La prima cosa a colpirlo fu il totale silenzio.
Una cacofonia di urla di terrore e di paura, di incantesimi e di ordini
gridati da una parte all’altra, improvvisamente si era
zittita.
Dopo aprì gli occhi, e arrivò la consapevolezza
della luce. Era quella
luminosità calda e soffusa che precede il crepuscolo nelle
sere d’estate.
E poi il calore. Il tepore della luce mischiato a qualcosa di
più indefinito,
la sensazione che in un modo o nell’altro fosse tutto finito,
e che non avrebbe
più sofferto.
Non ebbe alcun bisogno di chiedersi dove fosse,
nonostante il luogo che
lo circondava fosse il più differente possibile da ogni sua
ipotesi, quando si
era soffermato a immaginarlo; e nell’ultimo anno ci si era
soffermato
parecchio.
Quello che lo inquietava lievemente, piuttosto, era il non sapere cosa
fare, a
quel punto. Il posto era deserto, e a parte
quell’onnipresente luce, non vedeva
nulla. Avrebbe voluto sedersi per terra e aspettare, cosa non lo sapeva
bene
neanche lui: forse aspettare che qualcuno lo venisse a prendere,
aspettare per
sperare che altrove tutto andasse per il meglio; forse invece voleva
solo
aspettare per prendere davvero coscienza di ciò che era
successo, e perchè la
realtà di ciò che aveva perso gli cadesse addosso
come un macigno.
La luce nel frattempo si stava facendo meno accecante e gli permetteva
di
intravedere qualcosa, come se avesse capito che finalmente era pronto.
Alla sua
sinistra vide finalmente una panchina, e davanti a se qualcosa di
terribilmente
simile a dei binarie. La vastità di quel luogo sospeso tra
la vita e il nulla
riecheggiò del suo riso amaro: avevano ben ragione a
chiamarlo “ultimo viaggio”.
Si sistemò comodamente sulla panchina, composto, educato,
così tipico di lui.
Non aveva più dubbi ormai; sapeva che quando fosse stato il
momento, il suo
treno sarebbe arrivato. E si accinse ad aspettare.
Per quel che ne poteva sapere, poteva aver
aspettato un minuto quanto un
secolo. Si era incantato a fissare la panchina del binario davanti al
suo
quando percepì uno sferragliare di rotaie. Si
alzò in piedi, certo che fosse il
suo, e rimase persino un po’ deluso quando si accorse che il
treno era diretto
al binario di fronte. Frustrato, si risedette, passandosi una mano
sugli occhi.
Avrebbe passato lì l’eternità, su un
binario luminoso?
Una volta ripartito il convoglio, alzò gli occhi, per
riposarli sulla panchina
di prima, diventata ormai l’unico elemento di nota in quel
niente; ma con un
sussulto di paura e di gioia vide che a condividere la sua solitudine,
oltre
che la famosa panchina, c’era ora una figura
molto famigliare, quasi identica a un’altra,
lasciata nella sua vita di
prima.
James Potter sorrise come mai lo aveva visto, e si affrettò
ad
attraversare le rotaie per raggiungerlo.
“Sei invecchiato” lo accolse.
Remus Lupin non seppe che rispondere. Poteva solo stare a guardarlo a
bocca aperta. Si fissò su ogni particolare del suo vecchio
amico, tentando di
memorizzare tutto, come per recuperare i quasi vent’anni di
lontananza, come se
fosse indegno di un amico non ricordarsi perfettamente di lui. Come
aveva
potuto dimenticare che dopo quell’incidente sulla scopa gli
era rimasto il
segno, sotto l’occhio? E il maglione che portava, quello in
cui l’avevano
sepolto, chi glielo aveva regalato, Sirius o Lily? Non lo ricordava. E
il modo
che aveva di inarcare le sopracciglia. E come storceva le labbra quando
tentava
di reprimere un’emozione forte. Ritornò tutto,
tutto di un colpo.
James aveva un’espressione strana: era infelice per la sua
morte, ma non poteva
nascondere che rivederlo gli stesse procurando un’intensa
gioia. Cercava di
nasconderlo, temendo di risultare insensibile. Oh, era tutto
così tipico di
lui!
“Anche tu non hai una bella cera”
gracchiò infine.
Rimasero un momento lì, ad osservarsi, tentando di
prolungare quel momento. Poi
non seppero quali braccia si mossero per prime. Remus scoprì
con gioia di
poterlo stringere forte, che questo la morte non glielo aveva ancora
tolto.
“Mi dispiace Rem, mi dispiace così
tanto” sussurrò James, quando si
sciolsero.
“Lo so. Anche a me” sospirò
l’altro “E ora, che si fa?”.
“Ora aspettiamo un po’” fece sedendosi, e
invitando l’amico a fare
altrettanto.
“Quando
arriverà il mio treno?”
chiese Lupin.
“Non lo so, ma non ci metterà molto. Ma non sei
obbligato a prenderlo”
spiegò gentilmente l’amico.
“Che intendi dire?”.
“Se volessi rimanere, nessuno potrebbe impedirtelo. Sai, come
fantasma”.
Lupin guardò un momento davanti a sé, perdendosi
in quella fastidiosa
luminosità.
“No. Preferisco andare avanti”.
“Non avevo dubbi” sorrise Potter, stringendogli
brevemente un braccio.
Scese il silenzio, e James non si affrettò a romperlo.
Sapeva che Remus doveva
venire a patti da solo con quello che stava succedendo, e che
bombardandolo di
domande non sarebbe venuto a capo di nulla.
Lupin era inquieto. Una parte di lui voleva che quel maledetto treno
facesse la
sua spettrale comaparsa e decidesse del suo destino. Odiava stare in
bilico, e
voleva vedere sua moglie. L’aveva vista cadere: era poco
avanti a lui. Non
sapeva dire se Dolohov l’avesse ucciso perché
più forte, o perché dopo averla
vista scivolare al suolo aveva abbassato la bacchetta.
Un’altra parte,
prepotente, voleva solo
fuggire, tornare
giù, o ovunque fosse la vita. Povero Teddy. Si sentiva in
colpa. Quando aveva
abbassato la bacchetta, aveva fatto una scelta. Aveva scelto Dora e
implicitamente aveva abbandonato suo figlio. Era così, aveva
scelto di
lasciarlo solo, anche se non razionalmente. Cosa avrebbe pensato suo
figlio da
grande?
Si voltò a guardare il suo amico, che aspettava con
espressione incerta.
“Com’è stato per te?” chiese.
James sospirò forte. “Com’è
stato per tutti, Lunastorta. Orribile”.
L’altro annuì, felice di sentirgli di nuovo
pronunciare quel soprannome.
“E poi?”.
“E poi … e poi tenti di conviverci.
L’idea di Harry da solo, in pericolo, in
casa di quelle bestie era intollerabile. Ma è un ragazzo
forte, se l’è cavata
alla grande” sorrise “e da stasera
inizierà una nuova vita”.
Remus sgranò gli occhi “Credi che stasera la
guerra finirà?”.
“Sì, credo proprio di sì”
James Potter adocchiò brevemente il suo amico
“Anche
Teddy sarà forte. E ha intorno tante persone fantastiche che
gli vogliono un
gran bene e che si prenderanno cura di lui. Non sarà mai
solo. E capirà. Non
sentirti in colpa per ciò che è
successo”.
Lupin si guardò intorno, con aria supplice “Non
posso proprio tornare indietro?
O se non io almeno Dora. Ti prego, James”.
Il suo amico scosse lievemente la testa, triste “Non dipende
da me, Rem”
sussurrò “L’unica cosa che puoi fare ora
è accettare”.
“Devo accettare di aver abbandonato mio figlio?” si
infervorò Lupin.
“No” rispose Potter “Direi piuttosto
accettare l’idea di essere morto per
regalargli un mondo felice”.
Il tempo passò su di loro
impassibile e innocuo. Stavano ancora su
quella panchina ad aspettare molto più di un treno.
“Gli altri stanno tutti di là?” chiese
Lupin.
“Sì, tutti quanti. Ci sarà anche
Dora”.
“Lily è andata a prenderla?”.
“No” rispose James “lei è
andata a recuperare Piton. Credo ci metteranno
un po’ a tornare, hanno molto da dirsi. No, è
andato Sirius”.
Lupin sorrise alla menzione dell’amico. Era vero,
c’era anche lui. E ci
sarebbero stati i suoi genitori. E Silente, e Lily, e Malocchio e tutti
gli
altri. Ci sarebbe stata Dora, e anche lei probabilmente era triste e
spaventata
come lui. La consapevolezza di doversi dividere tra chi amava lo
lacerava. Ma
aveva già lasciato sola Dora una volta, quando
più aveva bisogno di lui. Non
poteva farlo di nuovo, non questa volta. Avevano
bisogno l’uno dell’altra.
E Teddy era al sicuro.
Si sporse verso il suo amico con aria più serena e un mezzo
sorriso, e James
comprese che Remus aveva vinto la sua battaglia.
“Il treno arriverà fra pochissimo”
annunciò felice.
Un altro sferragliare in lontananza e questa
volta Remus sapeva che non
ci sarebbero stati errori. Lo aspettò tranquillo, finalmente
consapevole, senza
più ansia.
“E’ vero che Neville Paciock l’ha fatto
vestire da donna?”.
Lupin sgranò gli occhi e si girò di scatto verso
James: il suo amico
aveva le labbra viola a furia di premerle e le guance gonfie.
“Patetico” ghignò, mentre James si
liberava in una grassa risata “Patetico.
Non ci vediamo da sedici anni e
questo è tutto quello che riesci a chiedermi??”.
Guardò il suo amico ridere e non potè fare a meno
di unirsi a lui. Mio Dio, era
dovuto morire per tornare a casa.
James salì sul treno ancora uggiolando dal ridere e Remus
rimase un passo
indietro, un piede sullo scalino e uno ancora sul binario. Un ultimo
sguardo
alla luce, alla panchina. Sì, poteva farcela. Ce
l’avrebbero fatta tutti, anche
Teddy. Soprattutto Teddy.
La porta del convoglio si chiuse con uno
schianto deciso dietro di lui e
il treno ripartì sbuffando vapore.