Fanfic su artisti musicali > One Direction
Segui la storia  |       
Autore: BlueWhatsername    29/12/2016    0 recensioni
' Beh, ma tanto ritardatario è sempre stato, dopotutto.
E se non fosse che adora il pesce – in ogni maniera ed in qualsiasi momento – non correrebbe certo così.
Niall Horan lo sa, di essere un pasticcione nato, ritardatario cronico – ma forse un po’ ci marcia su questo, lo sanno tutti – e anche un po’ sbadato.
E se non fosse che la cosa verso cui si dirige è quella che ama sopra ogni altra di certo non si scapicollerebbe così. '
**
Hope you'll like it :)
Genere: Fluff, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



 
Defying Gravity





" Something has changed within me
Something is not the same
I’m through with playing by the rules of
Someone else’s game
Too late for second-guessing
Too late to go back to sleep
It’s time to trust my instincts
Close my eyes and leap... "
 
 
 
 
 
 
 
Finn sorseggiò il vin brulè che il suo migliore amico gli aveva offerto al chioschetto di bevande calde poco prima: Matt non gli aveva permesso di pagare anche quello dopo che gli aveva lasciato prendere gli hot dog per entrambi.
E a loro andava bene così, dopotutto, la loro amicizia aveva resistito a tutto, si sarebbe salvata anche durante una serata in giro per la città.
Finn aveva pensato di essere entusiasta di essere tornato a casa dopo tutto quel tempo, ma la verità era che si sentiva più malinconico e pessismista ad ogni secondo che passava e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era riprendere l’aereo e tornarsene al campus. A New York, dove la sua stanzetta accogliente l’aspettava come ogni sera e dove poteva vedere le partite di football con Matt, sbronzarsi, flirtare con qualche ragazza carina, strimpellare la sua chitarra rossa che non aveva voluto assolutamente lasciare quando aveva iniziato l’università.
Vinta quella borsa di studio a diciotto anni, gli era parso assurdo allontanarsi così tanto da casa, lasciare la sua adorata cameretta tappezzata di disegni di supereroi, le sue canne da pesca (che papà Niall gli aveve regalato durante i vari compleanni); gli era parso ridicolo dover rinunciare al meraviglioso fish ‘n chips di mamma Bessie e ancor più non aveva voluto accettare di doversi distaccare dalle sue abitudini, il risveglio la mattina, la brioche calda presa al forno di fiducia del suo amico Ibrahim, il cielo azzurro della sera che rischiarava la sua profumata Irlanda.
Cosa ci andava a fare lui, un ragazzo di campagna pasticcione ed imbranato, in un campus a New York in mezzo a ragazzi sicuramente più ricchi e svegli di lui? In mezzo a tutta quella gente che non avrebbe avuto niente a che spartire con lui, che magari l’avrebbe anche deriso, allontanto, che di sicuro lo avrebbe riconosciuto dal suo accento rozzo e deciso.
Ricordava ancora quando aveva fatto la valigia (dopo una nottata intera passata a piangere) ed aveva preso quell’aereo, un paio di sciarpe appese al collo e la sua chitarra in spalla. Mamma Bessie non aveva pianto, gli aveva solo infilato in valigia qualche pacco di dolcetti tipici, stampandogli un bacio in fronte che ancora conservava nel cuore e che negli anni futuri gli avrebbe ricordato il suo tipico profumo di pulito, aroma di arancio e sandalo.
Suo padre Niall lo aveva racchiuso in un abbraccio ferreo, gli aveva dato qualche raccomandazione e poi aveva sorriso. Si erano stretti la mano, da veri uomini. Finn si era sentito un adulto in quell’istante, quando aveva sentito l’aereo decollare e distaccarsi da terra.
Stava sfidando la gravità, proprio come quel possente mostro del cielo. Stava cambiando pelle, lottando coi suoi limiti e gettandosi, sempre più in alto.
New York non era stata così terribile come aveva pensato, anzi. Il suo compagno di stanza, Matt, veniva dal Canada e suonava la batteria. In poco tempo erano riusciti a metter su un bel gruppetto e suonavano alle feste studentesche. Matt sarebbe diventato da quel momento il suo miglior amico, confidente, compagno di bevute e accompagnatore alle partite di football. Dopo ben tre anni potevano dirsi fratelli aquisiti, motivo per cui lo aveva invitato a tornare con lui a casa per quel Natale: mamma Bessie sarebbe stata felice di avere un figlio in più per cui cucinare e papà Niall avrebbe adorato raccontare aneddoti di famiglia mentre sorseggiava dell’ottima birra irlandese.
Finn sospirò, mandando giù dell’altro vin brulè ed accettando di buon grado una sigaretta che Matt gli stava offrendo. Se l’accese, aspirando piano.
Era un vizio che aveva preso all’università: aveva imparato ad amare il lieve intorpidimento che gli dava il tabacco così come aveva imparato ad amare l’aria newyorkese, l’accento dei ragazzi, il loro modo di farlo sentire parte di un qualcosa di nuovo. Le prime lezioni che aveva frequentato erano state quelle del professor Collins, storia dell’Europa medievale. Ricordò che gli era parso inizialmente strano sentir parlare quel vecchietto raggrinzito con quel fare clinico e distaccato di qualcosa che gli era tanto vicino e familiare, come se lui non fosse uno studente ma un pezzo di arredamento. Col tempo aveva capito che nessuno si curava di lui o di cosa pensasse, ma che quello era un mondo nuovo in cui ambientarsi e trovare il proprio posto.
Poteva spezzare davvero quella gravità che voleva farlo rimanere attaccato al terreno.
Alla fine del primo anno era entrato tra i migliori cinquanta studenti, ricevendo anche un riconoscimento ufficiale. L’anno successivo aveva iniziato a collaborare col giornale radio universitario, occupandosi di servizi sportivi. Al terzo anno era presidente del circolo del cinema ed aveva organizzato molti eventi a favore dell’intregrazione studentesca tra i diversi campus della città.
Si era creato una posizione, aveva iniziato a lavorare in un supermarket nei giorni festivi, andava ai balli ed alle feste, prevedeva di conseguire una specializzazione dopo la laurea.
Non aveva mai pensato di poter amare New York, eppure non gli dispiaceva poi tanto considerarla come una nuova casa. L’unica cosa che quella caotica e complicata città non era riuscita a imprimergli era stato l’accento: Finn non era mai riuscito a liberarsi della sua inflessione irlandese, di quel tono schietto e genuino di parlare, di quei modo di dire che a volte non riusciva proprio a trattenere.
Aveva l’Irlanda dentro di sé, molto più che nel cognome o nei suoi occhi celesti. E di questo era felice.
«Che ne dici se comprassi a tua madre qualcosa? Sono stato un idiota a non prendere niente quando eravamo ancora a New York…» borbottò Matt, gettando il mozzicone sotto ai piedi e pestandolo con la punta della scarpa.
Finn gli lanciò un’occhiata bieca, ridacchiando sotto i baffi.
«Stai tranquillo, è già tanto se quando arriveremo a casa non avrà cucinato per tutto il campus. È contenta che ci sia anche tu, non stare a preoccuparti, davvero».
Matt rivolse uno sguardo alle strade illuminate, i bambini schiamazzanti sulla pista di pattinaggio al centro della piazza, l’albero acceso di mille luci. Sorrise, respirando quell’aria a lui straniera ma che rivedeva perfettamente negli occhi dell’amico, nel suo modo di parlare e di gesticolare. E comprese come aveva fatto ad affezionarglisi così tanto: era genuino, una persona vera.
«Sembra simpatica».
«Lo è» convenne Finn, ridacchiando. Prese un bel respiro, dirigendosi verso un negozio di articoli casalinghi: la vetrina era piena di barattoli di ceramica racchiusi con nastri dalle fantasie natalizie, c’erano vari cuscini di velluto, stoffe ripiegate a formare motivi ornamentali. Nell’angolo della vetrina c’era una bella lampada bassa poggiata su mobiletto e da cui pendeva un piccolo Babbo Natale che ghignava verso i passanti in strada.
Matt gli si avvicinò, mentre immergeva le mani guantate nelle tasche della giacca pesante.
«Trovato qualcosa che ti interessa?» chiese, divertito, sbuffando per togliersi dalla faccia una ciocca di capelli scuri che insisteva a voler sbucare dal berretto di lana ad ogni costo «Sai, credo che quella starebbe da Dio nella nostra stanzetta a New York» e rise, seguito dall’altro.
Finn trattenne uno starnuto ed entrò, facendo tintinnare lo scacciapensieri della porta a vetri. Venne investito da un acceso sentore di spezie misto a qualcosa che non seppe ben identificare, fiori forse ma non ne era propriamente sicuro. Si guardò intorno, indagando gli scaffali pieni di stoffe ben ordinate secondo la scala di colore, i vari articoli casalinghi fasciati da nastrini natalizi, le luci sulle mensole.
«C’è nessuno?» chiese Matt mentre faceva dondolare stupidamente una bambola di pezza che se ne stava appesa vicino alla porta.
«Vedi di non rompere niente o ti lascio qua a saldare il conto e ti perderai la meravigliosa cena di mia madre» lo avvertì Finn, puntandogli un indice contro. Sospirò, poi, vedendo l’altro alzare le mani con fare innocente e mimare un cuore contro il petto.
«Buonasera a voi, scus-»
Una voce femminile li interruppe entrando da una porticina laterale vicino agli scaffali. Impettita, si diresse dietro al bancone, dava quasi l’impressione di non essersi nemmeno accorta di loro due, nonostante li avesse salutati.
Finn indagò il cardigan rosso sopra ad un colletto di camicia bianco, jeans azzurri aderenti alla sua figura bassa ma scattante. I capelli scuri erano sciolti sulle spalle, splendevano come velluto modellando la luce a seconda dei movimenti di lei. Si schiarì la voce, cercando di attirare lo sguardo della ragazza, presa a sistemare della buste natalizie sul bancone.
«Ehm, buonasera. Cercavamo qualc-»
«Sì?» lo interruppe lei alzando finalmente gli occhi e puntandoli in quelli di lui.
A Finn parve di vedere un fantasma. Sentì il proprio corpo irrigidirsi, ed il cuore mancare qualche battito di troppo. Lei lo fissò per qualche secondo di rimando, prima che la bocca le tremasse leggermente. Si erano capiti.
Matt, che era rimasto fino a quel momento ad osservare la scena in silenzio, si fece avanti accanto all’amico, dandogli una leggere gomitata. Quando i suoi occhi si posarono sulla ragazza dietro al bancone sorrise, cercando di simulare indifferenza di fronte a quella scena imbarazzante.
«Salve. Eravamo entrati per dare un’occhiata, quella lampada è davvero bella» disse, indicando l’oggetto che troneggiava in vetrina.
Lei parve guardarlo per pochi secondi, poi i suoi occhi scuri proseguirono a fissare Finn, ancora immobile.
Ancora silenzioso, stranamente rigido.
Gli occhi di quella ragazza erano scuri, quasi neri, e di forma allungata. Risplendevano sul suo viso dalla pelle olivastra, con tratti che si sarebbeero detti esotici.
Matt le rivolse un’occhiata conciliante, sentendo l’imbarazzo crescere col passare dei secondi.
«Oh, sì. Se vi interessa posso mostrarvela, ci met-» e lei fece per aggirare il bancone, ma Matt la bloccò con una mano. Si schiarì la voce, prendendo l’amico per un gomito e trascinandolo verso la porta.
La ragazza si bloccò, socchiudendo le labbra sottili dipinte di un tenue rosso. Poi abbozzò un sorriso, senza comunque staccare lo sguardo dal quello Di Finn, che ora aveva voltato gli occhi al pavimento come in preda ad un disagio evidente.
«Non si preoccupi. Ripasseremo domani, magari. Buon Natale» cantilenò Matt, facendo tintinnare lo scaccia pensieri alla porta e richiudendosela delicamente alle spalle.
«Buon Natale» furono le ultime parole che sentì anche Finn, e quella voce non l’aveva dimenticata in tutti quegli anni.
Così come non aveva dimenticato quegli occhi. E quelle labbra.
 
 
 
 
Quando Raniya chiuse il negozio, quella sera, notò che le strade erano ancora affollate nonostante fosse la vigilia di Natale. Nella sua religione, Gesù era considerato un profeta inviato da Dio sulla terra a portare il suo messaggio ed era venerato come tale. Non ricordava, però, di aver mai festeggiato come gli altri ragazzi a scuola o di aver mai addobbato casa con un albero scintillante.
Si strinse la sciarpa al collo, proseguendo a testa bassa lungo la vie luminose e profumate del sapore delle vivande che quella sera avrebbero riempite le tavole di tutti. Strinse le labbra, pensando alla cena che avrebbe preparato Amal, la moglie di Ibrahim: se si immaginava i suoi felafel le veniva l’acquolina in bocca all’istante. Tanto valeva affrettare il passo.
Amal ed Ibrahim si erano sposati da tre anni, ed avevano preso una casetta in affitto vicino alla panetteria che suo fratello ancora gestiva. Raniya aveva smesso di lavorare lì dopo che aveva rotto con suo padre, quando si era rifiutata di sposare quel tizio che lui avrebbe voluto.
Fu costretta a reprimere un gemito a quei ricordi, al modo in cui lo sguardo di suo padre l’aveva trafitta e poi umiliata, facendola quasi sentire una pessima figlia. Raniya non lo odiava, non l’aveva mai fatto: sapeva che quelle erano le regole, e aveva sempre creduto che un giorno sarebbe riuscita ad accettarle, ci aveva sempre sperato.
Ma poi era arrivato Finn ad incasinare le cose.
Finn.
Non poteva credere di averlo rivisto, solo poche ore prima. Di non essere stata in grado di parlargli, dirgli quanto le fosse mancato, quanto l’avesse distrutta il non aver avuto suo notizie per così tanto tempo. Nella sua mente gli eventi si accavallarono, era talmente sovrappensiero che per poco non calpestò un cagnolino tenuto a guinzaglio da una vecchia ingioiellata. Si scusò, proseguendo a passo spedito.
Quando aveva detto a Finn che non potevano stare insieme, le cose avevano iniziato a precipitare. Suo padre era diventato ancora più insistente con quel matrimonio e nello stesso momento suo fratello Ibrahim aveva deciso di fidanzarsi con Amal. Lei si era ritrovata sempre più sola: non vedeva più Finn in panetteria, né in giro quando riusciva ad andare a fare qualche acquisto, di suonare al campanello di casa sua non se n’era mai parlato e la vergogna per averlo rifiutato era stata troppa da permetterle di cercarlo ancora. La sua vita era diventato un vortice di doveri e rassegnazione, si era sentita soffocare a tal punto che parlarne con suo fratello gli era sembrata la cosa più azzardata ma anche la più disperata da fare. E mai avrebbe dimenticato l’abbraccio consolatorio di Ibrahim e le sue lacrime quando lei gli aveva aperto il proprio cuore.
Quando lui e Amal si erano sposati era andata a stare da loro, si era cercata un lavoretto per poter contribuire all’affitto, dava una mano in casa. In questo modo aveva costretto anche suo fratello a rompere col padre, ma almeno poteva dirsi soddisfatta. Aveva una sua vita e poteva gestirla.
Il suo carattere mite e delicato si era mutato come una farfalla appena uscita dal bozzolo, diventando solido e gentile.
E poi Finn era scomparso. Aveva saputo che era andato a studiare in America, e la disperazione iniziale si era tramutata presto in rassegnazione e giudizio: col tempo aveva imparato a dimenticarlo, convincersi che stavano vivendo ognuno la propria vita serenamente, che avrebbero costruito qualcosa, benchè separati.
Poche ore prima l’aveva rivisto dopo anni di silenzio, di lacrime trattenute, di parole mai dette.
Aveva letto nei suoi occhi celesti tutto quello che avrebbe voluto sentirsi dire, ma che allo stesso tempo non aveva il coraggio di chiedere.
Ma qualcosa era cambiato in lei, non si sentiva più la stessa da un po’. Era stata per una vita appesa ad un filo invisibile di una prigione incorporea, sentiva la necessità di liberare i propri istinti e buttarsi.
Infrangere la barriera della gravità perché nessuno avrebbe potuto fermarla.
Infilò la chiave nella toppa di casa, sorridendo al calore che proveniva dalla cucina.
Pose la giocca e la borsa su una sedia, correndo ad abbracciare la cognata. Amal stava sistemando le salse per mangiare i felafel in delle terrine di vetro colorato, le sorrise non appena la vide.
La gravidanza le faceva bene, era ogni giorno più bella; Raniya non vedeva l’ora di stringere tra le braccia la sua nipotina: Aisha l’avrebbero chiamata, colei che vive, vita. Ed era ironico perché il nome di Amal significava speranza ed era risaputo che solo la speranza potesse generare qualcosa di vitale, autentico.
«Habibti!» Tesoro mio. Amal le diede un bacio su ogni guancia, sorridendole «Avrai fame, immagino! Tuo fratello arriva tra poco. Com’è andata la giornata?»
Raniya sorrise, massaggiando delicatamente il ventre gonfio della cognata. Ingoiò il groppo che le si era inastrato in gola, archiviando in un angolo della mente quegli occhi celesti che la tormentavano da qualche ora a quella parte: non solo era stata distratta per tutto il tempo in negozio ma ora anche a casa doveva perdersi in pensieri difficili da maneggiare.
«Tutto bene, ma’shallah» Con la grazia di Dio.
Afferrò le cose da portare in tavola e si diresse in salotto, sentendo lo sguardo indagatore di Amal sulla schiena. Quando si volse la trovò alla porta, assorta, una mano sul ventre e l’altra a grattare pigramente una guancia.
Raniya sorrise, tirata. «A te com’è andata la giornata, habibti?» chiese poi, sedendosi sul divano.
Amal continuò a squadrarla senza dire nulla, spostò una sedia dal tavolo e si lasciò andare contro lo schienale: pure se mancavano ancora parecchi mesi al parto, il suo giovane fisico era affaticato e non poche volte Raniya aveva onvenuto fosse meglio sospendere il suo lavoro al negozio per aiutarla in casa – senza ovviamente trovare approvazione da nessuno.
Avvertì il peso degli occhi scuri della cognata addosso e la sue pelle olivastra arrossì di riflesso.
«Che c’è?» chiese infine, sentendosi a disagio.
Amal inarcò un sopracciglio, passandosi la lingua sulle labbra rosate. Non portava l’hijab anche se aveva preso in considerazione molte volte l’idea di indossarlo e Raniya soffriva a pensare a tutti i suoi ricci scuri intrappolati sotto la stoffa. Se Dio aveva creato una cosa tanto bella, perché nasconderla?
E l’altra pareva la pensasse allo stesso modo, visto come giocherellava con le lucide ciocche di ebano.
«Sai, anche se sono sposata non sono vecchia. Lo capisco quando nascondi qualcosa. E sono una ragazza, sai che abbiamo un sesto senso per certe cose, vero? Spara, habibti!»
Raniya socchiuse la bocca, incredula. Fu per mero istinto se si portò una mano al viso, scacciando una lacrima involontaria che le era scivolata lungo la guancia. Sospirò, alzandosi dal divano e passandosi le mani sudate lungo le cosce.
Volse il suo sguardo alla cognata, trattenendo un labbro tra i denti.
Emise un gemito sottile e nello stesso istante la porta sbatté, decisa.
«Sono a casa!» Ibrahim comparve sulla porta del salotto, il cappello storto in testa ed il naso rosso per il freddo. Corse dalla moglie, dandole un bacio in fronte. Quando vide la sorella, fece per andare da lei, poi si arrestò, studiandole il viso teso.
Raniya strinse la mascella, distendendo le labbra tirate in un sorriso aperto.
«Bentornato habibi» Tesoro mio. «Fame?» domandò, prendendo per mano Ibrahim e facendolo accomodare a capotavola.
Gli sedette accanto, mentre lo sguardo acuto di Amal non la lasciava nemmeno per un secondo: le due donne si guardarono per una frazione minima di tempo, stipulando un tacito accordo di silenzio e reciproca comprensione.
Quando l’altra le sorrise, Raniya poté finalmente respirare bene, servendosi dell’insalata mista con una salsa piccante. Non appena il sapore del peperoncino le si sciolse sulla lingua, sentì la fame investirla prepotentemente, costringendola a riempirsi il piatto con abbondante pane e lenticchie.
Ibrahim la osservò mangiare voracemente e scoppiò in una risata divertita, dandole dei colpetti sulla schiena.
«Ehy, calma! Non hai pranzato, oggi?» le chiese il fratello, passandole del couscous ancora caldo.
Amal li osservava, gli occhi scintillanti di soddisfazione e d’amore.
Quando il suo sguardo raggiunse Raniya, si aprì in un sorriso caldo, protettivo. Sarebbe stata un’ottima madre, considerata la splendida amica che si dimostrava sempre.
«Oggi la signora Horan è passata in negozio».
Le parole di Ibrahim si infransero nell’aria come uno scoppio di tuono.
A Raniya tremò la mano con la quale stava tenendo il bicchiere ma riuscì comunque a portarselo alle labbra per bere, dopodiché si prese qualcosa dal vassoio di halawiyāt, i dolcetti tipici con mandorle, miele, noci e spezie.
«Ah sì? E come sta?» domandò Amal, sorseggiando da una tazza colma di tè fumante.
«Bene! Si è fermata un po’ a chiacchierare, ha detto che oggi arrivava Finn da New York per passare le vacanze di Natale qua» Ibrahim ingoiò il boccone di couscous «Non lo vedo da anni! Mi ricordo ancora quando passava da noi prima della scuola per prendersi le brioche!»
E ad ogni parola Raniya avvertiva lo stomaco annodarsi sempre più, gocce di sudore freddo le stavano imperlando le tempie. Gli occhi le bruciavano.
«Forse vi incontrerete». Amal accarezzò con premura il braccio del marito, ed egli le strinse la mano di rimando.
Raniya ebbe un tuffo al cuore, mentre un pizzico di invidia gli pungeva lo stomaco: era in quei momenti che capiva quanto lei avrebbe avuto difficoltà a condividere la propria vita con qualcuno. Amal ed Ibrahim si amavano, erano così perfetti l’uno per l’altra da non aver bisogno delle parole per intendersi.
Tacque, aspettando che la conversazione tra i due continuasse: voleva sapere altro – tutto – ma allo stesso tempo avrebbe voluto nascondersi per non dover riaprire quel cassetto doloroso della sua vita.
«Lo spero proprio!» esclamò Ibrahim sgranocchiando un dolcetto di noci e mandorle «Era un bravo ragazzo ed a sentire sua madre è andato alla grande negli studi! Chissà…» e sospirò, accarezzando debolmente il ventre gonfio della moglie, ventre in cui era celato la promessa di un futuro ricco e felice.
«E tu, Raniya? Ti ricordi di Finn?» la domanda del fratello le bruciò sulle guance, visto il modo violento in cui presero fuoco.
La ragazza chiuse gli occhi, scuotendo la testa; sorrise ad Ibrahim, annuendo mestamente.
Lo sguardo di Amal si era fatto di nuovo acuto ed indagatore e Raniya non stentava ad immaginare che la cognata avesse già capito tutto: se avesse notato il tremolio lieve dei suoi polsi o le sue labbra esangui avrebbe sicuramente inteso cosa stava per rivelarle prima dell’arrivo di Ibrahim.
«Certo, lo ricordo eccome. Suo padre ordinava sempre una dozzina di crostate al mese» rispose prontamente, stupendosi della freddezza che ci aveva messo.
Nella sua mente già si era immaginata di dare una testata al muro per non vomitare all’istante.
«Se capita l’occasione potremmo invitarlo qui, che dici?» propose ancora Ibrahim cercando con gli occhi anche l’approvazione della moglie.
Amal sorrise, annuendo con vigore, poi le rivolse uno sguardo ambiguo a cui Raniya rispose con un paio di labbra serrate e due occhi fissi.
«Io cred-… Penso possa andare» balbettò, incerta.
Poi si alzò da tavola, strusciando la sedia con un po’ troppo vigore del solito. Prima che uscisse dalla stanza le iridi scure del fratello la stavano studiando da capo a piedi, un’ombra incerta sul giovane viso e sulle labbra secche una domanda che non avrebbe trovato risposta.
 
 
 
 
Finn si chiuse la porta di casa alle spalle, lasciando i genitori col nuovo ospite davanti il camino a chiacchierare e bere.
La cena era andata bene, il fish ‘n chips di mamma Bessie era piaciuto e gli aneddoti di papà Niall avevano riscosso un gran successo a tavola. Matt si era ambientato bene, aveva perfino provato ad imitare l’inconfondibile accento irlandese dei suoi ospiti ed il risultato era stato esilarante.
Aspirò la prima boccata di sigaretta, mentre timidi fiocchi di neve cominciavano a cadere sulla strada illuminata dai lampioni e dalla luci della case vicine. Li vide ondeggiare nell’aria come frammenti di carta leggeri e sottili, impalpabili. Allungò una mano per prenderne qualcuno e subito gli venne in mente quando da bambino usciva all’aperto a fare pupazzi di neve molto poco tradizionali: al posto delle braccia avevano vecchie canne da pesca e in testa portavano sempre un cappello pieno di toppe di quelli vecchi di suo padre. E poi gli immancabili stivali di gomma, posti di traverso sulla neve, come se il pupazzo fosse seduto.
Finn sorrise, aspirando l’aria del Natale d’Irlanda.
La sua casa era rimasta come l’aveva lasciata, compresa la sua cameretta. I suoi litigavano come ai vecchi tempi – se non di più – e suo padre era ancora il pasticcione che era stato una volta.
Niente era cambiato, nella sua piccola città, nemmeno gli occhi che prepotentemente lo stavano fissando dal fondo della sua mente e che chiedevano di essere ascoltati. Potevano degli occhi avere la parola?
Quelli di Raniya senza alcun dubbio.
Quando si era accorto di averla davanti, in quel negozio, avrebbe voluto andare da lei, abbracciarla, stringerla a sé, fare come se avesse avuto ancora diciassette anni e il cuore un po’ meno pesante di quel momento.
Baciarla ancora, dirle che sarebbe andato tutto a posto, che avrebbero potuto frantumare insieme quella gravità che voleva a tutti i costi inchiodarli a terra e che se quello tra di loro somigliava vagamente all’amore tanto valeva quel duro lavoro.
In realtà non l’avrebbero mai saputo cos’era quella cosa tra di loro, se sarebbe mai potuto sbocciare in amore o rimanere soltanto un’appassita attrazione.
Finn scosse il capo, osservando alcuni ragazzini che avevano iniziato a giocare a palle di neve dall’altra parte della strada: andare da loro ed ingaggiare una battaglia lo entusiasmava troppo, gli faceva venir voglia di tornare ad essere quel bambino impacciato dai capelli rossi che cadeva un giorno sì e l’altro pure dalla bici o passava i pomeriggi ad imparare gli accordi alla chitarra, che andava a pesca con suo padre e poi trascorreva la sera sul divano a guardare i cartoni, che credeva nell’esistenza degli elfi.
“Gli elfi sono creature magiche che lavorano tutto l’anno, specie a Natale quando aiutano ad impacchettare i regali per i bambini del mondo!”
Una parte di sé voleva tornare ad essere quel bambino che decorava l’albero in salotto e mangiava i biscotti con la glassa fino a sentirsi male. Voleva tornare ad essere quell’adolescente timido che quando entrava in panetteria non sapeva guardare Raniya dritta negli occhi per paura di arrossire.
Gettò il mozzicone della sigaretta, seppellendolo sotto la neve rada, e sperò intensamente che sua madre non se ne accorgesse.
«Tranquillo, non glielo dirò» una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare: suo padre era comparso con uno scialle che gli mise velocemente sulle spalle. Si chiuse la porta dietro di sé e gli si pose vicino, le mani nelle tasche del giacchetto verde.
Finn rabbrividì sotto al tessuto, mentre ringraziava il padre con poche parole sussurrate di fretta.
Niall non era cambiato molto in quegli anni: i suoi occhi celesti tradivano ancora la sua anima vivace ed il suo animo indomito non era stato addomesticato affatto. Conservava ancora tutte le caratteristiche che aveva Finn ricordavo e di questo non poteva che essere soddisfatto.
«Grazie, già temevo di dover ripartire senza qualche arto»
Niall lo guardò di bieco, accennando un ghigno.
«Già desideroso di partire?»
Sì.
«No, penso solo a quello che potrebbe farmi mamma Banshee Bessie se becca il mozzicone della mia sigaretta ai piedi delle sue scale»
Scoppiarono a ridere di gusto, mentre attorno a loro la neve scendeva ancora più copiosa. Fitti fiocchi avevano coperto del tutto il viale, e in lontananza ormai il paesaggio era completamente bianco.
«Sai, mi mancava averti qua per Natale» disse Niall dopo qualche istante, voltandosi a guardarlo negli occhi. Gli pose una mano sulla spalla, poi sorrise, rivelando dei denti perfettamente allineati.
Anche lui, come il figlio, aveva dovuto portare un apparecchio da ragazzo e Finn ricordò di aver tolto il proprio poco prima di partire per l’università.
Un sospiro amaro lasciò le sue labbra screpolate.
«Anche a me mancava, papà» si lasciò poi sfuggire in un sospiro stanco «Credevo mi sarei trovato fuori posto qua, abituato come sono a New York. La vita ha tutto un altro ritmo, anche le cose che fac-»
«Sembrava ieri che mi piantavi i piedi nella schiena mentre dormivi ed eccoti qua a parlarmi di quanto sia movimentata la tua vita cittadina!» ridacchiò Niall, con una punta di orgoglio.
«Non credere sia facile».
«Non lo penso, Finn». Padre e figlio si scrutarono negli occhi, la stessa tonalità di celeste limpido, nessuna screziatura a deturpare quel colore puro «Ma credo che tu sappia quanto tua madre senta la tua mancanza. In questi anni ho sempre pensato che ci fosse qualcosa che ti tenesse forzatamente lontano da qua, come se avessi deciso di non voler tornare per un qualche motivo» Niall prese un bel respiro, rilassando l’espressione tesa e, vedendo il figlio fare lo stesso, gli diede un buffetto su una guancia «Quando sei partito avevo capito quanto ti dispiacesse lasciare tutto e-»
«Ed era così».
«… Ma allo stesso tempo vedevo che in te c’era il desiderio di andartene. Ai miei occhi eri come un cucciolo curioso di volare che si chiede come sia rompere la gravità che lo tiene a terra» Niall inclinò il viso di lato, pensieroso «Dimmi se sbaglio, figliolo».
Finn si morse un labbro, trovando perfetto quell’istante per gettarsi tra le braccia di suo padre. Poteva anche essere cresciuto, ma aveva pur sempre ventuno anni e sentiva il cuore rimpicciolirsi sempre più.
«Scusami, papà» mormorò più a se stesso che non a lui.
Niall scoppiò a ridere, baciandolo sulla testa. Gli scompigliò i capelli castani che col tempo erano diventati più fulvi, mentre con la mano indicava davanti a sé.
L’Irlanda sotto la neve, nell’aria le canzoni di Natale.
«Sai, Finn, per quanto uno possa andare lontano e per quanto voglia fare in modo di non tornare indietro, alla fine c’è sempre qualcosa che pareggia i conti. Chiamalo destino, karma, sfortuna o quello che vuoi, ma… Decisamente, è così. Può non andarci a genio, magari, ma non possiamo farci niente».
«Un po’ come tentare di fuggire dalla mamma che cerca le tracce di sporco sui vestiti…» osservò Finn, ridacchiando.
«Hai capito al volo, vedo! Impresa quanto mai impossibile» convenne l’altro con uno scintillio divertito negli occhi furbi. Niall sospirò, grattandosi il naso e rabbrividendo nel cappotto verde che indossava.
«Tra poco mamma servirà la sua torta, mi raccomando» lo ammonì, avvicinandosi alla porta e infilandosi dentro casa in modo fulmineo.
Quando la sentì chiudersi, Finn si strinse nello scialle ed emise uno sbuffo che si condensò in uno sbuffo grigiastro.
Fece per prendersi un’altra sigaretta quando notò una macchiolina nera in lontananza farsi sempre più vicina. Aguzzò lo sguardo, ma non distinse molto finchè quella strana cosa non arrivò a una ventina di metri di distanza. Il fiato gli si mozzò in gola, mentre gli occhi gli si gonfiavano di lacrime.
Pensò di stare sognando, che magari Raniya fosse venuta da lui solo per prenderlo a botte o per dirgli quanto lo trovava brutto dopo tre anni di lontananza.
Che pensiero stupido.
Le corse incontro, noncurante della neve che stava cadendo e del fatto che avrebbe potuto rompersi l’osso del collo. Chi se ne importava se non vedeva dove metteva i piedi e le poche luci della sera erano ormai quelle delle stelle e quelle delle casa. Chi se ne importava se magari lei era venuta lì solo per dirgli quanto lo riteneva uno stronzo maleducato per non averla salutata al negozio.
«Sei sola?» le chiese quando la raggiunse. Finn si fermò a qualche passo da lei, il fiatone che gli impediva di respirare bene e i pantaloni inzuppati per metà: avrebbe avuto i piedi congelati in meno di dieci minuti ma si impose di non pensarci.
Ce l’aveva lì, proprio davanti. Dopo anni erano di nuovo l’uno di fronte all’altra, e magari quella era una semplice allucinazione natalizia dovuta al vino che aveva bevuto a cena – ne dubitava – ma non gli importava di fare la figura dell’idiota se era per lei.
Erano passati tre anni ma in verità non era passato nemmeno un secondo.
Raniya era lì e lo fissava, gli occhi neri lucidi per il freddo e le mani tremanti. Finn si perse a studiarla per qualche secondo e notò che non aveva niente di pesante addosso, solo il cardigan rosso col quale l’aveva vista al negozio qualche ora prima.
«Sei pazza? Vuoi prenderti una polmonite?» si infiammò immediatamente, togliendosi lo scialle e infilandoglielo sulle spalle.
La ragazza lo lasciò fare, scostandosi una ciocca di capelli neri dagli occhi. Alla luce della luna erano di una strana tonalità scura che pareva blu, era così lisci e lucidi che volerci passare le dita in mezzo era automatico. Finn deglutì, senza sapere bene che dire.
«Perché sei qui?» gli domandò lei di punto in bianco, spiazzandolo.
I suoi occhi esotici scintillarono come gemme, le sue labbra rosse erano serrate.
«Sarebbe casa mia…» mormorò, alludendo alla casa alle sue spalle.
Raniya fece saettare il suo sguardo in un misto di incredulità e indecisione, ma si mantenne seria a fissarlo.
Il ragazzo alzò una mano, indeciso su che fare. Poi emise un gemito, frustrato.
Deficiente.
«È Natale, no?» rispose, alzando le spalle con ovvietà. Distese le braccia lungo il corpo, con quel freddo sarebbe stato tanto non prendersi una bella influenza «E tu perché sei qui?»
Ma che conversazione strampalata era quella?
Raniya non se l’era immaginata in quel modo quando era uscita di casa dopo cena. Aveva preso le chiavi del negozio del fratello ed era scesa in strada, noncurante di Ibrahim che la chiamava alla finestra, sicura che lui non l’avrebbe mai seguita. Si fidavano l’uno dell’altra.
Aveva pensato che sarebbe stato facile andare da lui, parlargli, dirgli tutto quello che le era passato per la testa vedendolo nel negozio. Sarebbe stato un gioco da ragazzi dargli cosa gli aveva preparato in meno di un paio d’oro nel silenzio notturno del negozio, con la speranza che gli piacessero ancora.
Lentamente immerse una mano nella borsa che portava a tracolla ed estrasse una busta bianca che porse a Finn in silenzio. Lui la prese sentendo al tatto come scottava.
Chiuse gli occhi, avvicinandola al viso ed inspirando il dolce aroma delle spezie e del miele.
«Mio fratello prepara sempre l’impasto delle brioche per il giorno dopo e così ho pensato che non potessi presentarmi a mani vuote» spiegò lei, sorridendo appena, le mani che le tremavano ed era difficile capire se per il freddo o l’emozione «È Natale, no?» e pareva quasi volesse scimmiottarlo, invece Raniya tirò su col naso, evitando lo sguardo celeste dell’altro «Ci voleva un regalo e sp-»
La neve stava cadendo così fitta che era quasi impossibile vederci a distanza di un paio di metri.
Eppure Finn distingueva bene i contorni del viso di Raniya, percepiva i tratti delle sue labbra anche se non li stava toccando e assorbiva i toni della sua voce anche se non l’aveva ascoltata per anni.
Erano amici, o estranei, o anime solitarie. O erano semplicementi pazzi e stavano bene col loro modo di essere.
«Li hai preparati tu? Per me? Prima di venire qua?» la interruppe il ragazzo facendo un passo verso di lei: sembrava contrariato e Raniya non capiva se doveva andarsene o rimanere e portare avanti quella conversazione senza il minimo filo logico.
Sarebbe dovuta restare a casa, farsi scivolare addosso quella sensazione di malessere e dormirci su. L’indomani mattina – forse – sarebbe stata pronta a dirgli di nuovo addio.
«Non ti sei sposata? Tuo marito ti ha lasciata uscire da sola a quest’ora?» le chiese ancora senza lasciarle il tempo di rispondere.
Quella domanda parve bruciargli in fondo alla gola, fin dentro agli occhi visto come il celeste delle sue iridi divenne incandescente. Era – ancora – arrabbiato. Deluso.
Forse quello che voleva sapere lo leggeva dai suoi occhi, pensò Raniya, mentre gli si faceva più vicina: se fosse riuscita a carpire la tonalità del suo sguardo forse avrebbe trovato lo scopo di quella sua visita.
«Non sono sposata» ribatté, risoluta, afferrandogli finalmente una mano e stringendola con tutte le forze «Non mi sono mai sposata».
Finn sbatté le palpebre, confuso, deglutendo a vuoto. Sentiva di stare per piangere e avrebbe tanto voluto farlo, mentre le lasciava la mano e suoteva il capo.
«Perché non… Tu, non…» tentò di dire, frastornato.
Raniya ignorò l’imbarazzo, sollevando una mano a sfiorargli il viso.
Ed in quel momento seppe di credere davvero in Dio, in quel qualcuno che dà forza, che è in noi sotto forma di coraggio per ciò che compiamo. Sorrise, nascondendo le lacrime dietro ad un misto di parole confuse.
«Mi spiace che sia finita così» sillabò Finn, indietreggiando. La busta di brioche calde gli cadde di mano, il tonfo sordo si perse tra il soffice ondeggiare dei fiocchi di neve nell’aria.
Raniya si asciugò le lacrime, avanzando di nuovo. Non poteva lasciarlo, non ora che ce l’aveva così vicino e poteva dirgli tutto quello che non aveva potuto dirgli in quegli anni.
Non aveva mai pensato che Dio esistesse, specie il Dio che suo padre le diceva di temere, ma in quell’istante si convince ancora di più che qualcuno la stesse guidando in quello che faceva.
«Ho sempre pensato di stare giocando con le regole di altri nella mia vita. Poi sei arrivato tu e qualcosa è cambiato in me, mi hai insegnato che sfidare i limiti non è un male. È bello, è come sfidare la gravità, e non è detto che non possiamo volare… » Raniya prese un bel respiro, approfittando del fatto che Finn non rispondeva «… Ci sono cose che non si possono cambiare, forse, ma finché non proviamo come possiamo saperlo? Ho imparato che nessuno può buttarmi giù se io non voglio. Ho imparato che essere affranti perché si pensa d’aver perso l’amore non è uno spreco, a volte si perde davvero ma anche questo serve, no? Io ti ho perso, Finn… » la voce le si ruppe, ma qualcosa la spinse a continuare « … Ho perso te, ma non  ho perso me stessa. Quindi se questa cosa che ora mi sta quasi uccidendo è amore o chissà che altro che si faccia avanti, penso di poterla affrontare! Se non te la senti di buttarti, dillo ora, perché io credo di poterlo fare, Finn». E si zittì, reprimendo un singhiozzo.
La neve cadeva fitta, talmente bianca e soffice da sembrare la tempera pura di un pittore su una tela inviolata. L’indomani mattina ci sarebbe stato un be da fare per toglierla dalle strade, ma per ora era come se volesse inglobarli nella sua aura protettiva.
Finn continuava a non rispondere, sembrava come instupidito. Solo ad un certo punto scosse il capo, guardandola di sbieco, un sopracciglio alzato.
«Fai sul serio, mh?» le strinse il viso tra le mani ghiacciate, facendola sussultare. La guardò in silenzio, scuotendo il capo. Ridacchiò, e Raniya pensò che stesse per spingerla via «Ti amo anche io, se non l’avessi capito» e la baciò di slanciò.
Le sue labbra trovarono subito quelle della ragazza, i loro respiri si fusero, le loro menti si allacciarono.
Le ginocchia di lei cedettero sotto il freddo pungente, ma parve non rendersene conto presa com’era ad aggrapparsi a Finn. Ora che ce l’aveva di nuovo tra le mani non poteva lasciarlo andare di nuovo.
Ora che avevano spiccato insieme il volo, non valeva la pena tornare coi piedi a terra.
Finn sentì le lacrime trattenute sciogliersi tra le ciglia chiuse, le sentì sulle labbra mentre baciava la ragazza che amava, le avvertì scendere tra le dita mentre le lisciava le guance e il collo ghiacciato.
Quando l’avvertì tremare forte comprese quanto fosse freddo. Controvoglia, la lasciò libera di respirare, ed il contrasto tra il ghiacco della neve e il calore che sentiva in corpo gli avrebbe causato un qualche malore a breve se Raniya non gli avesse sorriso, incoraggiante.
Aveva un così bel sorriso, come aveva potuto dimenticarselo a New York.
«Scusami». Le sillabò all’orecchio senza più fiato, con la neve sulle ciglia e le mani intorpidite.
Lo disse in un tono così flebile che non si aspettava una risposta, eppure quando Raniya lo prese per mano capì che forse tornare per Natale non era stata un’idea così malvagia.
Forse sua madre se l’era presa che aveva tardato per la torta, ma almeno avrebbe avuto delle brioche calde ogni mattina.
O almeno, un passo alla volta forse sarebbero riusciti a recuperare quello che avevano perso.
A spezzare la gravità e volare.
Insieme.
 
 
 
 
 
 
"... I’m through accepting limits
Cause someone says they’re so
Some things I cannot change
But till I try I’ll never know
Too long I’ve been afraid of
Losing love I guess I’ve lost
Well, if that’s love
It comes at much too high a cost... "
 
 
 
 
 
 
 
Spazio autrice.
Salve gente *fa ciao con la manina* come va? Come sono andate queste feste?
Per l’appunto, BUON NATALE! <3
E come ogni anno eccomi qua con una OS NATALIZIA, non siete felici?
*basta, sono il disagio*
A parte tutto, non vedevo l’ora di riscrivere di questo bimbo che io amo profondamente, Finn dolcino :3 avete visto? È cresciuto ç_ç piango, il mio bambino.
La canzone da cui ho preso spunto è Defying Gravity /se non la conoscete andate a sentirvela, se la conoscete ben per voi/ ed il questa versione bellissima ->  https://youtu.be/ol2xdxQg2Fw
Se non la doveste riuscire ad aprire, cercatevi la cover che Chris Colfer/Kurt Hummel fa in Glee. Mi troverete lì, a piangere tutte le mie lacrime.
 
E quindi, vorrei ringraziare una persona in particolare per questa OS, perché grazie al suo arrivo nel fandom ho rispolverato il mio amore per Glee ed il nome di Finn mi sé subito balenato il mente. <3
Lei capirà. <3
 
Spero vi sia piaciuta, io ho fatto del mio meglio.
A presto, S.
xxx
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: BlueWhatsername