O n E
Spensi il datapad e lo gettai sul comodino senza fare caso a dove
finiva. Rigirandomi sul letto, mi accomodai distesa sulla schiena, osservando
il soffitto spoglio della base. Il ronzio dell’umidificatore spezzava il
silenzio disceso nella camera senza il famigliare bit del monitor: un rumore
insolente che con il tempo avevo imparato ad ignorare.
Ma non in quel
momento.
Ero ancora di
pessimo umore, senza una prospettiva, una qualsivoglia speranza di poter
migliorare la mia permanenza su quel pianeta sperduto alla deriva nel nulla
cosmico. E le urla di mia madre provenienti dall’area comune non mi aiutavano
di certo a raffreddare i bollenti spiriti che avevo in corpo.
«Cay! Smettila di bighellonare! Launi
ha preparato i yakitori.»
Nell’udire quella
frase, il mio stomaco emise un sonoro borbottio.
Sbuffando, mi
misi a sedere, passandomi una mano sul viso. Quando la mia pancia si fece
sentire nuovamente, cercai di fare del mio meglio per azzittirla, senza alcun
risultato.
Launi
era, a mio avviso, il membro più indispensabile della nostra squadra. Era uno
scienziato provetto dalle mani d’oro che aveva il potere di trasformare qualsiasi
cosa, anche la più bizzarra, in una pietanza commestibile, rendendola degna di
una cucina stellata. Nato e cresciuto su uno dei molteplici arcipelaghi della colonia
Oceania 2A, aveva conosciuto i miei genitori durante un meeting tra cervelloni
e da quel momento avevano collaborato più volte nel corso degli anni.
E io provavo un
profondo rispetto per la sua cucina, per cui mi alzai dal letto e mi diressi
verso lo specchio a muro per verificare di apparire come un’adolescente normale
e non una sull’orlo di una crisi psicotica.
Lo sguardo che mi
rivolse il mio riflesso confermò miei dubbi. Avrebbero dovuto imbottirmi di
ansiolitici. I miei occhi castani, dalla forma lievemente allungata, mi
osservavano stanchi e sconsolati. Non citiamo i miei capelli. Il caschetto blu,
di solito in perfetto ordine, era scompigliato e, invece di apparire asimmetrico
come dettava la moda, assomigliava a un nido. Le ciocche rosa spiccavano in
quel groviglio come piume. Ci mancavano solo delle uova e avevo trovato il
giusto travestimento per Halloween.
Sbuffai, cercando
di domarli come potevo con le dita. Rimpiangevo ancora di non avere un
Modificatore a portata di mano, in modo da cambiare il rosa con un altro
colore, magari meno evidente per la gioia dei miei genitori. Ma ehi, avrei
dovuto rimanere così per più di un anno. E dire che ero abituata a cambiare
colore una volta a settimana… ok, in realtà più di una.
Tolsi qualche
piega dalla canotta bianca della divisa che mi era stata assegnata, cercando di
non badare alle linee rosa che la decoravano ai lati. Ogni base aveva una sua
particolare tenuta e ogni persona aveva delle decorazioni di diverso colore a
seconda del proprio compito. In questo caso, le mie equivalevano a: peso morto.
Inutile dire che
non era nemmeno quella la cosa peggiore. Il tessuto era una particolare fibra
sintetica che si adattava a ogni forma del corpo, facendomi assomigliare a una
tavola. Avevo preso da mamma una corporatura esile e asciutta, ma ogni volta
che mi lamentavo con lei di questo, mi rispondeva semplicemente: “l’unica curva
che conta è quella del cervello”.
Facile a dirsi
per lei, dato che era una scienziata di fama interplanetaria.
Senza indugiare
oltre, mi diressi verso la zona comune, situata nel cuore della base Gamma.
Il Gamma era una
struttura all’avanguardia che baciava con lo sguardo il grande lago della
vallata, Atlas. Diversamente dalle altre basi, oltre a non essere
costruita sulla terraferma ma su un’isoletta artificiale, i suoi ambienti si
espandevano a raggio sopra le acque cariche di minerali, come prolungamenti del
cuore circolare del complesso. Ogni sezione aveva uno scopo a sé, divise tra
appartamenti, laboratori, cucina, area comune e persino una piccola palestra.
Alimentare tutto il complesso avrebbe richiesto fin troppa energia per cui, per
mantenere in funzione ogni singolo raggio in completa autonomia, avevamo
installato sul tetto diversi panelli solari. L’unico collegamento con la terraferma
consisteva in un ponticello che, giuro su Hawkins,
prima o poi sarebbe crollato. Ma devo ammetterlo, non era male vivere in quella
struttura... non con la vetrata panoramica della mia camera che dava
direttamente sul lago. Credo di aver intasato il modem di foto.
Entrai nell’area
comune passando per il piccolo giardino interno allestito nel centro della base
e trovai i miei genitori ancora al lavoro sulla tavola già apparecchiata, mentre
osservavano un modellino 3D proiettato dal datapad di
mia madre.
«Secondo le ultime analisi, circa il 67%
dell’acqua del pianeta si trova sottoterra. Per il momento abbiamo scoperto
nuovi bacini lungo i monti Ida, per un totale di 34 siti. E la maggior parte
sono grandi come uno Stato. È davvero un peccato non poterli studiare più a
fondo.»
«La sonda che
cosa ha rilevato nell’ultimo monitoraggio?» domandò mio padre, bevendo un sorso
di tè.
«Ultimo è la
parola chiave. La sonda è arrivata fino a 5.970 m di profondità, dopo di che è
stata fatta a pezzi.»
«A pezzi?» da
dietro gli occhiali, lo sguardo di mio padre s’illuminò dalla sorpresa.
«Io ve l’ho detto
che era un azzardo. Per quel che ne sappiamo là sotto potrebbe esserci anche il
Kraken» esclamò la donna dai lunghi capelli neri che
fece la sua apparizione nella sala con una grande ciotola di riso fumante tra
le mani.
Per poco non
scoppiai a ridere e Hako mi fece l’occhiolino. Hako era l’assistente di mia madre e sua amica di vecchia
data. Dagli eleganti lineamenti orientali e la battuta sempre pronta, era tanto
fragile quanto letale. Cintura nera di karate, da piccola mi aveva dato qualche
lezione di autodifesa, ma quando i miei furono convocati dalla preside perché
ero stata fin troppo entusiasta di mostrare le mie mosse da ninja ai miei
compagni, fummo costrette a darci al combattimento clandestino. Questo finché
non divenni troppo pigra.
«Hako, non ti ci mettere anche tu» sbottò mia madre,
scostandosi un ciuffo biondo scuro dal viso.
«Suvvia. Launi non vi ha ancora raccontato tutte le leggende sui
mostri marini che si tramandano da generazioni?»
«Qualcuno ha
detto “mostri marini”?»
Dalla cucina
comparve un omone dalla pelle scura e i capelli neri tenuti stretti in una coda
di cavallo. Le maniche della sua giacca erano arrotolate, esponendo i tatuaggi
tribali che gli segnavano gli avambracci. I suoi occhi neri brillarono dalla
curiosità mentre posava sul tavolo una teglia piena di leccornie, ma non fece
in tempo ad aprir bocca che mio padre lo fermò.
«Grazie, Launi, ma credo che le leggende dovranno aspettare.
Altrimenti il pranzo si fredda» aggiunse poi repentinamente.
Hako
gli diede una gomitata allegra e Launi le fece
l’occhiolino.
Erano come il
giorno e la notte, ma avevo la netta sensazione che tra quei due fosse
sbocciato qualcosa. O, almeno, sarebbe sbocciato nel prossimo futuro, nel
vederli insieme.
Feci il giro
della tavola bianca e mi accomodai al mio solito posto davanti a Hako. Senza indugio, mi servii una grossa porzione di
spiedini e di riso basmati, ignorando le occhiate di disapprovazione di mia
madre.
«Cay, lo sai che tra un’ora dobbiamo uscire. Cerca di non
ingozzarti.»
«Sì, capo»
risposi, un attimo prima di spazzolare il piatto.
Grazie alla
cucina di Launi ero riuscita a mettere su qualche bel
chilo e le camminate nella natura selvaggia avevano tonificato il mio corpo divenuto
da anni sedentario. Tuttavia, l’unica donna di tutta la base ad avere delle
curve da urlo, rimaneva Jessica StarQueen,
un’avvenente attrice tutta modifiche appesa sul muro della camera di Jonathan,
l’ultimo componente del team, nonché tecnico informatico.
Non che fosse il
solo a cavarsela con i computer, ma quasi tutte le sonde a nostra disposizione
erano sue e non aveva preso bene la morte di Betty. Aveva dichiarato al pianeta
intero le sue intenzioni di vendetta contro la creatura abissale che l’aveva
fatta fuori.
Già, per aver poco
più di venticinque anni, era un tipo alquanto… strano.
«Hako, ti dispiacerebbe richiamare Jonny dal suo antro
oscuro?»
Hako
alzò gli occhi al cielo, rivolgendo a mio padre uno sguardo stizzito. «Lo sai
che non si muoverà da lì finché non avrà riparato la sonda. Dagli tempo di
elaborare il lutto.»
«Oh, andiamo.
Sono i rischi del mestiere» commentò mia madre.
«Guardate che vi
sento!»
Tutti ci girammo
verso la zona degli appartamenti, dove la voce di Jonathan era riecheggiata
attraverso l’altoparlante della porta.
«Beh, gli terrò
qualcosa da parte per dopo» si limitò a dire Launi
con un’alzata di spalle.
Mia madre
sospirò. Ormai eravamo una grande famiglia e anche se Jonathan era nuovo, gli
volevamo bene… Nonostante le sue stranezze. Ammetto che alcune volte
m’inquietava, ma forse perché non ero abituata a uomini che passavano gran
parte del loro tempo davanti a un monitor a modificare codici e a ingurgitare
una bibita energetica dietro l’altra.
Pranzammo in
silenzio per qualche minuto, dopodiché mi feci avanti per attuare il mio piano.
«Mamma, posso
portare con me l’hoverboard oggi?»
Mio padre alzò
gli occhi verso di me, mentre una pallina di riso gli scivolava via dalle
bacchette.
«L’hoverboard? Non credo sia una buona idea.»
«Andiamo, papà!
Da quando sono arrivata non ho mai fatto un giro.»
«Tuo padre ha
ragione» m’interruppe mia madre. «Non solo rischi di farti male a causa della
vegetazione, ma potresti attirare su di te i Chrysaetos,
che Hubble non voglia!»
C’era da dire che
con i Chrysaetos era quasi riuscita a convincermi.
Avete presente quei grandi e cattivi volatili che nei film di fantascienza
abbattono elicotteri come se niente fosse? Ebbene, immaginateli dorati e
ricoperti di piume invece che scaglie, con un becco colmo di denti affilati ed
eccoli qui. Generalmente si trovavano nei monti Ida, ma la sicurezza non era
mai troppa. Alcuni esemplari erano stati avvistati nella vallata.
«Prometto che
rimarrò a bassa quota» insistetti io, alzandomi e iniziando a sparecchiare i
piatti ormai vuoti. «Solo per un po', giusto per svagarmi…»
L’occhiata che mi
lanciò mia madre fu piena di significato. «Lo so a cosa stai pensando,
ragazzina, ma no. Ricordati che siamo qui per un motivo.»
«Non capisco cosa
intendi» mi difesi, nonostante avessi iniziato a sudare freddo.
«Oh, sono così
sola. Vorrei tanto avere un amico…» m’imitò.
Fortunatamente i
piatti erano di una speciale plastica o li avrei ridotti in frantumi quando mi
caddero dalle mani nel pulitore. Mi voltai con il viso in fiamme.
«Sei entrata nel
mio datapad! Questa è violazione della privacy!»
«Potrei dirti la
stessa cosa» ribatté mia madre. «Non credere di essere così furba. Come se non
sapessi che è stata Hako a insegnarti i principi
dell’hackeraggio.»
«E tu come lo
sai?»
«Perché…»
«Sono stata io a
insegnarli a tua madre. E Jenna, ti prego, non mettetemi in mezzo alle vostre
discussioni di famiglia» sentenziò lei, sorseggiando il suo tè come se nulla
fosse.
«Non essere così
dura con lei, cara» mi difese mio padre. «Dopotutto rimarremo qui ancora per
molto ed è normale che abbia voglia di vedere qualche faccia nuova.»
Mia madre gli
lanciò un’occhiata di fuoco, ma per un attimo parve pensierosa, come se stesse
rimuginando qualche diabolico piano.
Alla fine
sospirò. «E va bene. Vedremo di trovare una soluzione in proposito.»
«Evviva!» mi
sporsi a battere il cinque a Launi ed a Hako.
«Ma non pensare
di averla fatta franca. Ci aspetta una bella chiacchierata, signorina.»
Tutto
l’entusiasmo di quel momento si spense. «Oh, santa Hack…»
Con
l’hoverboard ripiegato e fissato allo zaino, seguivo
mia madre e Hako nei meandri foresta, rimanendo
saggiamente dietro la mia madrina per scampare alla furia materna. Per
esperienza sapevo che era meglio girarle alla larga fino a sera, ma la
curiosità mi stava uccidendo a ogni passo.
Quando
eravamo uscite dal Gamma, mi era stato subito chiaro che ci saremo inoltrate in
un settore completamente nuovo. Non accadeva da un paio di settimane e la cosa
mi eccitava e inquietava un pochino, soprattutto dopo la discussione che
avevamo avuto.
Inutile
dire che quel pianeta era il luogo migliore dove nascondere dei cadaveri. O
forse era Elios 45 con i suoi pozzi acidi?
Persa
nei miei pensieri, inciampai su una radice e per poco non crollai lunga distesa
per terra.
«Cay…» mi ammonì mia madre udendo le mie imprecazioni, senza
distogliere lo sguardo dal sensore.
«Sto
bene» borbottai, spazzolandomi le ginocchia doloranti. Gli abiti in dotazione
erano fatti apposta per la ricerca, a prova di schizzi di acido e sostanze
varie, ma non erano molto adatti per le gite campestri, che mia madre adorava.
Grazie al cielo avevo messo in valigia dei ricambi più consoni, ma non per
questo sicuri.
«Si
può sapere il perché tutta questa strada?» le chiesi, leggermente stizzita.
Hako
ridacchiò e mi mostrò il suo computer da polso. Secondo la mappa eravamo nel
settore D30 e questo voleva dire che…
Feci
per saltare dalla felicità, ma Hako mi bloccò e mi tappò
la bocca con una mano. Dal suo sguardo, potei capire che si trattava di una
fortuita circostanza, dato che avevamo esplorato i settori dall’altra parte di
Atlas e che quindi eravamo alla ricerca di nuove piante. Tuttavia non potei
fare a meno di sorridere vittoriosa.
La
distanza che ci divideva dal Beta era ridotta.
«Verifica»
esclamò a un certo punto mia madre, facendoci sussultare entrambe. «I vari
campioni botanici raccolti nei settori adiacenti al lago presentano una minima
variazione nella composizione biochimica in base alla loro locazione,
nonostante la specie sia la stessa; secondo te a cosa è dovuto?»
Ci
riflettei un attimo. Era impossibile che fosse qualcosa dovuto all’aria o alla
composizione del terreno alla luce degli ultimi esami, per cui l’opzione
rimaneva solo una. Abbastanza facile, dato che eravamo lì per quello. «All’acqua»
risposi.
«Esatto.
Abbiamo trovato diverse tracce di minerali nel loro metabolismo, a volte con
valori del tutto diversi. Questo vuol dire che sono presenti zone con grandi
depositi sotto di noi, almeno in proporzione tale che l’acqua non riesce a discioglierli
a dovere. Quindi, le piante dimostrano lievi mutazioni in base alla loro
locazione rispetto alla falda acquifera. Abbiamo già mandato i campioni alle
basi Alfa e Delta, in modo che possano studiare i minerali.»
Era
tutto molto interessante, peccato che si fosse dimenticata di un particolare
dettaglio. «Quindi è probabile che ci siano minerali ancora sconosciuti?»
Mia
madre annuì, mentre digitava qualcosa sul datapad e
si chinava ad esaminare un fiore arancione dai petali lunghi e arricciati.
«E
così quelli delle altre basi ti fregeranno il premio Galileo e non potremmo
nemmeno decidere un nome.»
Mia
madre si voltò, lanciandomi un’occhiataccia. «Cay,
non lo facciamo certo per la fama, noi…»
Un
suono agghiacciante risuonò nella vallata.
Hako fu
la prima a reagire. Si portò una mano al fianco, dove teneva la fondina della
pistola a impulsi e scrutò attentamente l’ambiente circostante. Io e mia madre
c’immobilizzammo per un attimo, all’erta. Lentamente, allungai la mano dietro
di me per sganciare l’hoverboard dallo zaino e con
uno scatto lo distesi, facendolo tornare operativo.
«Cay!» sbottò mia madre. «Che diavolo pensi di fare?»
Il
lamento echeggiò nuovamente. Non c’erano dubbi: si trattava di un animale
ferito.
«Vado
a dare un’occhiata.»
«Callisto,
no! Non siamo equipaggiati per questo genere di cose.»
«Tua
madre ha ragione» commentò Hako, ancora in allerta.
Fece un passo verso di me. «È meglio se torniamo alla base e contattiamo la
squadra di soccorso di Beta. Loro sapranno cosa fare.»
«Ma
potrebbe morire! Non è così lontano» sibilai.
Mia
madre mi colse alla sprovvista. Uno scatto repentino posò una mano sull’hoverboard, bloccandomi. «Non sappiamo che cosa sia e
inoltre sarebbe solo la selezione naturale. Mi dispiace Cay,
ma abbiamo delle priorità.»
«Tu,
semmai!» sbottai.
Non
so come, forse grazie all’addestramento di Hako,
riuscii a liberare la tavola e a partire sotto lo sguardo attonito delle due
donne. Il rumore delle eliche coprì le imprecazioni di mia madre che non me
l’avrebbe fatta passare liscia, sempre se fossi tornata tutta intera.
Era
difficile muoversi attraverso la rigogliosa vegetazione. Dovevo schivare costantemente
rami e liane e per poco non caddi dalla tavola quando questa rimase impigliata
in una sorta di ragnatela di cui non tenevo a scoprirne la provenienza. Mia
madre mi avrebbe bastonata per una tale incoscienza, ma non mi fermai.
Dovetti
fermarmi un paio di volte, sia per ripulire l’hoverboard
dal fogliame, sia per ascoltare il lamento. Dopo un paio di virate, riuscii a
trovare la piccola radura dove l’animale si era fermato. Atterrai e ripiegai l’hoverboard, facendo attenzione a non compiere movimenti
bruschi.
Mi
bloccai.
Era
la prima volta che vedevo un esemplare del genere dal vivo e per un attimo ne
rimasi affascinata.
La
creatura piangente non era altri che un cucciolo di Lycaon
Cristatus; un maschio, a giudicare dal piumaggio
vivace e dalla lunghezza delle piume alla fine delle grandi orecchie tremanti.
Era il perfetto incrocio tra un licaone e un pavone, solo grande quanto un
pony. E gli esemplari adulti in fatto di dimensioni non scherzavano, dato che
potevano raggiungere la stazza di un aereobus. A quel
pensiero mi riscossi dal torpore in cui ero caduta. I Lycaon
solitamente vivevano in gruppi famigliari, composti dai genitori e dai cuccioli,
per cui rimasi stupita dal fatto che fosse da solo.
Il
cucciolo gemette ancora, questa volta con maggiore veemenza. Mi aveva visto.
Presi
coraggio e mi avvicinai il più lentamente possibile, portando le mani avanti
per calmarlo. In fondo era un cucciolo e per di più ferito. Non c’era nulla di
cui preoccuparsi, giusto?
«Buono…
Non foglio farti del male…»
Feci
ancora qualche passo e mi accorsi del grosso taglio che aveva su una zampa. Non
sembrava profondo, ma continuava a sanguinare. E questo non era affatto un
bene, non in un habitat selvaggio come quello.
Riuscii
a portarmi abbastanza vicino da toccarlo. Invece di un ispido pelo, le mie dita
sprofondarono in una coltre di soffici piume. Il cucciolo inizialmente
s’irrigidì, ma finì per gemere docilmente. Doveva essere esausto.
«Bravo...
Bravo… E ora come faccio a spostarti da qui?»
Ragionai.
Avrei dovuto portarlo alla base Beta, ma la Gamma era più vicina e avevamo
un’unità di pronto soccorso fornita per ferite del genere. Il problema
principale era come trasferirlo. L’hoverboard non
avrebbe potuto sopportare il suo peso e…
Un
ringhio selvaggio risuonò nei dintorni.
Cercando
di mantenere il controllo di me, mi allontanai lentamente dal cucciolo,
esattamente nel momento in cui dalla vegetazione comparve un Lycaon adulto e piuttosto incazzato.
Vedendo
il genitore, il cucciolo prese ad agitarsi ancora di più e ciò non fece che
peggiorare la situazione.
Non
riuscii nemmeno ad azionare l’hoverboard.
Tutto
accadde in una frazione di secondo.
Chiusi
gli occhi, preparandomi psicologicamente a essere sbranata, ma invece di
sentire la pressione delle zanne sulla mia carne, avvertii solo il caldo respiro
dell’animale.
Presi
coraggio e sbirciai con un occhio, rimanendo esterrefatta.
Davanti
a me era comparso un ragazzo, facendomi da scudo contro Lycaon.
Indossava un’uniforme nera di stampo militare in dotazione alla base Beta dalle
decorazioni verdi; la sua identità era celata dal casco che gli ricopriva
interamente il viso.
«Stai…
Immobile» sibilò il giovane senza voltarsi, la voce leggermente modificata dal
microfono.
Non
riuscii nemmeno ad annuire, figuriamoci mettersi a ballare la samba.
Il
ragazzo fronteggiò il maschio adulto di Lycaon senza
battere ciglio. Aveva in dotazione un hoverboard più
piccolo e moderno del mio, che lo manteneva sollevato da terra quel tanto che
serviva per essere al livello del muso dell’animale. E, lasciatemelo dire, quel
prototipo era davvero di ultima generazione. In un momento più pacifico, avrei
fatto di tutto per farci un giro.
Come
se avesse capito di essere di fronte a una preda più difficile, la bestia
indietreggiò, arricciando le labbra per mettere in mostra le zanne acuminate
come avvertimento. Il ragazzo rimase impassibile di fronte a quella minaccia e,
senza alcuna esitazione, mosse il braccio per estrarre qualcosa dalla tasca
laterale della divisa. Un fischietto.
Ero
troppo basita per commentare, dato che mi sarei aspettata una pistola ad
impulsi o come minimo uno scudo difensivo. Invece, il mio salvatore disattivò
la parte inferiore del casco, rivelando una mascella squadrata ricoperta da un
velo di barba castana, e si portò lo strumento alle labbra.
Emise
un fischio musicale prolungato, seguito da due più brevi. L’animale smise di ringhiare,
ma rimase ancora guardingo.
Il
ragazzo ripeté la sequenza, facendo tendere le lunghe orecchie del Lycaon, e ne eseguì un’altra, composta principalmente da
fischi distinti in una determinata sequenza musicale.
Dopo
qualche istante, il Lycaon sembrò capire che non
consistevamo in una minaccia per lui e il suo piccolo e si ritrasse in una
posizione rilassata. Permise persino al ragazzo di fargli dei grattini sul
muso, in mezzo ai grandi occhi blu. Tuttavia, quando vide che ero ancora dietro
di lui, le sue pupille si dilatarono dalla diffidenza.
«Bravo
Astreo» commentò il giovane, mentre il Lycaon andava ad assistere il cucciolo.
«Aspetta…
lo conosci?» sbottai, la voce ancora un po' acuta per l’adrenalina che mi
scorreva nelle vene.
Il
ragazzo si voltò verso di me. Nonostante avesse ancora il visore davanti agli
occhi, potei immaginare il suo sguardo infuriato dal tono con cui mi parlò.
«Sì,
ma non conosco te.» Solo allora estrasse una pistola ad impulsi, avendo pure la
faccia tosta di puntarmela contro. Come se fossi io l’animale assetato di
sangue!
«Identificati!»
Stavo
per rispondergli a tono, magari con qualche bell’insulto, quando mi resi conto
che non stavo indossando la divisa della base Gamma. Il che equivaleva sì a un
bel problema.
«Io
sono…»
«Cay!!!»
Mia
madre e Hako sbucarono dalla vegetazione senza alcun
preavviso, spaventando nuovamente il Lycaon.
Nonostante fosse stato sgarbato, non riuscii a non ringraziare mentalmente quel
soldato quando si protese a calmare nuovamente la creatura prima che saltasse
addosso alla mia famiglia.
«Grande Giove!» sbottò Hako,
afferrando mia madre per metterla al sicuro dietro di lei.
Il
giovane, impegnato a dare qualche buffetto sul collo del Lycaon,
girò appena la testa per squadrarci. Un sorrisetto divertito gli comparve sul
viso.
«Buon
pomeriggio, signora Myah. La trovo davvero in
splendida forma.»
Mia
madre incrociò le braccia al petto, cercando di apparire imponente e sicura di
sé.
«Gallen Stryker! Era una pistola
quella che stavi puntando contro mia figlia?»
Certo,
era preoccupata per me quando fino a qualche secondo prima stava per essere
sbranata. Che donna. Ma…
Per
poco non mi cadde la mascella dalla sorpresa nel riconoscere quel nome.
«Un
momento!!!»
Cinque
paia di occhi si voltarono verso di me.
«Tu
sei…»
Senza
smettere di sorridere, il ragazzo protese la mano verso l’orecchio destro,
facendo scomparire il resto del casco. Al suo posto, rimase un viso che
conoscevo bene. Parecchio bene.
«Ciao
CayCay. Noto con piacere che sei sempre pronta a cacciarti
nei guai.»
Rimasi
senza parole.
Non
so come, ma alle mie spalle udii mia madre sospirare. «Ti chiedevi se eri
l’unica giovane su questo pianeta. Ebbene, ecco la tua risposta.»
Le
mie gambe furono sul punto di cedere.
Non
solo mi ritrovavo bloccata su un pianeta sperduto, ma mi ritrovavo bloccata con
il mio ex.
E
non solo.
Era
un membro effettivo della base Beta.
Eccoci qui con una
nuova storia. Lo so, è un po' pasticciata e non molto descrittiva, ma ehi! È il
mio primo tentativo in prima (vi risparmio i porconi).
Ringrazio Sagas per la recensione e tutti quelli che hanno aggiunto
la storia nelle seguite, preferite, ricordate ecc. XD I pareri sono sempre
apprezzati, specialmente in questo esperimenti sbilenco.
Un ringraziamento
speciale va a Marina Merisi, che come al solito
sopporta i miei schizzi e mi ha aiutata nella revisione. Inutile dire che ha già
formato la sua ship improponibile ahahah
(E io la mia).
Rimanete
sintonizzati per il seguito, che dovrebbe comparire come per magia la prossima
settimana.
Spero che Viridis vi piaccia e buone feste a tutti ^^