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utti gli ospedali sono uguali, ma
ogni volta che Sansa varca quella soglia, prova sensazioni diverse.
Ha voglia di una sigaretta ora, tanto
che è uscita fuori dalla camera di Jon e ha attraversato il corridoio per
raggiungere l’atrio.
È fuori adesso, a respirare.
Ricorda i suoi genitori, ricorda il
giorno in cui Jon, bruciandosi una mano, è stato costretto a passare una
settimana in ospedale. Ricorda la volta in cui Arya ha colpito un ragazzo, ricevendo
in cambio un pugno in faccia.
C’è gente che parla, gente che
telefona e gente che mangia.
Sansa ha voglia di mettere qualcosa
sotto i denti, ma solo per soffocare quel desiderio di fumare. Non può farlo
vicino agli ospedali, è proibito.
Accarezza la camicia azzurra e
pesante, quella che ha rubato dall’armadio di Robb per usarla a mo’ di giacca.
L’odore di naftalina le sale alle narici.
È la prima volta che Sansa sente la
paura scorrerle addosso.
E il senso di colpa… quell’animale
famelico che nutre da anni, e che sperava di aver ucciso.
Si appoggia al muro vicino
all’entrata, dove il viavai di gente è insopportabile. Dovrebbe aiutarla a non
pensare, ma le voci nella sua testa sono più forti.
Non ha avuto paura quando sono
mancati i suoi genitori: c’era Robb.
Né quando Jon si era scottato: Robb
aveva detto che era cosa da poco.
Né quando Arya era stata al Pronto
Soccorso… si trattava solo di un dente da latte.
Ma ora tutto è cambiato.
Si accarezza le labbra e chiude gli
occhi, tenendo una sigaretta invisibile tra le dita.
Sansa ha avuto paura di tante cose,
di tante persone e situazioni, ma non ha mai avuto paura per Jon… Non come ora,
ora che lo vede disteso in un letto d’ospedale, assuefatto dai farmaci.
Arya è rimasta tutta la notte al suo
capezzale, e al mattino è sparita. Non ha versato nemmeno una lacrima, come
invece ha fatto lei.
“Occupati
di lui”, ha detto, un momento prima di uscire dalla stanza.
“Dove
vai? Non resti qui? Arya!”
Ma Sansa sa dov’è andata sua sorella.
Non ha bisogno di sentirlo per averne la certezza.
Se Robb si sta occupando della
faccenda in modo legale, con avvocati
e polizia, è anche vero che Arya sta facendo l’opposto.
Bran è a casa con Rickon, e Sansa è
sola con Jon. Non vuole lasciarlo, anche se il primario le ha detto di andare a
casa, di riposarsi, ma come potrebbe?
Come può abbandonarlo in un letto
d’ospedale, con il rischio che si svegli senza qualcuno vicino?
Senza un volto familiare, una
presenza che tenga a lui…
Jon l’ha portata via da Joffrey, l’ha
riaccompagnata dai loro fratelli, qualcosa che nemmeno Petyr aveva fatto per
lei…
«Uccelletto.»
Ancora
tu.
Sansa apre gli occhi e lo guarda.
Sente il sangue ribollire nelle vene.
Cosa
ci fai qui?
«Non sei ripartito» dice, il respiro
lento e grave.
Incrocia le braccia al petto e
aspetta, sentendo il corpo irrigidirsi. È ciò che lui le provoca con una sola
occhiata.
Inconsciamente, Sansa si sfiora le
labbra, lì dove Sandor l’ha baciata. Sente la pelle bruciare.
«Ho saputo…» ringhia sottovoce,
appoggiando una mano sul muro di fianco a lei.
Il pensiero di Jon è sufficiente a
farla arrossire. Come può fare certi pensieri ora? Mentre suo fratello rischia la vita in un letto d’ospedale?
Sente l’adrenalina scorrerle addosso.
Rabbia e angoscia la soffocano, quando ripensa alla notte prima.
È
tutta colpa mia.
Se non si fosse allontanata, se non
avesse cercato Petyr, se non avesse perso tempo con Sandor… un secondo, forse,
sarebbe stato sufficiente a non farle incontrare Janos. E Jon starebbe bene
adesso.
Sarebbero insieme, a percorrere
Londra e a fare progetti sul loro futuro.
Prenderebbero in giro Arya, cercando
di farla arrossire e di farla parlare di Gendry; riderebbero con – e di – Robb, intento a fare lezione
anche a loro, a spiegare tutta la storia della città…
Vedrebbero crescere Rickon, e questo
pensiero le provoca un tremito.
Se ne rende conto solo ora: Jon non lo vedrà crescere.
Jon non lo ascolterà parlare della
scuola, della sua prima cotta; non troverà scuse per non prendergli un cane,
come tanto desidera.
E Bran… Oh, Bran! Bran starà sempre
peggio, pensando a Jon.
È
tutta colpa di Janos.
«Stai tremando.»
È vero. Sansa trema, pensando a tutto
ciò che ha perso. Pensando che se non fosse mai partita, ora Jon starebbe bene.
Ha un groppo in gola, ma è solo senso di colpa.
Anche Arya è in pericolo, e le viene
in mente solo adesso.
Arya è uscita a cercare Janos, ne è
sicura. Arya cerca di vendicare Bran, e ora anche Jon. Arya rischia la vita.
È solo una ragazzina…
«Sto bene» mente Sansa, affondando le
unghie nella camicia.
«Dovresti tornare indietro con me.»
«Il mio posto è vicino alla mia
famiglia.» Ricorda i loro nomi: Jon,
Robb, Arya, Bran e Rickon.
«Io potrei tenerti al sicuro…»
Sansa solleva gli occhi su di lui. Capisce
a chi si stia riferendo. Joffrey.
Da un intero giorno, la sua mente è
stata libera dal pensiero di lui, dall’immagine delle sue mani che si
abbattevano su di lei. Dall’idea del suo amore malato.
«Non posso tornare.»
«Perché?»
«Perché non voglio.»
Sansa abbassa gli occhi, sente il
respiro del Mastino sfiorarle la fronte.
Lui non può capire.
«Guardami» ordina Sandor, spingendola
a obbedire.
Lo guarda, e vede la soluzione ai
suoi problemi. O almeno una parte.
Schiude le labbra per parlare, per
piegare le parole al suo volere. Ma il suo nome, pronunciato da qualcuno che
non è il Mastino, la ferma.
Sansa sgrana gli occhi, cercando la
fonte di quella voce. Petyr.
«Ho lasciato la macchina dietro
l’ospedale.»
Petyr fa un passo avanti, e d’istinto
Sandor ne fa uno indietro. Sansa si trova tra loro, con il muro alle spalle.
Non può scappare.
«Non sei partito nemmeno tu»
sussurra, sentendosi in trappola.
Non dovrebbe essere con loro,
dovrebbe tornare di corsa da Jon, da chi ha bisogno di lei.
«E come avrei potuto…»
Sansa lo guarda, mentre il Mastino le
dà le spalle e si allontana. È come se Petyr fosse un repellente naturale per
lui.
O
forse per me. Per proteggermi.
Quel pensiero le provoca un fremito.
Non appena restano soli, Petyr fa un
altro passo, restando ad appena un metro di distanza da lei. Di tutta risposta,
Sansa si appiattisce contro il muro, come se avesse paura di lui.
Non
è paura...
«Sei venuto per aiutarmi?» chiede,
giocando con le parole come gli ha visto fare tante volte.
Non ha bisogno di tendergli una
trappola per ottenere quello che vuole. Sa che le basterebbe dirlo… Petyr non
le direbbe mai di no.
Mai.
«Sono venuto per te.»
«Che cosa vuoi?»
Me,
vuole me. Sansa glielo legge negli occhi, e in un istante
dimentica tutto. Jon, l’ospedale, il pericolo che corre sua sorella. Dimentica
Londra e la sua intenzione di restare.
«Darti ciò di cui hai bisogno.»
«E di cosa avrei bisogno?»
Di
te. Tu potresti risolvere tutto con la tua sola voce.
Petyr non sorride, si limita a
guardarla. Ed è tutto ciò che le serve per spingersi ancor più contro il muro,
quasi a voler diventare una cosa sola con lui.
«Quando ho sentito la notizia sono
corso alla macchina. Sapevo che ti avrei trovata qui. Vicina alla tua famiglia… proprio come vorrebbe tua madre.»
Sentir nominare sua madre le provoca
fastidio e senso di colpa, come un pizzicore sulla pelle.
«Perché sei qui?»
Avrebbe preferito non chiederlo. Si
sente un mostro, ma avrebbe preferito continuare quel gioco con lui.
Un
passo dopo l’altro, e sarebbe arrivata a domandarglielo, mentre
ora è costretta ad anticipare la sua mossa.
«Potresti fare una cosa per me» dice,
senza lasciargli il tempo di replicare.
«Qualunque cosa.»
Sansa sente torcersi lo stomaco e
d’istinto lo copre con la mano.
Non sa perché, ma ogni frase, detta
da lui, assume un significato particolare.
«Sei sicuro?»
Vorrebbe risultare decisa, ma sente
la voce affievolirsi. Diventa come una carezza, come un soffio sulle labbra,
come se il resto del mondo non esistesse.
Due parole, eppure Sansa non sa cosa
darebbe per poter fermare il tempo e assaporare l’attesa. Sa cosa le
risponderà, e questa consapevolezza le blocca il respiro.
Vorrei
sentirmi sempre così. Sull’orlo del precipizio. Pronta a saltare.
«Non dovrei?»
Ma
io non sono così, pensa. Gli occhi di Petyr incatenano i
suoi, sembrano sondarle l’anima. Io ho
paura del vuoto. Voglio certezze, non attese.
«Dimmelo tu.»
Il primo sorriso di Petyr accende un
piccolo fuoco nella sua pancia, come se si fosse appena guadagnata il suo
rispetto.
«Sono sicuro» dice, superando la poca
distanza che li divide.
Poi resta in silenzio, e Sansa sa che
tocca a lei. È il loro gioco.
«L’uomo che ha accoltellato Jon… Arya
lo sta cercando.»
Fa una pausa, certa che lui abbia già
capito cosa si aspetta.
Lo vede abbassare gli occhi sulla sua
gola e risalire lentamente il suo viso. Sansa sente ardere ogni punto dove
Petyr l’ha appena accarezzata con lo sguardo.
Non può fare a meno di chiedersi cosa
accadrebbe, ora, se fosse lei a oltrepassare quella linea invisibile che li
separa… Lo lascerebbe senza parole? Lo stupirebbe?
Stringe la stoffa che le copre lo
stomaco per non commettere quell’errore.
Non
sono così, si ripete.
«Temo per la sua incolumità» dice,
riferendosi ad Arya. Eppure sembra parlare per se stessa. «Non so dove sia ora,
se sia riuscita a trovarlo… Anche la polizia lo sta cercando.»
Petyr le risponde con gli occhi.
C’è un intero linguaggio che
conoscono loro due soltanto. Sansa abbassa il mento, prende a fissare il pugno
chiuso sulla sua pancia. Ed è il suo errore.
«Non lo troverà» mormora Petyr.
Non deve nemmeno allungare la mano
per prendere la sua: sono così vicini che gli basta muovere le dita per
sfiorarla. E la pelle di Sansa diventa bollente dove lui l’ha toccata, avanzando
sul suo braccio ed estendendosi su tutto il corpo.
«Ma io voglio che lo trovi» dice
Sansa, con un filo di voce.
Ha un lieve sussulto quando lo sente
arrivare al polso, sotto la manica della camicia.
La
camicia di Robb. È
tutto sbagliato…
«Cosa farai di lui?» chiede Petyr in
un sussurro.
Non sembra nemmeno una domanda, da
tanto è bassa la sua voce. Prende la sua mano delicatamente, racchiudendola tra
le sue.
Sansa schiude le labbra quando sente
le dita scorrere sul dorso della mano, indugiando a stento sulle nocche prima
di intrecciarsi con le sue.
Voglio
che muoia.
«Non lo so» mente, vergognandosi dei
suoi desideri.
Petyr volta la mano sul palmo,
scorrendo un dito dalla manica rigida della camicia fino al suo polpastrello.
«Lo sai» ribatte, interrompendo il
loro contatto.
Vuole
che sia io a dirlo.
Sansa allunga il mento verso di lui,
tanto da non riuscire più a guardarlo negli occhi. «Non posso» sussurra,
soffiandogli sulla guancia. Non posso
dirlo.
È la prima volta che cerca di
provocarlo, che è lei ad avvicinarsi. Si chiede cosa sia cambiato… quando sia cambiata, per arrivare a
tanto.
È un invito sufficiente: Petyr la
prende per le spalle, percorre lentamente le spalline e il colletto che lo
separano dalla sua pelle. Eppure Sansa riesce a sentirlo… a percepire il suo
tocco, così diverso dall’irruenza di tutti gli altri.
Petyr non ha fretta, non le mette
fretta. Sa aspettare.
E forse è la cosa che più apprezza di
lui.
«Sì che puoi» risponde al suo
orecchio, sfiorandole il lobo con le labbra.
Non le provoca un brivido, ma
un’esplosione di luce, come se non aspettasse altro che potergli confessare
ogni cosa, che essere convertita a quel lato oscuro.
Vorrei
che morisse, pensa Sansa, gridandolo nella sua mente
più e più volte.
«No» mormora, afferrando la mano di
lui che sta varcando il limite del colletto. La allontana senza sforzo,
sollevandola davanti al viso. «Non posso.»
Sfiora le dita con le labbra, prima
di lasciargli la mano.
«Voglio solo che Arya stia al sicuro.
Puoi fare questo per me?»
Petyr
sa attendere, lo sapeva e ne ha ulteriore conferma
adesso che lo vede sorridere, mentre inclina la testa di lato in un muto sì.
«Farò questo… per te.»
«Grazie» dice Sansa, muovendo appena
le labbra.
Vede il desiderio negli occhi di
Petyr riaccendersi, come se fosse tentato di lasciarsi andare, di sollevare una
mano e toccarla, di baciarla, come se intorno a loro non ci fosse niente.
Ma c’è tutto, invece.
Ω
Sandor fuma una sigaretta, appoggiato
alla sua auto.
È primavera, e la brezza ricorda a
Petyr il sorriso di Sansa, mentre raggiunge il Mastino. Solleva gli occhi al
cielo, osserva un aereo sorvolare Londra, la nebbia abbattersi sulla città.
Gli manca casa, lì dove vorrebbe
tornare con Sansa. Sistemare alcuni affari, piegare
alcuni nemici, sbaragliare la concorrenza… e poi partire con lei.
Sa già dove portarla.
Ha già in mente tutto.
Una casa isolata, avvolta nel verde,
dove tornare giovane al suo fianco. Dove vivere le cose che ha perso, durante
la sua scalata al successo.
«Andiamo» dice Petyr, facendogli
cenno di spostarsi. Vuole guidare lui.
«Allora sali.»
Petyr sorride, fermandosi davanti
all’uomo. «Mi sembrava chiaro ormai: guido io.»
«Oggi no.»
C’è una strana luce negli occhi del
Mastino, come se avesse risvegliato qualche demone dormiente. Batte un pugno
contro il vetro, come a dire che l’auto è sua, e sua è la decisione.
Cos’è
cambiato?
Ma conosce la risposta: Sansa.
«Dobbiamo cercare la sorella di
Sansa…» comincia Petyr, sperando di volgere le parole a suo vantaggio.
Ma Sandor non ha orecchie, quando la
sente nominare. Allunga le braccia possenti e lo afferra per la collottola,
come se fosse pronto a colpirlo.
Petyr lo vede digrignare i denti.
«Me l’ha chiesto lei» insiste,
sollevando le mani in segno di resa. «Stava per chiederlo a te, ma poi te ne
sei andato.»
Gliel’ho
letto negli occhi… se non fossi arrivato, forse non mi avrebbe detto niente.
Il Mastino rafforza la presa, tanto
da consentirgli una mappatura precisa della sua cicatrice.
Come
ha fatto, Sansa, a stargli vicino?
«Non mi piaci» ringhia Sandor. «E mi
piaci ancora meno quando le ronzi intorno.»
«Non faccio niente che non voglia
anche lei.» Anche solo con uno sguardo.
Lo dice con un ghigno, ed è
consapevole di quanto grande sia il suo errore.
«Ah sì?» Sandor stringe così forte da
allargargli la maglia. «Non cerca proprio niente da uno come te.»
«E da uno come te, Mastino? Cosa può volere dal cane di
Joffrey?»
Per un istante, sembra che l’altro
stia per colpirlo; per divorarlo tra le sue fauci e farlo a pezzi. Renderlo
introvabile, così che Sansa non possa più raggiungerlo.
Ma poi Sandor molla la presa e lo
spinge via.
«Mi hai stancato, Ditocorto.
Trovatela da solo la lupacchiotta, io torno a casa.»
«Lei vuole che ci sia anche tu.»
È un attimo. Sul volto del Mastino si
agita una certa indecisione, tanto che Petyr allunga lo sguardo verso
l’ospedale, come a dirgli che Sansa è lì dentro, e si aspetta qualcosa da lui.
«Non lo faccio per te» ringhia
l’altro, cedendogli le chiavi.
So
bene perché lo fai. Per lo stesso motivo per cui sei venuto a Londra.
Petyr sorride, fa un cenno con la
testa e sale in auto.
Partono che è ancora mattina, mentre
Sandor volge il capo all’edificio che stanno lasciando.
«Non la troveremo» dice, spingendo
Petyr a rallentare per guardarlo.
«Invece sì» ribatte, spostando la
mano sul cambio. «Sappiamo cosa sta cercando. Trovarla sarà facile.»
«Cosa sta cercando?»
«L’uomo che ha accoltellato suo…
fratello.»
«Il fratello bastardo» lo corregge
Sandor, estraendo una sigaretta. «Non la troveremo comunque.»
Passano un paio d’ore, Petyr si ferma
per fare alcune telefonate, lontano dalle orecchie del Mastino, e scopre dove
trovarla.
In fondo, pensa, scovare lei è la
parte meno complicata.
Proteggerla sarà più difficile.
La sorellina di Sansa sta cercando
Janos Slynt, e un quinto della città sembra esserne a conoscenza.
Quando ripartono, lui guida dritto
nell’ultimo punto dove è stata vista, certo di trovarla ancora lì. È la casa di
un suo amico… forse qualcuno che potrebbe aiutarla?
Restano fuori dal palazzo, aspettando
che la ragazza esca, un po’ come la sera prima hanno atteso Sansa.
E poi, finalmente, Arya Stark è
fuori, sola.
«Le parlo io» dice Petyr, certo di
poterla convincere.
Fa un passo avanti, ma il Mastino lo
anticipa, muovendosi come un cane feroce che ha puntato una preda.
Lei lo vede arrivare, sgrana gli
occhi e sembra pronta a reagire, ma Sandor è più veloce; la afferra e se la
carica sotto il braccio, come se fosse un cesto di verdura.
Forse
ho sbagliato a portarlo. Sansa si arrabbierà con me quando lo saprà…
Arya finisce sul sedile posteriore
dell’auto, come se fosse vittima di un rapimento. Comincia a gridare, a cercare
di aprire le portiere, a prendere a pugni i vetri.
«Sta zitta!» grida Sandor, salendo
dietro con lei.
«Ma che hai fatto?» chiede Petyr,
mettendosi al volante. Per una cosa come quella c’è la galera. «Arya, calmati
per favore. Ci manda tua sorella.»
«Non ti credo! Non ha mai parlato di
voi!»
La ragazza prende ad agitarsi, a
battere i pugni contro il torace massiccio del Mastino, tanto da costringerlo a
immobilizzarla.
«Tu sei Arya Stark» dice Petyr,
voltandosi e appoggiando una mano sul sedile. «È Sansa a mandarci. Vuole che ti
aiutiamo a trovare Janos Slynt.»
Lei sembra calmarsi, come se stesse
valutando la sua proposta. «Perché?»
«Per ucciderlo.»
Ω
Robb è al fianco di Sansa e le
stringe la mano.
Sono soli con il primario, intenti a
capire cosa capiterà a Jon, quali rischi correrà… A dire il vero, Sansa si
lascia andare ai ricordi, lasciando che le voci degli altri due sfumino nella
sua mente, come i suoi che sbucano dalla nebbia londinese. Suoni che sanno di
lontananza…
Come quando suo padre li portava tra
i monti, a rincorrersi nella neve. E Robb e Jon si fingevano audaci cavalieri,
impugnando i loro bastoni e combattendo davanti ad Arya e Bran.
Rickon era così piccolo… Lui e Sansa
restavano al caldo, accanto alla loro madre.
Ricorda i capelli scuri dei suoi
fratelli, quando tornavano dentro, e le loro corone di neve.
Ricorda le risate, i giochi, gli
sguardi severi che Catelyn riservava a Jon. Gli stessi che Sansa imitava.
Si pente di tutto. Di non averlo mai
considerato, di non averlo mai voluto con sé. Si pente di aver dato ascolto a
sua madre, unica tra i fratelli.
Sono
stata così sciocca… Loro avevano capito tutto.
Mentre ora, ora che Jon si è
presentato a casa di Joffrey, ora che l’ha riconosciuto come fratello, sangue
del suo sangue, Sansa trema al pensiero che possa essere in pericolo.
Vorrebbe fare qualcosa per lui…
«Sansa?» Robb aumenta la stretta
sulla sua mano e la guarda. «Hai sentito?»
Lei sbatte le palpebre, riconosce
l’occhiata scettica del medico, il modo in cui sta battendo un piede sul
pavimento.
«Beh, vi lascio» dice il primario,
allontanandosi.
«Stai male?»
Robb la prende per le spalle, come un
paio d’ore prima ha fatto Petyr… Sansa arrossisce al pensiero di essere
scoperta.
«No, sono solo stanca.»
«Cosa ne pensi?»
Sansa solleva gli occhi su di lui,
specchiandosi nello sguardo ceruleo tipico dei Tully. «Di cosa?»
«Non hai ascoltato, vero?»
Lei fa cenno di no, lasciando che suo
fratello si volti verso la stanza dove Jon è in coma farmacologico.
«Tu ricordi niente di quanto diceva
nostro padre?»
Sansa osserva la luce giocare con i
capelli ramati di Robb, altro dono di Catelyn… Cosa farebbe se fosse qui? Lo lascerebbe morire?
«Riguardo a cosa?»
«Alla madre di Jon.»
Sansa scuote la testa, non riesce a
capire. La madre di Jon? Non sanno nemmeno chi sia… C’erano voci, Bran aveva
ascoltato telefonate di loro padre, ma niente è certo.
«Jon deve essere trasferito in una
clinica per un po’. Ha subito danni che… Dobbiamo trovarla, Sansa.»
Perché?
Si chiede, pensando che Robb abbia lo stesso temperamento di Ned.
Riconosce suo padre persino nel modo
di parlare, nel modo di ragionare, nella freddezza e nella giustizia che
caratterizzano suo fratello.
Nostro
padre sapeva… sapeva che Robb ci avrebbe protetti. Voleva che restassimo
insieme.
«Dobbiamo trovarla subito» insiste,
calcando sull’ultima parola.
«Perché?»
«Jon avrà bisogno di lei.»
Note
dell’autrice:
Qualcuno ricorda, nei primi capitoli
(quelli ambientati nella baita), quando Sansa ripensa alla sua famiglia e a
quanto Bran diceva sulle origini di Jon? Finalmente ci stiamo arrivando.
Ho cercato di seminare tante
bricioline su questo cammino (non per niente si chiama Vieni con Me, ahah) e se
la memoria non mi tradirà, le ritroveremo tutte strada facendo.
Ah, posso dirlo? Posso? “Petyr, mi
sei mancato!”
Celtica