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Autore: vincey_strychnine    22/11/2016    0 recensioni
Lui le assomigliava sotto molti aspetti. Anche lui era vuoto, ma ad un certo punto nella sua vita doveva aver riempito gli spazi con rabbia e odio verso tutto, tutti e magari anche verso sé stesso.
(...)
Cercò di nascondere il dolore mentre gli domandava, con tono di scherno, “Perché? Hai paura?”
“No,” disse lui. “Ma tu sì.”
La risposta innescò dentro di lei un fuoco e il dolore della sua stretta d’acciaio si attenuò per un momento. Avrebbe anche potuto strapparle le mani, non le importava. Lei non aveva paura di Cato, non aveva paura di nulla.
A denti stretti quasi sputò le parole, “Invece no.”
Cato e Clove partecipano agli Hunger Games perché per loro è un onore, perché l'hanno scelto. Ma se nella vita sono stati cresciuti ed addestrati per essere macchine letali, come fanno a sapere che non c'é nient'altro, nulla di meglio al di là dell'uccidere?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brutus, Cato, Clove, Lyme, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Erano le due del mattino, ma Brutus sapeva dove trovarlo.

 

Le luci dell’ascensore assalirono i suoi occhi. Erano troppo potenti. Sulle etichette dei pulsanti sembravano esserci lettere piuttosto che numeri, ma sapeva che non poteva essere così; non aveva bevuto così tanto liquore. Ma aveva bevuto abbastanza da avere difficoltà a decifrare i simboli. Le porte dell’ascensore si erano chiuse già da un po’ quando finalmente riuscì a premere il bottone con sopra il numero 12.

 

Era tutto silenzioso nel corridoio buio che le porte rivelarono una volta aperte. Brutus rimase immobile finché non udì un tintinnio attutito e non scorse una luce da qualche parte in fondo al salone. La seguì.

 

L’uomo malconcio che stava cercando era seduto solo e accigliato in una stanza destinata ai Senzavoce, e tentava di placare i suoi tormenti con una bottiglia di liquore.

 

Brutus lo conosceva da qualche anno. Erano vincitori, erano stati mentori assieme. Nonostante ciò, era difficile dire se l’uomo lo detestasse completamente o meno, considerando il fatto che i tributi di Brutus sembravano uccidere i suoi ogni anno.

 

“Haymitch, mio vecchio amico.”

 

Il rumore inaspettato fu sufficiente a far saltare Haymitch giù dallo sgabello, scagliandolo diversi metri dietro di lui, e agitare un coltello nell’aria un paio di volte prima che realizzasse chi aveva davanti. I suoi occhi grigi iniettati di sangue si strinsero.

 

“Che cazzo ci fai qui, Brutus?” biascicò. Come suo solito era ubriaco. Forse anche più del solito.

 

“E’ una buffa storia, in effetti,” disse Brutus. “Un paio di ore fa ho avuto il piacere di contrattare con il proprietario dell’edificio su quanto mi verrà a costare il fatto che il mio tributo abbia aperto un fottuto buco nel nostro muro con un pugno. Così per farmi passare il mal di testa, mi sono fatto una bevuta. Ma poi ho esaurito le scorte del mobile-bar giù da noi.”

 

Haymitch prese un’altra sorsata. Quando la bottiglia colpì il tavolo con un tonfo disse con un tono secco, “Avresti semplicemente potuto ordinare dell’altra roba.”

 

“Beh, magari volevo un po’ di compagnia,” rispose Brutus.

 

Per parecchi minuti nessuno si mosse, Brutus rimase fermo sulla soglia, Haymitch continuò a guardarlo di traverso dal suo posto al tavolo. Dopo un po’ sollevò la bottiglia verso lo sgabello di fronte al suo, versò il liquore in un bicchiere pesante e lo fece scivolare in direzione di Brutus.

 

“E’ stata una mietitura interessante per te quest’anno,” disse Brutus.

 

L’unico suono che ricevette in risposta fu Haymitch che deglutiva. Poi agitò la mano, ignorando il commento. “Per favore, dimmi il vero motivo-“ si interruppe per emettere un rutto che pareva portasse con sé altro oltre al semplice gas, “-per cui sei qui.”

 

Brutus decise quale approccio adottare. Il silenzio calò di nuovo su di loro.

 

“Come ha fatto?” chiese finalmente.

 

Il sorriso sul volto di Haymitch aveva un che di sinistro. “Pensi davvero che te lo dirò?”

 

Brutus sentì la sua calma divenire sempre più sottile, così anziché assecondare la rabbia si allontanò un po’ dal tavolo e piegò indietro la testa per versare il contenuto del suo bicchiere in gola. Era forte. Era davvero forte. Haymitch non beveva roba leggera.

 

Quando aprì la bocca per espirare l’aria della stanza gli parve fredda. All’improvviso la nebbia che gli offuscava lo sguardo si addensò.

 

“Non ero sicuro di cosa pensare,” disse, piegando la testa di lato con un sonoro scricchiolio. “E’ solo che è una svolta incredibile. I tuoi tributi di solito escono con quanto? Un quattro… un tre… quest’anno non solo hai un otto ma addirittura un undici.”

 

“C’è una prima volta per tutto,” disse Haymitch. “Di solito i tuoi tributi non si mettono a rompere il muro a forza di pugni.”

 

Ancora silenzio. I due uomini si appoggiarono ai rispettivi schienali, osservandosi pigramente con i loro occhi socchiusi. Brutus ad un certo punto si piegò sul tavolo. Stava sorridendo.

 

“I tuoi tributi moriranno, Haymitch.”

 

Haymitch si lasciò andare ad uno scoppio di riso amaro. Poi sbatté il pugno sul tavolo e spalancò gli occhi. Le sue iridi grigie brillavano. I suoi denti erano digrignati dietro al sorriso. “No, merda. Non è lo scopo del gioco? Ventitré di quei tributi moriranno.” Si portò di nuovo la bottiglia alle labbra.

 

“Oh no, no, no sarei dovuto essere più specifico,” disse Brutus. “I miei tributi vogliono il loro sangue. No, forse dovrei dire il suo sangue. Sarà proprio uno spettacolo quando la prenderanno. Avresti dovuto vedere il fuoco negli occhi del mio ragazzo quando ha visto quell’undici.”

 

Haymitch rimase impassibile mentre si rigirava la bottiglia tra le mani. “Sono certo che ce n’era un po’ anche nei tuoi,” disse.

 

Brutus rimase infastidito dall’osservazione, pur essendo alticcio.

 

“Può darsi,” sorrise. “Non è molto importante come io mi sia sentito, però. Non ci sarò io in quell’arena. Ad ogni modo, dovrebbe essere un’edizione interessante quella di quest’anno… per entrambi.”

 

Haymitch era concentrato sulle venature nel tavolo di legno. Un ghigno lentamente si schiuse sul suo volto finché non divenne un sorriso da un orecchio all’altro.

 

“Ah ma non lo è forse ogni edizione, Brutus?” disse.

 

Poi all’improvviso divenne isterico, sfrenato come un bambino. La sua risata maniacale vibrò nei muri della stanza. Riverberò contro le pentole e le padelle appese sul lavandino. Soffocò la voce di Brutus che lo ringraziava per la bevuta e si allontanava dal tavolo. La risata seguì lungo il corridoio e dentro l’ascensore. Lo seguì dritta fino al secondo piano.

 

**

 

Anche se non sognava, Clove vedeva comunque delle cose nel sonno. Spesso erano ricordi, ricordi della giornata precedente, ricordi risalenti a molto tempo prima, pensieri ricorrenti. Nonostante ciò, sparivano in fretta.

 

I suoi momenti di riposo, quando c’erano, erano un paio di ore in cui il suo corpo soccombeva alla stanchezza, mentre lei entrava e usciva da uno stato di semicoscienza. Qualche volta veniva svegliata dalla sua stessa voce, altre volte dal suono di altre voci, reali o immaginarie. Quella notte vide immagini incise su un muro grigio.

 

Una nube tempestosa, un albero,mostri, bambini, sua madre, cavalli, un angelo, un ragno, un demone.

 

Poi vide un altro muro. Era blu stavolta. E non era sfocato, ma nitido e dettagliato. Questo muro era reale, era il suo soffitto. Il soffitto della sua stanza d’albergo. Era a Capitol City, attendeva l’inizio degli Hunger Games.

 

Ancora un giorno.

 

Si mise a sedere nel letto.

 

Quello era l’ultimo giorno. Il giorno seguente sarebbe stata nell’arena.

 

Sapeva che il sonno non le sarebbe tornato, così si alzò e iniziò a camminare per la stanza. Il giorno seguente era tutto per lei. Tutto quello per cui si era allenata per tutta la vita. L’emozione prese a farsi strada da qualche parte nel suo stomaco e all’improvviso le sembrò come se avesse pervaso tutto il suo corpo. Non riusciva a trattenersi. Il cuore le batteva forte, i suoi piedi si mossero rapidi uno davanti all’altro sempre più rapidamente.

 

Chi avrebbe ucciso per primo? Importava? No, no, non importava. Perché avrebbe ucciso. La sensazione, quella sensazione, oh come desiderava provarla in quel momento. Desiderava in un modo quasi disperato sapere cosa si provasse.

 

Le sue mani si strinsero in dei pugni. Non aveva senso fare una doccia. Innumerevoli mani colorate non vedevano l’ora di tirarla a lucido quel giorno. Non vedevano l’ora di creare la loro piccola bambola da presentare a Capitol City. Quella sera si sarebbero tenute le interviste.

 

A Clove non importava nulla.

 

Era tutto solo una distrazione. Non le importava cosa Capitol City pensasse di lei in quel momento. Il punteggio dell’allenamento le era servito solo per ripagare il suo distretto, e ora niente era più dovuto. Ora si trattava solo di ciò che lei voleva e desiderava. E lei voleva entrare in quell’arena.

 

Aveva camminato per la stanza per ore, o forse anni. Ad un certo punto un pugno bussò alla sua porta e fu inondata di luce viola cavolfiore.

 

Ancora solo un giorno.

 

**

 

Degli uomini vestiti di grigio erano intenti a riempire il buco nel muro con qualcosa di denso e blu. I loro guanti bianchi vi passarono sopra più e più volte, per chiuderlo. Clove lo guardò chiudersi come l’occhio di un gigante addormentato.

 

“State attenti!” intervenne Pallas. Indicò il muro con il dito accusatorio e tozzo. “Non muovetevi troppo in fretta. Voglio un lavoro ben fatto!”

 

E poi l’ometto, che quella mattina era vestito come una caramella, spostò gli occhi piccoli per guardare storto Cato. Il loro accompagnatore di Capitol City era di umore particolarmente cattivo dopo il brutto tiro giocato dal ragazzo la sera prima. Non aveva più intenzione di nascondere il suo disprezzo per loro.

 

Clove realizzò che il suo compagno di distretto non doveva aver dormito troppo bene. Sembravano esserci ombre permanenti nelle pieghe delle sue labbra e nell’incavo delle guance. Piccole vene bluastre erano visibili sotto ai suoi occhi. Quelle vene colpirono Clove. Non importava quanto spessa la sua pelle potesse essere da qualsiasi parte, era comunque delicata sotto gli occhi. Era difficile pensare che qualcosa in Cato fosse delicato, ma era un essere umano e gli esseri umani hanno la pelle sottile e delicata sotto agli occhi.

 

Stava usando un cucchiaio per rimescolare qualsiasi cosa ci fosse nella sua tazza, producendo un ipnotico tintinnio che si fermò solo quando si rese conto che Clove lo stava fissando. Immediatamente si raggelò e la intrappolò nel suo sguardo. La sua bocca si piegò in una linea dura.

 

Clove smise di guardarlo.

“Allora,” sospirò Lyme dal suo angolo del tavolo. “Abbiamo solo fino a metà del pomeriggio per prepararvi all’intervista di stasera. Il resto della giornata sarà lasciato ai vostri stilisti. Clove, finisci la colazione in fretta.”

 

Quando si alzò per seguirla, Lyme la condusse in una piccola stanza sul loro piano tappezzata di libri. Come al solito, la sua mentore andò dritta al punto. Clove si era a malapena seduta quando disse “Ti servirà un’immagine. Dobbiamo venderti a Capitol City.”

 

“Non mi interessa se piaccio o no,” sibilò Clove.

 

“Oh ma ti importerà,” disse Lyme. “E ha due opzioni: o ti interessa ora, o ti interessa nell’arena quando stai morendo di fame.”

 

Clove strinse i denti, ma lasciò da parte l’orgoglio e deglutì le parole che la sua bocca minacciava di far uscire.

 

“Ecco cos’ho pensato. Magari non vuoi sentirtelo dire, ma non sei il tipico tributo del Distretto Due. Sei piuttosto esile. Sarà facile che la gente ti sottovaluti. Perciò dovremo ritrarti sotto una luce che non dia loro modo di farlo. Sappiamo tutti che approccio userà Cato.”

 

Non era necessario che Lyme lo dicesse. Certo che sapevano tutti che cosa avrebbe rappresentato Cato per Capitol City. Sarebbe spiccato come l’uccisore violento e brutale di quell’anno. Avrebbe ottenuto molti sponsor. E non avrebbe nemmeno dovuto ‘fingere’ nulla. La sua arroganza fin troppo reale sarebbe bastata da sola per loro, ne sarebbero stati attratti come moscerini sulla frutta marcia.

 

“Ma per te voglio fare qualcosa che non sia sottotono e nemmeno che ti faccia sembrare troppo 

presuntuosa. Sei una ragazza, e sei giovane. Faun farà in modo che tu sia bellissima-“

 

Clove vide un’immagine mentale di sé stessa vestita di tulle, che ridacchiava e mandava baci volanti a Capitol City. “Io non sarò Lux,” sbottò.

 

Lyme immediatamente smise di parlare e scavò con lo sguardo dentro Clove. Il messaggio che doveva starsene zitta fu più che chiaro.

 

“Dovremo fare qualcosa per questo tuo caratterino,” disse dopo un istante. “Un anno ho seguito una ragazza che scelse questo approccio e non ho mai visto un tributo del nostro distretto con così pochi sponsor. A nessuno piace una ragazzina viziata.”

 

Clove continuò coraggiosamente a guardarla di traverso, ma dopo aver fatto un respiro profondo Lyme proseguì.

 

“Tu sarai pericolosa,” disse con tono decisivo.

 

Clove prese in considerazione l’idea. Pericolosa. La parola venne ripetuta più volte nella sua mente e il suo suono le piacque sempre di più. Se proprio doveva mettere su un teatrino per quelle bestiole ignoranti, non le sarebbe dispiaciuto interpretare quel ruolo.

 

“Fai capire che sei una forza da tenere in considerazione. Sarai convincente e ferma. Non ridere troppo, non fare troppi sorrisi. Ma non essere di pietra o troppo distaccata. Non essere umile ma allo stesso tempo nemmeno troppo sicura di te. Sii minacciosa ma non ti comportare come se sapessi di esserlo. Imponiti come una presenza che non verrà dimenticata. Le folle già sanno di te. La tua immagine finora è buona, il tuo punteggio è stato uno dei più alti-“

 

Clove strinse i pugni a questa frase. Non voleva parlare dei punteggi degli allenamenti. Non voleva nemmeno che venissero nominati. Lyme probabilmente se ne accorse e cambiò discorso.

 

“Ascoltami,” disse con severità. “Non sappiamo cosa sia successo al centro d’addestramento ieri. Potrebbe essere successa qualsiasi cosa. Ma devi ricordare sempre una cosa: tu vieni dal Due, lei dal Dodici. Non lasciare che ti faccia imbestialire. Questo consiglio potrebbe tornarti utile anche nell’arena.”

 

Ora Lyme era accucciata su un ginocchio davanti a lei, con gli occhi fissi in quelli di Clove.

 

“Mantieni il controllo,” disse. “Nel momento in cui lasci che la rabbia prenda il sopravvento, potresti essere finita. Capisci?”

 

Dire che la sua rabbia potesse prendere il sopravvento equivaleva a dire che non aveva un’influenza costante su tutto quello che faceva. Era il suo carburante. La sua motivazione. Provocava ogni pensiero che aveva. E non se ne andava mai. Ma era una parte di lei, e di certo non qualcosa che potesse controllare.

 

Ma annuì comunque.

 

Le poche ore che seguirono passarono mentre Lyme le spiegava come parlare e rispondere alle domande in un modo che si adattasse all’approccio che avevano scelto. Lavorarono sulla sua insolenza, che era difficile da sistemare. Lyme la fece camminare a grandi passi attraverso la stanza e le insegnò a tenere la schiena dritta senza gonfiare il petto. Si allenarono per l’intervista ma non tutto andò liscio come l’olio a causa della poca creatività di Lyme con le domande. Ad un certo punto Clove non riuscì più a trattenersi.

 

“Non mi interessano gli sponsor,” sbraitò, quasi allontanandosi con un salto da Lyme. “Non mi interessano i loro regali. Non mi serve che mi salvino. Non mi importa che vogliano che io vinca. Non mi interessa nemmeno vincere.”

 

I tratti di Lyme si accesero improvvisamente di furia. Clove non l’aveva mai vista lasciar trapelare così tanta emozione.

 

“Non ti interessa vincere?” abbaiò, la sua voce rimbombò per tutta la stanza. “Allora perché sei qui?”

 

Per un momento, Clove non riuscì a trovare le parole. Lo sguardo indistruttibile del suo mentore sembrava scioglierla. Le occorse un’eternità per prendere abbastanza coraggio da riaprire la bocca. Ma la sua risposta fu onesta.

 

“Voglio giocare,” disse.

 

Sedettero in silenzio per un bel po’. Il volto di Lyme divenne di pietra e Clove non riuscì più a guardarla. Si concentrò su un pezzetto di vernice che sembrava dovesse staccarsi dal muro da un momento all’altro, da qualche parte dietro la spalla sinistra di Lyme.

 

Fortunatamente però, riprese a parlare.

 

“Vedi di fare in modo che questa intervista vada bene se non altro per gli insegnanti e tutte le persone che si sono sicuramente fatte il culo per farti arrivare fino a qui,” disse. Poi si alzò per lasciare la stanza ma prima di andarsene si voltò leggermente continuando a dare le spalle a Clove e aggiunse:

 

“Non rovinare tutto mandando all’aria il tempo impiegato e i loro sforzi.”

 

E poi se ne andò. Clove rimase da sola nella stanza, notando senza troppa emozione come quasi tutto il calore presente se ne fosse andato con lei

 

**

 

“Oh, tesoro, bisogna proprio che ti spazzoli i capelli più spesso.”

 

Il colorato e cinguettante team di preparazione di Clove le aveva legato le braccia e le gambe ad una sedia ed ora una mano verde le stava tenendo giù la fronte mentre uno strano aggeggio le tirava i capelli e li faceva fumare. Ogni tanto le bruciava lo scalpo. Di certo doveva essere qualche forma di tortura. Forse sarebbe stato meglio se non avesse tentato di attaccare uno dei membri del team. Almeno non sarebbe stata legata.

 

Ormai da ore la stavano preparando come un pezzo di carne pregiata. Le avevano sfregato strane creme addosso e le avevano spolverato polveri di ogni tipo sul viso che ora le prudeva incredibilmente. Le sue ciglia erano state aggredite più di tutto, ora le sentiva pesanti sulle palpebre e la sua visione era oscurata da un tetto nero. Le avevano soffiato brillantini sulla faccia. Le avevano pitturato le labbra con qualcosa di freddo.

 

La porta della stanza si aprì ed entrò la sua stilista, Faun. I suoi tacchi esagerati ticchettarono mentre attraversava il pavimento di marmo eccessivamente bianco. Come al solito, un lungo bastoncino rosa era pigramente appoggiato fra le sue dita, e da esso fuoriuscivano nuvolette di fumo quando lo portava alla bocca e lo aspirava. Clove non aveva mai visto nulla del genere prima, ma aveva un odore stranamente naturale, specialmente per una persona il cui corpo poteva essere stato tutto modificato geneticamente.

 

La vista di Clove legata portò un sorrisetto sulle sue labbra gialle. “Ti sei comportata male di nuovo, cara?”

 

Clove detestava quella donna.

 

Per tutta risposta le lanciò un’occhiataccia. Una voce dal capo opposto della stanza strillò, “Mi ha aggredito con delle pinzette, Faun!”

 

Faun alzò gli occhi al cielo. “E’ per questo che prima devi fare la ceretta e poi puoi fare domande. Adesso fuori. Tutti quanti.”

 

In un batter d’occhio una dozzina di creature artificiali di tutti i colori dell’arcobaleno scapparono verso la porta come scarafaggi alla vista della luce.

 

“Ora,” disse Faun, percorrendo con un’unghia lunga e laccata la mascella di Clove, appena fuori dal suo raggio di morso. “Ho fatto una chiacchierata con il tuo mentore riguardo al tuo approccio per l’intervista. Il tuo vestito deve abbinarsi alla perfezione.

 

Fece un passo indietro e agitò le mani a mezz’aria lasciando una scia di nuvole leggiadre di fumo. “Se hai intenzione di apparire pericolosa allora sarebbe appropriato ritrarti come qualcosa di potente, qualcosa di immortale. Una creatura di straordinaria bellezza, giunta direttamente dal mondo ultraterreno. Un essere antico che non è condizionato dalle misure umane del tempo e dello spazio, della vita e della morte: una dea.”

 

Un sorriso apparve sul suo volto mentre cercava negli occhi di Clove una qualche forma di emozione causata dalle sue parole. Ma non c’era nulla. Il suo sorriso divenne una smorfia.

 

“Il tuo entusiasmo mi uccide, cara,” disse, e poi i suoi occhi si strinsero. “Ti libererò. Ma prima che tu faccia qualcosa di avventato permettimi di ricordarti che ci sono delle telecamere qui, che osservano ogni tua mossa. E che io sono una cittadina di alta importanza della bellissima Capitol City. Mentre tu, beh, fra meno di ventiquattro ore te ne starai ad agitarti nel fango e nel sangue.”

 

La sua palese paura fece sorridere Clove. “Oh, non oserei mai,” disse in tono di scherno.

 

Quanto avrebbe voluto che la sua elegante stilista fosse stata in quell’arena il giorno dopo.

 

Dopo essere stata slegata, costretta in una gabbia di vestiti e incastrata nei tacchi, poté avvicinarsi allo specchio.

 

Quando lo fece vide una strana creatura intrappolata all’interno. La scrutava con interesse da sotto le ciglia spesse e nere. Schegge dorate erano posizionate attorno agli angoli dei suoi occhi in un disegno intricato ma sobrio e le sue sopracciglia erano archi scuri perfettamente disegnati. La pelle del suo viso sarebbe potuta essere seta, perfetta e opaca senza la minima lentiggine a macchiare le sue guance morbide. Un lungo mantello di capelli neri come il petrolio scivolava lungo una delle sue pallide spalle, decorato da una serie di trecce.

 

La creatura giocherellava con il tessuto de vestito che la conteneva, del colore di un petalo di glicine. Fece passare una mano sulle piccole mezzelune dei suoi seni pallidi coperti da due drappi di organza che formavano una scollatura elegante ma pericolosamente profonda. Poi la mano sfiorò la pelle dei fianchi scoperti e delle gambe che si intravedevano tra cascate di organza che si increspavano sui fianchi. Le sue labbra dipinte si arricciarono.

 

Questa bellezza ultraterrena non era lei. Non era mortale. Era una dea.

 

Ed era molto, molto più grande dei suoi quindici anni.

 

Lyme sarebbe di certo stata contenta di ciò che la stilista aveva creato. Assieme, Clove e questa creazione avrebbero attratto molti sponsor quella sera.

 

La prima prova della sua efficacia la ricevette dopo che Faun l’ebbe spinta nel corridoio dove si trovò in piedi di fronte a Cato.

 

Alla vista di lei, diverse emozioni attraversarono rapidamente il suo volto. Inizialmente le sue sopracciglia si sollevarono per la sorpresa, poi i suoi occhi si strinsero, forse perché realizzò che con il suo solo aspetto fisico avrebbe costituito una seria competizione per ottenere il favore della folla. Ma poi i suoi lineamenti si fissarono in qualcosa che le ci volle un po’ a capire. Quando gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso, non era per schernirla. I suoi occhi si soffermarono su ogni sua curva. Poi quando sembrarono fermarsi sul suo petto, riuscì a decifrare l’espressione.

 

Fame.

 

Anche lui era di certo affascinante, o no? La giacca che indossava era cucita alla perfezione. Contornava le sue spalle larghe e si stringeva nei punti giusti sulle braccia. La camicia grigia al di sotto era sbottonata al punto giusto, mostrando la pelle del petto. I suoi capelli biondi, che in origine erano tagliati a spazzola, erano cresciuti parecchio da quando erano arrivati lì ed erano stati pettinati in maniera scompigliata ma attraente…

 

Interruppe il flusso del suo pensiero. Attraente? Aveva forse appena abbinato Cato alla parola ‘attraente’? Si prese un momento per determinare quanto questo fatto fosse scandaloso.

 

Beh, era molto mascolino. Una volta aveva visto lo aveva visto a torso nudo, illuminato dal sole che filtrava dalla finestra del treno che li stava portando a Capitol City. Era stato come guardare una statua vivente, scolpita alla perfezione, il tipo di statua che gli artisti antichi creavano un tempo per ritrarre i guerrieri o gli dèi. I pettorali e gli addominali definiti erano scolpiti nella pelle liscia in un modo che li faceva assomigliare alla pietra. E di viso non era certo brutto, ora che lo guardava meglio: la mascella prominente dalla linea decisa, zigomi alti che potevano essere stati disegnati dalla mano di un artista, labbra dalla forma perfetta…

 

D’accordo, magari era attraente. questo non avrebbe comportato alcuna differenza nell’ucciderlo. Forse l’avrebbe reso ancora più divertente. Si chiese se accoltellarlo alla pancia sarebbe stato simile come sensazione a quella di tagliare un’anguria.

 

Nonostante questi pensieri, Clove si premurò comunque di sfregare il fianco contro la sua gamba mentre gli passava accanto.

 

**

 

Le interviste si tenevano sul grande palco che stava di fronte alla piazza centrale sotto all’edificio dove si trovavano i loro appartamenti e il centro d’addestramento. Tutti e ventiquattro i tributi sarebbero stati seduti a semicerchio attorno a Caesar, cosicché tutti avrebbero potuto assistere alle interviste altrui dal vivo. Clove e Cato furono gli ultimi ad arrivare ed immediatamente furono trascinati via dai loro stilisti appena le porte dell’ascensore si furono aperte.

 

Furono strattonati troppo in fretta per Clove, che a malapena riusciva a camminare bene sui suoi tacchi, figurarsi ad alta velocità. Ma ad un certo punto sorpassò qualcosa che attutì tutto quel trambusto.

 

Era proprio in fiamme quella sera. I suoi occhi grigi non guardavano Clove, sembrava confusa e di fretta come tutti loro. I suoi capelli non erano raccolti nella solita treccia. Il suo volto non appariva smorto come di consuetudine. Oh, che bella che era.

 

Katniss. La sua dolce piccola Katniss.

 

Poteva sentire il suo profumo, tanto le era vicina. Così vicina. Abbastanza vicina che non le sarebbe servito nemmeno allungare un braccio per afferrarla alla gola…

 

La mano di Clove si mosse involontariamente dal suo fianco, ma la ragazza se ne era già andata. Stavano sorpassando gli altri tributi adesso, i loro corpi drappeggiati di tessuti di ogni tipo e colore. Poi furono depositati vicino a Marvel. Clove per poco non inciampò in lui. Quando si voltò verso di loro, la squadrò divertito.

 

“Vi hanno ripulito per bene, eh?” disse.

 

Assieme, lui e Lux rappresentavano il Distretto Uno fin troppo letteralmente: Marvel con il suo completo argentato che pareva essere fatto di metallo puro, e Lux con un vestito dorato praticamente trasparente che avvolgeva ogni curva del suo corpo ed era dello stesso colore dei suoi capelli.

 

“Parlate per voi,” disse Cato, ma i suoi occhi erano concentrati solo su Lux, che gli stava sorridendo con le sue labbra rosse.

 

Ma non ebbero tempo per altro, perché un uomo apparve davanti a Lux e li condusse sul palco.

 

La prima cosa che Clove percepì fu l’aria notturna che colpì il suo viso con il suo freddo bruciante. Si rese conto involontariamente che quella era la prima volta che usciva all’aperto da quando si era offerta volontaria alla mietitura. Luci intense creavano un alone dietro la testa già dorata di Marvel e lei lo seguì senza pensare come una falena. Le ondate di voci urlanti si abbatterono su di lei. Erano incredibilmente rumorose, quasi ipnotizzanti. Quando i suoi occhi si adattarono alle luci accecanti del palco, riuscì a vederne la fonte.

 

Migliaia di persone.

 

Era quasi letteralmente un mare. Un mare punteggiato di macchine fotografiche e flash improvvisi. Le persone avevano sommerso il pavimento,si sporgevano dai balconi, agitavano le mani ed esultavano. Le loro grida invasero la sua mente, si impadronirono del suo corpo e la spinsero via dal palco. Aveva appena mosso un passo verso quel suono che una mano la trascinò forzatamente al suo posto a sedere. Frastornata, si guardò attorno. Marvel sedeva alla sua destra e Cato, la mano che l’aveva trascinata, sedeva alla sua sinistra e la squadrava accigliato.

 

Tutti i tributi erano seduti. Quella notte non erano altro che marionette attaccate ad un filo, mosse dai loro mentori e dagli stilisti per intrattenere le masse di Capitol City.

 

Caesar saltellò sul palco in un istante, tutto colorato di azzurro polvere. Questo non fece altro che incrementare il volume già alto del rumore della folla. Da qualche parte, la musica iniziò a suonare. Il suono delle trombe lacerò l’aria.

 

E lo spettacolo dei burattini iniziò. Ognuno aveva un ruolo da interpretare.

 

Lux fu la prima, la civetta.

 

Una delle più grandi fra di loro, con curve prosperose appropriate per la sua età. Camminò con ostentazione sul palco, facendo dondolare i fianchi coperti d’oro liquido. Caesar le baciò la mano. Arricciò le labbra color ciliegia, regalò uno sguardo color smeraldo agli uomini di Capitol City nelle prime file del pubblico. Le sue mani svolazzarono mentre colpiva scherzosamente il braccio di Caesar. Il timer suonò. Aveva finito. 

 

Ora era Marvel a calcare il palcoscenico, l’uomo di mondo.

 

Un ragazzo che ci sapeva fare, bello, dall’aria superiore. Conquistò la folla nel momento il cui si pose al centro del palco. Riuscì a coinvolgerla nelle sue risposte a Caesar dimostrando una straordinaria abilità artistica. Lanciava sorrisi candidi. Quando Caesar gli chiese se pensava di avere qualche serio avversario, si voltò verso i tributi guardandoli con indifferenza e scrollò esageratamente le spalle. “Non lo so Caesar,” sospirò. “Penso di riuscire a tenerli a bada tutti. Ma potremmo avere un’opinione del pubblico a riguardo?” Indicò la Piazza e il ruggito di assenso esplose prima ancora che Caesar avesse avuto modo di chiedere “Che ne pensate gente? Abbiamo un vincitore qui?”

 

Le loro grida continuarono anche una volta che il timer ebbe suonato e Marvel si fu seduto.

 

Ancora una volta il mondo prese a muoversi con una lentezza esagerata. Caesar stava alzando le braccia verso la folla che si increspava e pulsava visibilmente come fosse stata un’unico essere vivente. Attorno a lui brillavano le luci come supernove. Per un istante non udì altro tranne le parole:

 

“E ora ecco il primo tributo del Distretto Due.”

 

In quel momento non era la maschera che indossava ad essere immortale, lei era immortale. Si alzò dal suo posto. Potente. Minacciosa.

 

Clove!”

 

Pericolosa.

 

L’incredibile rumore della folla era ormai diventato quasi un’entità visibile e forte come il vento. La colpì mentre si dirigeva verso Caesar. Le luci potenti del palcoscenico illuminavano ogni dettaglio di ciò che stava sotto di esse, anche le piccole particelle che fluttuavano nell’aria attorno a lei e a Caesar. Da vicino poteva vedere ogni poro del suo viso sotto agli strati di cipria bianca che lo coprivano, ogni increspatura delle sue labbra blu. Le ricordava un mostro.

 

Caesar si complimentò per il suo vestito e la voce di Lyme le risuonò in testa: a nessuno piace una ragazzina viziata. Lo ringraziò cortesemente.

 

Iniziò a tempestarla di domande riguardo alla sfilata dei tributi, alla sua stilista, ai pericoli dell’allenamento. Lei si tenne sul vago ma fece in modo da includere piccoli sorrisetti quando necessario. Il suo volto era proiettato su tutti i giganteschi schermi appesi ai vari edifici della Piazza. Quello che vedeva, tutto ciò che stava accadendo, assunse un tono surreale. La sua stessa vista si era fatta annebbiata.

 

L’intervista era volata e la fine si avvicinava. Ma sapeva che Caesar aveva tenuto il meglio per ultimo.

 

“Dunque, noi amiamo sempre i nostri tributi del distretto due. Non è così?” Si voltò verso il pubblico che gridò il suo assenso. Continuarono mentre lui si concentrava di nuovo su di lei.

 

“Anche se devo dire che sei di gran lunga il tributo più giovane che ho visto offrirsi volontario per il tuo distretto negli ultimi anni. Cosa ti ha convinto a farlo?”

 

Clove rispose onestamente. “Ero pronta a combattere,” disse.

 

La reazione della folla fu immediata. Esultavano per lei. Caesar scoppiò in una forte risata.

 

“Allora devi essere davvero emozionata per domani,” disse.

 

“Sì,” rispose Clove con un sorriso sinistro. “Sì, lo sono.”

 

“Beh, a vederti qui così, ora, devo dire che non riesco a immaginarti mentre fai del male ad una mosca,” si rivolse nuovamente al pubblico. “Voglio dire, guardatela! E’ semplicemente bellissima, o no?” Seguirono grida d’assenso. Caesar tornò a lei, ma non aveva una domanda da farle, stava aspettando la risposta.

 

Avrebbe voluto dirgli che poteva gettarlo giù dal palco e straziare il suo corpo artificiale finché non fosse stato altro che una pozza sanguinosa a terra, ma invece disse “Le apparenze ingannano.” Ora era il suo turno di voltarsi verso il pubblico. Si girò in modo da fronteggiarli tutti, quelli in prima fila, quelli che si sporgevano dai balconi, quelli seduti davanti al televisore in tutta Panem.

 

“Perché sono letale.”

 

l’improvvisa ondata sonora che aveva sollevato con una sola frase la colpì con così tanta forza che le parve di barcollare. Fischiavano e gridavano. Pestavano piedi. Sembrava quasi che saltassero l’uno sull’altro. L’amavano. Amavano i tributi impazienti. Amavano chi sapeva mettere su un bello spettacolo.

 

Caesar dovette zittirli per poter continuare. “Ah ha! Sì! Che personaggio che sei mia cara. Ora, il tempo a nostra disposizione sta finendo perciò permettimi un’ultima domanda. Cosa vorresti dire ai tuoi avversari di quest’edizione?”

 

Le telecamere inquadrarono rapidamente i volti dietro di lei. Cosa voleva dire ai suoi avversari? Che voleva ucciderli ad uno ad uno? Che fantasticava sui modi in cui massacrarli dal momento che aveva visto le loro facce? Che desiderava il loro sangue, la loro sofferenza? Che se avesse potuto si sarebbe alzata e li avrebbe annientati tutti, in quell’istante?

 

Le sue labbra si arricciarono in un sorriso e ripeté, “Cosa vorrei dire ai miei avversari?”

 

Con un gesto ad effetto si voltò a guardarli al di sopra della sua spalla e scorse alcuni dei loro volti. Con voce dolce disse, “Buona fortuna.”

Di nuovo la folla esplose, ma stavolta ancora più forte di prima. Clove non riuscì a sentire il timer. Udì appena Caesar che le prendeva la mano e la sollevava in aria. “Signore e signori, la piccola, la bella, la letale… Clove, del Distretto Due!”

 

Quando fu tornata al suo posto, il pubblico stava ancora impazzendo, tanto che Caesar dovette calmarli. L’amavano. Amavano la piccola, bella, letale Clove. Accanto a lei, Marvel la schernì, “Che cosa carina.” Ma prima che lei potesse rispondere, Cato venne chiamato sul palco. 

 

Cato, l’uccisore spietato.

 

Non dovette neppure dire niente e la folla andò fuori di testa di nuovo. Caesar non perse tempo in domande futili con lui. Andò dritto a quello che tutti volevano sentire. Ogni minaccia, ogni commento arrogante di Cato riceveva sempre più plauso. La brutalità delle sue parole trasformò la folla in animali: abbaiavano, ruggivano, urlavano. Quando Caesar gli chiese se aveva delle ultime dichiarazioni da fare, si rivolse al pubblico. Clove osservò gli schermi intensamente mentre inquadravano il suo viso, i suoi occhi blu che perforavano i suoi nonostante il monitor. 

 

“Vi offrirò un bello spettacolo,” sorrise. Era il frutto dell’ottimo lavoro di Brutus, di sicuro. Ma la reazione fu più forte di quella di Clove, Marvel e Lux tutte assieme. La ragazza del Tre che fu chiamata subito dopo per la sua intervista ne fu quasi sopraffatta.

 

“E’ così che si fa,” puntualizzò Cato a Clove mentre tornava a sedersi, le sue parole erano piene di alterigia. Clove continuò a guardare fisso davanti a sé mentre gli rispondeva, “Un altro grosso bastardo. Come se non l’avessero mai visto prima.”

 

Si aspettava di vederlo arrabbiato alle sue parole, ma di nuovo Cato la sorprese. Sembrava divertito. Questo la infastidì, e probabilmente si vedeva, perché il suo sorrisetto divenne un ghigno.

 

Clove tornò a concentrarsi sullo spettacolo di marionette, che ora vedeva il ragazzo del Tre fare l’intelligente. In qualche modo lui e Caesar avevano intavolato una conversazione su di un gadget usato spesso a Capitol City e su come funzionasse. Non si capiva se Caesar fosse davvero interessato o se fosse solo un buon attore. Clove optò per la seconda.

 

Ora toccava a Marina che fluttuò sul palco in un vestito del colore di una conchiglia, con i capelli solitamente crespi che ora ricadevano in dei boccoli sulla sua schiena. Il suo personaggio era dispettoso e scherzoso. Fece un’analogia fra i suoi avversari e gli squali e i tonni. “Alcuni sono grandi, altri piccoli, altri hanno i denti affilati… ma se uno ha la rete adatta può intrappolarli tutti, gusto?”

 

Testa di pesce non sembrava avere molta presenza scenica. Ciò nonostante rigirò le domande di Caesar, ed in pratica alla fine fu lui a fare tutte le domande.

 

Quando toccò a quelli del Distretto Cinque, Clove stava iniziando ad annoiarsi. La sua attenzione non si risollevò finché non toccò agli ultimi due tributi. Un sorriso si fece strada sul suo volto. Si accomodò meglio sulla sedia. Coraggio, Katniss, tocca a te.

 

La ragazza era completamente frastornata quando arrivò sotto al riflettore. Si sfregò nervosamente le mani sul vestito. Si tormentava le dita. Strinse gli occhi grigi e scrutò la folla. Clove sentì un fuoco invaderle nuovamente il corpo alla sua vista. Voleva alzarsi e aggredirla proprio lì al centro del palco. Quello sì, avrebbe di certo offerto un discreto spettacolo al pubblico. Oh, l’avrebbero semplicemente adorato.

 

Ora Katniss stava facendo piroette sul palco. Ridacchiava. La folla l’amava. Quando iniziarono a parlare dell’undici ottenuto alle sessioni d’addestramento, udì Marvel sbuffare. Si voltò a guardarlo.

 

“Ci ha fatti sembrare tutti scemi,” bisbigliò lui. “La voglio morta.”

 

Quando il ragazzo del Dodici fu sul palco, Clove realizzò che non gli aveva mai prestato troppa attenzione. Il suo personaggio era amichevole e senza dubbio gradevole. Solo che non sembrava stesse interpretando un ruolo. Risollevò immediatamente la folla nonostante fosse l’ultimo tributo. Pendevano dalle sue labbra, ridevano, esultavano. Verso la fine Caesar gli chiese se aveva una ragazza a casa, al che egli rispose semplicemente di no, ma che c’era una ragazza che lui amava. E poi all’improvviso, cinque piccole parole furono tutto ciò che occorse a quel minatore sempliciotto per incendiare tutte le interviste precedenti e non lasciare altro che cenere, come non fossero mai avvenute.

 

E’ venuta qui con me.”

  
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