Il
mattino seguente allo scontro alla centrale T'Challa si accertò di rendere
omaggio nel migliore dei modi alle vittime. Durante la notte, con i soccorsi
provenienti dal suo Paese, aveva contribuito a recuperare i corpi e, come aveva
dolorosamente sospettato, nessuno era riuscito a sopravvivere al crollo dell’edificio.
La Pantera aveva dovuto accettare la scomparsa di ventisei soldati, troppi per
essere considerati solo una tragica fatalità. Aveva sottovalutato Klaw – e
anche i due uomini che erano con lui e che ora gli parevano ancora più
pericolosi – e degli innocenti ne avevano pagato le conseguenze. Tuttavia non
avrebbe permesso che una cosa simile capitasse nuovamente.
Fermo
davanti alla statua raffigurante Bast – la Dea Pantera, protettrice del Wakanda
– T'Challa lasciò la mente libera di vagare alla ricerca di una soluzione.
Ulysses
Klaw era fuggito e lui lo aveva permesso. Prima che l’uomo potesse essere
fermato, però, era necessario trovarlo e per T'Challa ciò significava svolgere
altre ricerche nella speranza di individuare in fretta il nuovo rifugio del
nemico, o almeno trovarlo prima che potesse diventare nuovamente pericoloso.
Era consapevole che non sarebbe stato semplice e, anche se lo avesse trovato,
avrebbe dovuto affrontarlo in un’altra maniera. L’esito della missione della
notte precedente – che lui aveva erroneamente immaginato veloce ed efficace –
continuava a bruciargli dentro. Non riusciva a darsi pace per il fatto di
essere stato tanto ingenuo da credere che tutto si sarebbe risolto in fretta e
nel migliore dei modi, tuttavia era anche consapevole che non sarebbe riuscito
a continuare se i sensi di colpa lo avessero sovrastato.
Ripetendo
uno a uno i nomi dei ventisei soldati caduti, T'Challa accese una candela per
ciascuno di loro e pregò Bast di accoglierli e guidarli verso il loro nuovo
cammino oltre la morte. Dopodiché uscì dal tempio.
*
Anisa
era ferma in piedi, le mani intrecciate all’altezza della vita, gli occhi
bassi. L’ampia sala del tempio era gremita di persone, raccolte in preghiera e
in ricordo dei soldati caduti. La veglia del sacerdote non era ancora iniziata
e la voce che si stava levando sicura, forte, ma anche amareggiata, era quella
del sovrano del Regno di Wakanda.
Era
il pomeriggio successivo all’attacco al deposito, il momento in cui si
piangevano le vittime. Anisa aveva ancora negli occhi la luce delle fiamme, i
corpi privi di vita e le macerie, mentre le sue orecchie sembravano ancora
ascoltare le grida di dolore e le richieste d’aiuto. Nonostante le fosse già
capitato di vedere persone perdere la vita, ogni volta era per lei difficile
assimilare la cosa e passare oltre. Avere rivisto Klaw, inoltre, aveva
risvegliato in lei i fantasmi del passato e quel dolore così intenso che
sembrava divorarla, non se ne andava mai. Per la donna la consapevolezza che
quell’uomo era ricomparso la rendeva nervosa e il forte desiderio di fare
qualcosa si era insinuato in lei. Tuttavia era necessario che si attenesse alle
volontà del suo sovrano e, da quando erano rientrati a palazzo alle prime luci
dell’alba, loro due non avevano avuto molto tempo per parlare. T'Challa era
rimasto quasi tutta mattina in conferenza con il primo ministro etiope,
trovando solo poco tempo per il suo personale ricordo alle vittime. Anisa,
invece, si era accertata che i superstiti ricevessero cure adeguate e aveva fatto
in modo che nessuno disturbasse il sovrano prima del tardo pomeriggio. In tutto
ciò entrambi avevano dovuto convivere con la consapevolezza che tutto era
accaduto a causa di Klaw.
«Che
la Dea Bast possa avere cura dei nostri fratelli.»
Le
ultime parole di T'Challa ridestarono Anisa, che ricacciò indietro i vari
orrori e si sforzò di alzare lo sguardo. Nel suo elegante abito da cerimonia,
il sovrano scambiò veloci parole con il
sacerdote, infine raggiunse Anisa che, dopo un rapido inchino in direzione della
sala e dei presenti, seguì T'Challa lungo il corridoio posto dietro l’altare. Sul
retro del tempio li attendeva una lucida berlina nera che li avrebbe ricondotti
a palazzo.
Durante
i primi minuti di viaggio nessuno dei due parlò. Anisa non voleva fare il nome
di Klaw e discutere di tutt’altro non avrebbe avuto alcun senso. Dopo altri,
lunghi, minuti di silenzio, fu il sovrano a parlare: «Questa mattina il primo
ministro etiope mi ha informato che i suoi soldati inizieranno a cercare Klaw
per poterlo arrestare.»
A
quelle parole la donna si voltò subito per poter vedere in viso l’uomo,
rivolto, però, verso il finestrino. Il tono con cui aveva parlato rasentava la
rassegnazione e ad Anisa non serviva domandare per quale motivo. Certamente
T'Challa la pensava come lei, ovvero che chi non aveva mai avuto a che fare con
Klaw direttamente non poteva sperare di catturarlo alla prima occasione.
Perfino T'Challa, che lo aveva già incontrato più volte in passato, era stato
sopraffatto nel loro ultimo faccia a faccia. Inoltre gli uomini che erano con
Klaw erano un’incognita probabilmente ben più pericolosa di quanto si potesse
pensare e le ventisei vittime della sera precedente potevano esserne la
dimostrazione.
«Che
cosa?» chiese Anisa, forse in modo più sconvolto di quanto lo fosse in realtà.
T'Challa
rispose al suo sguardo.
«Non
potevo non informarlo di Klaw. Non dopo quello che è successo» replicò il
sovrano, infastidito da quella che a lui parve eccessiva insolenza.
La
donna scosse la testa, tentando di rimediare all’errore. «No scusami, non
volevo, è solo che… perché l’Etiopia vuole intervenire?»
«Immagino
sia perché si sentano minacciati. Furti e uccisioni a Omorate…
Ora che sanno a chi dare la colpa non possono fingere di non vedere.»
«Ma
è Klaw» esclamò affranta la donna, dopodiché le tornarono alla mente le due
possenti figure che erano con l’uomo e l’esito della notte precedente. «E non è
solo. Le armi convenzionali non funzionano con lui, men che meno se usate da
persone che non lo conoscono.»
Sospirò,
un misto di disperazione e rabbia a riempirla. «Perché non possono lasciare che
ci pensi Pantera Nera?»
T'Challa
abbassò lo sguardo. Era d’accordo con Anisa. Anche secondo lui l’intervento
Etiope – nel caso fossero prima riusciti a trovare Klaw – non avrebbe portato a
nulla, se non ad altre vittime. Klaw era ricomparso più organizzato di prima e,
come già aveva detto la donna, non era solo. Questa volta avevano a che fare
con qualcuno che aveva imparato a conoscerli e che si era attrezzato di
conseguenza.
«Temo
che questa volta anche la Pantera non sia in grado di farcela da sola.»
Ammise
infine T'Challa. Anisa lo guardò, stupita da tale dichiarazione. Non le riuscì
di dire nulla se non uno sbigottito: «Cosa vuoi dire?»
Lei
poteva aiutarlo, poteva combattere al fianco di Pantera Nera come aveva già fatto altre volte. Era
pronta a ricordarlo all’uomo quando lui rispose alla domanda: «Hai visto anche
tu, Anisa. Klaw sa cosa aspettarsi da noi e sono certo che i due uomini che
erano insieme a lui non sono né gli ultimi arrivati ne tantomeno individui da
sottovalutare.»
La
donna non poté dargli torto. Ripenso a quelle due figure e al modo in cui tutto
era rapidamente andato per il verso sbagliato appena avevano varcato la soglia
della stanza nella centrale idroelettrica al fianco di Klaw. Tuttavia non
poteva fare a meno di sentirsi confusa.
La
macchina accostò sul ciglio della strada, davanti a uno degli ingressi a
palazzo. T'Challa aveva già aperto la portiera dell’auto e stava per scendere
quando la donna chiese: «Perciò cosa hai intenzione di fare?»
Non
lo chiese con arroganza, ma con la sincera curiosità di chi non ha la più
pallida idea di quale sia la risposta. Il sovrano si voltò a guardarla e le
fece cenno di seguirla. Anisa capì che non avrebbe ricevuto una risposta
subito, ma quasi certamente l’avrebbe ottenuta in tempi brevi, per tale motivo
si affrettò a scendere dalla berlina. Insieme risalirono la gradinata per poter
entrare a palazzo e, una volta dentro, proseguirono diretti all’ufficio del
sovrano, la stanza più al sicuro da orecchie indiscrete. Lungo il tragitto
T'Challa fu fermato da numerose persone che chiesero il suo parere o in che
modo procedere con una determinata operazione. Il sovrano aveva impiegato due
anni per sentirsi all’altezza del compito che il padre gli aveva prematuramente
lasciato. Tuttavia, alla fine, l’erede di T’Chaka si
stava dimostrando un ottimo re, così come un perfetto Pantera Nera.
Finalmente,
dopo diversi minuti e confronti con altrettante persone, T'Challa e Anisa
raggiunsero l’ufficio del sovrano. Non lo trovarono vuoto; al suo interno, in
un elegante tailleur bordeaux scuro molto simile a quello di Anisa, c’era in
attesa una giovane donna. Teneva stretta al petto una cartellina, i lunghi
capelli neri acconciati in strette e ordinate treccine.
«Ah,
Mandisa» disse T'Challa appena la vide.
Lei
si esibì in un rapido inchino. «Sire» lo salutò, lanciando poi un’occhiata
torva in direzione di Anisa, che per via del suo colore di pelle non era ben
vista da diverse persone – anche per l’incarico che ricopriva all’interno del
palazzo.
«Hai
qualcosa per me, non è vero?» proseguì l’uomo affabilmente.
Mandisa gli porse alcune
carpette che teneva ancora strette al petto.
«Ti
ringrazio molto» disse T'Challa, sfogliando rapidamente il contenuto di ciò che
aveva appena ottenuto.
«Devo
anche ricordarle» riprese la donna. «Che alle 18 è atteso per la conferenza con
gli Stati limitrofi.»
«Ma
certo. Non posso dimenticare una cosa di simile rilevanza.»
Indicò
Anisa con un breve cenno, quest’ultima non si scompose minimamente.
«Ora,
se non ti dispiace, dovremmo parlare di cose importanti» concluse il sovrano
alludendo, grazie al gesto di poco prima, a lui e alla sua personale
assistente. Mandisa fece un altro rapido inchino,
dopodiché si affrettò a uscire. Fu solo dopo che si fu chiusa la porta alle
spalle che T'Challa sollevò le carpette che aveva ricevuto poco prima e disse:
«È questo che intendo fare.»
Allungò
il tutta ad Anisa, la quale sfogliò confusa le prime carte, per poi capire.
Quelli che teneva in mano erano documenti che gli esperti hacker di cui
T'Challa disponeva avevano trafugato. Riuscì a intuirlo perché le carte che
stava guardando avevano strani segni e codici non riconducibili a niente che le
fosse famigliare. Continuò a sfogliare i vari documenti, soffermandosi con
maggiore attenzione nelle parti che erano state evidenziate, sottolineate o
cerchiate. Ogni diverso foglio di carta portava con sé alcune immagini sgranate
prese da satellite, le coordinate del punto esatto e un’altra serie di immagini
poco nitide di alcune persone. Anisa continuò a scrutare fra le righe, cercando
di unire in fretta i tasselli così da avere la conferma dei suoi sospetti. Ogni
singolo foglio, ogni singola indicazione, ogni parola evidenziata si riferivano
alla stessa persona, quella che, in quei documenti criptati, sembrava essere
inseguita con mediocre competenza: Captain America. Erano su di lui tutti i
dati raccolti, così come le posizioni segnate e le foto sfocate che lo avevano
mal immortalato.
«Il
capitano Rogers?» chiese infine Anisa,
che aveva, sì, capito, ma non ne era tanto convinta.
T'Challa
annuì con la testa, smettendo di guardare fuori dalla finestra come aveva
iniziato a fare in attesa che la donna dicesse qualcosa. «Quelli che hai in
mano sono documenti che i nostri hacker hanno “preso in prestito” dalle Nazioni
Unite. Sono relativi agli ultimi avvistamenti di Captain America.»
La
donna lesse la data dell’ultimo dei fogli che teneva in mano e che si riferiva
a soli tre giorni prima.
«Ammetto
di non capire» disse infine, scuotendo leggermente il capo.
T'Challa
sorrise, ma tornò serio immediatamente. «Come ti ho detto prima, temo che la
Pantera non possa vincere questa battaglia da sola.»
«Vuoi
chiedere a Captain America di aiutarti?» domandò lei, a cui bastarono le poche
parole del sovrano per afferrare le sue intenzioni.
«Sì,
esattamente.»
«Ma…»
cominciò, mentre T'Challa sollevava le sopracciglia in attesa che continuasse
la frase.
Anisa
si era fatta raccontare tutto dall’uomo, tutti gli avvenimenti che avevano stravolto il gruppo degli Avengers
ormai due anni prima e che avevano portato alla presenza di un ex assassino
professionista nella loro camera criogenica. Così come sapeva di quella storia,
sapeva anche che Steve Rogers, per quanto per molti continuasse a essere un
eroe, era improvvisamente diventato un ricercato e che, insieme a lui in quella
libertà precaria, c’erano almeno altre quattro persone.
«Perciò
vorresti chiedere aiuto a lui?» domandò infine la donna, piuttosto confusa da
tutta quella faccenda.
T'Challa
annuì, ma non riuscì a dire altro. Anisa, infatti, intervenne nuovamente:
«Perché chiedere aiuto a Rogers…»
Bloccò
l’uomo, in procinto di replicare, con un gesto della mano. «Non fraintendere.
Mi piace Captain America, penso che stia facendo del suo meglio per mantenere
il mondo al sicuro. Tuttavia, e non puoi non essere d’accordo, ha un mandato
d’arresto sulla testa.
«Non
ha più senso chiedere a quegli Avengers che possono intervenire senza correre
il rischio di trovarsi le Nazioni Unite alle calcagna?»
T'Challa
non rispose subito. Capiva le perplessità e i dubbi di Anisa.
Aveva
deciso di contattare Steve Rogers quella stessa mattina, mentre accendeva le
ventisei candele per i soldati caduti. Per quanto paradossale potesse sembrare
le Nazioni Unite sarebbero state un problema e lui lo sapeva
perfettamente. Due anni prima Captain
America si era reso disponibile ad aiutare il sovrano del Wakanda se ve ne
fosse stato bisogno, siglando con tali parole l’amicizia che si era instaurata
fra i due anche grazie al segreto che T'Challa aveva deciso di custodire e che
rispondeva al nome di James Buchanan Barnes. Ora che T'Challa aveva bisogno di
aiuto sapeva anche che di Rogers si sarebbe potuto fidare.
L’uomo
prese una lunga boccata d’aria prima di parlare e decise che avrebbe impedito
qualsiasi tipo di interruzione da parte della donna. «Se volessimo chiamare gli
Avengers a cui ti riferisci dovremo rivolgerci direttamente alle Nazioni Unite.
Dopo gli Accordi di Sokovia sono praticamente loro
sottoposti, credi veramente che permetteranno a Iron
Man o Visione di intervenire in Wakanda per fermare un uomo che, per loro, sta
solo rubando munizioni? Le Nazioni Unite lo considereranno certamente una cosa
di poca importanza e manderanno qui delle semplici forze speciali che non
saranno in grado di fare meglio di ciò che abbiamo fatto noi questa notte.»
«Ma
è Klaw!» esclamò lei, senza che T'Challa fosse in grado di fermarla. Ripeteva
quella frase come un mantra; non riusciva a sopportare che qualcuno non si
rendesse conto di chi fosse quell’uomo e, soprattutto, di cosa fosse capace di
fare.
Il
sovrano si avvicinò alla donna, tentando di calmarla. Anisa gli parve sull’orlo
delle lacrime. Quando riprese a parlare lo fece con voce calma e sicura:
«Proprio perché si tratta di Klaw abbiamo bisogno dei migliori aiuti possibili.
Ed è per questo che voglio che le Nazioni Unite ne rimangano fuori. Captain
America e chiunque abbia voglia di intervenire insieme a lui, sono i più
indicati per aiutarci.»
Anisa
annuì debolmente, dando così ragione a T'Challa, il quale proseguì: «Se Steve
Rogers è disposto a darci una mano potremmo riuscire a fermare Klaw prima che
faccia ancora del male. Tuttavia trovarlo non sarà semplice.»
Prese
dalle mani di Anisa le carte che lei ancora stringeva e che si erano
stropicciate in più punti. «Rogers è piuttosto in gamba e sa come evitare di
farsi trovare.»
La
donna continuava a guardare il sovrano in modo assente. Tentava ancora di
riprendere il controllo di sé dopo l’ultima esplosione che l’aveva travolta e
che aveva provocato nuovamente in lei l’apertura di vecchie e inguaribili
cicatrici.
«Sai
dov’è?» chiese infine a T'Challa.
Lui
si voltò a guardarla. «Dimentichi che ho ottimi uomini a mia disposizione»
detto ciò girò intorno alla scrivania, afferrò la cornetta del telefono e
digitò alcuni numeri. Appena Anisa sentì il nome che aveva pronunciato cercò di
ricomporsi al meglio, consapevole che entro breve, nell’ufficio, non sarebbero
più stati soli.
Infatti,
solo pochi minuti dopo, qualcuno bussò alla porta. Quando questa si aprì la
figura di un giovane uomo, di proporzioni minute ma con uno sguardo
sorprendentemente astuto, fece il suo ingresso nella stanza.
«Mio
signore» disse, salutando il sovrano e facendo un inchino anche in direzione di
Anisa.
Edet Usutu
era uno degli uomini più fidati di T'Challa, così come lo era stato prima anche
per T’Chaka. A soli ventiquattro anni era già uno dei
migliori agenti wakandiani, in grado di ottenere informazioni certe in poco
tempo e di riportarle utilizzando i canali più sicuri. Anisa non rimase
sorpresa di vederlo lì; se c’era da rintracciare qualcuno in fuga nessuno era
più indicato di Edet. Tuttavia si ritrovò a sperare
con tutta se stessa che il ragazzo avesse già delle informazioni a riguardo.
Non voleva che passasse troppo tempo prima di una nuova azione contro Klaw,
c’era il rischio che l’uomo uccidesse ancora.
«Come
stai, Edet?» domandò T'Challa, con una domanda
formale a cui quasi nessuno rispondeva. Il ragazzo, infatti, fece un veloce
cenno con il capo, sorridendo. Si avvicinò alla scrivania, dietro la quale il
sovrano si era messo a sedere. Quest’ultimo, lasciando da parte ulteriori
formalità, estrasse da uno dei cassetti una piccola scatola nera, i cui angoli
rilucevano per via di lamine argentate. Fece scorrere la scatola sul piano del
tavolo e l’affiancò alle carte con gli avvistamenti di Captain America, sotto
lo sguardo vigile e attento di Edet. Anisa conosceva quella scatola, così come il
suo contenuto.
«Ho
un incarico per te» proseguì il sovrano, la voce bassa, determinata.
Il
giovane uomo davanti a lui annuì nuovamente e prese il primo foglio dalla
piccola pila di carte. Lo analizzò rapidamente, infine tornò a guardare
T'Challa. «Captain America?»
T'Challa
sorrise. «Esattamente. Ho bisogno che tu riesca a trovarlo e quelle sono tutte
le informazioni che hai a disposizione.»
Sentendo
quelle parole le speranze di Anisa si affievolirono immediatamente. Edet era il migliore nel suo campo, su questo non aveva
dubbi, ma quello che il sovrano aveva appena detto lasciava perfettamente
intuire che non aveva idea di dove esattamente si trovasse Steve Rogers. La sua
ricerca avrebbe potuto richiedere settimane, nel peggiore dei casi addirittura
mesi. Non disse nulla, rimase a guardare Edet che
lasciava andare il foglio stampato per afferrare la piccola scatola nera,
aprirla ed estrarne il contenuto. Era un anello; un anello nero con sottili
incisioni argentate e una pietra verde lavorata in modo da farla sembrare un
occhio. Per quanto fosse insospettabile quel piccolo oggetto era il canale di
comunicazione più sicuro che T'Challa avesse ideato. Lui stesso aveva
personalmente lavorato a quella tecnologia. Era riuscito a inserire all’interno
di un anello un sistema informatico in grado di ricevere informazioni,
criptarle e inviarle a un server sicuro per la decodificazione. Ogni
informazioni inserita in quell’anello poteva essere estrapolata solo da poche
persone e, esclusivamente, fra i confini del Regno di Wakanda.
Edet infilò l’anello all’anulare
destro, decretando in tale maniera che accettava l’incarico.
«Quando
lo trovi, di’ che ti mando io e che ho urgente bisogno del suo aiuto. Digli che
James sta bene e che non c’entra. Non posso dare informazioni maggiori e se è
disposto ad aiutarmi deve fidarsi di me e delle poche cose che posso dirgli
fino al suo arrivo in Wakanda.»
Edet annuì alle parole del sovrano.
Afferrò le carte dal piano della scrivania e rimase in silenzio, in attesa
delle ultime parole che, sapeva, sarebbero giunte a breve.
«Mandisa ha fatto preparare tutto il necessario per la tua
partenza. Si trova nell’hangar ovest.»
«Farò
del mio meglio, mio Signore» disse il giovane.
«Ho
fiducia in te, Edet.»
Con
un nuovo inchino il ragazzo salutò i presenti. Con lo stesso passo sicuro con
cui era entrato si affrettò a uscire dall’ufficio di T'Challa, sotto lo sguardo
del sovrano e di Anisa. La piccola scatola nera, privata del suo contenuto, giaceva immobile sul piano della scrivania.
*
T'Challa
uscì dal laboratorio di ricerca piuttosto soddisfatto. Le ricerche dei suoi
scienziati stavano andando molto bene e sentiva che, almeno in quel settore,
poteva lasciarsi andare a un cauto ottimismo. I suoi uomini stavano lavorando a
quella tecnologia da ormai due anni e lui aveva contribuito in più occasioni,
anche grazie alle quasi sconfinate conoscenze che possedeva. Tuttavia l’ultima
versione, quella che avrebbe quasi certamente funzionato, era stata interamente
ideata dal suo staff e la cosa lo rendeva carico di orgoglio.
Mentre
camminava lungo uno dei corridoi del palazzo, una sensazione positiva a
scaldarlo dentro, si accorse che la cosa non sarebbe potuta durare a lungo.
Anisa stava sopraggiungendo verso di lui a passo rapido, il volto pallido e
preoccupato. Era agitata e T'Challa capì subito che doveva essere accaduto
qualcosa.
«C’è
una cosa che devi vedere» gli disse la donna appena lo ebbe raggiunto.
Il
sovrano seguì Anisa fino a una delle sale da conferenza del palazzo, in cui la donna
si infilò velocemente. La sala era deserta e sarebbe stata silenziosa se non
fosse per il televisore accesso, da cui provenivano i rumori. Anisa fece
intendere a T'Challa che doveva guardare lo schermo e il sovrano lo fece.
Le
immagini che vi baluginavano sopra si riferivano al piccolo villaggio di Ileret, ai confini con il lago Turkana e con il Wakanda.
T'Challa lesse la scritta in sovrimpressione: “Ileret: trovati i corpi di tre soldati Etiopici. Mistero sulla morte.”
Senza
aspettare che l’uomo le chiedesse qualcosa, Anisa intervenne: «Li hanno trovati
morti carbonizzati. Non ci sono tracce di combustibile, né segni che lascino
pensare che sono stati trascinati fin lì e nessuno sa spiegarsi come ciò sia
possibile.»
T'Challa
la guardò subito, esterrefatto e improvvisamente preoccupato. Sicuramente anche
Anisa stava pensando alla stessa cosa, ovvero a quell’uomo, insieme a Klaw, che
aveva fatto scoppiare l’incendio alla centrale semplicemente azionando un
accendino.
La
donna si lasciò cadere su una delle sedie disposte intorno agli ampi tavoli da
conferenza.
«Sono
pronta a scommettere che c’entra Klaw» disse avvilita.
Il
sovrano non poté darle torto perché anche lui avrebbe scommesso lo stesso. Stava succedendo ciò che non avrebbe voluto,
ovvero che Klaw ricominciasse a muoversi prima che lui potesse avere le giuste
contromisure per fermarlo. Erano trascorsi sei giorni dalla partenza di Edet e l’agente ancora non aveva dato alcuna informazione
sull’avanzamento del suo incarico. Ciò significava che non era ancora riuscito
a rintracciare Steve Rogers, né qualcuno a lui vicino e T'Challa sapeva che
quando Edet impiegava più di quattro giorni per
portare a termine un compito significava che il lavoro avrebbe potuto
richiedere molto più tempo.
Costrinse
la sua mente a lavorare in fretta in cerca di una soluzione. Quei soldati morti
potevano anche essere un caso, una coincidenza che però si incastrava fin
troppo bene con tutta la serie di eventi che erano accaduti prima. Ciò però non
significava che Klaw fosse già in procinto di fare nuovamente del male o di
essere terribilmente pericoloso, i soldati potevano aver incrociato la sua
strada per una fatale, quanto involontaria, circostanza. Pensò più rapidamente
che poté, fece collegamenti, srotolò ipotesi. Se da solo Pantera Nera non era
in grado di farcela a chi poteva chiedere aiuto se Captain America era così
difficile da trovare e se voleva, al contempo, che le Nazioni Unite rimanessero
all’oscuro di tutta la faccenda?
D’improvviso
la risposta gli affiorò nella mente. Era un’idea folle, pretenziosa e arrogante
ma che in quel momento gli parve come l’unica che avesse senso seguire. Si
sarebbe trattato di un duplice scambio di aiuti che però non avrebbe costretto
l’altro a ricambiare, a meno che non avesse voluto.
«T'Challa,
mi hai sentito?»
Anisa
riuscì a ottenere l’attenzione del sovrano, infine. Lui la guardò e la donna
capì che non l’aveva ascoltata.
«Ti
ho chiesto cosa possiamo fare. Edet non ci ha ancora
fatto sapere nulla. E se non dovesse riuscire a trovare il Capitano Rogers?
Forse dovremmo contattare le Nazioni Unite e chiedere l’intervento degli
Avengers.»
«No,
non chiamerò le Nazioni Unite. Da quando hanno messo sotto controllo gli
Avengers non hanno fatto niente di buono» rispose ostinato T'Challa.
Anisa
sospirò, accasciandosi nuovamente sulla sedia. Non riusciva a capire per quale
motivo il sovrano continuasse a rimanere così fermo e cocciuto su quel punto.
Faceva fatica ad accettare che lui tentasse di trovare una soluzione
alternativa mentre là fuori un gruppo di uomini armati continuava a seminare
morte avvicinandosi sempre più al Wakanda.
T'Challa
respirò a fondo, accarezzando leggermente l’anello della Pantera. «Ho un piano»
disse infine.
Anisa
spalancò gli occhi a quelle parole, osservando con maggiore intensità l’uomo.
Dentro di lei la speranza era appena risorta.