lasciato davvero, poi? Gli aveva voltato le spalle e se n’era andato, ma non era mai stati sicuro che fosse la fine, che potesse davvero lasciarsi quel legame alle spalle… No, Noya probabilmente sarebbe tornato sui suoi passi: forse ci sarebbe voluto tempo e coraggio, ma si sarebbero ritrovati se anche Asahi lo avesse voluto…

«Ieri sera gli ho parlato».

Yuu non s’era accorto che Tanaka gli si era seduto accanto, preoccupato. Si voltò verso di lui, attendendo che continuasse.

«Gli ho detto che era colpa sua se stavi soffrendo, che non ti aveva mai meritato, che aveva fatto una cosa orrenda a lasciarti. Lui ha cercato di andare via ma io ho insistito… Non credevo che sarebbe stato male, io non-».

«Ero così arrabbiato con lui!», Yuu aveva gridato, in uno scoppio improvviso. «Non riuscivo a sopportare la sua vista o la sua voce, così gli ho gridato di andarsene!». Le lacrime avevano preso a scendere sul suo viso, ma a Noya non importava, non in quel momento «Ieri sera è venuto da me, voleva parlare, voleva… non lo so, starmi accanto ed io gli ho solo detto di andarsene, di sparire. Lui non ha replicato. Volevo solo essere arrabbiato con lui, volevo solo che pagasse per il dolore che ho provato a svegliarmi senza di lui, a rendermi improvvisamente conto che non ci sarebbe più stato, che aveva deciso di non esserci più per me. Volevo solo… che capisse che cosa stavo provando, che… che… È così sbagliato? Ho fatto così male ad essere arrabbiato con lui, a volermi prendere questa vendetta? Perché, perché sta succedendo tutto questo?! Io volevo solo che capisse, solo… solo ripagarlo con la stessa moneta almeno per un po’! Mi ha fatto male, mi ha fatto malissimo! Perché allora è lui quello in ospedale, perché mi sento così terribilmente in colpa?».

Noya aveva preso a piangere e parlava tra i singhiozzi. Non comprendeva come poteva essere successo, non credeva che Asahi sarebbe stato male fino a questo punto, che il mandarlo via potesse spezzare il legame… Lo aveva capito, alla fine, che di questo si era trattato: il legame aveva rischiato di spezzarsi davvero, logorato da tutto il male che si erano fatti. Lui lo aveva mandato via e questo era stato il risultato. Si sentiva in colpa, come fosse stato un mostro e allo stesso tempo quella colpa lo faceva ringhiare: aveva diritto anche lui a stare male, anche lui ad agire in modo sbagliato ed egoista! Perché se Asahi scappava non accadeva nulla, ma se era il suo turno di allontanarsi allora l’Asso crollava a terra, privo di conoscenza? Perché a lui non era concesso ferire allo stesso modo?

Yuu si ritrovò nell’abbraccio di Tanaka prima ancora di poter realizzare di averne bisogno. Di abbracci del genere, a dirla tutta, non ne avevano mai avuti tanti, eppure quel gesto pareva naturale come respirare, abituale e sicuro. Noya non ebbe paura di piangere, tra quelle braccia, perché sapeva che Ryuu non lo avrebbe mai giudicato, che il loro affetto andava ben oltre quelle apparenze, che di lui si sarebbe sempre potuto fidare.

«Certo che sono arrabbiato! Ho tutto il diritto di sentirmi arrabbiato!»

«E che cosa risolveresti, arrabbiandoti così?».

«Nulla! Ma voglio essere arrabbiato! È un crimine forse? Voglio essere egoista ed arrabbiato, voglio avercela col mondo, voglio gridare! Perché non posso gridare, perché non posso far vedere agli altri come mi sento?!».

«Perché mi fai stare male!».

«Non posso farti stare male, Koushi, perché non ho nessun potere sulle tue emozioni: non siamo legati, noi due!».

«E credi di aver davvero bisogno di quello stupido legame per avere potere sulle mie emozioni?».

Daichi fece qualche passo indietro, traballando. Cosa…? Cosa stava succedendo? Un istante prima era lì e quello dopo la testa aveva girato e quelle parole erano rimbombate come se le stesse sentendo in quel preciso momento. Ma non erano parole nuove, non del tutto. Ricordava quella sensazione, la frustrazione, la sofferenza, la rabbia che non sapeva contro chi sfogare. Ricordava, d’un tratto, Suga, i suoi occhi lucidi, i suoi sorrisi tirati, gli abbracci che usava per nascondersi dal mondo e dal male che riservava ad entrambi, sottile come tagli di carta, ma costante come lo scorrere dei minuti.

D’improvviso ricordava e quelle sensazioni, nuove e consuete ad un tempo, lo travolsero come un improvviso fiume in piena, senza lasciargli scampo. Barcollò di nuovo e più i ragazzi della Karasuno si avvicinavano a Nishinoya per stargli accanto, più lui arretrava alla ricerca di un piccolo spazio che fosse solo suo, per organizzare tutto quello che gli affollava la mente.

Aveva paura di sperare, Daichi, aveva paura anche solo ad azzardarsi a pensare che stesse succedendo davvero. Però adesso con le parole venivano anche le immagini: vide la neve, vide se stesso che passeggiava con Koushi, vide le loro mani strette l’una nell’altra. Sentì la gioia ed il tormento e tutto quello che avevano passato insieme, tutta la loro storia parve concentrarsi nella visione di quei pochi istanti.

Daichi stava ricordando.

Si allontanò sperando di non essere visto o seguito e si sedette su uno dei sediolini di plastica del corridoio. Cercò di regolare la sua respirazione, ma altri ricordi piombavano nella mente come falchi in picchiata, pronti a catturare la preda.

«Fai attenzione, stamattina ha fatto così tanta neve che a scivolare ci vuole un attimo!».

Koushi ride, lo prende in giro per la sua preoccupazione da padre e quasi a sfidarlo comincia a correre nonostante sia davvero tanta la neve accumulata sulla strada. Sembra felice, felice come Daichi non l’ha mai visto e in quell’attimo, mentre lo vede correre e lo sente ridere, capisce che è il momento giusto.

Lo segue e lascia che l’amore che prova per lui faccia il resto, senza pensare, senza avere paura. Lo bacia. Un bacio semplice, appena uno sfiorarsi di labbra, giusto il tempo di sapere che sapore hanno quelle di Koushi. Il ragazzo ammutolisce, le ultime eco della sua risata che si perdono nell’aria. E Daichi ha paura di aver sbagliato tutto. Poi, Suga semplicemente rischia di scivolare per davvero e gli si aggrappa contro. Restano così, abbracciati in modo tale da non potersi guardare negli occhi e forse è meglio, dà loro coraggio.

«Ho sbagliato?», gli chiede in un sussurro, con ancora il fiato tirato ed il cuore in gola.

«Io davvero non ci speravo, Daichi», risponde lui e Daichi la sente la sua voce incrinata della gioia.

Poi Koushi si mette dritto, riacquistando equilibrio sulle proprie gambe e lo guarda dritto negli occhi. Entrambi sanno che cosa significa: è un rischio e allo stesso tempo non vogliono pensarci, al diavolo il legame, si vogliono in quel momento e tanto basta.

 

«E se non ci bastasse?»

«Ce lo faremo bastare, non ne abbiamo bisogno».

«E se poi ci capitasse di legarci con qualcun altro?»

«Qualcuno che non sei tu, Daichi? Non esiste. Davvero, non esiste».

Lo bacia con passione, lo bacia perché non potrebbe avere persona migliore accanto. Daichi lo bacia perché Koushi è la sua forza.

 

«Suga ti prego, lasciami parlare! Koushi!».

Ha sbagliato, è stato debole, per un momento ha esitato e gli ha detto che non era più sicuro di poter andare avanti. Ha sbagliato e l’ha capito dal momento stesso in cui le parole hanno lasciato la sua bocca. “Non lo so più”. Invece lo sa, lo sa eccome che è  con Suga che vuole stare. Lo sa e ci crede ancora.

Ma Koushi è scappato via ed ora grida davanti alla porta di casa sua come un matto. Non gli importa, vuole solo che lo perdoni. Non sa dire per quanto tempo resta così, a chiamarlo, in compagnia del silenzio. Quando Suga si fa vedere, aprendo appena la porta di casa, gli pone una semplice domanda.

«Posso fidarmi?».

Daichi glielo giura. E lo giura ancora ed ancora. E Koushi lo perdona.

 

Daichi davvero non riesce a capacitarsi di come abbia potuto dimenticare tutto quello che aveva avuto con Suga. Si sente male, ora che capisce l’intensità e la profondità del rapporto che aveva con Koushi. Sente di essere venuto meno a quella promessa, di aver tradito quella fiducia, seppur involontariamente. E sa che ci sono tantissimi altri ricordi che ancora non sono tornati e ha paura perché potrebbero essere altrettante tappe importanti della loro storia, ma al contempo si tiene strette le sensazioni che sta provando, che sono un passo in più verso chi era, un passo in più verso Suga. Non aveva perso tutto, non aveva ancora gettato la spugna. Poteva ancora riprendersi ciò che aveva, tornare con lui.

 

***

 

Le sensazioni tornarono lentamente, man mano che il ragazzo riacquistava consapevolezza di sé. Prima ci fu la pesantezza del suo stesso corpo, poi il morbido su cui esso era poggiato, infine il freddo che lo avvolgeva. Asahi non aveva alcuna voglia di aprire gli occhi, scorgere ciò che gli era avanti, realizzare quello che era successo – perché qualcosa era successo, di questo era certo.

Che lo volesse o no, la realtà, tuttavia, gli concesse solo qualche altro attimo di ignoranza. Tutto lo colpì come un treno in corsa non appena sentì una presenza accanto a lui – il respiro, lento e profondo, gli avrebbe suggerito che, chiunque fosse, stesse dormendo e, tuttavia, lo sentì d’improvviso muoversi e sospirare. Ed avrebbe riconosciuto quel sospiro anche in una stanza piena di gente.

Yuu.

Asahi trasse il fiato. Come in un rullino che si avvolgeva su se stesso, le immagini e le sensazioni che aveva provato durante la partita lo travolsero, il senso di perdita lo pervase insinuandosi nelle ossa. Le mani si strinsero a pugno, tirando il lenzuolo e gli occhi del ragazzo si spalancarono mentre i polmoni cercavano aria. Dio, Dio, no. Non quello. Non così, non adesso. Non-

«Asahi».

La voce di Noya, tirata e sorpresa, lo raggiunse come se provenisse da molto lontano. Il ragazzo spostò gli occhi nella sua direzione: era ancora lì, era davvero ancora lì con lui, dopo tutto quello che aveva fatto? Ed il suo legame? Lo aveva sentito chiaramente spezzarsi… possibile che Noya non se ne fosse accorto?

«Non agitarti, va tutto bene». Le sue parole erano così piena di affetto. Asahi non lo aveva mai meritato, Tanaka aveva ragione. «I dottori hanno detto che sei solo affaticato, che con un po’ di riposo tornerà tutto a posto».

Davvero? Sarebbe davvero tornato tutto a posto? Come poteva dirlo, come poteva anche solo pensare…? Oh. Gli occhi di Yuu erano rossi ed umidi, ora poteva vederlo così chiaramente… ed erano così luminosi, di quell’ambra che pareva brillare di luce propria e che lui poteva ancora distinguere tanto bene perché, in fondo, il legame non s’era mai spezzato del tutto. Noya era lì per questo, perché ci sperava ancora, perché lo aveva salvato.

«Mi dispiace così tanto, Yuu…».

Aveva tanta voglia di piangere, Asahi. Aveva tanta voglia di rannicchiarsi in un angolo e consumarsi completamente nelle lacrime, lasciarsi lavare via insieme ai suoi peccati. Yuu aveva dovuto sentire il dolore che aveva provato quando aveva rischiato di perdere tutto, aveva dovuto accorgersi della sua sofferenza anche se stava facendo di tutto per ignorarlo e lasciarselo alle spalle. Il suo più grande timore s’era realizzato. Tutto quello che aveva fatto, l’allontanarsi e il lasciarlo andare, non era servito a nulla. E come sarebbe potuto essere altrimenti? Il suo grandioso piano, si rese conto l’Asso, aveva una grossa falla – l’amore li legava ancora prima del legame e lasciarlo aveva portato la stessa sofferenza che voleva evitargli.

«Non avrei mai voluto che soffrissi in questo modo…».

«È un po’ tardi per questo, non credi?».

Noya non intendeva essere cattivo, stava ribadendo l’ovvio per provare a farlo finalmente parlare. Per provare a capire. Azumane si sentì un verme.

«Quando hai avuto l’incidente, ero in camera mia. Non ricordo precisamente che cosa stessi facendo o pensando, so solo che ad un tratto nulla aveva più senso: c’eri solo tu, il dolore, la paura di averti perso – qualunque altra cosa aveva perso di significato, me compreso. Ero completamente annichilito dal legame. Ho pensato che qualcosa di tanto bello come il trovarsi non potesse essere allo stesso tempo così terribile, che fosse sbagliato. E ho pensato che, a ruoli invertiti, non avrei mai voluto che tu provassi quello che stavo sentendo io. Eppure siamo qui, l’hai provato. Mi dispiace tanto, non avrei mai voluto che tu soffrissi in questo modo…».

Noya aveva il vago istinto di prenderlo a schiaffi, ma ricordò quanto fosse debole, di come i dottori si erano raccomandati di farlo riposare, e trattenne la sua mano.

«È per questo che sei andato via? È per questo che quando mi sono svegliato non eri con me? Perché non volevi che soffrissi? E così non credi che abbia sofferto comunque? Che cosa ti aspettavi, Asahi, che tutto sarebbe finito nel giro di pochi giorni, che avrei potuto superare la tua assenza così facilmente? È questo il valore che ti dai? È questo quello che pensi della nostra relazione?».

Non aveva gridato, le sue parole erano state lente e quasi sussurrate, le domande s’erano susseguite con una calma che solitamente Noya non aveva.

«Tutto il dolore non sarebbe stato nulla a confronto con quel sentimento di annientamento che ho provato quando sei stato male, che tu hai provato ora. Ed io… io sapevo che sarebbe successo, che prima o poi avrei fatto in modo di stare male abbastanza perché tu lo sentissi e non potevo accettare l’idea che ti saresti perso in quel nulla, che il legame avrebbe tolto dal tuo corpo, dalla tua anima la forza e lo splendore che ti compongono».

«Credo che lo abbia fatto di proposito? Credo che mi sia gettato con la bicicletta sotto quella macchina?».

La domanda del Libero fece quasi girare la testa di Asahi per quanto fosse assurda.

«No, certo che no. Che cosa-».

«Allora perché per te dovrebbe essere diverso? Perché mai dovrei pensare che prima o poi avresti fatto in modo di farmi stare tanto male?».

Perché sono un disastro, avrebbe voluto rispondere Asahi, ma gli occhi di Yuu lo fermarono. La conosceva già quella risposta il Libero, l’aveva sempre conosciuta. Perché ad Asahi veniva fin troppo facile addossarsi la colpa, ma non era mai stato tanto forte da saperla sopportare da solo. Perché era già successo, perché già una volta quel fardello aveva rischiato di schiacciarlo e Noya sapeva che quello era un atteggiamento che non sarebbe mai riuscito a scacciare del tutto. Asahi avrebbe sempre pensato di non valere mai abbastanza, di essere sempre troppo poco; avrebbe sempre guardato gli altri con ammirazione perché avevano qualcosa che, in sé, lui non sarebbe mai riuscito a trovare. E neanche lui, neanche il suo compagno sarebbe stato in grado di fargli davvero cambiare idea a proposito.

«Sai, Asahi, tu credi di aver sperimentato il dolore massimo che questo legame possa darci, perché io ho rischiato di morire. Ma la verità è che sentire quella connessione venire meno, avere la sensazione di essersi persi pur riuscendo ancora a guardarsi negli occhi è decisamente peggio. E questa è una cosa che tu hai scelto di far succedere».

«E che tu non mi perdonerai mai».

Gli occhi di Noya si riempirono improvvisamente di lacrime. Lui stava cercando di dire esattamente il contrario, perché non lo lasciava finire? Le emozioni di Asahi risposero a quelle del Libero e le prime lacrime caddero sul viso del più grande anche prima delle altre.

Yuu allungò una mano ad asciugarle, cancellarle dal volto pallido e stanco di Asahi. Sfiorò quella pelle stranamente fredda, il contorno duro dello zigomo fino ad arrivare al contorno del viso e scendere poi al mento: da quanto non lo toccava a quel modo? Gli pareva di star conoscendo quel corpo da capo, con tutti i dovuti rimaneggiamenti del caso, tutto ciò che quell’esperienza aveva portato ad entrambi.

Avvicinò le sue labbra a quelle di Asahi con lentezza e le sfiorò appena, come se non sapesse bene che cosa fare, se fidarsi. Azumane lo lasciò fare, senza esporsi, senza affrettare nulla. Non si aspettava quel gesto, non si aspettava nulla di tutto quello e non sapeva se lo meritasse o meno, per cui non stava a lui decidere nulla di ciò che sarebbe accaduto. Aveva compiuto i suoi errori e stava a Noya redimerli.

«Tu non hai idea di quanto possa amarti, Azumane Asahi. E non hai idea di quanto sia legato a te. Non voglio lasciarti alle spalle, non voglio perderti. Voglio sbagliare con te, voglio soffrire. Non credo di poterne fare a meno. Me lo permetti? Mi permetti di sbagliare e soffrire?».

«Perché?».

«Perché tu faresti lo stesso. Perché se fossi io a volermene andare per paura di farti male, tu non me lo permetteresti. Mi terresti tra le tue braccia, dovessimo stare così per sempre. E questo lo so per certo».

Era vero, Asahi lo avrebbe fatto, Asahi avrebbe lottato contro il mondo intero per Yuu. Era a se stesso che non sapeva dare possibilità.

 

***

 

La Karasuno era rimasta a Tokyo un giorno in più per assicurarsi che le condizioni di Asahi fossero stabili. Il ragazzo era ancora abbastanza debole, ma i genitori erano riusciti a farlo dimettere il pomeriggio successivo così da poterlo portare a casa, dove sarebbe stato a riposo fino al successivo campo estivo. Noya era voluto tornare con loro – lui ed Asahi, nonostante tutto, avevano davvero ancora molte cose da chiarire, un intero rapporto da ricostruire e soprattutto del tempo da recuperare.

I ragazzi s’erano salutati proprio al parcheggio dell’ospedale, sebbene si sarebbero sicuramente visti tutti la mattina seguente – tutto quello che era successo li aveva turbati e, in fin dei conti, uniti in uno strano modo, in un modo che necessitava di contatto visivo e fisico e dava a tutti uno strano senso di allarme nel caso fosse passato troppo tempo senza.

Nel pullman regnava il silenzio, la stanchezza fisica ed emotiva cominciava a farsi sentire e dopo due giorni passati sulle spine, tutti quanti potevano tirare un sospiro di sollievo e provare a rilassarsi per qualche ora. I ragazzi dormirono per la maggior parte del tempo; Yachi si era rannicchiata contro Kiyoko: la più grande le accarezzava distrattamente i capelli, cercando di non disturbare il suo sonno leggero, ma non riuscendo a riposare accanto a lei – aveva voglia di guardarla, vegliare su di lei con protezione. La notte precedente nessuna delle due aveva chiuso occhio e Hitoka era stata in preda all’ansia per tutto il tempo, con la paura che prima o poi Yuu avrebbe chiamato per dar loro qualche brutta notizia. A nulla erano valsi i tentativi di Shimizu di rassicurarla sul fatto che ormai il peggio fosse passato: Yachi non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Azumane che crollava al suono privo di conoscenza, come colpito da qualche mistica forza.

Solo quando ormai era preso a sorgere il sole le ragazze erano riuscite a calmarsi un po’, ma la stanchezza ora prendeva a farsi sentire. Kiyoko si voltò verso la sua compagna con un piccolo sorriso: aveva un cuore grande, Yachi, così pieno di amore ed affetto per tutti che quasi pareva non poter essere contenuto in un corpicino così piccolo. Ed era sua, aveva scelto lei, s’erano scelte era semplicemente perfetto. Forse, la ragazza capiva perché Asahi aveva agito nel modo in cui agito – e che Noya aveva raccontato loro quella mattina: non avrebbe mai permesso che qualcosa accadesse ad Hitoka, anche se avesse dovuto soffrire per questo, anche se avesse dovuto sacrificare tutto il resto.

Poco dietro, Hinata fissava distrattamente il sole tramontare nella sua luce rosastra, la mente lontanissima. Kegayama, accanto a lui, aveva posato il cellulare nella borsa dopo aver mandato un messaggio ad Hajime e lo stava fissando, senza sapere quanto Shouyou ne fosse consapevole. Sapeva che era ancora turbato, per quello che era successo, per tutto quello che in quei giorni di allenamento gli era passato per la testa e di cui non gli avevano ancora parlato.

Quando non riuscì più a sopportare il silenzio, l’Alzatore semplicemente gli prese la mano. Hinata quasi sussultò, ma non si voltò – gli pareva di rovinare quel momento.

«Sai, il fatto che non siamo legati non significa che io non possa sentirti. Io ti sento, Shouyou».

L’Esca risposte a quella stretta di mano, intrecciando le sue dita in quelle di Tobio, un leggero sorriso sul suo volto. Sì, lo sapeva. Ed era grato a Kageyama per questo. Nonostante tutto, esistevano ed avevano un legame tutto loro.

 

Suga s’era da poco incamminato verso casa. Si sentiva stranamente leggero quella sera: nonostante tutto, il fatto che Asahi e Noya avessero cominciato a risolvere i loro problemi lo faceva sentire meglio, come se le cose avessero ripreso a girare nel senso giusto, almeno un po’.

L’assenza di Daichi era qualcosa a cui stava ormai diventando tristemente abituato, un dolore sottile simile ad una malattia latente con cui imparare a convivere. Era ironico, a pensarci: il legame che aveva tanto voluto, contro cui entrambi avevano tanto gridato, ora era malinconia per uno ed insensatezza per l’altro. Tutta la loro lotta, tutti i loro sforzi erano bruciati senza che se ne accorgessero.

«Koushi».

Suga alzò la testa di scatto: davanti a lui, Daichi  gli stava di fronte con un leggero sorriso ad allargargli le labbra. L’alzatore pensò che non s’era per nulla accorto del fatto che lo avesse seguito e persino superato, tanto era perso nei suoi pensieri.

«Credevo andassi a casa», gli disse, cercando di apparire neutro e avvicinandosi – stava imparando nuovamente a muoversi intorno a lui e l’istinto di scappare, per quanto ancora forte, veniva ora compensato ad una certa, forzata calma, una caparbia decisione a restare.

«C’è una cosa che volevo fare, prima». Anche il Capitano della Karasuno aveva mosso qualche passo verso il compagno ed erano, ora, più vicini di quanto fossero mai stati negli ultimi giorni.

Per qualche istante, Koushi credette che Daichi volesse di nuovo provare a baciarlo. Dopo l’ultima volta, aveva fatto attenzione ai suoi movimenti, quasi si aspettasse un’imboscata, un gesto a tradimento e sebbene la logica, il sentimento gli dicessero di fidarsi, qualcosa di irrazionale lo spaventava: non avrebbe saputo come reagire a quel gesto – ora che era consapevole di quella possibilità, non sarebbe riuscito ad allontanarlo con la stessa sicurezza dell’ultima volta.

Ma Daichi non lo baciò. Gli si avvicinò ancora – i volti a pochi centimetri l’uno dall’altro, i respiri che si mischiavano – e restò così, a guardarlo, contemplandolo come si fa con un’opera d’arte o un miracolo. Non lo sapeva ancora, Suga, ma Daichi ora conosceva il significato di quel legame, il significato vero e profondo che aveva  per loro.

«Pensavo che ti devo delle scuse. Scusami, sono in ritardo», gli disse, inclinando appena la testa e sorridendo ancora.

«In- In ritardo per cosa?». Suga davvero non riusciva a capire.

«Abbiamo aspettato così tanto per avere tutto questo… È stato estremamente scortese da parte mia dimenticarti».

Koushi trattenne il fiato. Se quello era uno scherzo, allora Daichi era più crudele di quanto si sarebbe mai aspettato. Eppure il ragazzo se ne stava lì, lo guardava senza dire nulla, in attesa che capisse. E Suga voleva davvero capire, voleva davvero lasciarsi trasportare da quella speranza, da quell’intuizione, ma aveva paura che se non fosse stato come credeva non avrebbe retto il colpo.

«Non è colpa tua», rispose restando sul vago, cercando di svincolarsi.

«Non sto dicendo che lo sia. Solo che ora voglio recuperare il tempo perso».

Daichi parlava come se Suga avesse compreso quello che intendeva e Koushi, invece, non avrebbe voluto far altro che scappare. Per questo il Capitano allungò una mano a sfiorargli la guancia – l’alzatore dovette far violenza su se stesso per non abbandonarsi a quel tocco. Gli mancava così tanto…

«Koushi, hai capito che cosa sto dicendo?».

«E tu capisci che se mi permetto di sperare, che se ti credo poi non potrò tornare indietro?».

«Giuro che non dovrai mai farlo. Lo giuro sul nostro primo bacio, sulla neve che avevamo intorno. Lo giuro sulle notti in bianco passate a tormentarci, sulle nostre dita intrecciate a voler sostituire il legame che non avevamo. Lo giuro sui colori che vedo, sui tuoi capelli cenere, suoi tuoi occhi chiari, sulle tue guance appena arrossate».

Koushi annullò la distanza che li separava, gettandosi tra le braccia di Daichi e scoppiando a piangere. Le sue mani, strette a pugni e all’altezza del petto dell’altro, cominciarono a battervi contro con poca convinzione mentre le spalle erano scosse dai singhiozzi. Il Capitano della Karasuno non riusciva a cogliere tutte le parole che Suga stava mormorando, ma era chiaro che si stesse sfogando per tutto il tempo che aveva sofferto in silenzio, lontano da lui. Lo strinse a sé quanto più forte poteva, quasi a voler fondere i due corpi, e gli sussurrò che non si sarebbe mai più separato da lui.

«Ricordi tutto ora?», riuscì a chiedere Koushi, quando lo scoppio di pianto si fu calmato.

«Non tutto, no», scosse la testa Daichi «Ma ricordo te, ricordo i nostri baci e ricordo quello che abbiamo avuto, le cose più importanti almeno».

A Suga ancora non pareva vero, ma il legame non faceva più male. Era bello, caldo, confortante, come avrebbe sempre dovuto essere. Lo stavano sentendo per la prima volta davvero. Così si baciarono, in un gesto che partì da entrambi, che volevano entrambi, che aveva finalmente significato. Potevano quasi sentirla, la neve che cadeva loro intorno nel primo bacio.

S’erano cercati tanto a lungo, aveva sperato, pregato, imprecato. S’erano persi e s’erano ritrovati, ma non s’erano mai lasciati andare davvero, non avevano mai perso la speranza. Non avevano bisogno del legame per sapere che erano destinati l’uno all’altro. Che, in un modo o nell’altro, sarebbero sempre tornati a quel primo bacio tra la neve.

 

 

 

 

 

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E quindi sono riuscita a concludere questo part- questa shot! Per quelli che disperavano nel lieto fine… mi spiace per il terrorismo psicologico, ma spero che sia stato, invece, un happy ending soddisfacente! (nelle soulmates non ho quasi mai il coraggio di far morire i compagni ^^’’).

Che dire? Sono felice che sia piaciuta e ringrazio quelli che hanno lasciato un commento o anche solo un segno del loro passaggio Quasi sicuramente tornerò su questa serie, con altre coppie/squadre, ma non so ancora bene come e quando, quindi caricatevi ben bene di fluff, perché prima o poi arriverà una nuova mazzata angst XD

A presto, guys!

Alch

 

 

 

   
 
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